Simone Pieranni

genovese, 28 anni. consulente, anche se avrebbe voluto fare l'agricoltore

Una donna

Sono stanca, stanca morta. Sono vecchia, ma credo di avere ancora qualche anno davanti. E non sono stanca di vivere, anzi. Ho molta paura di morire, anche perché sono sola, sono vecchia non ho più nessuno se non un mezzo scopo.
Me ne sono resa conto ancora stasera. Una vita in campagna e sono stanca dopo due ore di lavoro. E che lavoro, neanche avessi trasportato delle montagne. Ho fatto solo qualche chilo di legna per l'inverno, quanto basta per scaldare me, il gatto e i miei dolori da vecchia contadina. Se mi guardo le mani dico che potrei riposarmi per il resto dei miei giorni. E un po' è così, non è che non lo sia. Sono sola, ho venduto gli orti di mio marito, non ho figli, ho solo una vicina di casa ormai. Anche suo marito, era mio cognato, è morto e ora siamo sole. Ma io sono più sola di lei, perché lei ha i nipoti, io neppure quelli. Mio fratello abita in Francia e comunque anche lui non ha avuto figli e comunque è meglio lasciar perdere. Sono stanca, perfino di farmi da mangiare. Cosa mangi a fare, mi chiedo tutte le sere, e il problema è sempre quello, la risposta a questa domanda. Perché domani mattina vado a comprare, taglio qualche erbaccia dal giardino, mangio, guardo la televisione, vado a dormire. Chi mi dà la voglia per fare queste cose non lo so, o forse una piccola idea, ma non so se è giusta. Ho un diario. Non leggo neppure più libri che forse una risposta potevano darmela, ma i libri io li ho letti quando avevo sedici anni, quando era importante sapere da che parte stare. E poi i giornali, ora non leggo più neppure quelli. Sono stanca di vederci trattare così. Io ogni sera, prima di addormentarmi, cerco di stare sveglia per scrivere. Cerco di tenere il diario dei miei sedici anni, fino a quando ne ho compiuti venti e mi sono sposata. Dopo non ne vale la pena. Di raccontare, dico. Io a vent'anni mi sono sposata, sono venuta a vivere in campagna, mio marito aveva la vigna, un bar dove bere e sentire Coppi sulle montagne e le bocce. E io non avevo più un compagno. I miei erano tutti morti e qui erano tutti monarchici scappati al nostro fucile. E mi sono nascosta. E ho fatto finta di niente. E ho vissuto da sola. Come ora.
Parlavo del diario. Sono arrivata a quando ne ho compiuto diciassette di anni. Li festeggiai con gli altri, su, in montagna. Quel matto di Lolli, che era mio amico, voleva sparare in aria. Si fece due giorni di punizione come postino, insieme a me. La disciplina era importante. Io stavo attenta, ma non per paura delle punizioni, ma per paura dei tedeschi e dei fascisti. Sapevo a memoria la strada, andavo su di notte, camminavo piegata. Appoggiavo lentamente prima i talloni, poi la pianta del piede e infine la punta. In questo modo non mi avrebbero sentita neppure a un metro di distanza. Lo provai io stessa una notte. Non mi sono mai convinta che quel tedesco non mi avesse vista. Secondo me, aveva fatto finta di niente. Ma se mai fosse davvero andata così, era una eccezione, una fortunosa eccezione. A diciassette anni non ero stanca, correvo per quelle montagne come una lepre. E ora cerco di scrivere come una lepre. E' così che rispondo alla domanda che mi sono fatta prima. Di giorno penso, tanto non ho amiche, e la sera butto giù le parole. Quando arriverò al mio matrimonio metterò il quaderno in una borsa, anzi arrotolerò intorno al quaderno uno straccio. Poi andrò su una montagnetta qui vicino e lo sotterro. Sembra una cosa stupida, forse lo è. Però mio nonno mi raccontava sempre della gioia di trovare qualcosa sepolto nella soffice terra di una collinetta. Lui aveva trovato delle monete francesi, del periodo di Napoleone e insieme un bel diario di un soldato. Napoleone da queste parti ci era passato, mio nonno il francese lo sapeva e da piccola ricordo che lo leggeva con gioia. Qualcuno un giorno troverà il mio diario, altrimenti è lo stesso. Io sono sola, è logico che un po' pensi solo a me stessa. Anzi, a me non interessa un granché che lo trovi qualcuno. E nemmeno mi interessa che lo legga. E nemmeno che gli piaccia. Anzi, non mi interessa neppure che lo capisca. Certo, avere delle storie e non sapere a chi raccontarle è una cosa triste, ma io sono sola e devo anche un po' pensare a me, sola. Scrivo per me, per ricordarmi di quando ero viva, prima di finire sepolta viva da uva e galline e fragole e zucchine. Però la colpa è anche mia. Uno a un certo punto due conti deve farli, non può continuare a nascondersi. E non può credere che non si sta nascondendo. Quando io scappavo dai fascisti, scappavo da qualcuno, scappavo da qualcosa. Se io non mi chiedo perché sono sola, scappo da qualcosa. L'errore, dovrò pur averlo fatto. Non posso pensare di aver fatto solo cose giuste. Mi sono accontentata, la repubblica mi ha ucciso. C'è una storia con la esse maiuscola e ci sono molte storie con la esse minuscola. Io sono nella seconda che molto spesso è stritolata dalla prima. E' uccisa dalla prima. E non può venire fuori. E non deve, forse, venire fuori. Quando qualcuno mi chiedeva, ma scusa ma tu per chi sei, io rispondevo, Mi sun anarchic, come Vanzetti, ma non sapevano nemmeno chi era Vanzetti. Nemmeno io, ma qualcuno mi aveva spiegato che Vanzetti in America lo avevano ucciso perché era anarchico, perché lui al processo, quando gli avevano chiesto, ma tu per chi diavolo sei, aveva risposto, mi diceva quel mio amico, Mi sun anarchic. Mio fratello è in Francia, perché in Spagna era anarchico, io mi sono sposata, perché ho avuto paura di esserlo. I partigiani del PCI mi guardavano storto, eppure ero loro amica, e così ho sbagliato. Dovevo andarmene, con mio fratello, ma lui mi ha convinta a non farlo. E sbagliò anche lui. E anche io. E ora sono sola, magari lo sarei lo stesso, ma la mia vita non si sarebbe fermata a vent'anni. E per un po' di tempo pensavo di aver scelto giusto, pensavo che solo in un piccolo posto, con una piccola vigna, con una piccola casa uno potesse essere felice, realizzato. E testimoniava come le persone potessero vivere liberamente e tranquillamente. Qui con mio cognato dividevamo tutti gli anni il raccolto. Se un anno loro raccoglievano di più e noi di meno, dividevamo tutto. Eppure loro votarono sempre DC, non sapevano nemmeno cosa volesse dire comunismo e ne avevano paura. Eppure noi vivevamo in comunità. Poi mi sono accorta che mi sbagliavo. Perché io ero invidiosa. Neppure un figlio da questa anarchica maledetta, neppure un figlio da quel contadino di mio marito. Tanto vino, tanta frutta, tanta terra, che era il mio sogno, ma nemmeno un figlio. E mio fratello in Francia, un giorno in galera e uno sotto un ponte. Ma questo nel diario non lo metto. Io voglio rivivere i miei vent'anni, i miei sogni. Una testimonianza, ce ne sono tante, la mia non sarà né migliore, né peggiore di tante altre. La testimonianza di una vecchia, stanca, che spera di ricordare tante cose per vivere ancora un po'. E ricordare. E gridare ancora di paura in una stradina in mezzo al bosco. E sussurrare, mentre scrivo, l'Internazionale. La sussurro, perché le parole, non sono più ricordo. Quella è malinconia.