Rocco Traisci

29 anni. Vive a Castellammare di Stabia. Fa il Press agent per una casa editrice che si occupa di pubblicazioni in tempo reale. Collabora con asscultpress (http//asscultpress.hypermart.net)

Umani…

Ibrahim Trebessini era stato per lungo tempo il migliore amico di Vanni Bonissone, il quale, preso da strani giri di soldi, avventure su e giù per Secondigliano e una fama consolidata di smerciatore, si era preso la briga di rifiutare interessanti lavoretti in quel di Napoli City. Mi propose un appuntamento con Ibrahim.

"Vai a Napoli. Il Francese ti deve fare una proposta coi controfiocchi Spiazzi!" e io non riuscii a trattenere un minimo di riserve: "A me? E che c’entro io con Ibrahim Trebessini?". "C’entri, c’entri, te lo dico io. Mettiti in contatto con lui e vedi un po’ che va trovando. Quattrini, Arturo. E tanti. Fidati!… E poi è giusto levarci un po' di torno, non credi?"

L’appuntamento con Ibrahim era stato fissato per mezzogiorno al Mexcal di Piazza Garibaldi. Quando arrivai al bar Ibrahim era appoggiato alla parete dell’ingresso. Ci mettemmo a sedere e ordinammo un drink.

"Saranno mesi che non vedo Vanni. Ho un debito con lui di trecentomilalire. Ma che cazzo di fine ha fatto?" disse il Francese.

"Fa l’agente per squattrinati come me, si è pure sposato e rivuole le 300 carte!"

Scambiammo ancora due o tre chiacchiere, poi Ibrahim mi disse: "...comunque, non è per parlare di Bonissone e delle sue 300mila lire che sei venuto a Napoli, vero Spiazzi?".

"Beh chiaramente no. ..Ho bisogno di contanti..."

"Come mai?"

"Bazzecole. Io devo andarmene da quella città… Mi sta stretta Ibrahim. Strettissima."

"Bene, ascolta Arturo. Ci sono un po' di soldi in giro e la cosa potrebbe essere adatta per te… Però devi giurarmi di non creare problemi".

"In che senso, scusa?"

"Se accetti devi andare fino in fondo."

"Va bene Ibrahim. Ti risulta che…

"...Alt.... Spiazzi io non sono Bonissone e qui non siamo a Mare di Castello… Cerca di non fare lo stronzo con me!"

"Ok. Promesso. Di che si tratta?"

"Una cosa facile ma che richiede un po' di applicazione. Devi trattare dei manicaretti…"

"Manicaretti?"

"In gergo sono falsificazioni fiscali. Il tuo uomo è Armando Fiorenza… Il suo ufficio è al Centro Direzionale. Lui ci mette le mani sopra e ti dirà di mandarle a un certo Janvion Lesaux, un notaio amico mio di Parigi che ha uno studio a via Manzoni".

"C’è il rischio? "

"C’è sempre il rischio. Ma è una cosa abbastanza pulita. Sicuramente Fiorenza tenterà di coinvolgerti di più. Tu non gli dar retta, digli che sei amico mio e che hai fatto un favore a me e vedrai che non insisterà..."

"Ho capito Trebessini. Ma c’è il rischio?"

"Il rischio c’è sempre. Ma che te ne fotte. A Napoli non ti conosce mica nessuno…"

Accettai. In fondo non dovevo rendere conto a niente e nessuno. Non ero nelle possibilità economiche di poter distinguere il bene dal male. Il male me lo raffiguravo come un uomo sulla sessantina di nome Francoforte che mi ricattava. Il male erano le nottate a digiuno, passate a sbucciare mandarini avariati, ingoiati con disgusto e acidità. Il male non era il trucco, l’imbroglio e la malavita, il male non era neppure la parentela, ma chi da un pulpito, da un sagrato o da una qualsiasi posizione di comodo giudicasse in che modo gli esseri umani dovessero procacciarsi i soldi per vivere. Non è vero che c’erano centinaia di lavori che nessuno voleva fare e che erano meno rischiosi di contrabbandare manicaretti (come li chiamava Trebessini) in giro per la città.

Così, più che la morale di chi avrebbe potuto giudicarmi un delinquente, temevo di essere gambizzato per una rapina che non avevo commesso.

La strada non aveva altri colori, a parte questa masticazione violenta di tentacoli che uscivano dalle fogne, come fantasmi fumosi senza sagoma. Quasi sempre tentacoli mortali, velenosi come murene.

Bisognava stare attenti, molto attenti, perché in definitiva Trebessini non era una persona rassicurante. Era un ladro. E dei ladri non bisogna mai fidarsi. Si potrebbe lasciare incustodito un orologio, il portafogli o l'automobile. Ma mai lasciare a portata di mano la propria anima e le proprie debolezze. In quei casi il ladro, nell'accezione tipica del termine, non ti lascia scampo.

Vanni Bonissone e Ibrahim Trebessini si erano conosciuti qualche anno prima che io mi buttassi a capofitto nelle bagattelle di Secondigliano. Erano la coppia più prolifica della banda del buco del clan Ferrigno, capeggiato da Nicola Serravalle che li aveva svezzati in tenera età come due figli.

Per mesi fecero faville. Poi dovettero dividersi perché Trebessini fu beccato in flagranza di reato e dovette scontare una pena (sospesa) di 6 anni.

Una volta furono costretti a forare il muro e ad introdurre un robot telecomandato per mettere knock out l’allarme. L’impianto non aveva segnalato l’intrusione perché anche gli antifurto più all’avanguardia sono tarati per le persone e non scattano per un robot delle dimensioni di un gatto. Quando fu disinnescato l’allarme si trovarono di fronte alla cassaforte. Le meno complicate, quelle che si trovano all’interno di un sistema di allarme già collaudato, sono di una semplicità sconcertante. Offrono una resistenza allo scasso nei test standard di appena dieci o quindici minuti e fortunatamente quella che s trovarono di fronte era un modello vecchio con appena cinque catenacci. Fu uno scherzo trovare la combinazione. Con uno scanner disattivarono il congegno a infrarossi e con due fili e due lampadine riuscirono a non interrompere il circuito.

Raramente però si trovavano a dover affrontare una "Top", uno specialissimo modello certificato in classe 3 con circa 22 catenacci fissati da massicci perni che entrano nel muro, quattro lamiere da otto centimetri, quattro d’acciaio, quattro al manganese e tre cerniere al muro: insomma un vero bunker, che avrebbe resistito anche ai colpi di un bazooka. L’unica soluzione sarebbe stata quella di smurarla.

Fu una delle rare volte che, affascinati da tanta bellezza, tagliarono la corda e non tornarono mai più.

Quando entravano negli appartamenti invece, sapevano che le persone erano abitudinarie. Nascondevano i loro gioielli nei soliti vasi o tra le piante. Anche le porte blindate che adottavano avevano sempre lo stesso punto debole: il piolo che si infila nel pavimento, che in genere cede dopo una scaldata di una mezzora scarsa. Trebessini, tra i due, era quello che si occupava di pedinare le vittime e di capire tutti i movimenti che facevano durante l'arco della giornata. Sapeva tutto di loro. Orari, ferie, ricorrenze straordinarie, anniversari, compleanni e corna. In genere però dopo il primo furto la gente si attrezzava meglio e non c’era niente da fare.

Quella volta che furono beccati -secondo la ricostruzione fatta da Trebessini in totale disaccordo con quella di Bonissone- dovettero rinunciare al colpo perchè scoprirono un nuovo modello di serratura per cassaforti con un blocco a fine corsa dei cilindri, che una volta scassinati non scorrono più all’indietro. Dopo innumerevoli tentativi Trebessini disse a Bonissone che probabilmente quel mostro era dotato anche di impianto satellitare: Bonissone scrollò le spalle e disse: "E allora? Straccia tutti i fili che vedi e andiamo avanti…". Trebessini non afferrò e disse: "Niente da fare ciccio, io me ne vado… E tu sei uno stronzo, farai una brutta fine…"

Beh. Nell'atrio del palazzo il Francese fu catturato immediatamente. Bonissone avvertita la malaparata rimase in casa e i carabinieri si accontentarono del pesce grosso.

Il giorno fissato per il mio incontro con Fiorenza io e Trebessini passammo circa un paio d'ore accoccolati al bar Mexcal in attesa che arrivasse il momento di procedere. Dopo un quarto d’ora, in sella al califfone prestatomi da Ibrahim, mi catapultai al Centro Direzionale.

Secondo le disposizioni raggiunsi l’isolato F10. Mi introdussi nell’ufficio del dottor Fiorenza e la sua malombra, un uomo sulla quarantina in triplopetto, mi pregò di posare la roba sulla scrivania. La ventiquattrore, che conteneva magistralmente tutte le false dichiarazioni fiscali dei negozi del Rettifilo fu consegnata a Fiorenza, che avrebbe ritoccato i 740 risucchiando nel vuoto immobili, redditi miliardari e fatturazioni sospette. Un uomo volgare ma rispettato in tutte le sedi amministrative di una città su cui anche lui era riuscito a mettere faticosamente le sue mani. Lo vidi uscire dal gabinetto con un gessato grigio in linea con la moquette, sullo sfondo si sentì uno sciacquone scrosciare. Non riuscii ad evitare di stringergli la mano. Poi dopo avermi squadrato, alternando ai convenevoli di rito una amichevole offerta di caffè, ci mettemmo a sedere, controllò il contenuto della valigetta e quando arrivò il caffè cominciò la sua opera di persuasione.

"Fetenti... Magnapane a tradimento... I miei collaboratori sono i nemici pagati... Non sanno fare un cazzo... Mi mettono tutti giorni il veleno int’o’magnà... E tu chi diavolo sei?"

Mi disse. E io: "Veramente dottor Fiorenza, le ho telefonato mezzora fa..."

"Ah... è vero... E io mi pensavo che erano già passati due o tre giorni... che vuoi fare... la vecchiaia, Spiazzi".

Raccolse le sue carte e le sistemò in fondo ad un cassetto, poi diresse lo sguardo su di me, cercando di organizzare un discorso chiaro e tondo, a regola d’arte.

Disse: " Vedi Spiazzi, io non mi voglio fa’scorrere o’ffele a’ int’a vocca, non mi voglio far scorrere il fiele dalla bocca... Ho bisogno di gente sveglia... perchè noi, modestamente, siamo una delle organizzazioni più competitive sulla zona. Vai a fidarti di gente altolocata, di giovanotti rampanti con una laurea in tasca... Sono i peggiori... Vanno imboccati come neonati e si pensano pure di poter fare i professori... ma faciteme o’piacere... Con chi fa commercio bisogna essere spietati... Sono anni che mi sbatto per cercare di rimanere a galla... E loro che fanno? Al primo intoppo, alla prima segnalazione che ricevono dalla guardia di Finanza addossano la colpa a me. E io sai che faccio ? Quando arriva la Finanza li frego tutti e faccio sparire taranta e tarantelle... Le corna quando spuntano fanno male, ma poi dopo, servono pe’ magnà..."

Spesso mi sono chiesto che faccia avessero quelli che, in un qualsiasi ufficio della città, ripulivano il denaro sporco della camorra e riuscivano nel corso degli anni a cavarsela, in una maniera o nell’altra. Eccola, quella faccia. Era una faccia come tante, ciò che non quadrava era lo sguardo, il tratto marcato degli zigomi, alti e superbi, rattrappiti da uno smorfia di amara presa di coscienza, senza drammi, senza eccessive riserve morali. Il mondo doveva pur girare in qualche modo e il fatto che non lo insegnassero a scuola era la causa del suo girare sconnesso e ubriaco. Per quelli come Fiorenza quando il sacco è vuoto c’è poco da fare. Non si regge in piedi. E bisogna darci dentro. Sfruttare le dinamiche violente della vita e non dare peso alle malelingue. Fiorenza era in cerca di attori da strada, senza scrupoli, gente che una volta salita sul palco avrebbe potuto uccidere, sparare tra gli spettatori, fare azioni volgarissime e rovinare la festa a tutti. Non interessavano le persone competenti ma chi, senza guardare in faccia a nessuno, agiva di petto, oltrepassando il limite della moralità corrente. Non un killer, non un delinquente ma un cattivo padre di famiglia, pronto a tutto pur di tradire l’umanità, in nome di un disprezzo controllato ma portato all’esasperazione. Io stesso avrei dovuto lavorare sulla mia personalità, barando magari, ma cercando di tenere aperto qualsiasi spiraglio. Volevo convincere Fiorenza di essere la persona giusta al momento giusto, che non avrebbe mai fatto domande imbarazzanti. Fare domande è esattamente ciò che non si deve mai fare nel momento in cui qualcuno ti sta offrendo del denaro, chiedendo l’anima e la tua tacita complicità. Basta una risposta fuori posto e la porta si chiude, lasciando fuori i bisognosi ad elemosinare ancora...

Fiorenza continuò nella sua arringa.

"...lo sai perchè sono conosciuto e rispettato da tutti? Perchè io mi sono fatto da solo. E sai come? Convincendomi del fatto che sulla terra tutti sono dei coglioni e io no! A dire una verità non ci vuole niente, basta uno stronzo... Ma per dire le bugie, amico caro, c’è bisogno di gente coi piconi alle palle.... Se aspettavo che il sistema mi tributasse una dignità da professionista come la intendono loro, partiti, famiglie, squadre, fazioni, stavo fresco. Dopo due anni al primo ribaltamento politico andavo dritto dritto in galera. Invece caro Spiazzi... se cade uno si rialza quell’altro, ma io rimango sempre in piedi... Eccomi, guarda che postura… errare humanum est certo, ma il mio perseverare è troppo umano, ragazzo mio… troppo umano… Federico puoi andare se vuoi, il signor Spiazzi resterà ancora qui per dieci minuti".

Lo lasciai disquisire su tutto, parlò di calcio, di viaggi e di locali alla moda con piacevolezza. Ma non riusciva davvero a piacermi. Ma soprattutto non riuscivo a capire se gli piacevo io e se quel dannato lavoro mi era stato concesso o no. Probabilmente sì. Fu stimolato dalla mia brava faccia che, associata a quella di uno janaro perverso come Trebessini, era il segno di una precisa e impeccabile garanzia di efficienza. Fattore rischio, zero. Fattore emotivo, zero. Insomma –pensò- il ragazzo non fa una piega, ascolta, non chiede, ha fame. A pensare male non si sbaglia mai e in definitiva, quando mancano i cavalli trottano pure gli asini.

Così mi invitò nella stanza accanto dove mi avrebbe consegnato i manicaretti. Appena sistematosi su una poltrona molto più comoda di quella che aveva di là, precisai che non facevo il corriere e che avevo solo fatto un favore a Ibrahim. Sembrò comprensivo. Abbassò gli occhi e fece roteare i pollici.

Nella stanza c'era una ragazza, probabile che fosse la sua segretaria. L'aria snob era da puttana, ma era racchia come una segretaria. Non risolsi l'enigma. Quando lei chiese il permesso di andarsene Fiorenza non si degnò neanche di guardarla in faccia e all’ insistenza di lei sbottò: "....se ne vada signorina, che ci fa ancora qua!!" rivolgendo subito dopo lo sguardo verso di me.

"Ascoltami. Ogni mezzora devono sparire questi fascicoli. Si tratta di portarli in giro per la città... I finanzieri sono gente di spirito... Vengono qua, ordinano un caffè, danno un’occhiata al giornale e se ne vanno... Ma tu, da qua, sparisci, perchè se sgamano il trabocchetto io e te ci vediamo a Poggioreale..."

"Beh, dottor Fiorenza... Ci sono trentamila posti di blocco in città e io non ho neanche l’assicurazione del motorino che tralaltro non è mio...".

"Cazzate... Indosserai un pettorale da pony express, andrai in giro con la ricetrasmittente... Sarai un regolarissimo Express, ti diamo pure le consegne vere, tu devi soltanto fidarti di noi!".

Feci una smorfia eloquente. Fiorenza capì e disse: "Senti, ragazzo mio, se il cane provasse vergogna non se ne andrebbe in giro trotterellando con la coda alzata... Stai tranquillo che tutto fila liscio..."

Stavo accettando definitivamente. In fondo era quello che volevo senza essere trattato da ragazzino. Ma chi rischiava in questa storia, io o loro ? Loro rappresentavano "un potere" io rappresentavo solo la mia faccia di merda. Ebbi la leggerissima sensazione di essere quello che rischiava di più in questa cazzo di storia. Ma si trattava di poche ore al giorno, mai la notte, nel caos la polizia va in tilt, la gente va in tilt...

"Va bene. Però voglio 200mila lire subito". Fiorenza smise di osservarmi, si voltò, prese due banconote da 100 infilate in un portacarte, me le porse e indicò la porta.

Ormai avevo preso i soldi. Scesi in ascensore accompagnato dalla malombra di Fiorenza. Portava chanel sul collo e un rivolo di saliva al lato destro della bocca. Era uno di quelli che mia madre avrebbe considerato un bell’uomo, una brava persona, uno da far sfilare in piazza come buon partito alle sue gelose amiche, madri di arrapatissime trentenni in cerca di marito ricco. Ma quella leggera bavetta che fuoriusciva dai lati della bocca difficilmente avrebbe attratto baci di donne meno stupide di quelle. Probabilmente erano tutti quei chewing-gum che masticava. Sparì dietro la porta d’ingresso ignorandomi come si ignorano i pezzenti e i falliti che non ce l’avevano fatta come ce l’aveva fatta lui. Mi sellai sul Califfone, feci benzina e dopo mezzora ero nello studio di Lesaux. Mi sentivo come il piccione viaggiatore in Stop the pigeon, now! inseguito da Dick Dastardly e la sua cricca.

Dopo la missione lasciai il motorino a via Cilea in un garage privato dove Ibrahim sarebbe venuto a riprenderselo. Scesi giù dal Vomero a piedi, canticchiando la melodia di "Capacabana" dei Nando Meet Corrosion; via Salvator Rosa, via Roma, via Medina, via SanFelice e poi a caso, via Sedile di Porto verso il Cerriglio e poi ancora su per Calata Santa Barbara verso l’Orientale, dove una puzza di piscio mi accompagnava sgradevole e appiccicosa. Pensai fosse l’odore del mio golf.

Emisi una boccata di fumo risalendo verso Mezzocannone, forse quella boccata di fumo testimoniava una qualche mia presenza su questo mondo, ma dovevo dare di più.

Se avessi fatto una rapina a qualche fotocopisteria mi avrebbero mandato in galera e sarebbe stato meglio della doppiezza che provavo.

Un’artrosi isterica giocava con i sensi di colpa, fumai 40 sigarette e pensai a mio padre. Dovevo denunciare tutti, Ibrahim, Francoforte, Joy, Fiorenza e Vanni Bonissone. Dovevo ucciderli. Ma la vita era così noiosa per me in quei giorni che non mi restava altro da fare che bere del veleno per topi o guardare una trasmissione televisiva. Un rimorso affiorava leggero sulle mie reminiscenze piccolo-borghesi. Le rimossi.

Presi un treno e tornai a Mare di Castello. A casa mandai giù diversi cucchiai di nutella, stappai una bottiglia di vino e mi fiondai sul water. Era tutta quella merda che mangiavo. Che vivevo. Che annusavo. Che desideravo profondamente. L’orologio segnava le tre. Qualcuno dall’altra parte del mondo stava uccidendo per faccende di soldi. Guardai la mia stanza, c’era una palla di carta piazzata nell’aria di rigore avversaria. La calciai talmente angolata che neanche Ubaldo Matildo Fillol nel ‘78 durante la finale Argentina-Olanda sarebbe riuscito ad evitare la rete. Emulai un celebre gol di Maradona durante un Napoli-Juve. Interno sinistro in area su un calcio di punizione indiretto. Esultai. Senza ritegno. E mi buttai a volo d'angelo sul letto. Rimasi dieci secondi senza batter ciglio. Poi avvertii in lontananza dei sussurri sconnessi e un lamento sibilante. Mi alzai dal letto e mi avvicinai alla finestra, spalancai le persiane e scrutai nel vuoto. Niente. Mi avvicinai alla porta e uscii dalla stanza. Percorsi tutto il corridoio al buio fino alla porta del bagno. La luce era accesa.

Sentii mia madre piangere. Invocava mio padre. Fernando, diceva, Fernando…

Mirtillo rosso

Mio padre era il signor Mirtillo Rosso, Ferdinando Spiazzi, classe 1940. Lo chiamavano così per via dei suoi capelli rossi che lo rendevano riconoscibile più del distintivo delle poste e telecomunicazioni. La pratica gli sfuggiva di mano, lo sguardo dello scocciatore che gli stava di fronte da 30 anni anche. Dietro un vetro divisore a prova di bomba egli elaborava cambiali, conti correnti, vaglia postali.

"Il problema è il prodotto non la produzione" diceva sempre. E lui, che aveva programmato una laurea inutile in giurisprudenza, di progetti, di camomille e pasticche un po' ne capiva. Una volta disse: " Progetterò un pianeta dove tutto è puntuale, in orario", e io risposi "certo, un pianeta piatto di nome tormento".

Adesso ascolto mia madre invocare il suo nome, chiusa a chiave nel gabinetto, e un rimorso mi attanaglia ad un senso di appartenenza involontario ma reale, come quando vedevo mio padre sfasciarsi di lavoro, come un giradischi rotto senza molle in un ufficio postale scoppiato di gente. Per me. Solo per me. Per il mio avvenire mio padre è rimasto lì abituato a restare lì come in altri posti uguali. Tanto è sempre la stessa storia.

"Arturo, per alcuni il culo è solo un portamonete, una banca, una lotteria, hai capito?". Certo che ho capito. Ma la qualità della vita papà non è un’automobile nuova, ne un gol fatto a Fillol. La qualità della vita non è un lavoro da impiegati postali per tutta la vita, non è chiedere uno sconto, una cornice che faccia da margine ad una bella figura. E’ chiedere ogni tanto una sosta e vivere, prendersi delle rivincite e sognare. Riposati papà, lascia perdere, giuro che me la caverò.

Lui faceva finta di niente, come sempre.

In un angolo della sua postazione, tenuta fresca e ventilata, un baco come lui tesseva i suoi calcoli e le sue preposizioni, le sue sfavillanti quotidianità, le sue legittime e ingiustificate paure. Ma di una cosa è ricco il baco, di seta. Tu non hai mai avuto il coraggio di tessere le tue direzioni e il risultato della tua vita è evidente. Dicevo.

"Arturo, l’obiettivo è spremere il succo ingrassando la polpa" mi rispondeva. "Raccogliere al sabato e riseminare il lunedì mattina. Il fango è acqua figliolo, ma la merda, ricordati, resterà sempre un insulto...".

Mi addormento e mi passano nel sonno ancora le discussioni, i litigi e le fughe. Poi esce di scena, il suo rancore viene levigato come una crepa ripassata con lo stucco, rimane un alone grigio sul muro ma è un effetto, un particolare. Scivola via in un burrone e chissà che laggiù non costruisca il suo regno o il suo pianeta "tormento".

Se ne è andato, mio padre. Sonnecchiando in auto a passo lento, dribblando gole che urlavano imprecazioni sordide, claxon che gridavano porcherie e pneumatici in coda come sciami di zanzare all’ingresso di una fogna… La galleria illuminata, dall’aria resa rarefatta dai tubi di scarico. Lì, proprio in quel posto terribile mio padre fu trovato morto, con le mani ancora sul volante e la testa abbassata.

Ma quel giorno lui tornò a casa, come se niente fosse accaduto. Uscì dall’ufficio pensando alla sua famiglia e alla poltrona di casa e disinteressatamente scelse una delle due cose. Ma in entrambi i casi avvertì ancora quello strano segnale di allegria, quella canzone sentita qualche volta e riproposta meno fedelmente che mai. Uscì dal tunnel lievemente annerito dal fumo, sghignazzando dal retrovisore a chi era rimasto imbottigliato lì per sempre. Portò a casa un regalo a mia madre che al suo arrivò non lo riconobbe e rimase china sulle sue gambe, straziata. Poi entrò nella mia stanza. Liberamente, questa volta. Non dovette neanche bussare. Diede un'occhiata, raccolse il giornale da terra, mugugnò e uscì. Fu la prima volta nella mia vita che non avevo chiuso la porta a chiave.

… troppo umani

Il teorema era complesso. Avevano in mano tutto l’apparato fiscale del quartiere, dovevano dimezzare le dichiarazioni effettive e presentare dossier più morbidi, solo in questo modo potevano garantirsi "la piazza". Era un’organizzazione perfetta. L’unica cosa che non quadrava erano le loro facce. Questi manicaretti viaggiavano da uno studio all’altro per evitare di tenerli troppo coperti da qualche parte. Bastava uno spiffero e tutto sarebbe andato a rotoli. Senza rendermene conto ero diventato il perno. L’ingranaggio. Perchè si fidavano di me ? E se avessi fallito, se fossi fuggito ? Beh chiaro, avrebbero tolto di mezzo prima Ibrahim e poi me. Un solo particolare mi inchiodava: loro cacciavano i soldi.

Ibrahim la sapeva molto più lunga di quanto pensassi. Prima o poi lo avrebbero ammazzato e nessuno avrebbe versato lacrime inutili, ma se fossi morto io mia madre e mio padre si sarebbero piantati un coltello nel cuore. Per mia madre il secondo coltello nel cuore in cinquantatre anni d’età. Il primo fu la mia nascita e la mia crescita, la mia adolescenza fu per lei lo squarcio, l’emorragia, la perdita del sangue, come diceva lei, che il sangue lo aveva buttato in un pastificio di Gragnano per trenta lunghissimi interminabili anni. Se fossi morto, di mio padre sarebbero rimasti solo i pantaloni e tutto quello che era riuscito a mettere da parte per pagare un mutuo, che avrebbe regalato a me una casa e a lui la speranza che quel figliolo tossico non avesse mai più dormito in case non sue. E loro, erano la mia casa e se fossi morto per entrambi quello squarcio si sarebbe riaperto definitivamente.

Ero al verde e senza saper fare niente. Ero impresentabile per qualsiasi colloquio di lavoro pulito ed ero braccato da Francoforte. Eppure decisi di dire basta. Pensai che sarebbe stato meglio sparire per un po' e alla svelta. Telefonai a casa rassicurando i miei, comprai un walkman e pagai un biglietto per Firenze. Attesi un treno per 40 minuti ascoltando la mia versione rabbiosa di Step right up di Tom Waits, poi il treno partì.

Forse non tutti sanno che cos’è il treno per Milano delle 22.30 la domenica sera. Un girone infernale dove penano militari, emigranti, avventurieri, zingari e ladri, mentre negli scompartimenti intere famiglie sistemano bagagli e valigioni da trasloco. Fui costretto, per la ressa, a sedermi sullo zaino con le spalle appoggiate alla porta della toilette. Dopo cinque minuti la sentii aprirsi, mi voltai e apparve Ibrahim: "Sei uno stronzo, Spiazzi. Adesso ci staranno già cercando!".

"Ibrahim, lasciami in pace, cristo, lasciami in pace!!!"

"Adesso torni con me a Napoli e chiudiamo il discorso Fiorenza. Me l'avevi giurato Arturo…"

Non fui convincente. Un cancro mi attraversò l’anima e cominciò a manomettere il mio hard disc, progettato per la fuga. Sì, aveva ragione Fiorenza: sbagliare è umano ma perseverare è troppo umano, troppo diabolicamente umano. Troppo umano come chi è troppo sensibile e troppo impaurito. E' la paura che da forza, rinvigorisce e crea lo scarto tra la codardia e il coraggio… come diceva mio padre "Stai attento agli uomini che hanno paura di te… Al novanta per cento stanno progettando il tuo assassinio".

Ci appartammo nella toilette del vagone di prima classe e Ibrahim schierò un quartino di coca sul fondo di uno specchietto. I problemi erano appena cominciati. Andammo avanti tutta la notte consumando pacchetti di Marlboro. Ripulimmo per bene tutto il vagone e scendemmo a Roma con due milioni e mezzo. Il walkman adesso suonava "Ill in the head" dei Dead Kennedy’s e un’erezione mi prese da qualche parte...

Novembre adagiato e calmo, freddo ispido e pungente. Eravamo noi a testimoniare la presenza di malaria in quel torbido mercato di treni che è Stazione Termini.

Gente che mormorava orari di partenze perse, arrivi mancati, semplici attese, biglietti scaduti e mai vidimati, gente alle prese con geniali rimedi mai praticati fino in fondo. E quando non pratichi fino alla morte quello che ritieni il rimedio a tutto finisci per vivere di rimpianti.

Ci chiudemmo in un vagone morto, un treno vuoto lasciato a morire da solo su un binario dimenticato. Lì, non visti da nessuno, ci addormentammo aspettando il nostro treno che due ore dopo ci avrebbe riportato a Napoli. Il mio biglietto per Firenze reclamava qualcosa, lo ignorai, lo rilessi attentamente decine di volte prima di addormentarmi. Era un biglietto salvavita, era quello il mio rimpianto, la mia fuga, la mia stessa vita erano quelle 45mila e settecentolire strappate in minuscoli pezzi gettati fuori dal finestrino.

Al posto di un biglietto per Firenze, nella tasca del mio jeans pullulavano decine di stiracchiatissimi bigliettoni da dieci, cinquanta, centomilalire, ubriachi e gozzoviglianti e fieri della loro potenza. Li palpai e lanciai un segnale di intesa ad Ibrahim. Non mi calcolò neppure, dormiva sdraiato sul sedile della carrozza.

Avrei potuto approfittarne per scappare di nuovo, ma non avevo più la forza di fare niente.

Due ore dopo ripercorremmo la stazione e ci ficcammo nel primo Intercity verso sud. Verso il sud di noi stessi.