Valerio Damini

E’ estate e fa caldo. Il 1982 è un anno torrido, anche se “gli anni di piombo” vanno finendo la loro corsa. Il Verona ammazza il campionato di serie B a suon di goal; Penzo ne mette dentro 14. Ma Nico Penzo gioca a calcio e buca le difese, ne stende metaforicamente i portieri. Invece i proiettili che investono il poliziotto Antonio Ammaturo sono veri. È il 15 luglio 1982. Bearzot porta in trionfo l’Italia Mùndial. Quasi un mese prima, la sera del 17 giugno 1982, Roberto Calvi viene lasciato penzolare dai tralicci sotto il Ponte dei Frati Neri, a Londra. In mezzo a tutto questo, i miei genitori decidono che è venuto il mio turno. Ci si mettono d’impegno, e nove mesi dopo, eccomi qua.

FROM YOUR FAVORITE SKY

Sei addormentata e ti guardo. I lunghi capelli neri incorniciano il tuo viso pallido e assorto. Ti ha mai detto nessuno piccola Luisa che assomigli tanto ad un'indiana d'America? E' come nella favola, sei veramente bella. Ma io non ti voglio svegliare. Però ti porgo una domanda, sottovoce, e leggerò la tua timida risposta cosi. Con un bacio sulle palpebre. Quali stelle strapperesti dal tuo cielo preferito? Io credo che se tu ci pensassi un poco risponderesti che no, nessuna: e rimarresti col naso all'insù a contemplare. Ad occhi chiusi. Sai anch'io non farei cadere nessuna stella dal mio cielo preferito: ma qualcuna l'accarezzerei, mi alzerei cosi in alto da sfiorarla con le labbra. Ci farei l'amore ne fossi capace. Fossi in grado di muovermi con grazia.

"Oh mio Dio magari bussa alla mia porta ché mi vuole scopare!" E' molto buffo Andrea quando parla di sesso. Soprattutto ora con la faccia e le spalle gonfie e rosse. Ha preso troppo sole. Che sia stato in macchina, come dice lui, o più semplicemente che si sia addormentato al mare sulla sabbia, questo poco importa. Più lo guardo e più me lo vorrei cucinare. Tagliarlo minuziosamente come un peperone grosso e fresco, e metterlo a bollire insieme al ragù. Ma c'è troppo caldo ora. L'afa ha reso le sue parole troppo attutite, nessuno sembra avergli dato minimo ascolto. Alle mie orecchie è arrivato un lieve sibilo, il rumore di una zanzara discreta. "Sei un po' pessimista" "E anche stronzo" Pietro sembra sia lì seduto da due anni, a bere sempre la stessa cosa: latte ghiacciato. Ha gli occhi concentrati, un sorriso bianco stampato sulla faccia. Non capisco bene dove stia guardando. Senza occhiali non vede nulla, e allora credo sia la sua perfida immaginazione a condurlo oltre l'ombra sfocata del suo naso. "Forse è un problema di prospettiva…vedi, io sono davanti lo specchio. La macchina da presa indossa i miei occhiali. Che cosa vedo?" E' una questione non da poco. "Perché in fondo l'autoritratto esiste…o se no ho mandato a puttane gli ultimi miei due mesi di studio" La notte prima: una discussione di un'ora sulle proprietà oggettive della macchina da presa. Se io mi piazzo davanti uno specchio e mi fotografo cosa faccio: arte o narcisismo?

E non si tratterebbe di Venere. Voglio dire i miti servono a rendersi eterni più che immortali. Quella stella piuttosto assomiglierebbe ad una delle donne che ho avuto, si, e più esattamente quella con cui ho scopato meglio. Il primo scalino per l'eternità è in fondo quello di ripetere in maniera perfetta la cosa che meglio c'è riuscita. Quindi…io ho sempre avuto un certo successo in questo campo. Certo con Melanie ho dovuto sputtanarmi uno stipendio in birre per farla cedere. Ma ho dimostrato del talento se non altro era quello che lei voleva da più di due mesi. Insomma c'è chi è un genio per costruire muri. Conosco persone che giocano a carte con una tale abilità da mandare in bestia il Padreterno. Mio nonno credo facesse impazzire ogni donna, con quelle mani forti e veloci, che tagliavano il legno con inaudita precisione. Io la prima volta che fatto sesso l'ho messa incinta.

Beh in ogni caso il narcisismo è importante ne avevo convenuto. Ma il giorno dopo il problema non è più questo. Metti tre uomini con una birra in mano, o del latte ghiacciato se volete, insomma riuniteli insieme e…si parlerà solo di donne. Niente motori, bando al lavoro, sopra ogni cosa vietato lo sport. Solo sesso. "Quindi vuoi dirmi che se ti vedesse cosi ti salterebbe addosso?" incalzo Andrea. "Per picchiarlo certo. Diventerebbe un'amarena" "Effettivamente, Piè, Araya è una ragazza di poche parole…" Ad essere sinceri, quella è una ragazza che non parla mai. Dio che fatica a stare con lei! Non pretendo la lingua in bocca…ma su! Imbastiamo una bella conversazione sugli ermellini. Io sono fermamente contrario alla vivisezione e quant'altro. Pensa se facessero una calda pelliccia con la tua giovane e scura pellaccia. Non ci andrei mai a letto. "Parlate cosi solo perché abitate nel quartiere delle puttane" E che c'era di male? Ad abitare nel quartiere delle puttane intendo…delle volte m'è pure venuta voglia di portare il caffè a qualcuna di loro. Chissà, magari alla più brutta. Avremmo fatto due chiacchiere.

Con Marie Anne sono bastate poche parole. Tipo: tequila. Me ne ha offerti quattro di giri. Al quinto il suo amico è scappato. Siamo finiti a letto credo dopo il sesto. Quando le ho slacciato il reggipetto, lei era sopra di me. Fermo hombre, dice. Vedo il suo piercing sulla lingua riflettere la luce notturna, per qualche secondo. Non ho altra scelta che fissarle i seni, duri, appuntiti, dolci e lisci come panna pasticciera. Mi chiede se quando avrò ottanta anni mi ricorderò di lei. Certo, rispondo. Sarò vecchio e raggrinzito, probabilmente solo. Quale altra scelta se non quella di far salire alla memoria le tue dolci labbra che sorridono mentre scivolano in basso, sempre più giù, fino ad accarezzare e mordermi la punta dell'uccello?

"E poi vi giuro ho una spada tanta che le faccio male" A volte è divertente Andrea. Quasi spassoso. Non serve neanche rispondergli. Ha una voce da bovaro. "Vabbeh insomma ho due palle come meloni…" "Ha finito il fotografo?" mi rivolgo a Pietro, con una cantilena simile al suo modo di parlare, troppo raffinato, troppo piemontese. "Io una foto cosi non l'ho mai vista" lo vedo imbambolato, m'avvicino "voglio dire non ho mai osservato una figa in questo modo. E' due ore che…" Effettivamente faceva paura. Una vulva, in bianco e nero, con pochi peli un po' lunghi e arruffati. Sembrava vecchia e spaurita. Mi giro e cerco di visualizzare: no in realtà non ne ho mai trovate di cosi. Guardo la finestra, dai contorni sporchi e ormai incerti. E' aperta, mi affaccio. Sulla via qualche puttana ha già cominciato. Sono puntuali quelle giovani. Un ragazzino le guarda intimidito. La sua maglietta è fradicia di sudore, e si appiccica voluttuosa al suo corpo esile e asciutto. Sembra dover aspettare qualche ricompensa, un premio per uno sforzo più grande di lui. "E' un problema di prospettiva, già. Quando la lecchi certo non la guardi. Ma d'ora in poi starò più attento"

Mi piace sentirti venire. Ti sento tremare quando per l'ultima volta infilo la lingua fra le tue pareti vaginali. Ho una preferenza per il tuo clitoride Valeria: è appena salato, sa di buono, ti mette sete. Mi piace annusare le tue cosce bagnate e poi prenderti da dietro. Non hai la minima idea di quante volte io abbia sognato tutto questo. Mi manca entrarti dentro con furia. Ho ancora caldo sulle dita il tuo sudore.

 

NON PARLARE, SE PUOI

Mio padre me lo aveva detto: falle capire che le sei vicino. "Com'è andato il concerto?". "Ho trovato come sempre la solita gente di qui". La tavola era imbandita di cose da mangiare: sembrava tutta roba buona. Non era ancora ora di pranzo. "Ma c'è qualche ospite?", chiesi. Mia madre non rispose. Cominciò ad armeggiare con la caffettiera: non si chiudeva. Me la porse con un gesto di stizza: chiudila tu, che sei capace. "Martina dovrebbe arrivare oggi per pranzo". Ero tornato poche ore prima: avevo preso l'ultimo treno disponibile. Ero felice, ma i miei occhi faticavano a farlo vedere. "Allora, per Roma?", mi chiese. "Metti giù", feci io, sporgendomi in avanti: aveva preso a mangiare della frutta secca. Non volevo poi dover sopportare le sue infantili lamentele, sul fatto che non avesse più fame. "Dovremo orientarci bene…credo prenderò la mia guida preferita…Margherita è riuscita a darmi solo il numero di una buona locanda, ma è a Firenze, ed è piena fino al venti di maggio". Avevo ponderato bene ognuna di quelle parole, senza un motivo. Seduto a capotavola, era come se parlassi ad una platea godereccia. Mi sentivo a mio agio. Non sapevo se lei avesse la voglia di parlarne. Lei si irrigidì, per un attimo: sembrava dovesse dirmi qualcosa di importante. "Ha telefonato tuo zio. Dice di avere alcuni bandi di concorso da farti vedere. Sono tutte cose a cui lui ha già partecipato: vincendo, talvolta". Guardava fuori ai panni stesi sul balcone: doveva guardare qualcosa d'altro, ogni volta che parlava di suo fratello, come se il fatto di parlare di lui glielo avesse imposto qualcun'altro, a cui lei non prestava attenzione. Mi trovai istintivamente ad osservare il suo seno: era così piccolo e fragile, mi chiesi come avessi mai potuto ricevere del latte proprio da lì, se le avessi fatto del male. "Come ti senti?", azzardai. Mi serviva mio padre: lui era sempre così diretto. Aggiustai l'orologio al polso: mi tranquillizzai pensando che sarebbe arrivato fra poco. Lei aggrottò la fronte. "Bene", rispose. Non sembrava troppo convinta. Sorrisi. Reclinai la testa sul tavolo: ero veramente troppo stanco. Non parlare, se puoi, mi sembrò sentirmi dire. "Vedrai, andrà tutto bene. Come l'altra volta". Già, proprio come l'altra volta. Cercai di nascondere un forte tremito di freddo.

 

PIOGGIA BELGA

Il trillo del telefono corre imperterrito. Severino è intento ad infornare le polpette ricoperte di sugo al pomodoro. La friggitrice di tanto in tanto sbuffa qualche goccia d'olio; lui allora con calma olimpica alza rapidamente il cestello contenente le patate, lo solleva a mezz'aria, lo lascia scolare un poco, quel tanto che basta perché l'olio sottostante torni ad essere una membrana piatta e compatta, senza sussulti. L'apparecchio telefonico riattacca il suo grido acuto e inarrestabile. Severino abbassa la manopola dello stereo, il volume sfuma, cala lo sguardo ed i suoi occhi incontrano un avventuroso scarafaggio affacciarsi dal retro del gas. Lo schiaccia energicamente fra due dita, si asciuga le mani unte su di uno straccio e alza la cornetta. La voce gli ripete il suo numero, chiede conferma che lui sia proprio lui.

"Oui".

La voce è lontana ed insicura. Lui la riconosce da subito.

"AH!".

Non gli dà molto tempo per parlare.

"Ma…".

Ma forse neanche lui saprebbe bene cosa dire.

Qualche giorno dopo Severino è seduto su una sedia, piuttosto scomoda, con l'aria assorta di chi sta per fare, o decidere, qualcosa d'importante. Ricorda quella telefonata improvvisa di sette giorni addietro; l'aveva colto impreparato, e le patate fritte erano uscite più dorate del solito. La giovane moglie di Pignaffo su una cosa era stata chiara: che lui fosse morto lo attestava anche il referto medico. Di cosa, però, fosse mancato Pignaffo Severino lo aveva appreso solo dalla lettera che gli era pervenuta giusto ieri. La voce di lei arrivava da molto lontano, pensa Severino, mentre distende le gambe verso la sedia di fronte. La moglie di Pignaffo era molto bella, l'aveva dovuto ammettere: una moglie così, la prendi se hai fortuna, o molti soldi da investire nella sua dote. Però lei non parlava bene l'italiano; l'aveva imparato da Pignaffo, uno che più che altro parlava in veneto, e il suo parlare, come il suo ragionare, era in dialetto trevigiano. Quella lingua che gli era arrivata dalla Libia Severino mica la intendeva bene: era un pasticcio di frasi arabe (francesizzate) biascicate e smozzicate assieme a proverbi veneti. Ad ogni modo, suo fratello era morto.
Severino e il suo flusso di pensieri inarticolati s'irrigidiscono per un attimo. Allunga il collo a vedere se l'aereo si sia presentato sulla pista di decollo. Le sue mani si mettono a rimestare ansiosamente nella piccola valigia da lavoro, nella ricerca della lettera inviluppata dentro una busta vecchia e gialla. Tutto quello che ne cava fuori è un duro righello marrone. Poi, con calma e diligenza, trova il foglio che lo interessa, e con molta cautela lo apre e lo stende.

Dove lo seppelliranno? Si chiede prima di rileggere per l'ennesima volta la lettera.

Caro fratello,

ti scrivo dall'ospedale. Domani mi sottoporrò ad un intervento abbastanza complicato. A dir la verità la diagnosi è semplice: mi cambiano il fegato. Quello che mi preoccupa è se questo nuovo fegato, non mio, funzionerà. Il mio fino ad adesso mai m'ha dato problemi. Comunque non t'ho scritto per questo: i medici sono tutti tranquilli al riguardo.
Tu sai, ormai siamo anziani, e quando si raggiunge una certa età non si fa altro che pensare a casa. Come sai qui ho famiglia, anzi, ne ho due. La mia prima moglie è schiattata di polmoni. Ti invio una foto della seconda: che te ne pare? Mica si trovano ragazze così in Belgio (o no?). Mi ha già dato due figli, ma lei vivrà più a lungo, una bellezza così non dovrebbe morire mai.
Insomma, arrivo al punto. Ti ricordi nostra cugina Maria? Non credo di sbagliare se dico che ti è indimenticata. Sarai felice di sapere che è ancora viva. Ma suo figlio ha cinquant'anni ed è malato. So che si chiama Giuseppe, e che il figlio minore ora studia nella stessa città grigia dove tu abiti. Ti pregherei di renderle omaggio, di salutarla da parte mia, soprattutto nel caso io venissi a mancare.

Con affetto tuo
Pignaffo.

Era un testo breve e diretto, lineare e senza errori ortografici: sicuramente, non l'aveva redatto di suo pugno. Forse l'aveva dettato a qualche scrivano, più probabilmente suo figlio maggiore gli aveva dato una mano con qualche testo, o dizionario, di italiano. Severino non presta attenzione al secondo foglio (si tratta del referto medico). Troppo tecnico e faticoso da rileggere, anche se aveva ben compreso che i problemi erano sorti dopo l'operazione, quando un ampio travaso di acqua e pleura aveva invaso i polmoni.
Certo, si dice quasi a voce alta Severino, guarda la sorte: il fegato eroso dall'alcol, e tu muori di embolia polmonare.
Detto questo, sicuro che si ricordava di Maria. Chissà se è rimasta bella come una volta, sorride Severino, senza accorgersi che se lei ha la sua età, settant'anni, qualche cosa deve pur essere cambiato anche per lei. Senza rendersi conto che hanno già chiamato l'imbarco del suo aereo, Severino è perso nei meandri dei baci dati come addii tanti anni fa, e sente una voce calda che lo chiama.
"Ma…ma…", balbetta Severino, sbigottito dal vedere un viso come quello di Maria tanti anni fa, un viso chiaro, chiaro e leggermente lentigginoso.
"Però…sei ancora così bella e giovane", annuisce con incanto.
E una giovane hostess imbarazzata lo prende decisa e delicata per un braccio. È rossa di capelli e sorridente.
"Non si preoccupi", dice, "anche se è il primo viaggio che fa in aereo. Andrà tutto bene".

Un caldo infernale. Di quel funerale Severino ricorda solo un caldo infernale. Tripoli era molto cambiata da quel che si ricordava, ora appariva come una metropoli. I campi, una volta ordinatamente arati e coltivati, ora erano stati rimpiazzati alcuni da palazzoni grigi, mentre altri giacevano incolti e sconfinati. Gli italiani non erano più ben visti che una volta. Cerca di spiegare tutto ciò che ha visto e sentito di quel pezzo di Africa, ma in certi momenti le parole sembrano non volergli uscire di bocca. Maria allora lo guarda intenerito, e gli versa ancora un po' di rosso nel piccolo bicchiere.
"Come sta Giuseppe?" lui le chiede.
Lei, per un attimo, si irrigidisce, quel tanto che basta per evitare di piangere.
"El sta ben, dai…" afferma poco convinta "l'ha 'ncominsià le cure, che mio e radio, l'operasione i le farà fra un po' de mesi…"
Sospira.
"Almanco l'ha ripreso a magnar co la so boca".
Mentre Maria gli spiega del travaglio di suo figlio, e dello svago di suo nipote Valerio, Severino osserva attento la casa di lei. Aveva sempre avuto del buon gusto. Ed era rimasta una signora ragazza, gli occhi larghi, le labbra fresche e sottili.
"E ti sa feto là a Liegi?" gli chiede.
"Ho lasciato la fabbrica", ingolla il vino, "mi sono messo a vendere affettati al mercato cittadino domenicale…"
Si ferma a pensare qualcosa. A lei sarebbe piaciuto sicuramente, quel mercato dai toni esasperati, dove tutti urlavano in italiano stretto e dialettale, l'avrebbe girato con aria trasognata alla ricerca di menta fresca e trippe.
Severino si alza riluttante dalla sedia. La giornata è corsa via piacevole, un'allegra e assolata giornata primaverile. Ma Verona per lui è solo una tappa sulla via del ritorno a casa. La salma di Pignaffo di qui a qualche giorno sarebbe passata vicina, e Maria avrebbe potuto salutare di persona il suo vecchio cugino, che sarebbe rimasto sepolto nel cimitero comunale di Treviso.

A Liège il tempo è standardizzato per duecentosessantacinque giorni l'anno. Pioggia. Pioggia sottile, che cade senza farsi sentire, sbatte sul collo e sulla fronte, e solletica dappertutto la pelle del viso. Come ogni domenica mattina, Severino si appresta ad aprire al pubblico il suo banco di prelibate pietanze italiane. È da qualche giorno (dal suo ritorno dal doppio viaggio libico - veneto) che tiene sempre in tasca una fotografia. Ritrae un giovane di bell'aspetto (avrà preso da sua nonna?), capelli chiari e spettinati, dall'espressione forse troppo beffarda. Ogni tanto la guarda, poi scruta tra la folla.
La guarda, e scruta tra la folla.
Attende il momento in cui tra la pioggia scorgerà anche il viso umido e affilato di Valerio.

 

PELLE

La porta si richiuse piano. I genitori di Giovanni erano appena usciti. Fuori settembre era maturo: tutto si stava pian piano tingendo di braci luminose. Si alzò lento dalla sedia, lasciò in cucina la colazione ancora da mangiare. Si diresse in bagno: aprì l'acqua calda della doccia, e la fece scorrere. Si lavò i denti, pisciò e scivolò cauto nella vasca. Rimase per un po' sotto quel getto caldo, che spandeva intorno a lui soffice e spesso vapore bianco. La sua pelle sudava. Cominciò dolcemente a masturbarsi: venne quasi subito, con violenza.

Per pranzo i suoi genitori non erano ancora tornati. I suoi quindici anni gli suggerivano di non preoccuparsi: non era la prima volta che suo padre era dovuto andare in ospedale; le cose da fare là dentro assumevano sempre un tempo più lungo del normale. Prese dal frigo uno yogurt, ci ficcò dentro dei cereali e pranzò, guardando di tanto in tanto la televisione: tante persone davano tanti consigli per tante belle cose. Tra telenovela, televendite e telegiornali scelse una quarta ipotesi: MTV. Smise di mangiare: sullo schermo c'era una procace più che trent'enne che si dimenava scoprendo parti interessanti del suo corpo liscio. Aveva occhi invitanti: gli dicevano vieni, potrei essere tua madre, vieni che qui sotto sono comoda e calda. Non si accorse che la porta si era aperta, lasciando entrare sua madre. Si svegliò solo quando la sentì chiudersi: spense in un attimo il televisore e in due passi fu nell'ingresso dove sua madre si stava sfilando il soprabito. C'era solo sua madre. "Papà?" chiese lui: per un momento sembrò preoccupato. "Hai…hai mangiato, caro?" rispose Tiziana, senza neanche starlo ad ascoltare. Quasi lo urtò, andando dritta al divano in salotto. Voleva solo riposarsi: sistemò i cuscini del divano, entrò in cucina e mise sul fuoco un caffè.

A Giovanni queste divagazioni non piacevano: frequentava una scuola professionale, lui si sentiva anche troppo pratico di vita. Lui doveva andare a scopare quella tenera più che trentenne. Lui che poteva essere uno dei protagonisti dei romanzi di Pasolini senza saperlo: alto moro e sprezzante. Sentiva che il suo sesso stava per esplodere da un istante all'altro.

Si sedette di fianco a sua madre, intrecciò le dita delle mani e si mise ad aspettare, facendole semplicemente capire che avrebbe aspettato a lungo. Lei fece spandere per la cucina il sapore scuro di caffè, poi se lo versò nella tazza. Ne bevve un sorso per prendere fiato: era bollente. "Sai, papà…" cominciò. "…ha avuto la febbre a quaranta per due settimane." A volte si rendeva conto di essere un po' troppo drastico. "E' per questo che siete andati in ospedale stamani…no?" "Si; papà è stato ricoverato." "Che hanno detto…quanto gli ci vorrà per guarire?". Era cosi, per lui ogni problema doveva avere una soluzione: sennò che problema era? Tiziana bevve l'ultimo sorso di caffè. Disse: "Vieni a darmi una mano: bisogna preparargli la valigia."

In macchina promise di dirgli tutto quello che c'era da dire. In effetti gli disse tutto ciò che le avevano detto i medici: omise solo ciò che loro non le avevano detto, ma le avevano fatto capire con gli occhi. E con quelle stupide lunghe pause tra un frase e l'altra. Suo padre aveva un tumore al midollo: Tiziana aveva usato anche il termine 'leucemia'. Si ricordava vagamente che un famoso giocatore di una qualche grande squadra doveva essere morto di una malattia del genere: suo padre Luca con il nipote fingeva sempre di essere stato un grande calciatore, di aver giocato con i migliori. Comunque era roba di tempo prima: nel frattempo le cure erano progredite, grazie alla ricerca medica.

La guida della madre pareva più pacata del solito. Pensò che dovesse essere la stanchezza. Aveva allungato a dismisura il percorso. Da borgo Milano a borgo Roma la via era semplice: si tagliava per la stazione. Stavolta no: la strada si contorceva su se stessa nell'attraversare S.Zeno, costeggiare le Rigaste, infilarsi nel fianco di Pradaval per sbucare in corso porta Nuova e finire nella larga via Piave. Poi da lì non è che potesse scappare più di tanto: oltrepassò la Z.A.I. e raggiunse il policlinico. Certo, proseguendo si arrivava in ogni modo a Ca'di'David, dove abitavano i nonni: non per poco Giovanni sperò che la madre fosse diretta la, ma fece finta di niente.

In ospedale Giovanni trovò una ragazza di vent'anni, ma dovette farselo dire per poterle credere. Sembrava in realtà un maschio: pelata e non ancora dimagrita dalle chemioterapie. Aveva la pelle grinzosa. Camminava agile, con al fianco una specie di porta abiti con le rotelline sotto e sopra bocce e boccettine appese. Era contenta: fra poco le avrebbero portato la sacca per la trasfusione del sangue. Trovò il padre in una camera bianchiccia e asciutta a metà corridoio. Prima di entrare doveva indossare una mascherina di carta: una minima precauzione contro le trasmissioni di batteri. Era ancora vestito. Guardava fuori la finestra: gli si leggeva in faccia il rammarico di dover andare sul pianerottolo delle scale per potersi fare una sigaretta. La prima cosa che fece fu mettersi gli occhiali, quasi non vedesse bene che li di fronte c'era suo figlio. Restarono li fino a tardi: i pazienti cenavano presto. Parlarono poco, e male: Luca veniva visitato di continuo, e quando aveva tempo libero voleva fumare, come al solito. La madre non aveva voglia di cucinare: quando furono dabbasso, presero un panino a testa al bar e si avviarono verso casa. Senza deviazioni stavolta.

Quando già si erano cambiati per andare a letto, sua madre lo chiamò da sotto le coperte. "Hai sentito freddo ieri notte?" Giovanni chiuse la finestra di camera sua. Si affacciò alla porta. "Perché?" "Vieni da me se vuoi…" Era una supplica o una preghiera? Quasi facesse differenza… "Non…non ho sofferto il freddo…" bisbigliò: non era più un bambino. Questo sua madre lo sapeva. "Non riesco a dormire da sola…". Il suo corpo fremeva, nascosto sotto le coperte. Non poteva stare lì ad ascoltare i pensieri di suo figlio. Le labbra di Giovanni si erano aperte in un piccolo sorriso. La madre si era accorta del suo membro eretto. Rimase in mutande e canottiera: sentiva la pelle tesa sbattere contro le fibre di cotone. La luce di camera sua l'aveva già spenta. Entrando la spense anche in quella dei suoi. Incespicò un po', poi si sedette al bordo del letto. "Domani cominci scuola vero?" "Allora dopo che sono venuta a prenderti andiamo a trovarlo eh?" Lui si voltò, leggermente infastidito. Le posò l'indice sulle labbra: non c'era alcun bisogno di parlare. Scoprì che il letto da quella parte seguiva curiosamente le fattezze di suo padre. Lievemente cercò di rimodellarle secondo il proprio corpo. Tirò su le coperte fino al naso, si distese, e mentre la madre tentava di abbracciarlo spalancò gli occhi al buio e cominciò a pensare a quanto morbida e accogliente dovesse essere la pelle di una donna, là sotto e dappertutto.

 

PENSIERI SPARSI

Amichevole avvertimento

"Secondo me ti cacci nei guai".

Traduzioni (s)corrette

(Perché sono qui, dove sono?) "Pour - quoi je suis ici, où je suis?"

Piccoli appunti scenici

À l'interieur d'une petite cuisine: il est trop grand pour cette cuisine. Il battre contre toutes les choses. Sous les ses mains rien est à couvert, rien joue: parfin la radio ne prende pas, si il essaie. Il ne trouve pas ce que il cerche (jamais).

À l'extérieur. Il se proméne un jeune garçon: il a l'apparence de savoir exactement ça faire. Il est brun, surtout brun.

Peut - être les deux se connaisent; peut- être non. Mais toutes les deux sont dès que partis, et il sont arrivés dans un lieu étranger.

Il y a un bruit de preparation de café. Une personne rire.

Il y a une automobile dans la rue: elle bleu, pas três vieille. Elle a dout voyager beaucoup dans la campagne. Le proprietaire (lui, elle?)est interessant. Il y a beaucoup de livres et de vêtements à l'interieur. Mais cette Renault semble dès que sortie d'une rapine…

Luci e campane

NON SONO MAI STATO COSÌ SOLO E QUESTE LUCI NON BAGNANO I BATTELLI SOPRA IL FIUME ce soir je m'abille avec mon meilleur vêtement et je sors tout seul la pluie belge est tousjours ma douce copine BATTONO DELLE CAMPANE POI ALTRE, PIÚ LONTANE.

Abbozzo di due storie poco più che inventate, poco chiare, ed intrise di realismo

I. Dentro un parco cittadino francese, notte (o primo mattino). Un ragazzo cammina di slancio. Ogni tanto si ferma, si gira: sembra cercare la strada più lunga. Poco lontano una macchina (lo segue?). La Citroen si ferma, poco dopo riparte. Il ragazzo, a tratti, è illuminato dai fiochi lampioni notturni. La macchina, invece, cammina a fari spenti. È magro, il ragazzo, sembra bello. Ha l'aria e il portamento di un saltimbanco. - Mi guardi come se sapessi tutto di me - Gli occhi del ragazzo, nonostante il buio, si accorgono dell'auto. La donna alla guida accende i fari, e fa finta di accelerare. - Oppure più semplicemente mi osservi divertita, come un bambino quando si balocca col suo gioco preferito? - Marciando in avanti, un po' infermo sulle gambe, il ragazzo abbraccia la macchina con uno sguardo (si direbbe) languido. - Mi mostri sensualità - Il ragazzo strizza gli occhi, nel tentativo di scorgere la donna alla guida. Ha trent'anni. La sua pelle è tirata, sembra tenere al suo aspetto. - O cerchi piacere, seppur intenso e fuggitivo? - La donna ha la pelle calda e liscia. Le luci esterne le lambiscono le forme, scoprendo delle labbra rosse (ha troppo rossetto?), i seni turgidi sotto un minuscolo top aderente (o è completamente nuda?). Il ragazzo si immerge nell'incerta oscurità mattutina. La macchina resta sempre poco indietro, quasi intimorita. Le nocche della donna sono ossute, e le sue dita affusolate (da pianista) accarezzano la pelle secca del volante, come fosse la pelle fresca del ragazzo.

II. Un uomo, seduto, aspetta. È molto composto, respira tranquillo. Ha la pelle olivastra. Gli zigomi allungati, la faccia impastata di terra (incavata, smunta, affilata). La bocca un po' storta. Sul suo viso è dipinto uno sguardo felice, un sorriso timido. Pare sia la prima volta che prende un aereo: controlla incessantemente la carta d'imbarco. Ogni tanto sbircia una fotografia, ritrae una giovane ragazza, potrebbe essere sua figlia. (È preoccupato per qualcosa?). Continua ad alzarsi e risedersi sulla poltroncina. Il seggiolino ribaltabile fa un fracasso infernale, ma lui sembra non darci peso. In una delle sue brevissime passeggiate, si allunga fino ai distributori automatici, ne preleva con cura una bevanda (senza zucchero). È molto alto, un po' curvo su se stesso. Ha un tic: scorre lievemente il dorso della mano sinistra sulle gote ruvide (non rasate da due o tre giorni). Si liscia il mento, sia alza di nuovo, punta dritto al bar e ordina un caffè (sempre senza zucchero). Quando torna al suo posto, trova una ragazza seduta al su fianco. Anche lei sorride, ma più apertamente. Lui, rigorosamente, non parla, ma le nocche nodose delle sue mani si muovono freneticamente, come durante una lezione universitaria. Terminato il caffé, l'uomo si alza per l'ennesima volta. (Ora lo vediamo bene nella sua interezza: avrà più o meno trentatrè anni). La ragazza, stranamente, lo segue (d'altronde sembra un bell'uomo, posato, pieno di fascino). Tenta di attaccare bottone, ma per parlargli deve ergersi sulle dita dei piedi. L'uomo ora è parco nei movimenti, distinto, signorile. (Vuole essere discreto, non esagerare?). Il corpo esile di lui si staglia in faccia al viso ovale e pallido di lei. Lei abbozza una frase smozzicata. Lui guarda fuori da una grande finestra, le sue mani si sono fermate, sembra voler ricordare qualcosa. Scuote la testa e si passa violentemente la mano fra i capelli, già arruffati. "Insegno all'accademia di belle arti" lui dice. Lei ha una pelle bianca, sembra nevischio appena ghiacciato, brilla di luce riflessa (nel nostro caso, lo sguardo di lui, che più parla con lei e più si accende). Porta degli stivaletti alti, con i lacci, colorati di un marrone ormai sbiadito. Indossa dei jeans chiari e stretti, una mogliettina slavata sotto un bel golf verde di cachemire. Lei dice "ma hai scritto un libro intriso di sesso (incesto?)". "Non saprai mai cosa succede alle dogane con i ladri di quadri. Loro sono gentiluomini, e i poliziotti ne sono innamorati".

Diciotto ottobre duemilaequattro

Era colma di gente, venerdì, la camera ardente. Non si riusciva a respirare. C'erano persone che non conoscevo, sai, cugini che non ho mai visto in vita mia. Tu eri vestito bene. Un completo blu scuro (o nero? Ho sempre fatto confusione) ti irrigidiva, ma sembravi ancora più smilzo nella tua camicia bianca. Mi chiesi subito se per caso non ti avessero praticato una tracheotomia: un tubo di plastica, appoggiato alla base del collo, ti sosteneva il mento. Portavi le stesse scarpe di tuo padre (basse, larghe e nere). La faccia oramai scarnificata lasciava spazio ad un sottile sorriso, o meglio, ad una risata trattenuta. Tutto era molto spoglio ed essenziale intorno a te. Fiori gialli, e pareti bianche, impreziosite solo da due lampadari ocra a forma di croce, confezionati da mio padre quando anche tu eri giovane. Le foto in bianco e nero poste all'ingresso della camera ti rendevano più bello di quanto avessi mai creduto. C'era davvero molto caldo là dentro, e tu avevi le mani fredde. Fuori, a tratti, pioveva.

Passaggi di consegne

"Vorrei tu indossassi ancora la mia coppola" lui dice. Lei non muove un muscolo. Prende in mano quel pezzo di stoffa marrone. Delicatamente, ne lambisce le coste e le cuciture. "Ne andavi così fiero" sussurra lei. Poi, sommessamente, sorride. "Le dirò che l'ho perso…" silenzio "…che l'ho perso in viaggio". Lei si fa cadere l'ampia coppola sulla fronte. I polpastrelli di lui allora le accarezzano le labbra, lì dove lei soffre di solletico. Anche lui sorride ora.

Ostinatamente

Non importa quando non m'importa come. Aspetterò seduto sulle scale di casa tua. Qualcuno m'aprirà. (E quando tutto sarà finito, mi bacerai).

Amsterdam

I. Odio questa città che mi ha accolto con troppo vento: non mi fa respirare. Non sopporto il suo cielo che grandina sale. Amsterdam è un elegante parco giochi costruito su misura per grandi e piccini (e non nel senso di adulti e bambini). Mi aggiro estasiato (pur'io) e scelgo con cura e sobrietà le attrazioni che mi appaiono come le più confortabili. A volte è meglio toccare che non solamente guardare. Adoro tutto ciò che vedo.

II. L'ho già scritto, detesto quando nevica sale, ti piove in testa una scarica di duri e veloci pallettoni. I canali di Amsterdam accolgono con malcelato fastidio queste spesse gocce ghiacciate, che con violenza cadono e sbattono sull'acqua. Spero smetterà di grandinare fra qualche secondo. Grandi nuvole grigiastre copriranno il cielo e l'orizzonte per pochi istanti. Alla potrò dire addio a questa città per me così preziosa. Le porgerò un paziente sorriso bagnato, consapevole che il sole passa raramente da queste parti.

Le frasi fatte

Detesto le frasi fatte. I discorsi banali. Le parole semplici. Il più delle volte sono la maniera migliore per descrivere bene una situazione di merda.

Auguri di compleanno

Trascrivo qui dei gioiosi auguri di compleanno (seppur con un qualcerto ritardo). Due testimonianze di stima (e di affetto) dalle parole di due persone che mi vogliono bene.

PIETRO - Ah dunque, sono io, hai vissuto con me durante sei mesi. Volevo assumere per una volta un tono in qualche modo sincero, solo per dirti (in modo che tu ci creda), che conoscerti mi ha in un qualche altro certo modo modificato l'esistenza. Ieri nel campo eravamo ottomila: e tu, tu eri il migliore.

ALESSANDRA - Pas vrai. Ma eri comunque il più elegante, il più fiero: insomma, il più veronese. (Tolgo qui un punto esclamativo). Ma anche se ora abbiamo la stessa età, sono sempre io la più matura…(altro punto esclamativo espunto). Un bacio mon fiston!!! (ecco redivivi i due punti esclamativi).

A mio modo, anch'io voglio bene a loro. Mi perdoneranno una mancanza di tatto, i loro nomi non li ho cambiati. E nemmeno poi tanto le loro parole. E per queste li ringrazio.

Attesa

Seduto su una sedia, con le gambe allungate sopra il letto, aspetto. Aspetto che qualcuno apri la finestra, o tiri solo la tenda dalla finestra di fronte alla mia. È ormai da un po' di tempo che aspetto.

Lontananza

Ho qualcosa che mi preme, una forza che tende i nervi della mano, e sbatte contro la sottile epidermide dei polpastrelli. Mi manca toccare (e stringere) il suo odore. Sento il bisogno di respirar di nuovo la sua pelle. Il suo solo nome (Maria) mi spinge all'infantile e dolce errore di violentarla.

Pagine non scritte

Il vuoto di questi giorni è opprimente a prima vista. Non ho scritto. Cosa non ho fatto? Voglio dire, cosa non ha avuto quel peso necessario ad esser tradotto in forma scritta? Ho dormito? O (soprattutto): cosa hanno sognato i miei occhi aperti?

Commiato

Sarei dovuto partire io oggi. Come dicevi tu: "niente sentimentalismi". "Il presente è di lotta, ma il futuro è nostro" dicevi anche. Coefficiente di stronzate a mille. Vederti partire è stato come guardarmi nello specchio. Conoscerti non mi ha modificato l'esistenza. Allora nel vetro sporco di quel treno c'era riflessa la mia immagine. Era il mio corpo che restava impresso nel sole, ed era il mio culo quello che cerva un posto da sedere. Era la mia bocca che rideva (per che cosa poi…la Calabria è forse la terra dei misteri?). Mi vedevo goffo nel salutarci.

Düsseldorf

Tedesche vanno e vengono nell'atrio della stazione. Tutte femmine. Alcune sole, altre in gruppo. Sono inesorabilmente vestite bene, neanche dovessero andare a feste private molto (ma molto) importanti. Nessuna di loro è bella. Sono fighe, fighe di legno. Alcune danno (netta) l'idea di essere cavalle da monta. Penso dolcemente che mi potrei far pagare un botto, per montarle, proprio come i migliori stalloni equini, che vengono addirittura coccolati perché non gli sfiorisca il desiderio. Ispirano violenza, queste troie, un po' come Elisabetta Canalis (sia detto a complimento). Molte altre sono accompagnate (trans? Omosessuali?), non so bene se per proteggersi o per qualche (indefinito) lavoro di gruppo. La notte è lunga ma neanche troppo fredda qui a Düsseldorf. La nostra compagnia più dolce e amichevole è un grosso e calvo poliziotto vestito di verde, che vigila e controlla.

Scena in un pub di Edinburg

Un ragazzo ungherese, seduto al tavolo di un pub, si lamenta del posto. C'è troppo caldo, dice aspro. Parla solo un inglese quanto mai scolastico e stentato, e sbuffa. Al suo fianco c'è una donna, lei gli carezza il collo e le spalle (è un'accompagnatrice?). Ha i capelli tinti di rosso (la ricrescita è biancastra), porta un piercing sulla lingua (si intravede ogni volta che dà una sorsata alla sua pinta). Parla solo francese, un francese spedito e sicuro. È ubriaca, ma non ancora barcollante. Lui le osserva il collo snello e liscio, nonostante l'età. ("Almeno non ha il pomo d'adamo", sembra pensare lui, "di questi giorni non si sa mai…"). Poi ad un certo punto si alza, sputa per terra e si mette (con passo beffardo) in piedi dietro le morbide (cadenti?) spalle di lei. Con inaspettata delicatezza le cinge il collo di una collana. "È d'argento", biascica lui (e non sembra scherzare, o bluffare). Le spalle di lei, esili e calde, poco coperte da una camicetta di lino, lasciano trasparire un tremolio. Forse è emozione, forse è solo il freddo del prezioso metallo. Lui le chiede: "ti piace l'argento?" E si risiede, soddisfato.

Lockness

Nessie? ARE YOU IN?

Scozia

Dei gabbiani volano bassi, tutt'attorno la torre d'un castello. Miagolano come gatti. Che vogliono? Mi chiedo. Il cibo già ce l'hanno.

Gnothi sauton

Le nuvole mangiano il cielo, corrono veloci. I gabbiani volano troppo bassi, sembrano le rondini che annunciano tempesta. Il vento è forte, trascinerà un po' di sole fra poco? Vedo un deserto davanti a me, una landa desolata fatta di mare e montagne, di alberi spogli e piegati. I pescatori, gente sola ed ostinata, fanno tremare le barche sulle onde. Sento un mondo capovolto, come un'eco che non ritorna alle orecchie. Il mio pelo si arriccia, ho chiuso gli occhi per la tensione, non urlo, non piango, non faccio nulla. Saprò conoscere me stesso?

Dolce morte

Vedo un calabrone morire. Avanza lento (lentissimo) fra le sterpaglie. Si erge a fatica sullo stelo di un piccolo fiore violaceo. Non sembra in grado di poter spiccare ancora una volta il volo. Appare stanco e provato. Lo stuzzico con un bastoncino appuntito, fosse vivo non mi sarei nemmeno avvicinato. Lui riprende più impaurito la sua corsa. Si arrampica trozzo e barcollante sopra un legno contorto. Lo faccio scivolare con cura sul mio dito indice, per farlo rotolare sulla piega delle mie braghe sporche. Ora ha l'aria disfatta ma felice. Ogni suo passo è sempre più appesantito, si ferma all'altezza del mio ginocchio. Sento il suo desiderio di coricarsi, lo osservo mentre riposa, sempre più in pace. Mi accorgo solo ora che questa tenera bestiola muore dopo avermi punto il pollice destro.

Presenze

C'era un guanto attaccato ad un palo della luce l'altra sera. Penso a cosa possa mai essere successo al tecnico che l'ha (sbadatamente?) lasciato lì. Era sporco e unto, ma conservava un buon aspetto. Pareva non aver bisogno d'una mano (fisica) per potersi muovere. Mi sono guardato attorno, a lungo, nell'attesa (nella speranza?) che qualcosa dovesse succedere.

In cucina

È un uomo di alta statura quello che entra in cucina. Sparecchia con cura la tavola dai resti della colazione. Sembra non esserci anima viva in tutta la casa: il tintinnio di tazza e bicchiere si riverbera in ogni stanza. Le sue mani corrono veloci, ma l'uomo ha le braccia stanche, che si tendono solo nel momento in cui deve posare le posate nell'apposito scaffale. Non presta minimamente attenzione ai gesti che compie, apre e chiude il rubinetto dell'acqua calda, lo apre e lo chiude in continuazione. La caldaia sembra avere dei seri problemi. Se si fermasse, anche solo per un attimo, sentirebbe unicamente il suo respiro. E una puzza infernale. Sotto i suoi piedi, a centinaia di centimetri di distanza dai suoi occhi, riposano i resti di un pranzo risalente a qualche giorno prima. Un pollo, sventrato. Ed una testa di muflone sgozzata.

Inviti

Cosa faresti se un tuo invitato a cena si presentasse con due ore di anticipo sull'appuntamento, perché tiene sottobraccio una testa di muflone sgozzata che deve pulire e mettere a bollire? Potresti cacciarlo, sotto taciuta promessa di ritornare senza quella povera bestia. Ma potresti sempre restare incantata a fissarlo, mentre lavora quell'enorme faccia bovina con impareggiabile perizia. Mettiamo che t'inviti a mangiarne gli occhi: accetteresti? Accetteresti, anche solo dopo aver riposato il tuo coltello da cucina? Magari la cosa non ti dispiacerebbe. Forse usciresti con gli occhi rapiti, per correre verso il primo macellaio che incontri per strada, dove compreresti un pollo, grosso quanto un gallo. Lo cucineresti in fretta e furia, lo sbraneresti pezzo per pezzo, con certosina calma. Tutto allora sembrerebbe ridursi a desideri reconditi, seguiti e soddisfatti con fredda determinazione.

Un pensiero dopo il biermuseum di Colonia

Credo che alla fine io abbia sempre lasciato gli altri decidere per me. Non che questo sia un problema. Solo che forse ora sono cambiato. Ed ho paura di quello che potrò decidere, anche per gli altri.

Promemoria

Oggi c'era solo una cosa che avrei dovuto fare, e non ho fatto. L'ho scordata.

Tra Amsterdam e Anversa

Un'anatra sta prendendo il bagno dentro un lago. Esce un attimo dall'acqua, sbatte forte le ali, poi si immerge di nuovo. I cerchi concentrici che le si formano attorno allontanano piccole onde che frangono contro i miei piedi nudi.

Tra studenti, in Belgio

Aspetto tra un'orda di studenti che il professore chiami il mio turno. Sono tutti in vestito elegante. Ragazzi indossano giacche stirate e lunghe cravatte monocromo. Le ragazze camminano svelte e nervose, indossano vestiti chiari e leggeri, e sono tutte un po' alte sopra i tacchi. Qualche ragazza di tanto in tanto si sfila le scarpe, per massaggiarsi i piedi, gonfi e indolenziti. Allora sembra che anche tutt'intorno ritorni un minimo di normalità. Tutti hanno assunto un'aria posata. Sembrano tutti bambini diligenti al primo giorno di scuola: nessuno che fiata, nessun lamento. Ma dietro ad occhiali appannati scorgo sguardi stinti, mi accorgo di occhi opachi e stanchi. Vedo solo della gente distrutta e piegata, che sa di non poter essere mai all'altezza della situazione. Sono ragazzi senza possibilità di riscatto. Fuori, il cielo non li copre di sole, ma li tempesta di acqua per duecentosessantacinque giorni all'anno.

Ritorno a giocare

Tiravo calci a pallone in un campo d'erba tirato a lucido. Ma che faceva Mario prima di diventare il giardiniere del nostro campo da calcio? Era per caso già andato in pensione? Ci preparava i panini, ricordo, prima dell'inizio di ogni partita. Col cioccolato. Io, io pretendevo il salame (o formaggio, per dio). Tagliava l'erba con una cura ed una perizia inaudite, perché se avesse lasciato un filo d'erba più lungo degli altri, sicuramente qualcosa sarebbe andato storto. Non c'era mai nulla in disordine nei suoi paraggi.

Cerimonia in parrocchia

Sembra un funerale di stato. Ci sono ventidue preti a celebrare. Il ventre della chiesa sembra esplodere, non riesce a contenere il gemito di tutta questa gente.

Patrie

Mio nonno è morto di cirrosi epatica prima che io lo potessi conoscere. È stato in India, prigioniero di guerra degli inglesi. Lo avevano portato in Australia, per lavorare i campi. In qualche modo, quei lavori forzati gli avevano (suo malgrado) allungato la vita. Poi, lo avevano liberato e riportato a casa, in Libia. Lì, mio nonno ha ripreso a coltivare i campi, e ha cominciato a bere.

È da quando ha otto anni che (don) Fabio dice di voler tornare in Sardegna. È sangue impazzito quello che gli pulsa dentro la testa.

Nonna hai vissuto ventiquattro anni in Libia. Lì hai svernato quattro figli. Ma quanta sabbia hai ingoiato in tutti quegli anni eh nonna?

Il pensiero della buona notte

Rubare non è mai lecito. Ma lo si può fare con stile.

Il circonciso

Alla tenera età di sedici anni, Luca è stato circonciso. Si fosse tenuto il frenulo malandato, urlerebbe alla prima pisciata. Il suo pisello prenderebbe letteralmente fuoco, come se ci si grattasse sopra delle piccole scaglie di peperoncino. Devo ammetterlo, è da giorni che mi trovo a pensare al suo piccolo uccello scappellato. Sembra sempre pronto ad ogni evenienza. Mi rende intontito il pensiero di come il suo pisello sia più bello e pulito del mio.

 

FERMATE

Massimo sarebbe arrivato in ritardo, Valeria lo sapeva.
Era riuscito a prendere il treno solo alle sette. Bologna di mattina gli era sempre piaciuta: la poca gente che girava per i portici lo faceva piano, in silenzio, per non incrinare quella calma asciutta e spettrale. Era come se stesse facendo una passeggiata il papa: intorno, tu non dovevi comunque esserci, sarebbe stata una presenza inopportuna.
Alle otto e mezza stava già in stazione a Padova.

Ricordò le istruzioni: fuori della stazione, la linea blu per Sottomarina. La fermata stava a sinistra, rispetto a quella delle linee cittadine, un po' defilata.
"Chiedi all'autista, per la fermata, ti raccomando" aveva detto Valeria al telefono.
"Piove di Sacco, per l'ospedale" aveva precisato.
Massimo stava pensando a che portare per il viaggio: un libro, della musica da ascoltare.
"Ci mette mezz'oretta" lo aveva rassicurato lei. C'era già andata più volte, per le visite e tutto il resto. Lui l'aveva accompagnata in una sola occasione.
L'autobus tardò, giusto il tempo di lasciare Massimo nelle sue indecisioni. Prima o poi avrebbe dovuto cominciare a studiare per l'esame di filosofia morale: allargò le gambe e le distese lungo il marciapiede, cercò di tenersi in tensione, poi inclinò la testa da un lato ed inspirò forte. Trattenne il respiro. Qualcosa era rimasto in sospeso. L'autobus era arrivato. Cacciò fuori dai polmoni l'aria vecchia, si alzò e prese il suo posto a sedere.
Il viaggio fu piacevole. Fuori le finestre, ottobre stava per finire. Il mattino odorava ancora di calma. Il cielo era terso; non c'era freddo.
Rovistò un attimo fra le cose nello zaino, finche non sentì in mano la forma circolare del lettore cd. Aveva il viso piegato da un lato, appoggiato sul guanciale del sedile davanti: contava le macchine che riuscivano a passare l'autobus in quella strada stretta. Aspettò un poco, poi rimise tutto a posto. Tirò su il busto in posizione eretta, e si mise in ascolto, sicuro di sé.
Gli occhi cadevano, ogni tanto, pesanti: ma non aveva sonno, ed in più notava che c'erano più automobilisti bravi di quanto pensasse.
Tutto era teso e rilassato, lì intorno.

L'autista aveva chiamato la sua fermata. Era stato gentile, a ricordarsi della richiesta di Massimo. Lui ringraziò, e scese. Si abbottonò la giacca, e seguì le indicazioni per l'ospedale: sempre dritto.
L'entrata era un po' defilata, a Massimo sembrò l'avessero spostata, rispetto a prima.
Quando fu sotto quel modesto edificio bianco, squillò il telefono: era Valeria.
"Non è che venendo mi piglieresti una scatola di assorbenti?" chiese "mi avevano consigliato di portarli, ma me li sono scordati".
"Sono già venuto" pensò lui.
"Nessun problema" rispose "a che piano sei?"
"Quinto"
Lui cercò invano una battuta. Si rese conto che bastava stare zitto, senza doverne rendere conto a qualcuno.
Accennò al bel tempo, ed alla lieve brezza che si era alzata: le disse che stava bene, e questa piccola forma di cortesia gli sembrò fosse un semplice dovere, nei suoi confronti.
Mentre parlava si teneva alzato il bavero della giacca con la sinistra: si accorse che l'ultimo bottone era rotto.
"Comunque grazie" disse Valeria, prima di terminare la chiamata.
Massimo tornò indietro sui suoi passi. Trovò un bar, prima della farmacia. Si fermò a fare colazione: non ci aveva neanche pensato, prima. Ora aveva lo stomaco lucido, almeno.
Davanti la farmacia, guardò bene dentro se ci fosse qualcuno.
Dentro, si diresse deciso al banco. Chiese:
"Avete una scatola di assorbenti?"
Rimase in attesa. Aveva detto ciò che doveva dire. Le sue dita cominciarono a muoversi nervose: la risposta non arrivava.
L'infermiera si mise a cercare fra vari scaffali. Pose sul banco quelle che Massimo stimò essere sette scatole: avevano tutte un colore diverso, e diverse dimensioni. L'infermiera le aveva allineate in ordine, una in fianco all'altra. Aveva alzato lo sguardo, e con un placido sorriso, gli aveva fatto capire che doveva scegliere: ma se voleva, ce n'erano delle altre.
Massimo lasciò cadere sconsolato il capo da un lato. Guardò la signora che era appena entrata: aveva una borsa della spesa fatta a mano, tutta ricamata. Aveva l'aria di un'anziana benestante, poetessa di un tempo passato che doveva ancora arrivare.
"Prenda quelli, si fidi" disse, indicando la scatola al centro "sa, io me ne intendo oramai di certe cose". Certe quali?
Aveva uno sguardo strano, come si stesse sempre riferendo a qualcun'altro: c'era da crederle.
Massimo prese quella scatola. Pagò, aspettò che gli si facesse lo scontrino, ed uscì.
Si sentiva al sicuro.

Al quinto piano l'aria era diversa. Il reparto pediatria stava di fianco a quello della maternità. Là ci stavano padri tutti eccitati che lasciavano pensierini sul librone messo apposta lì all'entrata. Dicevano tutti cose belle sui loro figli appena nati, e poi mettevano la loro firma. Qui dove doveva andare Massimo invece ci stavano tanti bimbi già cresciuti: vociavano, ma senza disturbare. Alcuni erano i fratellini di quelli appena nati di là. Andavano e venivano da una sala dove c'era un televisore che trasmetteva cartoni animati. Altri giocavano a rincorrersi, oppure a nascondino. Massimo anche lui si nascondeva: ma era troppo grande, e non ci riusciva.
Era facile trovarlo.

Arrivato alla camera dove stava Valeria, la vide nel letto che ancora riposava. Si fermò a guardarla.
Vicino a lei, nell'altro letto, c'era un'altra ragazza, di colore. Ma non si vedeva, tutta rannicchiata sotto la coperta.
Si sedette sulla sedia ai bordi del letto. Guardò fuori la finestra. Non si era ancora tolto la giacca, per non fare rumore.
Lei dopo un po' di tempo aprì gli occhi, piano, tirando le labbra.
"Come va?" le chiese.
Lei non rispose. Non ce n'era bisogno.
"Tu?" fece di rimando lei, e posò gli occhi sul sacchetto.
"Ho appena fatto colazione" il tono fu di soddisfazione.
Massimo mise il sacchetto sul comodino. Valeria lo ispezionò: tirò fuori lo scontrino.
"L'ho tenuto, nel caso tu volessi cambiarli" si difese.
Non era mai stato così premuroso.
"Non è il caso".

Entrò nella stanza un'infermiera. Prese giù i nomi delle due ragazze. Massimo cercò di capire come si chiamasse quell'altra.
Guardò l'orologio.
"Dovrete aspettare un po', oggi: siete in tante" disse, fredda. Scrisse due cose sulle loro cartelle. Non disse niente: fece un poco ordine nel bagno, e sparì.
Bisogna essere efficienti, prima di tutto: e soprattutto, senza disturbare.
Massimo guardò di nuovo fuori della finestra il bel tempo.
"Mi spiace" disse "comunque oggi non avresti avuto nulla di importante…".
Valeria scosse la testa.
"Tu, piuttosto, va a mangiare. Ti viene tardi".
Lui declinò, dolcemente: era già a posto con stamattina. E comunque, avesse sentito i crampi per la fame certamente sarebbe corso giù a prendersi un panino.
Cominciarono a parlare della settimana passata: erano curiosi di vedere come i loro gesti quotidiani avevano reagito a ciò che era successo. Rilevarono che niente era cambiato.
I discorsi si esaurivano in fretta.
Si accorsero di questo: che quando si è in ospedale, e si parla, nella maggior parte dei casi la via è quella di un'essenzialità minimale che in fondo dà il giusto peso alle cose, o perlomeno fa sentire una persona calata bene nella situazione in cui si ritrova.
Non rimase loro che portare avanti quel giochetto in cui si deve trovare una parola che inizi con le due lettere finali di quella precedente, e via di seguito.
Era un modo innocuo per ingannare il tempo, senza per questo farlo incazzare.
Chissà, prima o poi sarebbe venuto fuori qualche cos'altro di interessante di cui parlare.

Il pomeriggio scendeva lento sul paese. Massimo aveva lasciato sole nella stanza le ragazze a riposare.
Si spinse fino al fondo del corridoio, dove c'era una finestra, che dava sul retro dell'ospedale.
Guardò in basso, nella direzione del parcheggio: vide una signora che aspettava. Camminava avanti e indietro, impaziente. Teneva le gambe incrociate.
Sulla spalla portava una borsetta simile a quella della signora in farmacia, al mattino: ma questa sembrava fatta male, osservata a distanza, tutta sberciata ai lati. E poi, la signora del parcheggio era truccata pesantemente.
Arrivò finalmente una bella macchina, che si fermò di fronte a lei. Qualcuno aprì la portiera, lei fece due o tre passi e salì.
Ci fu una discussione, accesa.
La signora picchiò violentemente la borsetta sul cruscotto.
Massimo notò due righe blu scuro scolpirle le guance.
Piangeva.
Scese dalla macchina, sbattendo risentita la portiera. Prese a sgambettare nella direzione opposta alla macchina. Un uomo elegante sbucò dalla parte del guidatore: le rivolgeva ampi gesti, rassicuranti, le faceva segno di tornare, di non fare la stupida.
Lei disobbedì, scosse la testa nervosa.
Poi si fermò, tornò indietro, pentita.
Ma la macchina aveva già ritrovato la strada: l'uomo aveva ingranato la retro, ed era velocemente ripartito, in una diversa direzione rispetto quella da cui era venuto, una direzione qualsiasi.
Lei incrociò le braccia, alzò gli occhi al cielo.
Affidò quel poco che le rimaneva della sua vita ad un cielo accogliente come pochi.
Aveva perso un'occasione di svolta, come tante.

Quando portarono Valeria in sala operatoria, Massimo passò il tempo a giocare con un bambino. Come tutti gli altri, gli ricordava lui da piccolo: solo che era più bello e simpatico lui.
Il bambino, ovviamente.
Si nascondeva: era perché aveva paura di lui, diceva. Ma in realtà sorrideva, ed ogni volta controllava che Massimo lo cercasse: ma cosi si faceva scoprire facilmente. Allora Massimo stava al gioco, si sforzava di fare facce buffe, per spaventarlo, e far sì che dopo lui girasse di nuovo lo sguardo per vedere se lui fosse stato ancora lì ad attenderlo.
Ad un certo punto arrivò la nonna, che continuava a ripetere al bimbo che non doveva avere paura.
"E' un papà anche lui, lo sai?" gli disse. Il bambino non capiva, sembrava non dare molto credito a ciò che diceva sua nonna.
Gli si era avvicinato, stavolta, per vedere da sé se questa cosa fosse vera: guardava Massimo con occhi sgranati. Lui lo sapeva, che non stavano cosi, le cose: non odorava di papà, quel tizio magro e col naso a becco.
Il presunto papà non sapeva cosa fare. Stava immobile.
Gli chiese, la nonna, quando furono più vicini:
"E' maschio o femmina?".
"Veramente è un'interruzione di gravidanza" disse piano il presunto padre.
Guardò il bambino, lo guardò a lungo, mentre si allontanava trascinato dalla nonna in modo morbido e deciso.
Rimase immobile, Massimo. Non doveva spiegare niente, dopotutto. Sapeva che quel gesto non era sbagliato: tutto si stava chiarendo come innocuo e naturale.
Certo, avrebbe voluto sapere che cosa voleva dire sentirsi strappare un pezzo di sé dal grembo.
Ma in fondo che cosa sarebbe cambiato?
Fissò i muri ingialliti: non avevano crepe, li avevano proprio ritinteggiati di merda.
Ricordò il giorno dopo in cui lei fece il test, da sola: lui corse a Padova, lei lo venne a prendere in stazione in bicicletta.
Rideva, isterica: piangeva.
Aveva dato la colpa al forte vento.

Il vento le scompigliava i capelli.
Tutto era andato per il meglio, sembrava.
Massimo voleva sapere tante cose: a lei, quelle cose non servivano più. Gli stringeva la mano non troppo convinta.
Doveva solo prendere certe medicine, fare alcuni esami di controllo. Va tutto bene, ripeteva, va tutto bene.
"E poi dai, è passata". E' passata.
Si, ma cosa?

Andando verso la fermata dell'autobus, si persero.
Era sera, non c'era buio.
Persero l'autobus che dovevano prendere: mangiarono qualcosa nel bar lì di fronte.
Le cose da mangiare messe in esposizione erano un avvertimento. Comprarono delle patatine, già confezionate: le mangiarono dentro solo per poter stare seduti.
Non parlavano.
C'era una violenza di fondo, nei loro silenzi.
La consapevolezza di non voler essere li, insieme.
Abbiamo fatto la cosa giusta, si ripetevano in continuazione.
Ma tutti e due sapevano che non potevano fare di più.
Allora cercarono di penetrare il vuoto che c'era in quella fermata.
Controllarono gli orari: non c'erano piani da cambiare.
Valutarono le direzioni: da una parte si tornava, dall'altra pure, ma in tempi diversi.
Erano certi di aver scelto la sponda giusta.
Videro l'autobus arrivare.
Era in anticipo.