Per ALOSI, Bianca Maria Folino propone gli incipit
di tre suoi romanzi.
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LA
LUCE SOFFUSA DELLA LUNA
Da madre a figlia, complici
per la vita.
Biancamaria Folino
La luna è un mondo magico che è
in ognuno di noi. Non sappiamo veramente cosa sia, un archetipo che ci cattura. Lì,
buttiamo tutti i nostri sogni e desideri nascosti, lì immaginiamo infiniti mondi
inesistenti, le nostre vite, quelle che avremmo voluto vivere.
Sembra un'amica sincera, contro cui sfogarsi della rabbia o con cui piangere la perdita di
un amico. Le cantiamo serenate e la contempliamo, quasi avesse in se segreti da scoprire.
Fin dal passato, è un arcano che ritorna, qualcosa che identifichiamo come una madre,
forse perchè influenza strettamente le maree e l'acqua è da sempre simbolo di vita.
Ma è una madre ideale, non certo
reale come la carnale terra, la luna è un sogno da cui non risvegliarsi mai.
La luna è donna e, come madre e
figlia, strizza l'occhio in un'intesa complice mentre noi la guardiamo sorridere.
C' è una ragazza che la guarda.
Dentro casa, è buio, le luci sono spente e lei rimane lì, alla finestra, a contemplare
quel bellissimo cielo di stelle. La notte è fonda e invita a ricordare giorni passati, a
rivedere eventi e storie mai nate.
Sul tavolo c'è un quaderno dalla
copertina sgualcita, rosa.
Un quaderno rosa, dove ogni
giorno, ormai da anni, Eleonora scrive qualcosa senza sapere perchè, sa solo che in quei
fogli c'è tutta la sua vita.
E adesso l'ha lasciato sul tavolo
del salotto, per guardare fuori dalla finestra, quella pallida luna dalla luce fioca. Le
piacerebbe immergersi in quelle rotondità, fondersi con essa e non trova parole per poter
spiegare quello stato d'animo in cui si è calata.
Non esistono parole per la luna e
Eleonora lo sa. E' solo un sogno dal quale presto si sveglierà per riprendere la vita
normale, e l'estro ansioso di tutti i giorni, sempre pieni, senza sosta.
Due bambini, un lavoro e una
casa, una famiglia come tante e sogni come tanti, inghiottiti dalla quotidianità senza
tregua. Eleonora non ha il tempo per fermarsi, durante la giornata, a pensare o inventare.
Aspetta la notte e la luna che sorge alta nel cielo e le riporta voci e immagini. Poi, le
riscrive sul suo quaderno rosa.
Ma questa, è una sera speciale.
Suo marito è in viaggio per lavoro, i bambini dormono e lei ha spento tutte le luci di
casa, ha tirato le tende e si è messa a guardare fuori, senza sapere bene perchè. Guarda
la luna e i suoi ricordi, i giorni passati e i sogni sfumati e si accorge che questa è la
vera storia.
C'è tutto, trama, intreccio e
personaggi, principali e secondari, ed è la luna a illuminarle il viso.
Non ha trovato le risposte, ma ha
capito che forse è la storia stessa ad essere importante, come fosse un percorso, non
sempre soddisfacente, ma importante. Come quella luce soffusa così essenziale, così
bella. E' questo suo essere bella a giustificarne l'esistenza. E tutti i sogni buttati
sulla luna dagli uomini, improvvisamente, sembrano posarsi sugli occhi di Eleonora che
adesso si è voltata per guardare il suo quaderno rosa, quasi volesse assicurarsi della
sua presenza.
Forse è solo la mia disperazione
che mi avvicina ancora alle parole senza mai toccarle veramente Solo sfiorandole come
nuvole di fate che si perdono tra rumori notturni e felici ritornano in un volo di stelle.
Eleonora continuava a portarsi
dietro quel quaderno un po' sgualcito dalla copertina rosa. Non sapeva perchè, ma non
riusciva a staccarsene. Ogni tanto lo apriva e leggeva quello che aveva scritto con mano
leggera, poesie veloci.
Si sentiva un po' triste, senza
conoscerne il motivo. Era come se le mancasse qualcosa.....già, qualcosa....quando aveva
diciotto anni qualcuno, forse sua madre, le aveva detto che era normale sentirsi così
alla sua età.
Ma con il tempo non era passato,
aveva cercato, aveva sperato anche, ma la tristezza rimaneva lì, come una seconda pelle,
un abito stanco che con gli anni si arricchiva di rabbia.
Rabbia da urlare a squarciagola:
"Perchè alla donne dovrebbe essere riservato questo destino?" si domandava.
In qualche momento aveva
desiderato di non essere più una donna.
Era come portarsi addosso il peso
d'una responsabilità millenaria.
Non aveva più diciotto anni, ne
aveva trentacinque, si era laureata e aveva trovato una serie di lavori precari.
La chiamavano
"disoccupazione intellettuale", ma a Eleonora sembrava semplice disoccupazione e
basta.
Si era sposata e aveva avuto due
figli. Gran parte della giornata la passava a casa e l'unico lavoro trovato era una
collaborazione con un settimanale locale.
Le piaceva scrivere per il
giornale e le lasciava il tempo per dedicarsi ai figli con la speranza futura di
collaborare di più. Una speranza che si faceva sempre più fievole con l'avvicinarsi del
futuro.
Uno stipendio magro e la
consapevolezza che, comunque, sarebbe stata lei a rinunciare.
"Non è giusto" si
ripeteva e sentiva il peso di quella rinuncia.
Amava i suoi figli, più di ogni
altra cosa, ma pensava di non averli fatti da sola, anche se tale si sentiva nel
crescerli.
Il compito maggiore era suo ed
era vano tentare di dividerlo con il marito.
"Gli uomini sono sempre
impegnati altrove e dimostrano sempre poca pazienza -diceva- quando tornano a casa non ne
vogliono sapere di giochi e pianti, devono rilassarsi. E devono rilassarsi anche durante
il week-end, loro non possono....".
Certo, Eleonora avrebbe potuto
alzare le spalle, far finta di nulla e inseguire la propria vita, senza rinunce, ma
proprio non se la sentiva di abbandonare così i propri figli. Avevano bisogno di qualcuno
per imparare a vivere, anche se non era giusto che quel qualcuno fosse sempre lei. Ma
rimaneva lì con loro, rimandando la propria vita.
Unica vera costante era quel
quaderno dalla copertina rosa e la magia delle parole che, come una catena genetica,
formava poesia.
Non esisteva un momento preciso
per scrivere, le parole arrivavano inaspettate ma Eleonora sapeva bene che erano il frutto
di una lenta elaborazione interiore che poi esplodeva in un bagliore.
Tutto, poteva essere trasformato
in poesia così che la vita scivolasse nella finzione.
Ma questo aumentava quella stilla
di tristezza.
Forse non era tristezza, ma una
specie di ansia che la spingeva all'iperattività. Non le faceva godere niente, come
un'anima inquieta che vaga ovunque, anche sulle facce altrui.
Talvolta ritrovava quello stesso
modo d'essere in suo figlio maggiore e allora provava un nodo alla gola.
"Non sarà mai felice,
così" si ripeteva conscia di quello che quel bambino avrebbe sentito una volta
diventato adulto. Lo percepiva da quel suo muoversi annoiato per la casa, quando la
tormentava di controsensi.
"Smettila di fare l'anima in
pena" diceva Eleonora.
"Mamma, cos'è un'anima in
pena?" chiedeva il bambino continuando a bombardarla di assurde pretese.
"E' qualcuno che soffre
molto" rispondeva Eleonora sapendo che non sarebbe servito a nulla.
Si nasce in una certa maniera.
Non voleva quell'inquietudine per
suo figlio e cercava di stargli vicino, come e quando poteva.
Cercava di parlare con lui di
ciò che provava, definendo quelle sensazioni a lui sconosciute e nominandole. Era
convinta che se fosse stata in grado di insegnargli a riconoscere le emozioni, lui avrebbe
potuto imparare a capire cosa c'era che non andava.
Certo, non era cosa facile,
bisognava avere molta pazienza e l'empatia necessaria al contatto.
Bisognava cercare di entrare nel
suo mondo, visitarlo e dare un nome alle cose, anche a quelle più confuse.
Ma forse, suo figlio sarebbe
riuscito a gestire meglio il proprio mondo emotivo. Meglio di quanto aveva fatto lei.
La poesia le dava un momentaneo
sollievo che allargava ancor più il baratro con il reale, ma nonostante capisse che era
così, non ne poteva fare a meno.
Le immagini si accavallavano,
come spume bianche che inseguivano le onde del mare. Erano sogni continui e inevitabili.
Non le restava altro che
continuare a sognare. Nella speranza che la bolla di sapone nella quale viveva non
scoppiasse mai.
Il segreto del non cedere alla
schizofrenia era quello di pubblicare ciò che aveva scritto e Eleonora ci aveva provato a
varcare la grande porta del mondo editoriale, ma questa non aveva ceduto alla sua
pressione. Si era rivolta allora a piccoli editori per i quali il suo grande talento
cessava di essere tale nel momento in cui si rifiutava di partecipare alle spese, che
erano sempre nell'ordine di diversi milioni.
Aveva pubblicato qualcosa su
alcune riviste e vinto un paio di concorsi letterari, ma nulla di più.
Forse, l'episodio più comico
risaliva a dieci anni prima, quando sua madre con tono entusiasta le consegnò una
lettera: "Hai vinto un premio europeo!" le disse.
Piena di speranza, Eleonora prese
la lettera, ma giunta a metà guardò sua madre con aria perplessa:
"Non l'hai letta tutta,
vero?" le chiese.
"No, perchè?" rispose
la madre con aria interrogativa.
"Devo pagare 250.000 lire
per averlo" disse Eleonora e scoppiarono a ridere.
Era andata così, ma la poesia
non l'abbandonò mai e lei continuò a scrivere e a far scivolare immagini sul suo
quaderno rosa con il pensiero che sarebbero state il vero lascito ai suoi figli.
Avrebbe lasciato loro il proprio
mondo, fatto di sillabe distorte e urli mozzati, fatto di blu e di vento, di acqua e di
mare.
Continuava comunque a scrivere
per il giornale e anche se era diverso, si trattava pur sempre di un mondo affascinante.
Qui, le parole erano più
ordinate e poche le immagini, perchè l'informazione doveva essere chiara e comprensibile
a tutti. Ma era bello sentire il fruscio della carta stampata tra le mani, sapendo cosa
stava dietro a quei fogli, conoscendo ogni fase del lavoro e ripercorrendola con la mente.
GLI
UNIVERSI PARALLELI
A tutti quegli amici a cui ho
rubato...i sogni.
I DUE MONDI
Era, di nuovo, in ritardo. Il
traffico intenso e le lunghe code ai semafori lo spazientivano. Ma, nell'ora di punta, era
sempre così, per quanto imprecasse contro il suo vicino che tentava di tagliargli la
strada e continuasse a tenere il piede contro l'acceleratore. Era impossibile essere
puntuali, in quelle condizioni. "Perché diavolo mi preoccupo! Tanto, gli altri mi
terranno il posto..... e forza, datti una mossa, non possiamo mica far notte!" Le
auto sembravano immobili, come se fossero state incollate all'asfalto e il tempo
rallentava, fino a fermarsi. Alzò il volume della radio ed imboccò la provinciale verso
Lecco. Finalmente, poteva premere il pedale e canticchiare un po'. Forse, in un quarto
d'ora ce l'avrebbe fatta. Parcheggiò con aria distratta e troppa fretta, senza accorgersi
che era rimasto quasi in mezzo alla via. Estrasse l'autoradio e dimenticò di inserire
l'antifurto pensando: "Se mi vedesse Claudio.....! Ma si, lui è un maniaco di queste
cose" Fuori dal ristorante, stava un gruppo di ragazze giovani che ridevano.
Sembravano stare bene, insieme e Aldo notò subito che una di loro stava distribuendo alle
amiche dei sacchetti di confetti. "Forse, si sposa, è un addio al celibato, anzi
no..... come si dice in questi casi?" pensò. Entrò con aria nervosa e trovò gli
amici comodamente seduti e pronti a canzonarlo. Era sempre così, quando si ritrovavano:
erano vecchi compagni di scuola che ogni tanto, anche se sempre più di rado, cenavano
insieme cercando di ricreare quel clima spensierato degli anni scolastici. Allora, erano
molto uniti, ma: "Il tempo divide, si sa, è un concetto entrato a far parte del buon
senso comune: si trova un lavoro, una moglie e poi i figli. Le strade si dividono, è
inevitabile che succeda" pensò mentre li salutava. Aldo accettò di buon grado le
prese in giro degli amici, sorridendo e si sedette tra loro. Avrebbero fatto senz'altro
tardi, insieme: una parola dopo l'altra, un discorso dopo l'altro. Prima sarebbero venute
le novità, poi i ricordi con qualche risata e, infine, il più e il meno. Facevano sempre
tardi, quando uscivano a cena, non la finivano mai di parlare. E, dopo il ristorante, di
solito seguiva qualche locale dove ascoltare musica e bere qualcosa. Mentre ordinavano,
Aldo guardò quei volti che, a tratti, gli sembravano tanto lontani da lui. Con loro,
aveva frequentato una scuola professionale e, dopo il diploma, aveva proseguito gli studi
fino alla laurea recente, nonostante i suoi trent'anni. C'era qualcosa che non era
cambiato durante tutti quegli anni: la musica.
Aldo lavorava in uno studio di
registrazione; arrangiava pezzi di altri, prestava la voce o il proprio strumento, il
pianoforte o, ancora, componeva per altri. Certo, non era un granchè, lo stipendio era
piuttosto basso e gli orari di lavoro, irregolari. Sperava che, un giorno o l'altro,
qualcuno avrebbe accettato le sue opere, ma fino ad adesso ne aveva ricavato poche
soddisfazioni. E la sua laurea in filosofia, non lo aveva certo aiutato. Aveva studiato e
lavorato e, mentre i suoi amici cambiavano la macchina o compravano nuovi stereo, lui
rimaneva a guardare, senza poterselo permettere. Si era laureato con una tesi di indirizzo
psicopedagogico, riguardante la frustrazione ed il modo, dei bambini, di superarla. Gli
era piaciuto studiare psicologia e pedagogia, aveva amato quei bambini che leggeva sulle
ricerche degli studiosi. Erano diventati i suoi bambini. Aldo percepiva una sorta di
scissione, in sè. Da una parte, stava la musica, una passione irrazionale che sentiva
scoppiare dentro e culminare nella perfetta razionalità delle note composte in logica
successione. Ma c'era un'altra faccia, quella dello studioso, dello psicologo indagatore,
per il quale la sfera irrazionale era un fenomeno da studiare, soprattutto nei suoi
aspetti patologici. I due 'sè' sembravano escludersi l'un l'altro, come fossero stati
opposti segni matematici di un'equazione. Eppure convivevano. Aldo non era certo che
avrebbe potuto mantenere quella compatibilità a lungo: probabilmente, un giorno avrebbe
dovuto scegliere tra le due, la strada a lui più congeniale. Per il momento, si limitava
ad accettare quella convivenza. Guardò dall'altra parte della sala. Quelle ragazze che,
qualche minuto prima stavano fuori dal ristorante, si erano sedute e banchettavano
allegramente. Una di loro era molto carina, bruna con gli occhi allungati, vivaci ed un
sorriso quasi perfetto. La stava fissando, doveva distogliere lo sguardo. Ripensò alla
sua vita sentimentale..... che sfacelo! Qualche avventura, brevi giorni che non lasciavano
nessun sapore in bocca, le facce perdevano i propri contorni, si confondevano
sovrapponendosi. Forse, rimanevano solo i nomi,ma ormai avevano poca importanza. E poi,
l'amore, l'unica storia importante della sua vita. Lei si chiamava Sara, esile e bella,
allegra e piena di entusiasmo. Era come la musica, l'aveva sempre sognata e in quel
periodo non gli sembrava possibile che esistesse, che fosse lì con lui, ad ascoltarlo
suonare. Aveva composto diversi brani per lei..... era incredibile passare la notte
insieme, sentirsi così vicini, all'unisono. Non sapeva ancora bene così era capitato
dopo otto mesi, Sara aveva incominciato ad allontanarsi sempre più, sembrava infastidita
da qualcosa o delusa. Qualche discussione e qualche disperato tentativo di Aldo di
riavvicinarla a sè e poi, più nulla, Sara era sparita. Aldo si era sentito morire
dentro. Come se fosse stato schiacciato da un macigno. Non riusciva a capire cos'era
successo, nè come era potuto accadere. Si sentiva tradito, ingiustamente abbandonato e
sempre più innamorato. Voleva parlare, chiarire le cose, capire. Ma Sara non ne voleva
sapere. Poi, lentamente, la vita aveva ripreso il suo corso, ma nessuna donna avrebbe
potuto essere come lei. I giorni scorrevano di nuovo, uno dopo l'altro, senza nessun
entusiasmo e con le solite sporadiche avventure che contavano poco, servivano solo a
stordirsi, tentando di dimenticare. Era impossibile dimenticare, quella ragazza dall'altra
parte della sala gli ricordava vagamente Sara..... tutta la sua vita aveva avuto il suo
centro irradiatore in lei, come un'ossessione, dolce prima e poi cattiva, qualcosa di cui
liberarsi. La stava fissando di nuovo..... forse era giunto il momento di innamorarsi
ancora. Ne aveva voglia, nonostante l'apatia ed il grigiore che la delusione porta in sè.
"Nessuna può essere come lei e se lei non mi ha amato....." pensò mentre
sentiva le voci degli amici che incominciavano ad ordinare. "Allora, vino rosso o
bianco?" chiese Andrea, poi gli toccò una spalla: "Dì, Aldo, ti sei
incantato?" Aldo sorrise, distolse lo sguardo dalla ragazza e abbassando la voce
disse: "Guarda lì, ho avuto una visione" indicò il tavolo delle ragazze agli
amici che presero a scherzare assumendo il tono spavaldo dei compagni di scuola che
preparano una marachella. Con la coda dell'occhio, Aldo poteva vedere quella ragazza.
Adesso era lei, a fissarlo.
Cinzia si sentiva osservata con
insistenza e questo le procurava un leggero fastidio che la distraeva dalla conversazione
con le amiche. Quella sera, si erano ritrovate per festeggiare Serena che si sarebbe
sposata a giorni. Sembrava molto eccitata,mentre distribuiva i confetti avvolti in
sacchetti di panno color pastello a cui era unito un mazzolino di fiori secchi. Era
delizioso e Cinzia decise che l'avrebbe conservato, in un angolo della sua camera sempre
disordinata. Non poteva farci niente, era più forte di lei, cercava di mettere tutto in
ordine, ma dopo pochi giorni sentiva sua madre che la rimproverava dello stato pietoso in
cui lasciava tutto. "Io ci sto bene nel mio disordine" cercava di replicare.
Venticinque anni, un lavoro di segretaria e l'amore per i viaggi, un ragazzo saltuario che
la occupava per qualche serata, questa era la sua vita. Si era diplomata in ragioneria
come le sue amiche, vecchie compagne di scuola che l'avevano considerata sempre un po'
svampita e spesso la prendevano in giro, scherzando sulle sue frasi ingenue. Lei era
sempre stata considerata la sorellina piccola del gruppo e la cosa non le era mai
dispiaciuta più di tanto. Certo, adesso stavano crescendo e le cose erano cambiate. A
diciassette anni, avrebbero pensato che proprio lei, Cinzia, sarebbe stata la prima a
sposarsi, mentre adesso sapevano che, probabilmente, sarebbe stata l'ultima.
"Perché sposarsi? Per
quella vita di noia? No, non fa per me" Cinzia non aveva un alto concetto della vita
coniugale. Sacrificare la propria libertà per un susseguirsi di giorni tutti uguali,
magari la venuta di un figlio... no, si sentiva ancora troppo giovane per questo o, forse,
non aveva ancora incontrato la persona giusta. Eppure una volta, quando stava ancora con
Marco, ci aveva pensato. La loro storia era durata per anni, fino al giorno in cui quel
maledetto incidente non aveva cambiato tutto. Stavano ornando dal mare, lei e Marco, in
moto. La giornata era stupenda e la strada sembrava libera, ma arrivati ad una curva,
quella maledetta macchia d'olio li fece scivolare. Per fortuna, dietro a loro, stavano gli
amici che poterono soccorrerli subito. Niente di gravissimo, ma Cinzia riportò la
frattura del femore. La guarigione si rivelò un inferno: per il primo anno quasi
totalmente immobile; fisioterapia, ma senza caricare la gamba del peso del corpo. Poi,
un'altra operazione e ancora ginnastica e riabilitazione. In tutto due anni, lunghissimi.
Giorni che non scorrevano mai, non poteva certo pensare al lavoro, doveva aspettare di
essere guarita. Frequentò un corso di fotografia e iniziò ad interessarsi a possibili
viaggi: quando c'è tanto tempo, la fantasia corre e, con essa, il pensiero. Sentiva la
noia, tra lei e Marco, forse era stata l'abitudine ad averli tenuti insieme per tutto quel
tempo, a farli pensare di sposarsi ma, adesso che Cinzia poteva fantasticare, si
avvicinava il dubbio e la crisi, la voglia di andare lontano, di domandarsi se c'erano
alternative. E durante l'estate, passata in Sicilia con i genitori, Cinzia incontrò
Michel, uno scultore parigino che si innamorò di lei in una maniera intensa e profonda.
"Hai delle belle mani, impari in fretta" le diceva mentre le insegnava i segreti
di quell'arte plastica. Cinzia si lasciò andare a quell'amore estivo che le ridiede
l'entusiasmo che aveva prima dell'incidente. "Vieni con me a Parigi, staremo
benissimo insieme" le propose Michel il giorno della partenza. Ma Cinzia non se la
sentiva. Aveva appena imparato qualcosa: doveva crescere, incominciare a guardarsi dentro
e non buttarsi a capofitto lasciandosi trascinare dalla corrente.
La sua vita era cambiata, in un
certo senso. Si sentiva più indipendente, grande e voleva essere libera di fare le
proprie scelte. Con Marco era finita, per sempre. Guardò Serena che sembrava così felice
e si domandò se provava invidia. "No, non credo, non è il mio momento; quando lo
sarà, non ci saranno dubbi" Quel ragazzo continuava a fissarla stranamente e le sue
amiche la canzonarono: "Ci sei? Sei tra noi?" Lei rise, poi aggiunse: "C'è
uno laggiù, che mi fissa" "Sei sempre la solita rubacuori, adesso accalappi
anche gli sconosciuti!" le disse Sofia. "No, ti assicuro, mi dà quasi
fastidio" rispose Cinzia. "Gli uomini quando sono insieme devono per forza
tirare fuori le loro virili doti di pappagalli" aggiunse Anna ironica. Qualcuna di
loro scherzò sul fatto che quel ragazzo non era niente male, che Cinzia poteva anche
provare a lanciargli una strizzatina d'occhio. "Si spaventerebbe come ogni uomo
quando viene affrontato direttamente" disse Laura. E continuarono così, fino a che
Serena non le interruppe: "Bene, e dopo aver decretato che gli uomini sono dei gran
maiali, a parte il vostro cattivo gusto visto che tra qualche giorno mi sposo con uno di
loro, brindiamo" ed esplose in una gran risata. "Brindiamo a che?" chiese
Nicoletta. "Ma al mio matrimonio, naturalmente!" rispose trionfante Serena.
"Sì brindiamo, ne avrai bisogno, tra un bucato e l'altro!" scherzò Cinzia.
"Non lo sai che oggi, ci sono le lavatrici?" replicò Maria. E continuarono a
ridere scambiandosi battute. Il loro vociare allegro arrivava ovunque, anche all'altra
parte della sala, dove c'era il tavolo dei ragazzi che stavano ancora prendendo in giro
Aldo, perché era distratto. "Possibile che ovunque tu sia trovi un ragazza da
fissare?" lo interrogava Claudio. "Sei un vero maniaco!" aggiungeva
Stefano. "Se vuoi te la possiamo presentare" disse Gianni. "Ah no! tu poi,
stai zitto che con tutte le mogli che hai, ti potrebbero chiamare Barbablù" rispose
Andrea. "Io non c'entro, sono un uomo sposato!" disse Gianpaolo..
"Che c'entra? Anch'io lo
sono e più volte!" rispose Gianni, ridendo. Secondo loro, tra uomini si stava
meglio, c'era più allegria: quando c'era una donna, iniziavano subito i problemi. Era
meglio ordinare e continuare a chiacchierare raccontando le novità o i vecchi ricordi che
li riportavano indietro, alla scuola, ai pomeriggi passati al parco a suonare la chitarra
organizzando l'assemblea del giorno dopo o la manifestazione: l'A.T.M. aveva aumentato il
prezzo del biglietto tranviario, era una cosa insostenibile. Ricordarono i pennarelli ed i
grandi tazebao per i quali bisognava cercare qualcuno che avesse una bella calligrafia,
leggibile e chiara. Non avevano bisogno di molto, allora, per stare bene e si sentivano
forti, più di qualunque altro, più di qualsiasi cosa. Avevano giorni stupendi davanti a
loro, tutto il mondo li aspettava e avrebbero fatto grandi cose. Il tempo, li avrebbe
certamente delusi riducendo notevolmente quella sensazione d'onnipotenza, ma ricordare era
piacevole, era rivivere tutto quel fervore giovanile. Forse era mutato qualcosa, intorno,
la gente non sembrava più la stessa, i cambiamenti si erano susseguiti velocemente nel
paese e loro non riuscivano a rivedersi nelle nuove generazioni. "Pensano solo a
ballare in discoteche dove la musica è un vuoto martellare, sempre uguale, senza nessun
spessore" disse Aldo. "E poi, non sanno stare insieme" aggiunse Andrea.
"Si, noi eravamo diversi, loro hanno troppo" concluse Claudio. Forse, era colpa
del tempo che sembrava non passare; loro erano effettivamente diversi dai quei giovani
moderni che amavano tanto la televisione, come ogni generazione è diversa da quella che
la segue, ma esageravano leggermente l'importanza dei propri gesti. La memoria sembrava
aver posato un velo sulle battute stupide o sugli scherzi infantili, inevitabili perché
dettati dall'età. Si rivedevano giovani, ma con la testa dei trent'anni e con la stessa
sopraggiunta maturità. E, in fondo, anche loro non erano meno confusi di quei ragazzini
tutto pepe che non leggevano il giornale e fremevano attendendo il momento per andare in
discoteca.
VERSIONI
INCROCIATE
E' una giornata stupenda. La
calotta azzurra del cielo sembra invitare al volo, mentre il vento libera la scena dalle
nuvole. L'aria è tiepida e i rami secchi dell'inverno allungano le proprie dita. Marco mi
ha invitato in montagna, per una passeggiata tra i boschi, ma io non ne ho voglia;
preferisco rimanere qui, a guardare fuori dalla finestra. Ad aspettare che arrivi il
tramonto. Poi, la notte. Potrei scrivere qualcosa........... tanto, non metteranno mai
niente in scena, di quello che io invento. Scrivo solo su quaderni ecologici, carta
riciclata, un retaggio del passato. Non posso fare a meno d'amare la natura e
ringraziarla, ogni giorno, cercando di rispettarla. Quando ero più giovane, sognavo
d'andare a vivere altrove, lontano dalla città. Ma, allora, ero anche innamorato:
"Ci pensi, Flavia? Vivere in campagna, allevando pecore ed andando a cavallo"
"Riusciresti ad abituarti a quei ritmi?" "Certo, ci vorrebbe del tempo,
ma..... perché no?" "Non so....." Flavia era sempre dubbiosa, come un
coniglio dagli occhi impauriti, si spaventava per ogni novità. Era un'insicura ed ogni
tanto cercava di lottare contro se stessa, ma il risultato era solo una sparata
aggressiva. Un attimo, poi, tornava ad essere quella di sempre, a cercare punti fermi e
saldi. Ma anche lei amava il verde e gli alberi; sapevo che sarebbe corsa a casa a
preparare le valigie, se solo glielo avessi chiesto. Una volta, siamo andati in
Jugoslavia, in agosto, sul fiume Ombla, vicino a Dubrovnjck. Ero capace di stare le ore,
seduto a guardare l'acqua che scorreva tranquilla, fino a tuffarsi nel mare. Aspettavo che
arrivasse il tramonto, come adesso, per assaporare quel fuoco che inondava il cielo. Io e
Flavia, seduti uno accanto all'altra, in silenzio. Era una vera pace. Ci guardavamo
felici, ogni tanto l'abbracciavo, lei posava la testa sulle mie ginocchia e lasciava che
io le accarezzassi i capelli. Durante quei giorni, Flavia aveva adottato un cucciolo di
cane, un bastardino dal pelo chiaro ed il muso buffo che atteggiava in strane smorfie;
aveva una macchia nera sull'occhio sinistro. "Come dovrei chiamarlo, secondo
te?" continuava a domandare Flavia, ma in realtà lo chiedeva a se stessa.
"Non so" rispondevo
"come ti senti di chiamarlo?"
Lei arricciava il naso, faceva
sempre così, quando frugava nella propria mente per trovare una risposta. "Zuppa, lo
chiamerò Zuppa" E lo stringeva, quasi soffocandolo. "Non posso lasciarlo"
disse, il giorno in cui dovevamo partire; e lo portò con sè. Zuppa è diventato un cane
meraviglioso, è intelligente e sempre attento. Chissà dove sarà, adesso..... chissà
Flavia, se ancora si ricorda di me. Credo che il cielo esploderà nell'azzurro, è troppo
bello, oggi. Marco e Giorgia stanno organizzando una specie di riunione- revival, per il
prossimo week-end. Non so se ci sarò. Questi ricordi, mi fanno venire la malinconia:
ritrovarsi, per misurare le nostre delusioni, cercando di rivivere un passato che è ormai
morto. Anni fa, eravamo inseparabili, Marco, Giorgia, Michele, Marta, Monica, Gianni,
Alessandra ed io. Uscivamo spesso insieme ed eravamo a scuola insieme; poi, il lavoro,
forse le scelte diverse, non so cosa sia stato, ma non ci siamo trovati più. Ognuno di
noi era troppo preso dai suoi stessi sogni, per ascoltare l'altro. Non credo che ci
andrò.
Terra di roccia, dura al tatto
degli occhi, prende i colori riflessi, rilucendo nel buio, come fosse coperta di neve.
Agogna sorrisi d'acqua, pur avendo verdi radici che si sparpagliano. Pietre grigie e
l'odore della polvere, distese di sassi scottati dal sole. La linea di fumo è
perpendicolare all'aria, dove la brace rosseggia; disegna contorni al movimento, come
danze oniriche; le mie scene roteano, ribelli ad ogni regola formale, come il mio essere
che non sopporta costrizioni, catene soffocanti. Le mie commedie cambiano, come le
stagioni, con colori nuovi, ogni tre mesi. Sto fumando troppo e scrivo poco.
Guardo la striscia di fumo che
sale verso il soffitto e penso alla Jugoslavia, alla sua terra brulla, vicino al mare e
ricca di boschi, nell'interno. I suoi fiumi erano puliti, incontaminati, come gli occhi di
Flavia. Mi tuffavo, assaporando l'acqua gelida dell'Ombla o gli spruzzi salati del mare.
Io e Flavia passeggiavamo, mano nella mano, ed io raccontavo della mia infanzia, delle
estati passate in colonia, dei giochi che inventavo. "Insegnami a tirare i sassi a
pelo d'acqua" mi chiedeva con ansia. "Ecco, prendine uno piatto, tienilo così,
tra il pollice e l'indice e adesso..... tiralo!" Lei ascoltava, con la massima
attenzione, seguiva le mie istruzioni, concentrata. Ripetè quel gioco, finché il suo
sasso non riuscì a saltare per quattro volte. Era contenta. Eravamo giovani, belli e
giovani: bastava gettare un sasso nell'acqua per essere felici, guardare le eco dei cerchi
concentrici e immaginare chissà quali favole su quelle vibrazioni che si allungavano a
macchia d'olio. Vivevamo di sensazioni e ci bastava poco, per stare bene. Adesso, cosa ci
è successo? Come abbiamo fatto a complicare tanto la scena, a renderla multiforme,
immagine dopo immagine, figure che si sovrappongono, scontrandosi? Accendo un'altra
sigaretta, crogiolandomi nella mia stessa pigrizia, nel dolore. Questa disperazione che
beve i miei sguardi e invade i miei occhi; di notte, diventa angoscia e si stringe sulla
bocca del mio stomaco, prende spazio nel silenzio del sonno e mi tormenta. Potrei
ascoltare un po' di musica. Non passerebbe, comunque. Devo pur fare qualcosa, per fermare
questo stato d'animo, essere tranquillo, sereno. Potrei ripensarci e andare da Marco.....
no, non me la sento proprio di rivangare tra le cose vecchie, fare gruppo, ridendo e
tenendo ben stretta e serrata l'amarezza. Sono sempre stato così, come un filo sospeso
tra l'agire e la quiete. Ho sempre sognato grandi avventure, ma non ho mai saputo
accettare le incertezze che una vita del genere comportava. Io volevo rapporti saldi, non
potevo sentirmi relativo, io cercavo l'assoluto. Ho 40 anni e tutto si sta spezzando,
dentro; come se il passato avesse generato una serie di crepe che adesso si allargano,
sgretolando tutto.
Io non ero più sicuro di Flavia,
solo che lei era come l'acqua limpida, trasparente. Mentre io cercavo di dominare ogni
timore con il mio autocontrollo. E, forse ero io, ad aver bisogno di lei.
La mia insicurezza è cresciuta
con me: da bambino ero un gran timido e da ragazzo ero quello che si dice la "tipica
frana". Incapace di chiedere un appuntamento, scrivevo poesie e mi vergognavo della
mia sensibilità. Le ragazze mi spaventavano. Certo, dovevo sembrare parecchio buffo! Con
il tempo, si cambia, si impara ad esibire una maschera posticcia, una relativa sicurezza
che serve all'immagine......ora che ci penso, i germi della malattia che ora ci assilla,
erano presenti fin da allora. Sembrare......... Mi piaceva studiare, tutte quelle montagne
di libri che vedevo in biblioteca mi attiravano e, al contempo, mi terrorizzavano: come
avrei fatto a tenere a mente tutte quelle cose? Ma c'era un mondo intero, di fronte a me,
tutto da scoprire, meraviglioso. Forse, aveva ragione Flavia, la carriera più adatta a me
era quella universitaria; ma, chissà perché, le cose prendono sempre una piega diversa
rispetto ai propri desideri. "Non vedi che quando non prepari qualche esame hai,
ugualmente, qualche libro in mano o la chitarra e, anche quello, è studio" Flavia,
mi conosceva bene. Corde pizzicate di lamenti o modulate in giri armonici, arpeggi che si
susseguono, come cascate d'acqua. La mia chitarra, me la porto sempre dietro. Come quella
volta che sono andato a Monterosso. Era la mia prima vacanza solo, senza i miei genitori.
L'aria era frizzante ed io presi il treno per Levanto, con una leggera eccitazione. Dal
finestrino potevo guardare quella terra sistemata in terrazze e strappata all'altezza.
Tutto sembrava essere in equilibrio precario: da un momento all'altro, quell'edificio
poteva cadere. Provavo la sensazione di rimanere, attaccati ad un filo, di fronte al
vuoto, alla rapida discesa della collina e tutto quello che vedevo, mi sembrava
bellissimo. Ma quell'eccitazione derivava dal fatto di essere solo e dovermela sbrigare da
solo: prendere il treno, trovare un posto per dormire. Avevo portato con me, una piccola
cartella: un paio di jeans, un paio di pantaloncini e qualche maglietta, il sacco a pelo e
la mia inseparabile chitarra. Quando arrivai, emisi un forte sospiro: mi sentivo libero e
accarezzavo l'euforia di quelle ore, passeggiando sul bagnasciuga. Potevo mangiare, se
volevo, o dormire, oppure, continuare a camminare, senza meta, senza orario. Era
fantastico. Monterosso era un paesino antico che s'arrampicava sulla collina; case a
picco, spiaggie piccole molto vicine al mare e vecchie cantine, delle osterie dove si
potevano assaggiare i vini migliori, tenute da vecchietti senza età. Una volta, un
ragazzo con cui avevo fatto amicizia, mi fece passare un'intera mattina in quei luoghi,
sempre con il bicchiere in mano. Mangiavamo piccoli pezzi di pane, ma il vino scendeva
ugualmente, con il risultato di una colossale sbornia. A mezzogiorno ero dentro al sacco a
pelo e dormivo, rumorosamente. Una galleria divideva il paese nuovo da quello vecchio: la
parte moderna non era molto interessante, era una lunga via che costeggiava la spiaggia,
una passeggiata con i marciapiedi lastricati di mattonelle rosa, uguale a tanti altri
lungomare, di quelli che si possono vedere in Toscana o in Liguria. Ma la parte antica era
un sogno. Un vecchio convento, con il suo colore caldo, poggiava nella parte più alta. Lo
si poteva visitare, o meglio, c'era una passeggiata, all'esterno di esso, che seguiva
quella specie di cinta muraria, non certo creata a scopo difensivo. E poi, le piccole
spiaggie e gli scogli appuntiti. Sulla lingua di sabbia più lunga, stavano i
campeggiatori a cui mi unii. Non avevano tende, solo il sacco a pelo e piccoli zaini. La
mattina, appena sveglio, tiravo giù la cerniera lampo del mio letto e mi buttavo in mare,
provando una fantastica sensazione. Quello stesso mare che la sera mi cullava, con le sue
onde tranquille che lambivano la terra. Poi, mi facevo una doccia: all'inizio della
spiaggia, c'erano delle docce per i turisti, per ripulirsi della sabbia, prima di
ritornare a casa. Mi vestivo ed ero pronto per una sostanziosa colazione. Adoravo quella
vita, senza muri, soffitti, senza orari; mi sentivo libero e completamente immerso in quel
paesaggio.
Conobbi molta gente, c'erano
anche alcuni stranieri.
Ho saputo, anni dopo, che non era
più possibile fare le vacanze così, dormire all'aperto; a Rimini gli abitanti avevano
fatto scoppiare una rissa e, anche a Monterosso, i turisti erano stati malmenati e
scacciati in malo modo. Quando lessi queste notizie sul giornale, non capii perché
potessero accadere cose simili: in fondo non facevano rumore, i campeggiatori, tenevano
pulita la spiaggia, almeno la parte che ospitava i loro giacigli. Penso che quei liguri
preferissero camminare nella sporcizia, ma avere le tasche bene piene dei soldi dei
turisti, perché quei campeggiatori spendevano troppo poco, per i loro gusti. Infatti, per
mangiare, soprattutto la sera, andavamo tutti alla festa de l'Unità; lì, facevano un
delizioso pan fritto di cui, puntualmente, mi riempivo la pancia. Mi piaceva stare lì.
Ancora adesso, ogni volta che ci penso, riesco a rivivere quelle sensazioni stupende, ad
assaporare quella libertà. Forse, il tutto era dovuto al fatto che si trattava della mia
prima vacanza da solo e questo, probabilmente, mi faceva sentire più grande e
indipendente; e libero di fare tutto quello che più mi piaceva. Un giorno, volli cambiare
spiaggia. Passeggiai per un po', finché non ne trovai una minuscola, fatta di soli sassi,
incastonata in scogli rocciosi, dove i ricci marini s'aggrappavano a pelo d'acqua. Era
bellissima, isolata, sconosciuta e silenziosa e l'acqua era come uno specchio, limpido e
trasparente. Si poteva vedere il fondo, naturalmente feci il bagno con le scarpette di
gomma: i ricci, mi terrorizzavano. Quello fu il mio segreto, non lo svelai a nessuno. Solo
a Flavia, anni dopo, e quando volli che lei lo vedesse, gli anni passati avevano svelato
il mio segreto ad altri. Era diventato un luogo pieno di turisti, avevano portato altri
sassi per allungare la spiaggia. Sassi sporchi di catrame, per tutti i gommoni che
s'affollavano in quel posto. E Flavia cercava di consolare la mia
delusione.............del resto, quanti anni sono passati? Molti. E poi, in questo
momento, mi sembra tutto così lontano. Meraviglioso, ma terribilmente lontano. Mi sento
strano, è come se il mio corpo non mi appartenesse, fosse qualcosa di diverso, alieno
alla mia mente.
Ho sempre fatto parecchio sport,
ero un patito di atletica, ma in fondo, seguivo un po' tutte le competizioni. Io non mi
sono mai allenato agonisticamente, ma ho imparato ad andare a cavallo, a sciare,
pattinare, a far ginnastica, a giocare a tennis, a nuotare. Quante ore ho passato in
palestra? Non so, molte, comunque. Mi piaceva, mi scaricava e mi teneva in forma. Era
importante, per il mio corpo. Adesso, non so cosa sia successo, ma è come se tutto questo
mi fosse diventato estraneo. Da un anno, circa, ho smesso, completamente. Ma il processo,
quello che sta allontanando la mia mente dal mio corpo, deve essere stato molto più
lento. Evoluzione e involuzione. Ammiravo il fisico dei pugili, ben modellato, come
fossero stati delle statue greche; o gli atleti, con le fasce muscolari in evidenza. Ma
adesso.................mi opprime. Deve essere perché siamo negli anni dedicati agli
occhi. Il senso principe, la vista. Tutto, è divenuto immagine. Cliché che vengono
riciclati, stereotipie che ritornano, ma svuotate, senza più senso, solo l'immagine. Non
si bada, certo, alla purezza d'essa. Deve essere solo immagine, nient'altro; la purezza fa
parte di quei valori che sono stati annientati, dimenticati. E' un mondo di giovani, il
nostro. Bisogna, a tutti i costi, essere giovani e belli. fisicamente perfetti. Con il
sorriso smagliante. Il dolore è bandito, allontanato, quanto un amico che soffre. Ci
disturba, o meglio, disturba la nostra immagine perfetta, il nostro corpo che deve essere
guardato e ammirato, toccato, non importa da chi. Immagine che sempre più assume i
contorni di un individualismo esasperato. Non importa più, chi siamo, solo ciò che
sembriamo. Quello che abbiamo vissuto, quello che abbiamo dentro, non conta più. Solo
corpo ed estetismo, per dissetare il senso principe, la vista. Un mercato di carne. Non
più incontri e comunicazione, ma il vendersi meglio, a chi apprezza con gusto. Un mercato
di carne.
Ma io soffro ed ho una terribile
voglia di urlare, io sono molto di più. E questo corpo, che non è mai abbastanza
perfetto, perché esiste sempre qualcun altro capace di superarlo in bellezza, mi
esaspera, mi schiaccia. Mi sublima. Mi sento perso, nel mio corpo. Flavia, invece, amava
la danza ed aveva un rapporto meraviglioso con il proprio corpo. Era conscia del minimo
movimento, della minima distensione muscolare ed i suoi gesti apparivano leggeri, come se
non avesse avuto peso. Era magrissima e ben modellata, con dei lunghi capelli rossi,
lisci, che erano il suo maggior orgoglio. Andava spesso in palestra: da piccola, aveva
studiato danza classica per cinque anni, poi danza moderna, la sua passione. Ogni
pomeriggio, per tre o quattro ore, eseguiva i suoi esercizi e, due volte alla settimana,
aveva lezione. Ciò che la rammaricava di più, era il fatto che non ci fosse una facoltà
universitaria dedicata alla danza, o almeno una sezione. Non perdeva uno spettacolo ed io,
che l'accompagnavo, rimanevo incantato ad ascoltare le sue spiegazioni. Talvolta, mi
permetteva di seguirla in palestra, dove io sparivo, mi immergevo totalmente in quel suo
modo di muoversi. Danzare, per lei, era sognare, vivere in una fiaba. Era felice, ogni
volta che la scuola organizzava saggi e spettacoli: quello che desiderava di più, era
essere in palcoscenico. Ma era consapevole che, fare la ballerina professionista, non
sarebbe stato molto facile; si era allora costruita un sogno alternativo: una scuola di
danza dove fosse possibile, anche per gli adulti, studiare. e così, almeno una volta
all'anno, durante il saggio finale, avrebbe avuto il palcoscenico tutto per lei. "La
danza è qualcosa di completo" Mi ripeteva. Io sostenevo l'atletica, cercavo di
convincerla che, niente, era meglio di una buona preparazione atletica. "Ma guarda,
un ballerino può fare atletica, mentre un atleta non può divenire un ballerino" E
mi spiegava come il corpo e le fasce muscolari, venissero modellati dalla danza:
"Vedi? Ogni muscolo, noi usiamo ogni muscolo, dalle dita dei piedi a quelle delle
mani; ogni articolazione viene slegata, scaldata, manovrata, tutto il corpo deve
partecipare, devi tenere sotto controllo ogni minimo gesto, ogni muscolo o piccolo
ossicino" E mentre parlava, volteggiava, perché l'esempio era, per lei, il miglior
chiarificatore. L'adoravo, quando s'infervorava così. Ce la metteva tutta, per farmi
avere una completa partecipazione a ciò che mi stava dicendo. E quando l'adoravo, non
potevo che darle ragione.
Un week-end di
ricordi...............e chi ne ha voglia? Le immagini si assottigliano, piano, nella mente
fino a diventare trasparenti. Le cose perdono il proprio spessore nel divenire............
O forse, è così per me; ogni giorno è un ricordo in meno. Del resto, ho poche cose che
valgano la pena di essere ricordate. La memoria tradisce, salta in groppa
malinconicamente, attaccandosi alle spalle, oppure sfiora appena la pelle; o ancora,
distorce le figure, rendendole migliori o peggiori di quello che sono, a seconda dei casi.
Nel mio caso, peggiori. Sì, qualcosa di piacevole rimane, ma muore, si consuma come la
fiamma di una candela. L'università........erano giorni pieni di allegria, quelli, con il
fervore della giovane età. in quegli anni, tutti noi eravamo sicuri di avere il mondo
nelle nostre mani, potevamo farne quello che volevamo, plasmarlo a nostro piacimento,
certi che la vita si sarebbe adattata ai nostri sogni. Lottavamo (e con che passione!)
contro ogni ingiustizia, le guerre i soprusi, portando ben alta la nostra bandiera,
investita di chissà quali speranze oniriche. Forse, ognuno aveva le sue. Ci sentivamo
forti, uniti e compatti, mentre manifestavamo per un mondo migliore. Vicini e così
lontani dal mondo, da quella pazza giostra che non si ferma mai. Ma a noi, sembrava
diverso: ce l'avremmo fatta, dovevamo farcela.
Fu in quelle aule, sempre piene
di fumo, che conobbi Flavia; mi sembrò subito stupenda, studiava lettere, come me, solo
che lei aveva scelto l'indirizzo artistico, mentre io quello storico. Scoprimmo di avere
molti interessi in comune, tra cui una spiccata passione per la non-violenza. La
non-violenza.........fin da piccoli dovremmo imparare a sopportare e superare le
frustrazioni, inevitabili nel nostro contraddittorio mondo. Noi abbiamo perso il ritmo
armonico della natura, il suo ciclo delicato e fantastico, in perfetto equilibrio. Ci
siamo staccati, sganciati e siamo in tanti, diversi, con volontà ed opinioni in difficile
accordo. Diviene inevitabile la contraddizione, la frustrazione. Ecco perché bisogna
essere in grado di superarla. Ma questo non è il mio caso. Sarà veramente possibile la
non-violenza? Forse, non in assoluto. Certamente, non in assoluto. Ma questo è un altro
errore: la ricerca di assoluto in cose imperfette che, inserite nel tutto, non possono che
essere relative. Ma tutto questo riguarda l'oggi. Allora noi ci credevamo fino in fondo e
lo volevamo gridare. Urlarlo al mondo, facendolo partecipe di quella che credevamo essere
la nostra scoperta e che, solo più tardi, capimmo essere una scoperta più antica, le cui
radici affondavano in tempi remoti, prima della nostra nascita, di quella dei nostri
genitori e dei nostri avi. Prima, anche, di Cristo. E, durante quei giorni, nacquero tante
amicizie, stupendi rapporti che oggi sembrano spenti. O forse, sono solo addormentati; ma
non credo che si possano risvegliare con un semplice week-end. Sono cambiate tante cose ed
anche noi siamo cambiati. Già, un week-end in campagna, nella villa di Marco e
Giorgia........ne hanno fatta di strada da quei confusi giorni universitari! Lui, adesso,
è un industriale e lei, un avvocato; chissà, magari, gli copre gli imbrogli.......no,
questo non posso dirlo, non di Giorgia. Hanno case stupende, un po' dovunque ed è
cambiato parecchio, il loro modo di pensare. Ma, soprattutto, il loro modo di vivere.
Mentre Michele e Marta si sono sposati, dopo molti anni di convivenza. Forse, adesso che
lei è diventata una docente universitaria, avrà anche il tempo di fare un figlio, mentre
Michele continuerà a prendere appunti e a picchiettare articoli scandalistici sulla
macchina da scrivere. E' un discreto giornalista. No, più ci penso e più mi convinco che
non sia il caso di partecipare a questa brutta idea del revival. Sicuramente l'idea è
stata di Monica, l'eccentrico architetto che, di quando in quando si fa prendere da
ricordi malinconici ed è convinta che queste rimpatriate facciano bene, diano sollievo al
cuore. Invece, lasciano l'amaro in bocca. Certo che, i miei amici, ne hanno fatta di
strada...........ecco, mi viene in mente il silenzioso Gianni che faticava tanto a dare
gli esami ed a superarli.Il suo problema era l'emotività: era terrorizzato al solo
pensiero di una commissione d'esame presente nella stessa stanza dove lui, anche se non
era lui il candidato da esaminare. A scuola faticava parecchio, era sempre stato così e
poi, gli insegnanti non erano in grado di apprezzare le sue capacità, erano convinti che
fosse un perditempo, senza voglia di studiare. Bè, oggi è uno scienziato, uno studioso
molto ricercato che tiene conferenze e vive, quasi esclusivamente, del suo lavoro. L'aria
distinta ha preso il posto della vecchia timidezza che lo faceva arrossire, al solo
sguardo di una ragazza. E poi, Nicola, lui è diventato direttore di un museo, mentre
Alessandra, la sua compagna, ha diversi negozi d'antiquariato. Loro sono una bella coppia,
qualcosa di molto raro, ai nostri giorni. Ecco, loro sì, li rivedrei volentieri, ma gli
altri no, sono di troppo diversi, troppo lontani da me. E poi, Giorgia........ma questa è
un'altra storia. Eppure, ultimamente sento anche lei così lontana............ma forse
sono io, ad essere lontano da loro..........ma, io sono ormai lontano da tutti. E da
tutto. Già, io, cosa sono diventato io? Mi sono iscritto alla facoltà di lettere, pieno
d'amore ed entusiasmo per quelle materie. Era estasiante, avere tanto sapere di fronte
agli occhi e poter accedere ad esso. E da quei primi anni di studio, è nata la mia
passione per la storia. Sono un medievalista, uno studioso del periodo oscuro.
Affascinanti secoli d'altra vita, tanto da far fiorire le leggende migliori. Un periodo da
sognare. Il medioevo, è tutto ciò che siamo stati; e ancora molto c'è da scoprire, da
sapere e studiare.
La mia passione storica non mi ha
mai fatto dimenticare le altre discipline; ho cercato di comprendere nei miei esami, tutti
gli indirizzi della facoltà. Volevo riuscire ad avere una preparazione, il più
possibile, completa. In me, ci sono sempre state queste due nature: lo studioso che con un
metodo rigorosamente scientifico indagava la storia, e lo scrittore. Il mio sogno, era
scrivere per il teatro, ma anche in questo caso, cercavo di conoscere tutte le possibili
vie, la poesia ed il caleidoscopico universo della prosa, nei suoi disegni multipli.
Scrivere.....mi ha fatto sempre sentire bene. Niente, di tutto quello che ho scritto, ha
visto la sua esistenza tramutarsi in opera, per mezzo della stampa. E neanche le scene
hanno mai accolto qualche mia sceneggiatura. Comunque, è sempre stato tutta la mia vita.
Erano attimi preziosi in cui il tempo si fermava, per seguire il ritmo della mia penna che
creava e disfaceva mondi. Riuscivo a raggiungere la massima concentrazione ovunque mi
trovassi. Certo, era uno sforzo massimo, ogni volta che finivo un pezzo, ero esausto, ma
percepivo la gioia massima e sublime della creazione. Mi sentivo vivo e quell'opera
compiuta che era davanti a me, era come un figlio, una parte di me che poteva avere la
potenza di sopravvivermi. ............mi accorgo che sto parlando al passato, come se non
dovesse più succedere.................qualche volta, il timore che l'ispirazione potesse
lasciarmi, mi ha ossessionato. Ed ero perfettamente cosciente del fatto che, più ci
pensavo, più quel maledetto foglio bianco, rimaneva tale, bianco e in stasi. Ma sono
attimi che poi si dileguano e la penna ricomincia a correre e scivolare tra le righe, come
se avesse acquisito una nuova leggerezza. Le mie due nature convivevano liberamente e non
mi hanno mai fatto pensare a possibili scissioni schizofreniche. Questi psicologismi li
lascio a Marta. E' lei, l'esperta in patologie quotidiane. Mi ha ripetuto milioni di volte
che la psicoanalisi potrebbe lenire la mia sofferenza, senza capire che io sono lontano da
quelle patologie quotidiane, perché sono estraneo proprio alla quotidianità. Quella
stessa quotidianità in cui, anche lei, sguazza credendosi al sicuro.
E' incredibile quanto, la
debolezza umana, si aggrappi a parvenze, per questo bisogno di sicurezza che è pura
follia. E, comunque, adoravo scrivere, come adoravo studiare............perchè poi, ne
parlo al passato? Non sono mica morto. O forse lo sono, in seno interiore. Ma la cosa, a
questo punto, non mi spaventa più di tanto.
Cosa ci faccio io qui? Questa
gente che cammina, così silenziosa. Triste corteo che segue una bara. Ma cosa è
successo? Io non riesco a far tacere il dolore, martellante, che mi assilla. Marcello è
morto. Non è possibile. Non posso credere che sia accaduta una cosa del genere. E non
vedo l'utilità di questo week-end organizzato da Marco. Cosa faremo? Trascorreremo questi
due giorni a piangere? Qualcosa si è spezzato, dentro me. Qualcosa è morto, insieme a
Marcello. Non posso pensare che lui non ci sia più, che la mia vita debba continuare
senza la sua presenza. Quante cose avrei voluto dirgli? E perché non l'ho fatto? Cosa
aspettavo, il momento della morte che, togliendo ogni possibilità, rende ossessivo il
rimpianto? Io e Marcello ci siamo conosciuti all'università: io ero iscritta a
Giurisprudenza e, lui, a Lettere. Ma, nonostante i nostri sudi seguissero strade diverse,
noi ci capivamo. Eravamo molto amici. Un'amicizia che non è finita con il finire
dell'università: è durata per un'intera vita. Diciotto anni sono molti, sono successe
tante cose. Quanti cambiamenti, gioie, dolori! Per Marcello erano, soprattutto, dolori.
C'era, in lui, qualcosa che lo faceva soffrire, in maniera irrimediabile. Era come se il
mondo gli fosse stato stretto. Quante volte ha ricominciato? Forse, troppe. E del resto,
tutto gli ha voltato le spalle: il lavoro, gli amici, sua moglie. Federica......non ho mai
capito per quale motivo l'avesse sposata, non faceva per lui. Marcello desiderava avere,
accanto a sè, una compagna di vita, una donna che fosse capace di condividere tutti i
minuti di una giornata e Federica........neanche se l'avesse amato, veramente, avrebbe
potuto essere quella donna. Lei è bella, elegantissima, raffinata e..........arrivista.
Dopo i primi mesi d'entusiasmo, ha incominciato a soffocarlo. Lei voleva costruirlo, farne
una sua creatura, renderlo famoso e solo lei sa quale altra diavoleria aveva progettato
per lui. Me le ricordo ancora quelle serate: dopo due anni, Marcello era esausto, veniva a
casa mia disperato, gli occhi tristi, quelli di chi non è compreso.
Parlava per ore e Marco, mio
marito, ne era geloso: pensava che lo amassi e, in parte, aveva ragione. Del resto, Marco
assomigliava a Federica, era sempre preso dalla sua industria, intento nella crescita e
nell'espansione di quella sua creatura. Considerava Marcello un fallito e non lo capiva,
come non capiva perché io potessi dargli la mia amicizia, in fondo, io ero un avvocato!
Ma, Marcello era diverso, lontano, troppo lontano da tutto questo e forse, adesso, ha
raggiunto quella libertà che tanto desiderava, quella pace che, in fondo, faceva già
parte di lui.
Lui era........bè, lui era
davvero incredibile!
Un essere meraviglioso, la cui
mente vagava, libera e poteva permettersi sogni, ogni giorno diversi.
Ricchissimo, interiormente, aveva
mantenuto un candore che noi, suoi migliori amici, abbiamo dimenticato. Ed era dolcissimo,
nonostante ogni sofferenza. Intelligente ed analitico. La sua vita è stata come una
strada, coerente e lunga, bella e continua, senza interruzioni brusche. Non rinnegava
niente, dei suoi giorni passati, come invece molti di noi hanno fatto. Per lui c'era
sempre da imparare, da ogni cosa, per andare avanti. La sua voglia di crescere era
impressionante, qualcosa che noi, qui, tutti insieme, possiamo scordarci. Ed era grande,
il più grande. Anche se, in questo momento, lo stiamo seppellendo, senza capire. ancora
una volta, si è dimostrato superiore a noi ed a tutto il resto. Certo, che lo amavo e, lo
amo ancora. Continuerò ad amarlo, per sempre. Anche se una parte di me è morta con lui.
Forse, ho sempre amato Marcello, ma me ne sono accorta dopo che, da quattro anni, ero
sposata con Marco. Durante quelle sere in cui la sua angoscia sembrava senza sfogo, per le
pretese di Federica. Chissà perché ci incontriamo senza la capacità di riconoscerci
subito. Sbagliamo, sempre, luogo e momento.
Una di quelle sere, Marco era a
Londra per lavoro, Marcello si è fermato a casa mia a dormire. Fare l'amore è stato
qualcosa di stupendo, irripetibile. Ma al mattino ci chiedemmo scusa, chissà poi perché.
Con lui, io avrei fatto un figlio, cosa che non ho mai voluto, e l'avrei visto crescere
sperando che fosse come il padre. Marcello era bellissimo, perché lo era dentro. Non
poteva, proprio non poteva passare questo week-end con noi, con le nostre miserie
quotidiane ed il nostro chiuderci in un sentimento squallido da piccolo borghesi. Marcello
era bellissimo, anche oggi, quando l'ho salutato per l'ultima volta. E adesso, cosa
riempirà, in maniera davvero significativa, la mia vita? Ma lui diceva che ognuno di noi
ha in sè la propria ragione di vita e non può cercarla in un altro. E aveva ragione.
Forse, io ho fallito, non so, ma sento un vuoto allucinante che mi abbraccia, come fosse
ghiaccio, come se, improvvisamente, tutto il mondo avesse perso ogni significato. Ogni
senso. Marcello è in me e ci sarà, ogni giorno. Come quando eravamo in università, tra
un'assemblea e l'altra e lui suonava la sua chitarra, solo per me. Guardavo le sue dita
sinuose danzare su quelle corde, arpeggio dopo arpeggio, e mi facevo invadere da quelle
melodie, calde come l'abbraccio di un amico. Come quando andavamo in manifestazione,
insieme, a braccetto ed io mi sentivo protetta, al caldo. Sarà con me, per sempre, come
quella fantastica notte che mi è sembrata un sogno, come i nostri progetti di fuga.
Perché non ho accettato di andare con lui e perché non gli ho mai detto di amarlo? Forse
ero troppo presa da me stessa, per considerare le cose che davvero sono importanti,
nell'esistenza di ognuno di noi. Dopo essersi separato da Federica, Marcello è andato
via, per quattro interminabili mesi. Ha girato l'Europa, ha detto. Cosa cercava? Forse,
solo le proprie radici: lui scriveva e voleva visitare quei luoghi che, fino a quel
momento, erano stati pure convenzioni letterarie. Quando è tornato, tra noi era tutto
diverso. Amici sì, ma nient'altro.
E poi, quella storia con
Eleonora. Per qualche tempo, sembrava felice, ma poi lei se n'è andata: suonava il
violoncello e la musica è stata, per lei, più forte di ogni cosa. O forse, come me, era
troppo presa da se stessa per capire che Marcello stava chiamando o, probabilmente,
urlando. Non che fosse infelice: lui era soddisfatto, era esattamente quello che voleva
essere, ma il mondo e ciò che accadeva in esso, lo facevano soffrire, negavano il suo
modo di essere. E poi, in fondo, nessuno di noi può bastare a se stesso. Abbiamo,
comunque, bisogno degli altri. Anche Marcello, anche lui. Anche il mio Marcello che,
adesso, è ben chiuso in una cassa. Solo. Ma, in fondo, siamo più soli noi, pedine di
questo triste corteo. Senza nessuna parola, solo sgomento. Un urlo riflesso nei nostri
occhi ed il silenzio, quello peggiore.
Il silenzio dell'assenza.
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