Stefano AntonelliSegnalato in numerosi concorsi letterarari, a carattere nazionale ed internazionale: Premio nazionale di poesia e prosa Giuseppe Gennaioli, Premio nazionale di letteratura I. Giordani, ecc. Poesie e racconti pubblicati su periodici a carattere locale e nazionale: La Goccia, Il Foglio Volante, Tutto Musica e Spettacolo, Ellin Selae, ecc. Diplomato, con il massimo dei voti, in grafica pubblicitaria; attualmente collabora con il Comune di Empoli, in qualità di tirocinante. | L'ALBERO DEL
MALE Il viaggio nel carro bestiame era stato allucinante, la sete aveva avvelenato i miei pensieri mentre l'odore acre e pungente del sudore e dell'urina stagnante mordeva le narici, già provate dalla spossatezza e dalla tensione. Le grida dei vecchi e le lacrime dei bambini coronavano la tenebra che ammorbava i corpi seminudi dei deportati. Le porte del vagone erano sate chiuse con cura e forzarle apparve subito un'impresa ardua, soprattutto per donne e uomini allo stremo delle forze. Lo sferragliare incessante e feroce delle rotaie tagliava i nostri ultimi lividi sogni con implacabile precisione. Le braccia di mio fratello maggiore mi cingevano con vigore il petto nudo e sporco, proteggendo il mio cuore con una fragile scorza di luce. Giunti al campo, i soldati apparvero ai nostri occhi infranti, con le loro figure, nere e pesanti come alberi di metallo, le voci erano profondo simili a radici affondate alla nostra carne nuda, il sole non scaldava la pelle, bagnata dal fango e ferita dal ferro acuminato delle recinzioni. La crudele insegna "Il lavoro rende liberi" posta all'ingresso del campo di Auschwitz, dominava i nostri passi, consumati dal gelo della notte imminente. Scaricarono i nostri corpi, come legna da ardere, ngli allucinanti casermoni con i pavimenti in cemento e le pareti d'alluminio: soltanto questo era rimasto, grumi di carne trafitti di luce, livide ombre rapite dall'inverno. Le notti trascorse in quei contenitori di ossa e grida erano stemperate dai ricordi che ancora, ma soltanto nei primi tempi della permanenza nel campo, animavano confusamente i nostri pensieri: ricordi d'estati bagnate di luce, trascorse ad essiccare contro un cielo d'emozioni i piccoli amori infantili, i primi turbamenti del corpo, destinato a consumare la sua forza nella notte infuocata di un campo di concentramento nazista. Privarono il mio corpo magrissimo e ferito degli abiti che portavo indosso dal giorno dell'arrivo nel campo di concentramento, era l'ultima cosa che mi rendeva ancora vagamente simile ad un essere umano. Le braccia che cingevano la mia persona erano un laccio teso con allucinante indifferenza tra me e l'albero della vita, ormai completamente arso davanti ai miei occhi di bambino. Insieme con altri uomini e donne di tutte le età, mi spinsero verso la parte di Auschwitz in cui erano stati collocati i forni, avvertivamo, avvicinandoci al luogo della nostra morte, un calore crescente che non confortava la nudità graffiata dal gelo dell'inverno polacco, ma era il ilvido aroma dell'incendio della storia, sacrificata alle tenebre in un blasfemo olocausto. Il pasto nudo che attendeva la fibra pulsante del mio essere era il seme della luce. La fiamma del forno rubò ogni respiro e le ultime lacrime prosciugate dal fuoco infransero il rosario di mattoni rossi dei forni crematori. Il mio cuore rovente non ha conosciuto il caldo abbraccio dell'amore, ma soltanto il tocco di un livido inverno. |