Giuseppe Schivo vivo a Genova e vorrei proporre il primo capitolo di questo romanzo, dal titolo "La vinacciera", storia picaresca ambientata ai giorni nostri, che racconta le peripezie di tre amici all'inseguimento di una damigiana di rum. Mando solo il primo capitolo, anche perché è assurdo leggersi un intero romanzo sul video, o stampare decine di fogli A4 che poi finirebbero nel cestino del riciclo. Per cui, se vi interesseranno i successivi capitoli, provvederò a inviarli a chiunque li richieda. Aspetto commenti. |
Born to
Run L'autostrada era blu come le montagne colpite dai raggi UVA al tramonto, quando tutto l'orizzonte si confonde in una specie di nebbiolina azzurra che via via si trasforma in vinaccia; ma non era il tramonto, era notte, saranno state le due passate, con la luna piena, una luna che non riuscivamo a vedere perché troppo alta rispetto alla visuale dei finestrini. Una sensazione di tranquillità conquistata finalmente ci avvolgeva dopo un periodo difficile durato oltre quattro mesi. No, nessun travaglio esistenziale, nessun abbandono da parte di fidanzate o mogli; nessun parente stretto morto o all'ospedale; niente di tutto questo. Avevamo appena finito un'impresa, così la chiamava Elio, che era in macchina al volante a fianco a me. Era un momento di silenzio dopo le fasi concitate del carico e della partenza. Il mio compagno di viaggio aveva gli occhi azzurri come i Celti, o meglio gli antichi liguri, da cui dice di discendere. Già, perché Elio era nato in un paese dell'entroterra, no anzi, nemmeno un paese, un grappolo di case che costituisce la frazione di un paese in una valle poco abitata. "Ora siamo rimasti in pochi - mi aveva detto una volta suo padre - ma nel 1954 siamo arrivati anche a essere in quarantacinque". Mi aveva guardato con quegli occhi azzurri, uguali a quelli di suo figlio, leggermente abbassati in una finta umiltà e lo avrei voluto baciare. A Rancascio non c'era mai passato nessuno, perché nessuno aveva interesse a conquistare quattro pietre in mezzo ai boschi e lontane da qualsiasi importante via di comunicazione, e perciò, il sangue non si era tanto mischiato, preservando i caratteri di quei trogloditi. Gli occhi azzurri si possono incontrare in Sicilia, incastonati nelle orbite dei discendenti dei Normanni, in Valtellina o in Trentino Alto Adige; ma in Liguria sembrano una cosa davvero strana; noi siamo fra i più terroni, figli bastardi di Saraceni che avevano stuprato le nostre donne. C'è un paese sulla costa, Ceriale, a dieci chilometri di distanza dalla romita Rancascio, dove pare che i veri aborigeni si possano riconoscere dai riccioli neri e dalla carnagione olivastra; sono i figli di una pulizia etnica barbaresca della fine del Quattrocento. Adesso è un po' più difficile; con il sessanta o settanta per cento di terroni immigrati da sud, in pratica sono tutti aborigeni, tutti figli della stessa violenza. Rancascio nasce come colonia penale spagnola e non ho mai chiesto cosa c'entrassero i Celti con i prigionieri di Filippo II. Forse erano semplicemente gli schiavi catturati nel luogo per lavorare in qualche cava o per disboscare i dintorni e fornire legname ai vascelli del re cattolicissimo (o cristianissimo? Boh, chi lo sa, la mia è una cultura da Bartezzaghi, adatta a risolvere i cruciverba incastrando le parole incomplete, nella speranza che il risultato finale, complessivamente, abbia un senso). Poi una volta la colonia penale era stata attaccata, credo dai Francesi o dai Piemontesi, e gli Spagnoli di guardia avevano armato i galeotti per la difesa, salvo rendersi conto, subito dopo, che erano di più i prigionieri che i soldati e che avrebbero quindi potuto ribellarsi e sopraffarli; non lo fecero e aiutarono i difensori, e carcerieri, a respingere i Francesi. Dopodiché gli spagnoli li liberarono, non si sa se per concessione o perché dopo la conta avevano capito che era meglio non insistere a farli tornare in gattabuia. Gli Spagnoli se ne andarono e i Rancascesi ripresero a vivere dove erano stati prigionieri, come gli Australiani deportati dagli Inglesi. Gli occhi azzurri di Elio e di suo padre sono segni, e non si possono cancellare. Sono gli stessi segni che si trovano nei piccoli uomini che vivono nelle minuscole case di montagna della terra brigasca, ai confini con la Francia, che pare parlino una lingua che risulta la più simile all'antico occitano. Celti, Galli, Liguri, un miscuglio di gente fiera, cattivi come l'aglio. Gli Ingauni avevano combattuto contro Roma per due secoli; una guerra di assalti feroci alla macchia, secondo me divertendosi un sacco a fare danni a quei rodomonti organizzati, che volevano portare la civiltà con le falangi, le fruste, gli schiavi e le arene da gladiatori. Gli Ingauni erano gli abitanti della Piana, di quella che poi è diventata Albenga. Rancascio si trova all'interno, in una delle tre valli che sfociano nella pianura alluvionale. Quei Liguri e quei Celti erano un po' come Asterix e Obelix e gli abitanti del villaggio ribelle delle Gallie: "Ragazzi, arrivano le legioni, c'è da menare le mani!!!" O meglio: "Garsui, ghe sun i rumani, andemu a sonaghele!" E tutti giù da colline boscose e impervie, armati di roncole e bastoni e coperti di pelli, puzzolenti di capra e cinghiale, rusteghi e feroci. Anche Elio è rimasto un selvatico, e la sua vera forza è quella di arrivare al nocciolo del problema, usando le vie più spicce. Per sradicare un grosso ceppo di castagno , nel ventesimo secolo si usa il Black e Decker, una soluzione per Elio troppo complicata: lui aveva fatto saltare il tronco con la dinamite. E l'esplosivo? Semplice, se l'era fatto da solo - probabilmente svuotando qualche centinaio di cartucce da caccia. Una volta una ricca milanese di una villa vicino a casa sua era disperata: a maggio inoltrato non poteva fare il bagno nella sua bella piscina ovale perché era piena di rane. Decine, centinaia di batraci, che di notte facevano un rumore infernale. Elio l'aveva sentita lamentarsi e, in italiano e gentilmente, le aveva chiesto se voleva che la aiutasse. "Fai quello che vuoi, ti pago anche." Era esattamente quello che Elio voleva sentirsi dire. Detto e fatto; aveva rancato dalle guide il cavo della tre e ottanta, che serviva per i lampioni in ferro battuto del giardino, e lo aveva immerso nella piscina ancora piena di acqua piovana ed erbacce. "Signora, giri l'interruttore". Zapf! L'acqua stagnante aveva avuto una breve esplosione, con un'onda elettrica che aveva crestato il centro della vasca e, dopo pochi minuti, la piscina era piena di cadaveri di rane mentre l'aria rimbombava delle urla di disgusto della signora. Elio aveva passato poi qualche ora a raccoglierle tutte con la rete per le foglie e a metterle in un sacco. "Dove vai, adesso?" Gli aveva chiesto l'isterica. "A sotterrarle". Ovviamente non era vero; era invece andato dall'osteria dei cacciatori e le aveva vendute tutte. Mi viene sempre da pensare che se Elio fosse vissuto nell'America rurale di metà Ottocento sarebbe stato un Huck Finn. Alle soglie del millennio che, per dirla con Metternich, è solo un'astrazione matematica, Elio è rimasto un Huck Finn cresciuto e diventato grande. A trent'anni ufficialmente fa il tipografo, per il resto, inventa e, soprattutto, non esita un momento a cacciarsi in un'impresa, come la chiama lui. Quando gli ho raccontato dell'impresa della vinacciera non poteva tirarsi indietro, per tutto un ordine di motivi che, nella sua e nella mia immaginazione si tramutavano in un plotone d'esecuzione, con qualche ufficiale in alta uniforme, con sciabola e feluca che, abbassandola, avrebbe urlato: "Sparai!!", che da noi vuol dire "sparate". All'estremo opposto ci saremmo stati io ed Elio, legati, con il petto in fuori e sorridenti, anzi, con il petto gonfiato per lo sforzo di trattenerci dal ridere. Fuor di metafora, l'impresa che avevo proposto ad Elio comportava, se scoperti, la galera, perché il contrabbando di alcoolici, anche in piena era di globalizzazione, per lo Stato italiano è un reato che è punito con non so quanti anni di galera, e, se all'epoca della mia proposta, ormai sette vite fa, non lo volevo neanche sapere e, a dire il vero, non lo so nemmeno adesso. Perfettamente consapevoli quindi dei rischi a cui andavamo incontro e con l'incoscienza di Huck Finn e Tom Sawyer, ci eravamo preparati con coscienza all'impresa, il che vuol semplicemente dire che ci eravamo incontrati il fine settimana per andare a pescare nelle limpide acque del torrente Tienna, che scorre un centinaio di metri più in basso dell'ameno villaggio di Rancascio. Naturalmente, quando si dice pescare, con Elio significa sempre riassumere in una parola un'altra impresa, una piccola arditezza - un capitolo minore rispetto a quello che ci stavamo accingendo a scrivere -, ovvero sfidare la sorveglianza della Forestale con la pesca alla trota con la dinamo. Il concetto è uguale a quello della piscina con le rane: bicicletta trasformata in cyclette, collegata a una dinamo, filo che entra in acqua, in un tratto dove il torrente fa una pozza della profondità di circa due metri e della larghezza di quattro e dove l'acqua è relativamente ferma, in modo da non disperdere la corrente. Uno pedala e l'altro raccoglie trote, anguille e altri pesciolini d'acqua dolce e scarta i baggi e le bisce. Noi pensavamo che il gusto di pescare, di stare in mezzo alla natura, cioè tutti i discorsi dei pescatori d'acqua dolce rispettosi delle leggi, fossero tutte cazzate, una perdita di tempo. Cosa contavano quelle parole, quella retorica se, alla fine, il risultato era lo stesso? Ovvero un bel pesce al forno fumante sulla tavola, accompagnato da una buona bottiglia di Vermentino? L'inizio della nuova, entusiasmante impresa era stato insomma salutato da una cena inaugurale a base di fosforo, per rinforzare le nostre teste fini - ne avevano certamente bisogno - prima dell'espletamento dell'impresa. Tornando a casa, quella sera, avevo dovuto fare una piccola commissione per Elio, cioè siliconare la saracinesca di un gioielliere di sua conoscenza. "Sono vendette stupide, Elio - gli avevo detto - aspetta, avrai sicuramente un'occasione migliore per fargli più male di quanto non puoi fargliene adesso." Ma non c'era stato verso e, in omaggio alla nostra amicizia, ero scappato via solo quando l'allarme aveva già svegliato mezzo quartiere e la saracinesca avrebbe potuto essere aperta solo dal fabbro con la fiamma ossidrica. Elio, fra le altre cose che inventa quando non lavora, fonde il bronzo. Quell'inverno aveva organizzato un corso di scultura e fusione e si era innamorato di una sua allieva. Si chiamava Monica, era sicula, separata e, oltre a stare con lui, stava anche con tale Franco, cosa di cui Elio era al corrente. Insomma, nel gioco delle parti che l'amore fa sempre fare, a lui era spettata quella dell'amante. Fin lì non ci sarebbe stato niente di male, se le cose fossero andate avanti così, e soprattutto se Elio non si fosse completamente incappellato, perché, mi aveva detto, una così non l'aveva mai trovata. L'ultima sera di lezione, Monica lo aveva stoppato: "Mi dispiace, Elio, ma questa sera non possiamo stare assieme perché, dopo il corso, Franco viene a prendermi." "Va bene", aveva risposto lui, con fare indifferente e tollerante come devono esserlo gli uomini dopo la liberazione sessuale. Ma fra sé si era detto, come poi mi aveva confessato, "veghemu un po' che faccia u l'a stu figgiu de na bagascia". Fine della lezione, fine del corso, l'aula era ormai vuota, Franco si era fatto avanti. Monica, sgambettante, sculettante e scintillante gli era corsa incontro: "Ciao Franco, ti presento Elio, il nostro insegnante." Elio: "Ehm, ciau, barba", deglutendo sette volte. Insomma, a Elio non era proprio andata giù che il suo rivale fosse proprio suo zio gioielliere e, quel che era peggio, era stato il fatto che Monica aveva comunque deciso di lasciarlo per dedicarsi soltanto al parente. La mia missione era stata una vendetta stupida, che non faceva certo onore al mio mandante, se non fosse stato che sotto c'era un altro motivo che io quella sera non sapevo. Elio aveva avuto l'incarico di fondere una statuetta in argento da parte del parroco di un paese vicino; per procurarsi il nobole metallo aveva anticipato circa un milione a suo zio. Appunto lo zio - gioielliere, che oltre a soffiargli la donna - evidentemente non era uno stinco di santo -, l'argento non glielo aveva mai portato e tantomeno gli aveva restituito i soldi. Questo era successo molto prima della storia con Monica, é chiaro, quindi, quanto gli dovessero girare, quando se l'era trovato davanti, alla fine della lezione. Evidentemente quella era stata l'ultima goccia e, tutto sommato, quella vendetta era stata solo un parziale risarcimento. Elio fa anche lo scultore, fonde il bronzo in stampi in gesso e terra refrattaria che si ricava da originali in cera. Certo, con un nome così, che era il sole dei greci, mentre oggi è più conosciuto come il prodotto della fusione di due atomi di idrogeno all'interno del sole, non poteva che essere una predestinazione. E in effetti la storia legata alla scoperta del processo, della tecnica per trasformare i rubinetti in statue, ha un sapore abbastanza magico. Fondere il bronzo non è una cosa facile, anche perché tutti quelli che se ne professano scultori in realtà si servono poi di una fonderia. Elio invece no. Quando aveva deciso di provare, aveva provato a dissuaderlo uno squilibrato amico suo, che millantava una laurea in chimica e grande pratica nell'alchimia. "Mai!!! Il bronzo non si può fondere", gli aveva ripetuto più di una volta. Ma Elio è un tenace e, pensando che se ci riuscivano i Fenici, i Cartaginesi e i Romani più di duemila anni fa, perché non doveva riuscirci lui alle soglie del terzo millennio? Come in tutte le grandi scoperte, la soluzione era arrivata per caso. Si trovava un pomeriggio d'inverno al porto di Oneglia. Aveva appena fatto l'elemosina a un barbone che, quando Elio si stava allontanando, aveva mormorato che monete in bronzo ne doveva aver fuso a migliaia nella sua vita. Elio aveva sentito le parole del vecchio, era tornato indietro sui suoi passi e aveva cominciato a chiedere tutto quello che voleva sapere, prima per strada, poi all'osteria. Le spiegazioni del vecchio, che aveva lavorato l'intera vita in una fonderia ad Arma di Taggia, erano poi state integrate dalla videocassetta del film sulla vita di Cellini. La prima volta che sono andato a vedere il forno da fusione, credevo di trovare una costruzione in mattoni refrattari, quasi una piccola acciaieria. Invece, sotto una tettoia di lamiera, nella fascia immediatamente sopra casa sua, ho visto un semplice fornelletto da barbecue, di quelli appoggiati su quattro gambe. La cassetta riempita di carbone da picnic e, in mezzo, il crogiolo. Ma il bronzo, per fondere, deve raggiungere i mille e ottocento gradi e perciò le sole braci di carbone non sono sufficienti, se non sono alimentate da un getto d'aria. E qui arrivava il colpo di genio: dal lato inferiore della cassetta, Elio aveva ricavato un'apertura a griglia, dove veniva collegato un vecchio aspirapolvere trovato in una discarica, con i poli invertiti, così invece di aspirare, soffiava aria. Però quell'ingranaggio era ancora perfezionabile: occorreva un regolatore di intensità del soffio, problema che Elio aveva risolto collegando la scatola di comando del suo vecchio trenino Lima. Non so dare un giudizio sulle sue opere; so solo che aveva iniziato a regalare in giro una serie di teste di bronzo, barbute e con il naso affilato, e che tutte si chiamavano Socrate. Ai fini della nostra storia, un elemento importante è il fatto che Elio, in una delle sue mille manifestazioni, è anche cintura nera di karatè e appassionato di cultura giapponese. Come hobby serale, dopo un giorno di fatica attaccato alla stampante offset, si è pure costruito una katana, ovvero la spada dei samurai. Per costruirla occorre una lamina di ferro che bisogna battere fino ad allungarla per diversi metri; poi si ripiega e si ribatte, per infinite volte, fino a quando la spada acquisisce un'elasticità, una durezza e una resistenza a prova di grattacielo, come quella di Ghemon in Lupin III. Io voglio bene ad Elio; è mio amico e rappresenta quello che io cerco nelle persone, il Talento. Una cosa che distingue immediatamente chi ha Talento, tanto o poco, è la curiosità, l' interesse per mille progetti, al limite anche senza concluderne nessuno. Chi ha vero Talento lo spreca, non pensa a venderlo, a monetizzarlo; chi ha vero Talento, è uno che non sta tanto a pensarci su, salvo poi guardarsi indietro per vedere cosa ha combinato. In genere le persone dotate sono in genere maldestre, forse anche timide o riservate, come lo può essere Elio, ma comunque hanno il guizzo, la scintilla. Ma io, io chi sono? Sono semplicemente uno che sa riconoscere il Talento, quello vero, che lo sa apprezzare, che riesce a goderne e, se messo a confronto a colossi del calibro di Elio mi sento una nullità. Ma non soffro la competizione, non mi ci metto mai. Sono uno che ci pensa, prima di fare le cose, o che perlomeno cerca di pensarci e che, quando poi il risultato non è quello che ci si aspettava, allora significa che avevo semplicemente sbagliato, a differenza di chi invece ha Talento, che non può fallire. "Siamo usciti anche da situazioni peggiori", è la frase di Elio, che ogni volta mi rincuora quando mi trovo nei casini, che puntualmente lui mi aiuta risolvere senza chiedere niente in cambio. Ma per tornare a me: mi chiamo Luigi, anche se tutti mi chiamano Gigi. C'è un motivo, in questo, non è un semplice diminutivo, ma ha una sua storia. A chiamarmi così era stata Donatella, la cinquantenne proprietaria di una boutique di Alassio, di cui ero stato l'amante per qualche tempo. In effetti non era male la vita, scorrazzato alle sfilate milanesi e parigine in alberghi di lusso, con colazione in camera, mentre il mio unico obbligo era solo quello di scopare, attività quella, che fra l'altro scemava di giorno in giorno, anche perché mi toccava sempre reprimermi davanti alle bellezze americane, russe o australiane di vent'anni che mi venivano presentate da Donatella, oppure pensare a qualcuna di loro durante l'atto. Lo ammetto, in quell'epoca ero stato né più né meno che un uomo oggetto, al seguito di una bella donna che mi trattava come un'appendice del suo bagaglio. Di tutto quel periodo, che ora riconosco come triste e vuoto, mi è rimasto appiccicato soltanto quel soprannome, che a me non dispiace, che è legato a una canzone di Dalida, che Donatella cantava sempre ogni volta, dopo. La canzone racconta la storia di Gigi, cantante di cabaret napoletano, che sapeva offrire qualcosa di speciale a ogni donna che incontrava, alla moglie, alla vedova, alla vergine: tutte a Napoli erano innamorate di lui. Poi era arrivata una fata americana d'alto bordo che se lo era sposato e portato in America. Ma Gigi poi era tornato indietro, non riusciva a stare lontano dalla sua città e, penso, non riusciva ad appartenere ad una donna sola, ma preferiva essere di tutte e amarle tutte. Quindi per Donatella ero Gigi e Gigi sono rimasto in seguito, quando ho continuato il mio secondo lavoro di buttadentro nelle discoteche e nei night della Riviera. Il mio primo lavoro: istruttore di aerobica in una palestra di body building e altro. Non sono un fanatico del fisico, anche se con l'esercizio non sono poi tanto male: ho un bel paio di gambe e un bel culo, una discreta intelligenza, una media vanità e non so vestirmi, nel senso che non riesco mai a portare un vestito mio; o sono in tuta, o in smoking a fare il buttadentro e il buttafuori. ho parlato del talento; io non ho alcun talento, eccetto forse quello di saper riconoscere quello degli altri. Pat ne é fornita; é una pila atomica. Ora sono suo ostaggio e mi obbliga ogni giorno a scrivere. Sono legato al collo con una catena, che mi da un'autonomia fino in bagno e in cucina. Ogni tanto esco fuori sulla grande terrazza che domina mezza città e da qui posso vedere il porto con il via vai di navi da crociera, traghetti e portacontainer, struggendomi per la voglia che ho di fuggire; ma ne sono impedito da questa catena che io stesso ho voluto. Mi devo disciplinare, darle ogni giorno un pezzo, facendole assaporare tutto con calma, nella speranza di prolungare questa prigionia, perché non so cosa potrà succedere dopo; ho paura che potrebbe cacciarmi via e allora sarò veramente libero di salire a bordo della prima nave, ma non so se, a quel punto, lo vorrò. Posso solo raccontare questa storia, che avevamo interrotto al punto in cui io e Elio stavamo rientrando, guidando in autostrada. |