Gordiano Lupi

nasce a Piombino 38 anni fa, si laurea in Giurispreudenza, ma coltiva da sempre interessi letterari. Ha pubblicato nel 1998 il suo primo libro di racconti dal titolo LETTERE DA LONTANO, che ha avuto un buon successo. Scrive molto per riviste letterarie e di attualità. Prevalentemente narratore, si occupa anche di poesia e critica letteraria. Dirige la rivista piombinese Il Foglio Letterario. Numerosi i premi vinti e le segnalazioni ricevute. Non è il caso di citarle, anche perché è sempre bene guardare al futuro.

UN NATALE SENZA RICORDI

Da tempo lo sento nell’aria che è di nuovo Natale.

Amore e ipocrisia s’incontrano in queste rigide mattine d’inverno. Regali e falsi sorrisi sono il filo conduttore di un’abitudine. Proprio ciò che non sopporto.

Mi sveglio al suono delle campane, che chiamano a raccolta un popolo di frati in saio marrone e suore vestite di nero.

La mia camera si affaccia sul mare. Un mare calmo, scolpito dalla tramontana e riscaldato dal pallido sole di dicembre.

Finalmente sono fuori dal riformatorio, anche se non posso dirmi completamente libero. Il giudice mi ha affidato a questo maledetto istituto di preti, dove tutto pare ricordarmi il passato. Mi hanno dato cinque anni e sono ancora qui a scontarli. Tutto perché un tipo vestito di nero si era messo in testa di farmi pentire di chissà quali peccati. Voleva farmi conoscere il suo Dio e pretendeva che almeno per Natale entrassi nella sua chiesa. Non mi sono mai pentito di niente in vita mia. Neppure di aver accoltellato quel maledetto prete. Tanto piú che non è neanche morto. Ha sofferto solo un po’, sanguinando e lamentandosi come una femminuccia.

Ma non è tempo di ricordi, anche perché mi fa male pensare al passato. Mi cambio e scendo a piano terra, dove consumo un pessimo caffè e comincio ad affrontare questa brutta giornata.

I ragazzi sono al campo a giocare, in attesa di essere chiamati per la messa. Io non mi confondo con il resto del gruppo, perché non ho mai avuto molto a che spartire con i ragazzi della mia età. Meno che mai qui, visto che mi trovo in compagnia di orfani, trovatelli e zingari abbandonati.

Mi costerebbe poco cominciare a fare un po’ di pulizia tra tutta questa spazzatura umana.

Nessuno verrebbe certo a reclamare.

Ma non posso. Ho deciso di star buono, perché voglio uscire da questa galera. Una volta fuori ho tante cose da fare.

Per oggi l’unica cosa che conta è evitare i ricordi e non è facile in questo posto… Tra breve avrà inizio la messa del mattino. Sarebbe obbligatoria, ma io riesco ad evitarla da quasi un anno e la scamperò anche oggi. Soprattutto oggi. Esco dal refettorio ed un sole tiepido accoglie miei pensieri.

Una mano mi ferma, trattenendomi per la cintura.

"Dove credi di andare?"

Uno di quei maledetti preti. Non sa cosa rischia.

Per sua fortuna ho deciso di star buono.

Mi ripete: "Dove stai andando? Vai a prepararti per la messa di Natale".

Ancora questa storia del Natale. Sembra che non si debba pensare ad altro. Ti assicuro che non andrò a nessuna fottutissima messa di Natale, caro il mio prete. Una violenta pedata al basso ventre accompagna il pensiero. Il mio interlocutore cade a terra privo di respiro. Scappo via veloce, mentre un gruppo di frati mi insegue. Non mi farò prendere, perché nessuno oggi mi porterà in mezzo a quell’odore d’incenso.

Corro rapido per la discesa che porta al mare.

Il mare d’inverno. Bello e tragico al tempo stesso. Il mare che porta i miei passi lungo i rifugi di sempre. Adesso sono al sicuro, tra cabine logorate dal tempo e macigni scolpiti dal vento di libeccio.

I frati hanno smesso di seguirmi, anche perché i loro calzari non riescono ad avventurarsi per i sentieri scoscesi che portano alla spiaggia.

Sono nuovamente solo e guardo il mare.

Spuma biancastra lievemente mossa da un gelido vento di tramontana. Voli di gabbiani che stridono nel silenzioso inverno. Starò qui tutto il giorno, al riparo dai miei stessi pensieri che si affacciano prepotenti alla memoria.

Ma i ricordi tornano, come ospiti indesiderati e sibila ancora un colpo di pistola, lontano come un vento dimenticato.

Mi fa male pensarci e mi torna la voglia di uccidere, anche se ho giurato di non farlo. Almeno per ora.

Proprio dietro questa spiaggia fatta di scogliere c’è la tomba di mio padre. Maledetto Natale. Maledetti ricordi.

Non mi porteranno in chiesa a Natale. Se devo dire una preghiera silenziosa posso farlo solo su quella tomba.

Mi siedo su uno scoglio ed offro il mio volto al vento gelido che viene dal mare. I riccioli neri che mi cadono sugli occhi nascondono una lacrima. Ma adesso posso anche piangere, perché qui nessuno può vedermi.

Il pensiero della tomba di mio padre si fa insistente.

Mi alzo e come spinto da un desiderio a lungo represso mi dirigo verso la rete di recinzione, che separa il convento dal cimitero. Sono sempre stato bravo a superare gli ostacoli e la vita me ne ha fatti trovare molti sul mio cammino.

Questo non è dei peggiori.

In breve tempo sono di là dal muro, dove mi accoglie una fila di cipressi ed un prato trapuntato di croci.

Tutt’attorno c’è odore acre di salmastro, frammisto a vento di mare. In lontananza solo un panorama di ciminiere, palazzi cadenti e povere case di pescatori.

Intorno a me solo vento e ricordi.

Mi muovo circospetto. Non vorrei che qualcuno di quei maledetti preti mi avesse seguito sin qui.

D’un tratto scorgo la sua foto sbiadita sulla pietra di marmo.

Rivedo anche un bambino di cinque anni davanti alle scalinate di una chiesa e mio padre che fugge. Ricordo la vigilia di un fottutissimo Natale, con il solito copione di gente impegnata a fare doni e a comprare di tutto. Noi avevamo fame, non mangiavamo da giorni. Mio padre era disperato e in chiesa c’erano le offerte a portata di mano. Dio avrebbe compreso, mi disse, perché noi avevamo bisogno di quel denaro.

Lo vide quel maledetto prete e cominciò a gridare.

Uno sparo, poi un sibilo nel vuoto ed un poliziotto vicino a mio padre, che aveva il volto per terra. Io piangevo, ma lui non voleva saperne di alzarsi.

Maledetto prete e maledetto Natale.

Tolgo un fiore da un vaso e lo appoggio sulla terra bagnata, proprio sotto la foto sbiadita.

Mi adagio vicino alla tomba e mi addormento accanto a lui, come quando ero bambino.

Questo Natale lo passeremo insieme, vecchio mio.

Mi desta un rumore di passi.

Ho dormito, nonostante il freddo e l’umidità, non so neppure io per quanto tempo.

"Vieni con noi", mi dicono.

Sono loro, i preti. E mi hanno trovato.

"Non verrò piú da nessuna parte", rispondo.

Colpisco con un pugno al volto il primo frate che mi si presenta davanti. Cade. Estraggo il mio coltello.

Da quanto tempo non ne facevo uso…

Adesso è il momento di ricominciare.

Leggo lo spavento nei volti di quei maledetti preti.

Sono in cinque ed uno è a terra dolorante.

Adesso posso terminare la mia vendetta.

Allungo la mano per colpire. Vedo del sangue uscire da una ferita, poi sento un sibilo. Un fischio nel vento, che pare viaggiare nel tempo, da una strada di tanti anni fa.

Vicino al cancello del cimitero scorgo la sagoma di un poliziotto. Svanisce lentamente nella luce di questo feddo mattino. La testa mi scoppia e un dolore caldo si diffonde nel petto. Il mio corpo si adagia sull’erba bagnata, accanto alla foto di mio padre, in bianco e nero, come i miei pensieri. Finalmente un Natale senza ricordi e noi due nuovamente insieme, come tanti anni fa.


IL FICO DEGLI OTTENTOTTI

Il mare si arrampica sulle scogliere. Sciabolate di salmastro si abbattono sui volti esposti alla tempesta.

I sogni volano nel vento e par che dirigano la prua della nave. Quante di queste giornate sul mio mare ho trascorso prima di arrivare a perdere anche l’ultima speranza?

Il fico degli ottentotti mi guarda da lontano. Brilla come sempre sulla scarpata che conduce in spiaggia, ricopre dei suoi petali rossi tutto il dolcissimo declivio della mia vita.

I miei occhi seguono con lo sguardo la direzione del vento. Rincorro il cadenzato battito d’ali degli ultimi cormorani ritardatari, sino a quando non riesco piú a distinguerli, confusi come sono nel nero abbandono di un solitario divenire. Dipingo un fondale di stelle cosparso di scogli remoti su antichi sentieri di mare. Compongo parole che ripetono lontanissime solitudini sulla riva di un’isola lontana. Il passato è duro a morire ed anche raccoglierne i cocci fa male al cuore. Mi ritrovo su di un biliardo irreale a giocare un’assurda partita a carambola con la memoria.

"Domani cosa sarà di me?" Mi domando mentre la luce lontanissima di un aereo sorvola il manto di stelle lucenti.

"Potrò fuggire lontano? Potrò ricominciare da capo?"

Avevo perduto anche l’ultima battaglia ed un’ulteriore sconfitta faceva bella mostra di sé nella collezione dei ricordi. Era piú che mai necessario non perdere la guerra, facendosi prendere dall’ingranaggio perverso delle cose che avevano cominciato a non girare per il verso giusto.

Il meccanismo irreversibile delle cadute verticali poteva condizionare tutto, fino a stritolarmi e non farmi piú rialzare la testa. Non dovevo perdere la guerra, questa era l’unica cosa che contava.

La foto della mia bambina comparve dalla tasca del portafoglio, dove la tenevo riposta tra le cose piú care.

Emozioni lontane si confusero al vento di libeccio.

Il fico degli ottentotti…come lo guardava estasiata e come piangeva quando le dicevo di non coglierlo, perché sarebbe appassito in una casa, era un fiore di scogliera, libero come il vento, che frange inclemente la costa, refrattario ad un padrone come un animale selvaggio, compagno solamente della sua solitudine e dei voli dei gabbiani.

"Adesso te lo porterei su di una stella piccola mia, ma non posso." E le lacrime caddero sulle onde di quel mare in tempesta, confondendosi con il dolore del mio cuore che avrebbe voluto gridare al mondo tutta la sua pena.

Me l’ero vista sfuggire dalle mani come un soffio di vento che non può essere catturato ed io gridavo con forza ai miei assistenti: "Bisturi!" "Pinze!" "Garza!" "La perdiamo…la perdiamo…la perdiamo…"

Quelle ultime frasi di terrore mi tornavano alla memoria con frastuono d’onde. L’avevo perduta e pareva che sorridesse da lontano con un ultimo sguardo confuso nei miei occhi impauriti.

Sapevo che non potevo fare di meglio, sentivo che avevo dato il cuore per salvarla, ma mi rimproveravo ugualmente di non aver cercato di osare l’impossibile.

Era stato un errore anche aver provato, non dovevo farlo, dovevo lasciare che fossero altri ad occuparsi di lei, del mio unico perduto amore che adesso salutava da lontano.

Il fico degli ottentotti brillava con il suo colore vermiglio sulla sua tomba in quella giornata di vento, in quel cimitero di mare, con la testa perduta dietro pensieri e voli di gabbiani, con il cuore in tempesta che assaporava i profumi delle scogliere e delle tamerici salmastre.

La mia bambina l’avrebbe preso tra le mani e assaporato a lungo, avrebbe voluto farne un vezzo per la sua camicetta, l’avrebbe portato con sé a scuola per farlo vedere alla maestra.

Avrebbe pianto vedendolo appassire, cosí come io piango ricordando il suo sorriso e le corse sfrenate sulle scogliere, quando il terrore che il suo cuore malato frenasse su quelle brusche discese mi prendeva l’anima e non mi lasciava libero di pensare ad altro.

Oggi mi ritrovo piú solo a pensare al passato.

Ricordo un sorriso e con esso cavalco la mia solitudine gettandomi nell’infinito. Non so se sarò ancora capace di operare. Non so se vorrò ancora farlo. Per il momento è già abbastanza duro vivere e lasciare che i giorni sovrappongano la loro consuetudine al suono di canzoni d’amore lontane. Nel vento di libeccio inclemente che spazza la scogliera vado a raccogliere quel fiore dal rosso colore per portarlo anche domani in dono alla mia bambina.