Marco Marino
nato e cresciuto a Roma, Marco Marino ha da
sempre la passione per la scrittura. Nel 1995 ha pubblicato una silloge di poesia dal
titolo "L'isola e nessuno", e due anni dopo il racconto "La prigione del
lampo". Col racconto "Diluvio e delirio" nel 1999 è arrivato primo al
premio di poesia e narrativa "Arrigo Boito". Attualmente, ha due libri nel
cassetto, che sta tentando disperatamente di pubblicare. Come quasi tutti gli scrittori
giovani, d'altronde. |
Il nome Sono a un passo dalla soluzione.
Fra poco meno di un'ora il parroco ci farà entrare nel fresco della canonica, e
finalmente potrò consultare il libro.
Paco e io siamo seduti su un muretto a secco, sul ciglio della strada. Di fronte a noi,
una barriera d'alberi. Forse il bosco delle fiabe di mio nonno. Alle nostre spalle, il
poderoso fruscio d'un campo di granturco. Che dico campo: un mare di granturco.
La chiesa, completamente bianca, è laggiù, alla nostra destra. I due piccoli leoni di
pietra posti a guardia dell'entrata, per sorreggerne le colonne e come monito per il
pellegrino, mi ricordano che la strada verso una verità è piena di mostri, abbagli,
ripensamenti.
Per giungere fino a qui, al cospetto di questo piccolo edificio bianco del IX secolo,
sorvegliato dai due leoni, ci sono voluti quasi dieci anni.
Naturalmente, non sono stati anni di peregrinazioni. Purtroppo non me li sarei mai potuti
permettere. Mi sarebbe piaciuto condurre la mia ricerca girando il mondo. Ma lavoro in un
ufficio otto ore al giorno, e lo spazio per cercare si limita a un batter di ciglia
nell'utero notturno della mia stanza.
Per questo, forse, ci ho messo così tanto a giungere fra le braccia della soluzione. Se
avessi avuto più tempo, ci avrei impiegato meno tempo!
Ma tant'è: dieci anni. Per arrivare fin qui. Davanti al libro. Il fine (o la fine?) della
mia ricerca.
L'inizio fu a casa di Paco. Le cose incominciarono lì. Incominciarono così: con una cena
fra amici. Una di quelle cene in cui ti senti così a posto col resto del mondo che a un
certo punto della notte incominci a ridere senza motivo e non ti fermi più.
Verso l'una, sul terrazzo, mentre fumavamo una sigaretta, uno di noi se ne uscì chiedendo
a un ragazzo che non avevo mai visto prima, e che si chiamava Cocunna, l'origine del suo
nome.
Ecco fatto. Cominciammo a parlare dei nostri cognomi. La regione di provenienza, la loro
diffusione in Italia, la loro origine.
Io dissi che il mio cognome aveva a che fare col mare. Lo avevo sempre creduto. E mi
piaceva. Il mare è vasto, misterioso, pieno di simboli. Scuro come il vino che stavamo
bevendo, profondo come le nostre passioni, come le nostre speranze, semplice come il mare
di granturco alle mie spalle.
Quando qualcuno, mi pare Stefano, disse che il mio cognome era probabilmente legato a un
villaggio dell'Est e ad alcuni antichi sacerdoti orientali, fu come scoprire che fino a
quel momento ero stata un'altra persona. Ho sempre pensato che ogni nome contenga un
destino. Sapere che il mio aveva un significato diverso da quello che gli avevo sempre
attribuito, mi portò a mettere in discussione me stesso.
Da quella sera, incominciai a cercare l'origine del mio nome. L'origine di me stesso.
Avevo smesso di essere mare: ero diventato, improvvisamente, un misterioso sacerdote
d'Oriente, un villaggio sperduto al di là delle vaste pianure dell'Est.
In me erano scomparsi l'impeto e il silenzio delle onde, il riflesso verde delle scogliere
sul mare, le corse del vento sui capelli di spuma dell'oceano. Il mio nome mi riportava
alle lontane notti stellate di Babilonia, agli imponenti templi di Sumer, e alle strade di
polvere d'un paese ignoto, all'indolenza delle due del pomeriggio, all'odore di spezie
sconosciute, al chiasso dei bazar, alla babele di oggetti misteriosi nel bric-à-brac in
fondo a un vicolo.
Manca poco ormai. Fra qualche minuto il parroco ci inviterà a consultare il libro. Non ho
più tempo per scrivere. Non ora, almeno. Mi piacerebbe raccontare la mia ricerca
silenziosa per filo e per segno. Tutte le mie sensazioni, tutte le mie paure. I mostri,
gli abbagli, i ripensamenti lungo la strada. Fino alla statua dell'angelo al centro del
paese e al cimitero in fondo alla valle pieno di lapidi col mio stesso nome.
Forse scriverò tutto. In un altro libro. In un libro più vasto.
Ora, seduto su questo muretto a secco incrostato dal muschio, sul ciglio della strada che
costeggia il bosco dove forse mio nonno ambientava le favole che mi raccontava per farmi
addormentare, non ho tempo che per gettare un po' del nero che mi compone sul bianco di
questa pagina ingiallita dal sole di questo paese sconosciuto, che forse è la terra dei
miei antenati.
Paco mi scuote il braccio con la mano. Mi fa cenno di guardare verso la chiesa.
Al di là del mare frusciante del mais, la figura scura del parroco. Davanti all'entrata
della chiesa, bianca come l'assenza. In mezzo ai leoni.
"Dai, " fa Paco, "andiamo. Ci sta aspettando."
Ci alziamo dal muretto. Un refolo di vento pare indurre per un istante gli alberi del
bosco a intonare una ninnananna, che però viene subito sopita dal rumore lontano d'una
macchina.
Mentre costeggiamo il campo di mais verso la chiesa, il parroco ci fa un segno con la
mano, forse un saluto. Sta sempre fermo lì: davanti al bianco accecante della chiesa.
"Ma che ci facciamo qui, Paco?"
"Stiamo cercando il tuo nome, non ricordi?"
Sorride.
Fra poco, con le sue dita abituate a sfogliare polverosi registri ecclesiastici, il
parroco di Merujevo mi aiuterà a risalire alle origini del mio nome, aggrappandomi alle
sue infinite variazioni registrate sul libro della parrocchia.
Forse ci sono. Sono quasi arrivato alla fine. E per la verità provo una certa nostalgia:
per tutte le notti di ricerca nel guscio di noce della mia stanza.
Se scoprirò davvero l'origine del mio nome, se svelerò il mistero che mi ha tenuto in
scacco per dieci anni, poi che farò?
Che farò, senza più enigmi da risolvere?
Ormai a un passo dal portale, spero che questa chiesa non mi fornirà l'ultima risposta,
ma soltanto nuove domande.
Il parroco di Merujevo ci stringe la mano. Ci chiede qualcosa in un inglese stentato.
"Avete fatto buon viaggio?" Oppure: "E' stato un bel viaggio?"
Bellissimo, risponde Paco.
E ha ragione.
E' stato un viaggio davvero bellissimo. |