è nato a Catania nel giugno del
1977. |
IO HO PAURA DEL
CONIGLIO Dedicato alla stanza "Quando ero piccolo Nessuno si accorge di me. Che sto passando. Giorgia mi aspetta all'angolo. *** Era il novembre dell'81, era autunno e c'era la neve e mia madre aveva un esaurimento nervoso e gli alberi del giardino erano bianchi e scintillanti e toccava stare attenti a starci sotto che erano carichi di neve che i rami quasi si spezzavano e se ci finivi sotto ti facevi male, diceva mamma, e tocca portati all'ospedale e io avevo paura delle punture e all'ospedale non ci volevo andare e sotto gli alberi non ci ero più andato da quando mamma mi aveva detto che poi toccava portarmi all'ospedale e lì ti facevano le punture e tutto il resto e a me facevano paura le punture ma mio fratello D.B. sotto l'albero voleva portarmici per forza perché aveva deciso che il pupazzo di neve voleva farlo lì e io dovevo aiutarlo che diceva che ero il suo ufficiale in seconda, come Bixio per Garibaldi e Mazzinga femmina per Mazzinga maschio e io non volevo essere Mazzinga femmina che era rosa e sparava i razzi dalle tette e all'ospedale non ci volevo andare e strillavo stridulo e stonato come la tromba del puffo suonatore, strillavo e strillavo e dentro casa mamma strillava e papà pure e mio fratello D.B. mi tirava per la manica del cappotto e io piangevo che tanto non me ne fregava niente del suo pupazzo schifo e D.B. diceva che lo dovevo aiutare che sennò diceva a mamma che avevo visto quel film della paura che papà aveva detto di non vedere ma per me poteva pure dirglielo che sotto l'albero non ci andavo lo stesso e a farmi fare le punture neanche e D.B. tirava più forte la manica sdrucita del mio cappotto e allora ci casca addosso la neve ghiaccia dall'albero e era come essere inghiottiti nella pancia della balena dove la voce rimbomba e stai in una grotta fatta con le costole, ma poi era come quando l'aspirapolvere inghiottisce una cartaccia che sembra che è scomparso qualcosa in un secondo e allora sparirono le grida di mamma e le mie e la faccia di D.B. e la voce di papà, sparì tutto. E poi c'erano gli occhi di papà neri neri che mi guardavano da sopra la mia faccia col soffitto di casa per sfondo e io ho detto dove stava D.B. e non ho detto che era colpa sua perché sentivo mamma che strillava ancora e piangeva pure e papà mi ha guardato dritto negli occhi ma non era come quando si arrabbiava, era come se non pensasse a niente e mi ha detto che D.B. stava bene ma si era rotto una spalla e poi mi ha guardato ancora una volta e lo sentiva pure lui che mamma piangeva ma era come se non la sentisse e mi ha detto che andava a prendere le sigarette ed era il novembre dell'81 e fuori c'era la neve e le strade erano ghiacciate e scintillavano e tutta Milano scintillava e nel nostro giardino toccava stare attenti a stare sotto gli alberi che sennò ti cascava la neve ghiaccia in testa e ti sfracellava la spalla come a D.B. e poi toccava che ti facevano le punture e a me le punture facevano piangere ed era una settimana che non dormivo e facevo gli incubi e sognavo quell'uomo vestito da coniglio vicino al maggiordomo in mutande che avevo visto in quel film della paura che papà mi aveva detto di non vedere e io lo avevo visto lo stesso e pensavo che era stupida la faccia di quel coniglio e che col film non centrava niente e che non dovevi avere paura di quello, magari della voce del bambino o del padre che dava un'accettata sul petto a quel negro ma non dovevi averci paura del coniglio e del maggiordomo anche se io sognavo tutte le notti quel coniglio che m'inseguiva e il maggiordomo col vestito nero e il cravattino che strillava "Mr. Grady! Mr. Grady" ed era novembre e c'era già la neve a Milano e mio fratello D.B. s'era rotto la spalla e mia madre piangeva e mio padre mi aveva detto vado a comprare le sigarette e poi a casa non c'è mai più tornato. *** "Lei crede dottore?" *** Mentre cammino con la mano stretta a quella di Giorgia, penso a mio
fratello. *** Così arriva una sera che sali in macchina.
E la morte salvò solo il pianto di chi, suo malgrado, rimase Seduto su una sedia di plastica nera Antoine si torturava nevrotico il labbro inferiore. Le mani, invisibilmente, tremavano per il freddo: sei gradi la massima, meno ventitré la minima; lautunno più freddo degli ultimi trentanni, o almeno così avevano detto i telegiornali in una di quelle inutili notizie di coda. Guardava da quasi quindici minuti il muro dipinto di uno sporco bianco ospedaliero; pareva ne volesse scorgere tutte le imperfezioni, ogni minima crepa dellintonaco; pareva stesse disegnando nella sua testa una minuziosa planimetria di quella parete, prendendo poco a poco coscienza di ogni macchia, di ogni alone, mentre catturava passivo con gli occhi quelle statiche inutili immagini. Poi, inaspettatamente, si alzò in piedi, assalito dalla psicotica voglia di fare qualcosa. Si guardò intorno. Prese da una tasca il pacchetto di Davidoff. Uscì: freddo cane bastardo. Ci fu un istante di calore e luce che seguirono la fiamma dellaccendino. Poi nuovamente buio e freddo. Girò per un po la sigaretta tra le dita osservando in maniera patologicamente attenta le due righe argentate che separavano il tabacco dal filtro, linizio dalla fine. La vita dalla morte. E tra le due righe cera un minuto spazio di carta bianca: lì pareva risiedere il limbo; lassurda via di mezzo. È il momento che nessuno coglie e che tutti vedono. I medici lo definivano "coma". Antoine non lo definiva affatto. Qualcuno disse che avevano aperto il Vetro. La voce corse di persona in persona come un fruscio sommesso: era uno storto fievole spostamento daria, aveva il profumo del burro bruciato e delle Vigorsol, impregnato negli aliti di una cinquantina di bocche. Antoine buttò la sigaretta appena accesa. Salì le scale facendosi educatamente spazio. Il Vetro lavevano aperto davvero. Laria attorno sera fatta pesante, umida di lacrime, dinerme tristezza; trapelava dal Vetro la stanca luce di un neon bianco, si rifletteva sulle pareti, rimbalzava sul pavimento rotolando schizofrenica di malato in malato, di medico in medico, scivolando passiva sui camici sterili, sfiorando le apparecchiature, gli schermi per gli elettroencefalogrammi Quello di Jhonny era piatto. Cazzo era piatto! Il mare in quelle merdose giornate di bonaccia è piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto .. Jhonny era lì. Antoine dallaltra parte del Vetro: lontano dalla morte, ma quella era a due passi, come lo è sempre. Può starti accanto per anni senza che tu te ne accorga. Fortunatamente stavolta la vedeva. Che culo! Appoggiò la testa sul Vetro. Era come prendere a capocciate linferno, un oltretomba a trentasei gradi. Rialzò la testa e lo osservò di nuovo: era crocefisso sul lettino, perforato dalle flebo, intossicato dai tubi. Dalle palpebre gli colava impalpabile lanima lisa, acida, che in parte scorreva ancora nelle vene, in parte sciacquava liquida fuori dai suoi occhi, si diluiva a macchia sul petto che si muoveva cazzo si muoveva! Comè possibile?-. Era solo lillusione della tecnologia, leco virtuale di una vita impiccata al tubo dellossigeno. -fanculo-. "Che palle!" le parole scivolarono flebili sul Vetro. Ci si schiantarono contro stridendo con le unghie per aggrapparsi alla superficie liscia.Caddero inevitabilmente per terra. Lui si voltò. Non è facile stare di fronte alla fine: Antoine non ci riusciva. Non poteva guardare la vita di Jhonny spegnersi; o forse era già spenta; forse non lo era; ma lui non era assolutamente in grado di dirlo. Françoise gli poggiò una mano sulla spalla, si aggrappò alla sua giaccavvento, pareva dovesse cadere, era come se dovesse svenire; stringeva, tra le dita tremanti, con una forza isterica la giacca di Antoine, la giacca blu di Antoine, la giacca blu acetata di Antoine. Françoise se ne stava immobile, muovendo invisibilmente le mani in un susseguirsi di milioni di isterici gesti che volteggiavano sul filo della follia, si fondevano nellangosciante danza della paura. Dun tratto gli si gettò addosso. Antoine rimase immobile. "Non è vero, lo so che non è vero, lo so che non è vero, dimmi anche tu che non è vero Antoine lo so ci sta prendendo tutti in giro vuole fare il patetico, ma non se lo può permettere, noi siamo stupidi a compatirlo è facile lo vedi che è facile Antoine lo vedi che è facile " le parole di Françoise salivano flebili, parole dovatta che parevano uscire dalla giacca di Antoine. Lui non le chiese cosa "fosse facile", non gli passò assolutamente per la testa. Tanto quello era il palcoscenico dellisteria, si recitava senza canovaccio; era la babele delle frasi senza alcun senso; nessuno pensava neanche lontanamente di capire ciò che diceva. Françoise parlava senza sbalzi di tono. Non piangeva. Parlava e basta mentre massacrava con le mani un lembo della giacca di Antoine. Era la donna di Jhonny; cioè lo era stata insomma, erano stati insieme. Stava con lui in macchina. Non voleva ricordarselo. Premette gli occhi sul petto di Antoine. Ricacciò dentro lacrime, immagini e quantaltro si può annidare sotto le palpebre, ma le immagini tornavano e lei provava a spingerle di nuovo dentro, e quelle erano come un pendolo, scandivano sulla scia del loro moto ondulatorio linfame ritmico strazio. -"Andiamo a vedere The Sixth Sense?"-. Dio no! -Accostati da un lato della strada. Cera un posacenere in macchina, era aperto; ci aveva spento in quel momento una sigaretta; usciva ancora fumo; azzurro; un azzurro polvere.-. Stava per soffocare Antoine. Nessuno poteva capire; se guardavi attentamente potevi vederlo: era il passato; un attimo lontano chilometri, universi distanti trentasette ore. Potevi percepire quei due microcosmi soffocati nel plateau della loro paura incosciente. "No, sarà il solito film esageratamente ragionato. Dai portami a vedere uno di quelli stupidi: uno di quei film "leiamaluimaluinonlavuoleepoisisposanoevisserotuttifelicie- contenti".- Ci sono frasi che nella vita non si vorrebbe mai aver detto. Sono le ultime le parole che ricordi, quelle che ti vorticano nella testa, che ti saltellano qua e là per la scatola cranica. Avrebbe potuto dire qualcosa di più sensato, Françoise, ma aveva detto quella frase idiota; non sapeva che era lultima volta che gli parlava. Se lavesse saputo forse avrebbe detto qualcosa di più sensato. Ma aveva detto quello. Quello e basta. Centocinquanta chilometri orari. Erano due universi in collisione, anzi, uno era fermo, laltro lanciato a centocinquanta nel buio di una strada secondaria. Era una scommessa col destino; un appuntamento atteso ventisei anni, lappuntamento di Jhonny. Già troppe volte aveva salvato il culo; alla fine si era sempre portato la pellaccia a casa. Voleva tornarci anche quella volta a casa per dire che ce laveva fatta, ma da zero a centocinquanta in meno di due secondi è unaccelerazione notevole. -Françoise parlava, si aspettava, una risposta; urlava più che altro. Aveva paura- Non ricordava cosa avesse detto: qualcuno aveva staccato laudio ai suoi ricordi. Françoise sollevò gli occhi, traslucidi, dolcissimi. Antoine la guardò. Pianse. Pianse piano. Non era un pianto soffocato; non singhiozzava neanche. Poi prese per un braccio Françoise, la fece uscire, la mise in macchina e laccompagnò a casa.
***
Cadeva una pioggia fitta e invisibile di quelle che ci si accorge che sta piovendo solo quando si è completamente fradici; pioveva insomma, da quello che a Parigi si definisce un ciel crotte. La gente passeggiava inutilmente avanti e indietro, guardando per terra, parlando ogni tanto, singhiozzando più spesso. Cera chi aveva fatto la scorta dei clinex, spinti da quella scontata idea che ad un funerale bisogna piangere; lo si sente più spesso come un dovere che come lesatto sfogo del dolore. In realtà spesso si prova dolore per linsano convincimento che sia opportuno essere solidali con chi soffre: ci si sente bene con se stessi quando si è pietosi nei confronti dei disgraziati. Cera una sola figura statica in quel via vai isterico e compassato. Era la stella intorno cui gravitavano incostanti quei pianetini, schegge impazzite di una meteora; sembravano cavallette mentre gli si accostavano fulminee per elargirgli la loro misurata pietà e poi saltavano via per consolare compassionevoli qualcun altro. Il padre di Jhonny se ne stava fermo lì, congelato sulla sommità della scalinata della chiesa e guardava lontano; guardava lontano con gli occhi liquefatti nel vuoto. Ma chi avesse guardato meglio, seguendo il suo sguardo umido avrebbe potuto scorgere il punto esatto dove si concentravano i pensieri di quelluomo canuto: il suo volto era rivolto lì dove il cielo si contorceva in una cornucopia di condensa, dove si contraeva il dolore di insensibili divinità uranie che condensavano il loro buonismo pietoso sopra i tetti di quellenorme incoerente Parigi. Unauto scivolò leggera sul fango della strada sterrata; dietro il carro funebre affondava pesantemente le gomme in quellappiccicosa fanghiglia del mondo, sineddoche di una strada che non si vuole definire. Lauto passò oltre il campo visivo dei centoventi occhi di quella sessantina di anime dallo sguardo flemmatico; il carro funebre si accostò da un lato: si squagliavano i volti sulla bara; quella sinfilò leggera tra la gente, pareva schivare le gocce insistenti di quella pioggia fitta, di quelle che ci si accorge che sta piovendo solo quando si è completamente fradici: la bara non si bagnò affatto. Penetrò dentro la chiesa, in coda una stanca carovana di persone fradice per il tempo o per la tristezza o per entrambi. Era il promiscuo accatastarsi della gente che smaniava di una vita improduttiva nel suo scontato e inutile percorso; la curva di una frequenza di colore che svaria, sbiadisce, da bianco implode in nero, chiude la curva; spegne. Saliva da quei corpi lesalazione fetida dei cadaveri: il genere sommo, la massima evoluzione della specie, non è nientaltro che la cinica presa per il culo delleternità che lha creato; storpio e incompiuto, mentre il Demiurgo se la ride di brutto. Stando attenti si poteva sentire anche il ruggito, il ruggito di quei sessanta conigli, e più lontano altre migliaia di ruggiti sempre più flebili; chiusa nella gabbia la preda si diverte a fare il predatore, si fa pavone, apre la coda per far paura prima di essere divorata tra le fauci della vita che scivolava via svelta ad ogni istante. Il padre di Jhonny restava dietro; il padre di Jhonny poteva essere un padre qualsiasi, poteva essere il padre di qualcun altro, magari poteva anche non essere il padre di nessuno, ma era il padre di Jhonny, cioè lo era stato. Pensava in quel momento che sarebbe stato sufficiente cambiare un semplice dettaglio, sarebbe solo bastato che a sua moglie quella sera non fosse andato o che si fosse trattenuto in ufficio fino a tardi perché la sua vita ora fosse diversa; sarebbe bastato un nonnulla per sconvolgere lequilibrio incerto di unesistenza costruita come con i pezzi di un ipotetico domino; un precario castello di carte francesi.
***
Unauto grigio argento indugiava nel buio spesso di una serataccia appiccicosa di foschia. Alla guida un ragazzo di diciannove ventanni al massimo; i capelli ancora puzzolenti di doccia-schiuma da mega ipermercato; le ascelle e la faccia trasudavano Axe. Nella desolazione circostante di quelle strade invisibili di un novembre lattiginoso di tanto in tanto passava giusto qualche spazzino negro; non erano proprio un gran belvedere, anche perché non si vedevano affatto dimmi come cazzo fai a vedere un negro di notte e con questa merdosa foschia che è già tanto se vedi il cruscotto. Potrei addirittura scambiare un negro per un colono, uno di quegli stramaledetti indigeni bianchi-. Il ragazzo alla guida sembrava divertito dai suoi pensieri, sorrideva patetico, inopportuno; giocava indiscreto con le dita sul volante di simil-pelle. -I turisti credono tutti che Parigi di notte sia romantica, ma sono sicuro che qui un Giapponese non ha mai poggiato il suo fottuto trentasette di piede, né la sua strafottuta Fujica o Canon o Dio sa solo quale cazzo di altra macchinetta dal teleobbiettivo a metraggio ha mai aperto il suo occhietto meccanico per impressionare un solo negativo con questa merda- xenofobi pensieri sconnessi scoreggiavano in quella testolina bionda e profumata. Era una sera come tante sere dautunno: le foglie che cadono, la gente sempre più infagottata nei propri tristi panni medioborghesi, le giornate sempre più corte, la pioggia che cade stronza e flebile un giorno sì e il giorno dopo più forte. Insomma era una sera come tante sere parigine dautunno, un autunno che quella sera però pareva fosse diventato eterno. Lauto inchiodò decisa sotto un portone quasi invisibile, camuffato dallenorme indicazione di un Intermarché e dallinsegna di un parcheggio multi-piano. Una ragazza infreddolita, semi-inghiottita da un enorme e prematuro sciarpone invernale, pareva lo aspettasse già da un pezzo. Salutò invadente con un gesto esageratamente costruito della mano. Corse un poco; si fermò di fronte alla portiera. Quello da dentro gliela apri in faccia. Chiese scusa, lei rideva col naso in mano, lui richiuse lo sportello e lo riaprì lentamente. "Sei sempre il solito cazzone!" "Io te lavevo detto di rifarti il naso." Lei ride; poi parla ancora: "Che facciamo?" "Ancora non lo so. Adesso ci facciamo un giro, così ti godi il panorama di questa splendida serata; forse se ti sforzi puoi anche vedere il bordo del marciapiede dal finestrino." "Eh si! Sei sempre il solito cazzone" e ricomincia di nuovo a ridere. -Che serata del cazzo- era la frase che palpitava a intermittenza tra le meningi smembrate da quellumidità: un mal di testa che a prendere una spranga bollente in culo non avresti sentito nessun dolore. Quella sera gli sarebbero bastati un paio di Cassis per andare lungo e invece si trovava a paccare in un parcheggio come un liceale, casto e olezzante tra le braccia della sua principessa dal quoziente intellettivo sessantanove; oltretutto quei merdosi sedili di scamosciatino sintetico gli facevano anche allergia. "Bene, se adesso ti va di fare qualcosa sparala subito o io vado a casa ché ho un mal di testa che non so come cazzo ci sta tutto qui dentro" deciso si tira su e si mette a sedere lasciando giù lei che oramai a preso la forma del portaoggetti. Ci fu un momento di silenzio che li lasciò entrambi così, senza una sensazione precisa da ricordare: una poltiglia di imbarazzo, serenità, stupore, paura, panico; la faccia di lei ancora col segno della portiera su una guancia, la faccia di lui con gli occhi ancora spalmati sulle sue tette. Poi risero; risero. E poi risero ancora, senza motivo. Risero. Risero fino a conficcarsi la pancia nei ginocchi; fino a che i loro occhi non assomigliarono a quattro palloni da football; fino a che non smisero. E smisero del tutto. "È per questo che ti voglio bene" lei guardava lontano, per quanto la cosa più lontana che scorgeva era il cofano della loro auto, ma insomma, se avesse potuto avrebbe guardato senzaltro lontano, ma lontano davvero, lontano dove nessuno era mai arrivato a guardare: con due occhi tumefatti dalle risa puoi guardare anche che cazzo fa tuo zio in California (se hai il culo di averne uno). Ma non lo poté fare. Quindi guardò il cofano. Lui restava sospeso con gli occhi a metà tra terra e cielo mentre era ormai convinto di avere degli splendidi sedili reclinabili. Poi quando nessuno mai se lo sarebbe sognato accese la macchina e partì. Lei aveva ripreso instancabile a parlare. Il motore fece del suo meglio per coprire gli stupidi ragionamenti a voce alta di quella bambina viziata e soporifera, ma le sue parole suonavano come le note di un violino scordato sfregato coi denti. Il suo sistema nervoso stava andando in pezzi; lemicrania prendeva rapida il posto del suo cervello ragionando lenta; gli pareva di avere al posto dei centri nervosi numerose stazioni del telegrafo che comunicavano tra loro con sibili acuti: linea linea, punto, punto linea punto, linea punto punto, punto linea. La macchina inchiodò di colpo in mezzo alla strada, poi lentamente si spostò sul lato destro accanto al marciapiede. "Senti" disse lui "non ce la faccio più. O facciamo qualcosa o ti riporto a casa. Sto troppo male." Lei lo guardò accigliata come se la fosse presa, poi sorrise: era un sorriso scemo, ma erano gli occhi che sorridevano, non la bocca; due occhi azzurri liquefatti, due occhi che parevano non guardare lui; per la verità parevano non guardare proprio niente, ma piangevano e sorridevano e poi piangevano ancora. Poi dun tratto i suoi occhi sembrarono di nuovo i suoi occhi e lei tornò di nuovo a guardarlo accigliata. Lui non ci capì più nulla ma non pensò assolutamente di capirci qualcosa. "Ti va di andare al cinema?" Lei aveva del tutto ripreso coscienza. Lui si sentiva come un imbuto dove lei versava violenta e stridula tutte le sue frasi insulse. Lui gli sparò qualche film iper-ragionato. Lei come da previsione disse di no. Poi disse qualche altra frasetta scema. Lui non ci fece caso. Gli pareva che non stesse parlando ma che emettesse un suono continuo e perpetuo. Si domandava se a volte prendesse fiato. Poi cominciò a girare -gli parve di aver sentito il rumore di uno sparo solo meno sordo-. Da lì in poi non ci fu più nulla, solo girare; era un vorticare prima convulso, poi sempre più leggero; volteggiare leggiadro di una ballerina dellOperà. Strani pensieri cadevano dai suoi occhi, liquidi come lacrime scialbe di un invisibile sofferenza. Ma non aveva più il mal di testa. Squarci di rumori tagliavano acuminati istanti eterni, ma non sembravano altro che fugaci interferenze in quel silenzio divino. Per qualche secondo quel silenzio parve parlare, pressappoco diceva: " leiamaluimaluinonlavuoleepoisisposanoevisserotuttivisserofeliciecontenti" Poi parole da lontano "Jhonny!" |