Marco Motta

è nato a Catania nel giugno del 1977. 
E' stato finalista del Pordenone Legge nel 2002. Attualmente dirige Décadance la fanzine off-line di racconti inediti www.cadnet.org/decadance

IO HO PAURA DEL CONIGLIO

Dedicato alla stanza
di Cipro

"Quando ero piccolo
non pensavo che finiva così"
A. Nove

Nessuno si accorge di me. Che sto passando.
Basta scivolare felpato sopra l'asfalto scintillante della prima pioggia. Scivolare, tra la gente dai cappotti avviliti color pastello, collezioni autunninverno magnigriffate by Armani Emporio, in tonalità stentoree di grigio perla color tristezza.
Tutto sembra più vecchio, sbiadito. Insieme all'autunno.
Per questo ho imparato a scivolare inosservato, come fantasma, spettro; strisciare per i sentieri di luce di questa città, sentieri che, anche loro, scivolano, soffiati via oltre il bordo degli occhi dove tutto s'esaurisce fino a smettere affatto di esistere.
Così, devo scivolare. Ché nessuno s'è mai accorto di me, fin ora, anche quando non scivolavo ma rintronavo pesante come il cielo d'acciaio che avvolge questo maledetto autunno senza tempo: cielo grigio di millenni addietro.
Ma ora ho imparato: ho imparato a scivolare tra i volti e i vestiti e gli odori, ho imparato a non restarci invischiato, a non dovermi arenare, messo in mezzo dalla vita.
Ché sono in fuga. -?- Sì: in fuga. Da cosa? E cosa ne so. Tanto io scivolo. A trent'anni ho imparato a farlo -scivolare, insomma-. Ché stamattina ho strappato con le pinzette quel maledetto capello bianco che da giorni spiavo da dietro lo specchio, morendomene di terrore. Un capello bianco -bianco da far paura!- cadavere- cadavere di una vita trascorsa, lasciata passare, in fondo; tanto te ne sei fregato che quasi non riesci a ricordartene -ché ti sei lasciato vivere. Forse neanche te ne sei accorto che la vita è passata.
Passata: insieme a tutte le maledette stagioni della tua esistenza.
Come la vita. Passata: che t'ha sfiorato -soltanto quello-. T'ha sfiorato, soffiandoti rasente le orecchie. Scivolando, in fondo. Anche lei.
A trent'anni la mia vita la ricordo appena.
E allora scivolo. A trent'anni. Ché ho imparato solo ora a difendermi. A scivolare come sanno scivolare i migliori, rasente i muri, lungo i sentieri di luce e d'asfalto scintillante dei marciapiedi d'autunno, sopra le pozzanghere iridescenti di Castrol semisintetico per motore due tempi, per imparare a scalare quegli scomposti arcobaleni di luce lubrificata e vischiosa.
Ché ho trent'anni. Che sono troppi per imparare. Ma ce l'ho fatta. E ora soltanto so scivolare. E so fuggire. E voglio. Cazzo! Ora che ho trent'anni e la vita sembra del tutto passata. Senza memoria, per giunta.
Per questo nessuno s'accorge di me. Ed io neppure.
Che sto passando. Ma in silenzio.
Perché come un soffio di vento: scivolo.

Giorgia mi aspetta all'angolo.
La raggiungo e la saluto distratto.
Giorgia mi aspetta all'angolo. Da una vita. Da quando siamo fidanzati, Giorgia mi aspetta all'angolo, che non c'è neanche più da telefonarci per dircelo. Io lo so: lei mi aspetta all'angolo, fiduciosa; che tanto arriverò e questo lei lo sa per certo.
Giorgia mi aspetta all'angolo. E ogni volta mi pare sempre di trovarcela per caso, come se non lo sapessi che è lì.
È che io Giorgia la incontro, non la vado a cercare. Lo faccio solo a volte -andarla a cercare, insomma. Lo faccio a volte, quando sono triste, più spesso quando è autunno perché sono maledettamente metereopatico ed ogni cielo grigio è una lacrima che inspessisce le angosce.
Ma questa volta no, anche se è autunno. Questa volta non sono andato a cercarla. Questa volta è lei che s'è imbattuta a caso nella mia esistenza. Questa volta è stata lei ad incrociarsi vaga con le mie domande mediocri e la mia vita che, distrattamente, scivola.
Giorgia mi aspetta, distratta, all'angolo. Giorgia mi aspetta da tutta una vita, e ogni volta si meraviglia come non se l'aspettasse.
E mi meraviglio anch'io di incontrarla, di restare cogli occhi incagliati in quel sorriso sospeso e ingenuo, di vederle gli occhi lucidi come se avesse pianto. E per un attimo mi sfiora il pensiero che l'abbia fatto davvero -piangere- e ne provo fastidio.
Ma Giorgia sorride e mi aspetta all'angolo e non può essere triste per nulla al mondo.
E infatti non è triste. Anche se ha gli occhi dolcissimi e lucidi e pieni di lacrime. Ma forse è per il vento. Ché Giorgia non è triste. Mentre mi abbraccia e mi stringe e abbraccia con me tutti i pallidi colori dell'autunno che le dipingono il viso. Mentre mi abbraccia e stringe al petto la vita, la sua, che ancora se ne ricorda abbastanza da non dover scivolare per nascondersi tra le pieghe di minuti infiniti fatti per lasciarsi esistere.
Giorgia ha vent'anni e capelli biondi e sottili e occhi colore del mare d'inverno e mani leggere e unghie di smalto azzurre e un cappottaccio vecchio di quattro inverni almeno.
Giorgia vive: tra l'angolo dove m'incrocia a ogni passo e la sua cameretta bambina dove quegli infiniti vent'anni non sono mai passati.
E io incontro Giorgia. E, d'un tratto, smetto di scivolare e mi dimentico che ho trent'anni e capelli bianchi da sradicare con le pinzette e non ho un lavoro, però ho un padre che aveva detto che andava soltanto a comprare le sigarette e non è più tornato e una madre che soffre di depressione e un fratello che s'è sposato, ha quattro figli, fa l'assicuratore e ha imparato a fregarsene; e che ho trent'anni, soprattutto.
Ma Giorgia vive. Anche se vive di questi miei abbracci distratti. Giorgia, però, vive. In faccia ai miei trent'anni.

***

Era il novembre dell'81, era autunno e c'era la neve e mia madre aveva un esaurimento nervoso e gli alberi del giardino erano bianchi e scintillanti e toccava stare attenti a starci sotto che erano carichi di neve che i rami quasi si spezzavano e se ci finivi sotto ti facevi male, diceva mamma, e tocca portati all'ospedale e io avevo paura delle punture e all'ospedale non ci volevo andare e sotto gli alberi non ci ero più andato da quando mamma mi aveva detto che poi toccava portarmi all'ospedale e lì ti facevano le punture e tutto il resto e a me facevano paura le punture ma mio fratello D.B. sotto l'albero voleva portarmici per forza perché aveva deciso che il pupazzo di neve voleva farlo lì e io dovevo aiutarlo che diceva che ero il suo ufficiale in seconda, come Bixio per Garibaldi e Mazzinga femmina per Mazzinga maschio e io non volevo essere Mazzinga femmina che era rosa e sparava i razzi dalle tette e all'ospedale non ci volevo andare e strillavo stridulo e stonato come la tromba del puffo suonatore, strillavo e strillavo e dentro casa mamma strillava e papà pure e mio fratello D.B. mi tirava per la manica del cappotto e io piangevo che tanto non me ne fregava niente del suo pupazzo schifo e D.B. diceva che lo dovevo aiutare che sennò diceva a mamma che avevo visto quel film della paura che papà aveva detto di non vedere ma per me poteva pure dirglielo che sotto l'albero non ci andavo lo stesso e a farmi fare le punture neanche e D.B. tirava più forte la manica sdrucita del mio cappotto e allora ci casca addosso la neve ghiaccia dall'albero e era come essere inghiottiti nella pancia della balena dove la voce rimbomba e stai in una grotta fatta con le costole, ma poi era come quando l'aspirapolvere inghiottisce una cartaccia che sembra che è scomparso qualcosa in un secondo e allora sparirono le grida di mamma e le mie e la faccia di D.B. e la voce di papà, sparì tutto. E poi c'erano gli occhi di papà neri neri che mi guardavano da sopra la mia faccia col soffitto di casa per sfondo e io ho detto dove stava D.B. e non ho detto che era colpa sua perché sentivo mamma che strillava ancora e piangeva pure e papà mi ha guardato dritto negli occhi ma non era come quando si arrabbiava, era come se non pensasse a niente e mi ha detto che D.B. stava bene ma si era rotto una spalla e poi mi ha guardato ancora una volta e lo sentiva pure lui che mamma piangeva ma era come se non la sentisse e mi ha detto che andava a prendere le sigarette ed era il novembre dell'81 e fuori c'era la neve e le strade erano ghiacciate e scintillavano e tutta Milano scintillava e nel nostro giardino toccava stare attenti a stare sotto gli alberi che sennò ti cascava la neve ghiaccia in testa e ti sfracellava la spalla come a D.B. e poi toccava che ti facevano le punture e a me le punture facevano piangere ed era una settimana che non dormivo e facevo gli incubi e sognavo quell'uomo vestito da coniglio vicino al maggiordomo in mutande che avevo visto in quel film della paura che papà mi aveva detto di non vedere e io lo avevo visto lo stesso e pensavo che era stupida la faccia di quel coniglio e che col film non centrava niente e che non dovevi avere paura di quello, magari della voce del bambino o del padre che dava un'accettata sul petto a quel negro ma non dovevi averci paura del coniglio e del maggiordomo anche se io sognavo tutte le notti quel coniglio che m'inseguiva e il maggiordomo col vestito nero e il cravattino che strillava "Mr. Grady! Mr. Grady" ed era novembre e c'era già la neve a Milano e mio fratello D.B. s'era rotto la spalla e mia madre piangeva e mio padre mi aveva detto vado a comprare le sigarette e poi a casa non c'è mai più tornato.

***

"Lei crede dottore?"
"Cosa intende?… positivo…"
"...ma positivo, cioè che va bene o…"
"Capisco"
"No, non sono sposata. Ma... scusi, che fa ci prova?"
"Oh sì -?-... allora mi perdoni... davvero, mi perdoni ma sa... di questi tempi non si sa più come comportarsi"
"Come dice? Eccessiva viscosità del sangue?"
"Ah... capisco"
"Mi scusi dottore... ma, mi dica: è grave?"
"Capisco... sì. Smettere qualsiasi medicinale ... -?- ... no, non prendo nulla del genere"
"No, non fumo"
"Nausee? Ci penso... non mi pare... no, no: non mi pare proprio... ultimamente..."
"No, proprio no! Non ho nausee da parecchio. Ma, mi permette, dovrei averne?"
"Capisco... mi spiace ma non ne ho... affatto."
"Sì. Sicuramente"
"Sì"
"Certo... sì"
"Ma, scusi tanto, permette una domanda? Cosa intende per "stato interessante"?"
"Oh... mi... mi scusi... no... non volevo... ancora scusi... non volevo proprio... -ma s'è rotto?-... no è che... oddio... mi dispiace davvero... sì, mi scusi... sì: di stare calma, sì... ci provo..."
"Come dice scusi?"
"Beh, non credo che ne abbiamo parlato con... se l'ho saputo io adesso... -?- no... non credo, almeno"
" Come la prenderà? ...no, in generale non ne abbiamo proprio mai parlato, seriamente intendo"
"È che lui è uno che ha parlare, come dire... è uno di quelli che parla poco... che non ci si spreca insomma... non so se mi spiego... pensa molto lui, come se ti dovesse dire qualcosa da un momento all'altro, come se fosse una vita che pensa per dirti quello che deve dirti che neanche tu lo sai, e pare sempre sul punto..."
"... ha ragione, mi scusi... sì, sì! È che mi sono lasciata prendere la mano..."
"No... sicuramente... ricordo che una volta ne abbiamo parlato di questo... diceva che di farmi abortire... sì, insomma, non se la sarebbe mai sentita... proprio così, ha detto che non se la sarebbe mai sentita... diceva che quello era come ammazzare qualcuno e ad ammazzare qualcuno dopo ti senti in colpa... in tutti i film quello che ha ammazzato qualcuno si sente in colpa... lo diceva lui questo... e un po' magari è vero, non so..."
"Non so... spero la prenda bene... sì... magari si può prendere bene pure una cosa così... non so se mi spiego"
"Di lui? No, non ho paura né di lui né di papà... affatto... ho paura di me più che altro..."
"Di me, sì... le dirò... ho paura di essermi giocata tutto, insomma, se mi capisce..."
"No, non stia a dispiacersi, la prego... non sono cose per cui vale la pena... non credo almeno... magari gli auguri... sì, come si fa in questi casi: gli auguri... ché sono cose che capitano in fondo..."
"La ringrazio... in fondo lo dicono pure le statistiche sulla scatola dei preservativi"
"Sì... quella storia del novantasette percento di probabilità che non... lei capisce vero?"
"La mia mamma diceva sempre che quelli tocca usarli ma il tre percento che rimane è fatto di bambini, insomma"
"Proprio così, bambini..."
"...scusi sa, ma in fondo... quanti bambini sono nati per colpa di quel tre percento?"

***

Mentre cammino con la mano stretta a quella di Giorgia, penso a mio fratello.
Mentre cammino, sfiorando coi piedi il mondo -io e Giorgia- mentre, con lei pure, scivolo, mentre cammino penso a mio fratello D.B. che ha avuto un mucchio di ragazze e s'è diplomato in ragioneria. Diceva sempre che a trent'anni sei più vecchio che a ventinove, e io dicevo che non ci voleva il diploma di ragioniere per dire cose così. Ma ora so che questa è stata forse la cosa più vera che mi abbia mai detto D.B, che ha avuto un mucchio di ragazze e, magari, s'è perfino divertito. Mentre cammino penso a mio fratello D.B. che ha avuto un mucchio di ragazze e s'è sposato e ora non ha più un mucchio di ragazze, però ha un mucchio di figli, mio fratello D.B., che me lo diceva che a trent'anni non ti ricordi più che sogni avevi, non ti ricordi neanche più che viso hai tante volte ti sei visto riflesso nello specchio. Tanto da evitarlo, per non vedere quei cent'anni di sonno che ti segnano gli occhi.
Mentre cammino penso a mio fratello D.B. e penso anche che io non ce l'ho avute un mucchio di ragazze. Però ho avuto Giorgia. E di sposarla non se ne parla. Ché non so odiarla fino a questo punto.
Mio fratello D.B. la odia sua moglie. Che la chiama Margot; e lei pensa che sia come uno di quei nomi affettuosi. E non lo sa che è il nome della strega di un libro russo. Non lo sa Margot, perché lei non ha mai letto nulla in tutta quella sua vita scema; e suo padre poteva permetterglielo, ché aveva i soldi per mantenerla tutta la vita a fare un cazzo. E Margot questo lo sapeva.
Mentre cammino penso a D.B. e a Margot, e guardo Giorgia che non stacca un attimo la sua mano dalla mia e penso che non la sposerò mai perché non voglio chiamarla Margot e ingravidarla un milione di volte e passare la sera a guardare alla tivù l'avanspettacolo seduti sul divano rifoderato a righe rosazzurre.
A fare questa vita la gente si sfascia e s'intristisce. Come mio fratello D.B. che s'è sposato solo per abbandonare mamma e non sentirsi in colpa. Per questo s'è sposato; e lo farei anch'io. Ma amo Giorgia. E per nulla al mondo la sposerei. Perché non voglio dover dire un giorno a mio figlio che vado a comprare le sigarette. Perché non voglio imparare ad odiarti, tesoro mio. No, affatto. Voglio vederti vivere, invece. Voglio sapere di poterti trovare mille volte ancora ad aspettarmi all'angolo. Per una vita intera: come fosse un istante e lo fosse per sempre. Per tutto il tempo che ci resta.
Voglio vederti vivere, ubriaca dei tuoi vent'anni e voglio incontrarti ogni volta per sbaglio, per smettere di scivolare. Ché accanto a te posso marciare per tutte le strade del mondo, in ogni stagione -anche d'autunno. Lungo i sentieri di luce e i marciapiedi d'asfalto scintillante. E non saremo mai come D.B. e la sua strega russa. Te lo giuro: mai.
Perché qualunque cosa accada io so scivolare. E nessuno s'accorge di me. Neanche io. Neanche tu.
E non imparerò mai ad odiarti. Perché so scivolare molto più in fretta anche di me.

***

Così arriva una sera che sali in macchina.
Oltre la barriera di Milano est la città brillava sospesa tra due oscurità sterminate, in bilico come sul nulla. Oltre la barriera di Milano est scintillavano le luci disordinate dell'interland e i lampioni, che, per quella spanna sotto il cielo prima dell'inferno, sbiadivano un istante di quel buio incredibile e pesante, appiccicoso di un cielo umido di nuvole colore del piombo.
Così arriva una sera che sali in macchina, esci da Garbagnate alla 25 sull'A-4 Milano-Bologna e basta soltanto un attimo per dimenticarsi di quelle luci sospese, di quella città infinita e del suo cielo colore del piombo. Sapendo che Giorgia ti siede a fianco, basta un istante.
Da un poco ha smesso di parlare. E ora c'è silenzio. Sognavi soltanto questo, da una vita, di prendere la macchina e uscire da Milano e prendere l'A-4 stando zitti ad ascoltare il buio della notte che in un istante ha inghiottito il mondo. Che non c'è più da guardarsi indietro, perché la barriera est con le sue luci malaticce e Garbagnate con la sua aria stretta e la tua vita pure quella stretta, strettissima, tutto se l'è mangiato la notte fino a domani.
Mi volto a guardarla ora che la strada è dritta e non c'è nessuno, mi volto a guardarla per leggerle in faccia quei vent'anni che invidio, che, te lo giuro, nessuno potrà strapparteli, mai.
Mi volto a guardare Giorgia, ed è come quando mi meraviglio di incontrarla, come quando mi aspetta all'angolo e a me tocca restare cogli occhi impigliati in quel suo sorriso sospeso e ingenuo, e spiarle gli occhi lucidi come se avesse pianto. Ma di certo, anche stavolta, è il vento. Ché non può essere triste. Ché Giorgia non è triste mai. Ne sono certo che è il vento a farti piangere; il vento e quest'odore d'umido e freddo che ti annega le narici, e gli occhi anche. E te l'ho promesso: te l'ho giurato che nessuno te li avrebbe portati via questi tuoi maledetti vent'anni, te lo giuro su Dio e su mio figlio, se non ti basta.
E mentre la guardo mi viene in mente, non so perché, il coniglio e il maggiordomo, che me lo chiedo ancora perché in fondo a quel corridoio c'era il maggiordomo in mutande e davanti quell'omino storpio travestito da coniglio. E, come fossero un tutt'uno col coniglio e il maggiordomo, mi vengono in mente D.B. e Margot e mamma e papà e quelle maledette sigarette che ancora sta in giro a cercarle...
Ma da nessuno ti farò rubare i tuoi vent'anni né i capelli né gli occhi o le unghie di smalto, neanche il tuo cappottaccio schifo ti porteranno via fin quando ci sarò io. Te lo giuro tesoro mio. Davvero.
E non devi piangere ché tanto so scivolare e t'insegnerò a farlo anche a te, ché ho imparato anch'io anche coi miei trent'anni negli occhi, e scivoleremo senza farci accorgere, svelti e felpati soffiandoci la vita oltre il bordo degli occhi dove tutto s'esaurisce fino a smettere, alla fine, affatto di esistere. E, d'un tratto, svanisce.
Volto gli occhi ancora una volta per guardarla e sorridere dai brividi. Volto gli occhi e la soprelevata scavalca d'un balzo il buio sotto di noi, e guardo Giorgia che si tiene stretta tra le mani la sua pancia di madre. Guardo Giorgia che si tiene stretta quel figlio che le ruberà i suoi vent'anni che te l'ho giurato che t'avrei salvato, te l'ho giurato su Dio e su quel figlio che ti tieni tra le mani e che vuole rubarti i sogni e le speranze e i tuoi capelli sottili e gli occhi sereni colore del mare d'inverno e darti unghie mangiate di smalto rosso e fianchi di madre stanca e occhi torbidi gonfi di paura e di grida lontane e di nevrosi che fanno piangere e impazzire, e allora spingo forte l'acceleratore e mi dimentico di Giorgia e di quel figlio che vuole rubarci gli anni e dimentico D.B. e Margot e mamma e papà e le sue sigarette, anche, e il gurdacorsia lo vedo appena mentre, dopo di lui, ci viene incontro quel buio umido e appiccicoso e freddo come il cielo di piombo di questa vecchia grigia frigida Milano.
Mi domando, ora, soltanto una cosa: ma, in fondo -ditemi-, quel maledetto coniglio, che cazzo ci stava a fare davanti al maggiordomo?

 


E la morte salvò solo il pianto di chi, suo malgrado, rimase

Seduto su una sedia di plastica nera Antoine si torturava nevrotico il labbro inferiore. Le mani, invisibilmente, tremavano per il freddo: sei gradi la massima, meno ventitré la minima; l’autunno più freddo degli ultimi trent’anni, o almeno così avevano detto i telegiornali in una di quelle inutili notizie di coda.

Guardava da quasi quindici minuti il muro dipinto di uno sporco bianco ospedaliero; pareva ne volesse scorgere tutte le imperfezioni, ogni minima crepa dell’intonaco; pareva stesse disegnando nella sua testa una minuziosa planimetria di quella parete, prendendo poco a poco coscienza di ogni macchia, di ogni alone, mentre catturava passivo con gli occhi quelle statiche inutili immagini.

Poi, inaspettatamente, si alzò in piedi, assalito dalla psicotica voglia di fare qualcosa. Si guardò intorno. Prese da una tasca il pacchetto di Davidoff.

Uscì: freddo cane bastardo. Ci fu un istante di calore e luce che seguirono la fiamma dell’accendino. Poi nuovamente buio e freddo.

Girò per un po’ la sigaretta tra le dita osservando in maniera patologicamente attenta le due righe argentate che separavano il tabacco dal filtro, l’inizio dalla fine. La vita dalla morte. E tra le due righe c’era un minuto spazio di carta bianca: lì pareva risiedere il limbo; l’assurda via di mezzo. È il momento che nessuno coglie e che tutti vedono. I medici lo definivano "coma". Antoine non lo definiva affatto.

Qualcuno disse che avevano aperto il Vetro. La voce corse di persona in persona come un fruscio sommesso: era uno storto fievole spostamento d’aria, aveva il profumo del burro bruciato e delle Vigorsol, impregnato negli aliti di una cinquantina di bocche.

Antoine buttò la sigaretta appena accesa. Salì le scale facendosi educatamente spazio. Il Vetro l’avevano aperto davvero.

L’aria attorno s’era fatta pesante, umida di lacrime, d’inerme tristezza; trapelava dal Vetro la stanca luce di un neon bianco, si rifletteva sulle pareti, rimbalzava sul pavimento rotolando schizofrenica di malato in malato, di medico in medico, scivolando passiva sui camici sterili, sfiorando le apparecchiature, gli schermi per gli elettroencefalogrammi… Quello di Jhonny era piatto. Cazzo era piatto! Il mare in quelle merdose giornate di bonaccia è piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto. Piatto……..

Jhonny era lì. Antoine dall’altra parte del Vetro: lontano dalla morte, ma quella era a due passi, come lo è sempre. Può starti accanto per anni senza che tu te ne accorga. Fortunatamente stavolta la vedeva. Che culo!

Appoggiò la testa sul Vetro. Era come prendere a capocciate l’inferno, un oltretomba a trentasei gradi.

Rialzò la testa e lo osservò di nuovo: era crocefisso sul lettino, perforato dalle flebo, intossicato dai tubi. Dalle palpebre gli colava impalpabile l’anima lisa, acida, che in parte scorreva ancora nelle vene, in parte sciacquava liquida fuori dai suoi occhi, si diluiva a macchia sul petto che si muoveva… cazzo si muoveva! –Com’è possibile?-. Era solo l’illusione della tecnologia, l’eco virtuale di una vita impiccata al tubo dell’ossigeno. -‘fanculo-.

"Che palle!" le parole scivolarono flebili sul Vetro. Ci si schiantarono contro stridendo con le unghie per aggrapparsi alla superficie liscia.Caddero inevitabilmente per terra.

Lui si voltò. Non è facile stare di fronte alla fine: Antoine non ci riusciva. Non poteva guardare la vita di Jhonny spegnersi; o forse era già spenta; forse non lo era; ma lui non era assolutamente in grado di dirlo.

Françoise gli poggiò una mano sulla spalla, si aggrappò alla sua giaccavvento, pareva dovesse cadere, era come se dovesse svenire; stringeva, tra le dita tremanti, con una forza isterica la giacca di Antoine, la giacca blu di Antoine, la giacca blu acetata di Antoine. Françoise se ne stava immobile, muovendo invisibilmente le mani in un susseguirsi di milioni di isterici gesti che volteggiavano sul filo della follia, si fondevano nell’angosciante danza della paura. D’un tratto gli si gettò addosso. Antoine rimase immobile. "Non è vero, lo so che non è vero, lo so che non è vero, dimmi anche tu che non è vero Antoine lo so ci sta prendendo tutti in giro vuole fare il patetico, ma non se lo può permettere, noi siamo stupidi a compatirlo è facile lo vedi che è facile Antoine lo vedi che è facile…" le parole di Françoise salivano flebili, parole d’ovatta che parevano uscire dalla giacca di Antoine. Lui non le chiese cosa "fosse facile", non gli passò assolutamente per la testa. Tanto quello era il palcoscenico dell’isteria, si recitava senza canovaccio; era la babele delle frasi senza alcun senso; nessuno pensava neanche lontanamente di capire ciò che diceva.

Françoise parlava senza sbalzi di tono. Non piangeva. Parlava e basta mentre massacrava con le mani un lembo della giacca di Antoine. Era la donna di Jhonny; cioè lo era stata…insomma, erano stati insieme. Stava con lui in macchina. Non voleva ricordarselo.

Premette gli occhi sul petto di Antoine. Ricacciò dentro lacrime, immagini e quant’altro si può annidare sotto le palpebre, ma le immagini tornavano e lei provava a spingerle di nuovo dentro, e quelle erano come un pendolo, scandivano sulla scia del loro moto ondulatorio l’infame ritmico strazio. -"Andiamo a vedere The Sixth Sense?"-. Dio no! -Accostati da un lato della strada. C’era un posacenere in macchina, era aperto; ci aveva spento in quel momento una sigaretta; usciva ancora fumo; azzurro; un azzurro polvere.-. Stava per soffocare Antoine. Nessuno poteva capire; se guardavi attentamente potevi vederlo: era il passato; un attimo lontano chilometri, universi distanti trentasette ore. Potevi percepire quei due microcosmi soffocati nel plateau della loro paura incosciente. –"No, sarà il solito film esageratamente ragionato. Dai portami a vedere uno di quelli stupidi: uno di quei film "leiamaluimaluinonlavuoleepoisisposanoevisserotuttifelicie- contenti".- Ci sono frasi che nella vita non si vorrebbe mai aver detto. Sono le ultime le parole che ricordi, quelle che ti vorticano nella testa, che ti saltellano qua e là per la scatola cranica. Avrebbe potuto dire qualcosa di più sensato, Françoise, ma aveva detto quella frase idiota; non sapeva che era l’ultima volta che gli parlava. Se l’avesse saputo forse avrebbe detto qualcosa di più sensato. Ma aveva detto quello. Quello e basta.

Centocinquanta chilometri orari. Erano due universi in collisione, anzi, uno era fermo, l’altro lanciato a centocinquanta nel buio di una strada secondaria. Era una scommessa col destino; un appuntamento atteso ventisei anni, l’appuntamento di Jhonny.

Già troppe volte aveva salvato il culo; alla fine si era sempre portato la pellaccia a casa. Voleva tornarci anche quella volta a casa per dire che ce l’aveva fatta, ma da zero a centocinquanta in meno di due secondi è un’accelerazione notevole.

-Françoise parlava, si aspettava, una risposta; urlava più che altro. Aveva paura- Non ricordava cosa avesse detto: qualcuno aveva staccato l’audio ai suoi ricordi.

Françoise sollevò gli occhi, traslucidi, dolcissimi. Antoine la guardò. Pianse. Pianse piano. Non era un pianto soffocato; non singhiozzava neanche.

Poi prese per un braccio Françoise, la fece uscire, la mise in macchina e l’accompagnò a casa.

 

***

 

Cadeva una pioggia fitta e invisibile di quelle che ci si accorge che sta piovendo solo quando si è completamente fradici; pioveva insomma, da quello che a Parigi si definisce un ciel crotte.

La gente passeggiava inutilmente avanti e indietro, guardando per terra, parlando ogni tanto, singhiozzando più spesso. C’era chi aveva fatto la scorta dei clinex, spinti da quella scontata idea che ad un funerale bisogna piangere; lo si sente più spesso come un dovere che come l’esatto sfogo del dolore. In realtà spesso si prova dolore per l’insano convincimento che sia opportuno essere solidali con chi soffre: ci si sente bene con se stessi quando si è pietosi nei confronti dei disgraziati.

C’era una sola figura statica in quel via vai isterico e compassato. Era la stella intorno cui gravitavano incostanti quei pianetini, schegge impazzite di una meteora; sembravano cavallette mentre gli si accostavano fulminee per elargirgli la loro misurata pietà e poi saltavano via per consolare compassionevoli qualcun altro. Il padre di Jhonny se ne stava fermo lì, congelato sulla sommità della scalinata della chiesa e guardava lontano; guardava lontano con gli occhi liquefatti nel vuoto. Ma chi avesse guardato meglio, seguendo il suo sguardo umido avrebbe potuto scorgere il punto esatto dove si concentravano i pensieri di quell’uomo canuto: il suo volto era rivolto lì dove il cielo si contorceva in una cornucopia di condensa, dove si contraeva il dolore di insensibili divinità uranie che condensavano il loro buonismo pietoso sopra i tetti di quell’enorme incoerente Parigi.

Un’auto scivolò leggera sul fango della strada sterrata; dietro il carro funebre affondava pesantemente le gomme in quell’appiccicosa fanghiglia del mondo, sineddoche di una strada che non si vuole definire. L’auto passò oltre il campo visivo dei centoventi occhi di quella sessantina di anime dallo sguardo flemmatico; il carro funebre si accostò da un lato: si squagliavano i volti sulla bara; quella s’infilò leggera tra la gente, pareva schivare le gocce insistenti di quella pioggia fitta, di quelle che ci si accorge che sta piovendo solo quando si è completamente fradici: la bara non si bagnò affatto. Penetrò dentro la chiesa, in coda una stanca carovana di persone fradice per il tempo o per la tristezza o per entrambi. Era il promiscuo accatastarsi della gente che smaniava di una vita improduttiva nel suo scontato e inutile percorso; la curva di una frequenza di colore che svaria, sbiadisce, da bianco implode in nero, chiude la curva; spegne.

Saliva da quei corpi l’esalazione fetida dei cadaveri: il genere sommo, la massima evoluzione della specie, non è nient’altro che la cinica presa per il culo dell’eternità che l’ha creato; storpio e incompiuto, mentre il Demiurgo se la ride di brutto.

Stando attenti si poteva sentire anche il ruggito, il ruggito di quei sessanta conigli, e più lontano altre migliaia di ruggiti sempre più flebili; chiusa nella gabbia la preda si diverte a fare il predatore, si fa pavone, apre la coda per far paura prima di essere divorata tra le fauci della vita che scivolava via svelta ad ogni istante.

Il padre di Jhonny restava dietro; il padre di Jhonny poteva essere un padre qualsiasi, poteva essere il padre di qualcun altro, magari poteva anche non essere il padre di nessuno, ma era il padre di Jhonny, cioè lo era stato. Pensava in quel momento che sarebbe stato sufficiente cambiare un semplice dettaglio, sarebbe solo bastato che a sua moglie quella sera non fosse andato o che si fosse trattenuto in ufficio fino a tardi perché la sua vita ora fosse diversa; sarebbe bastato un nonnulla per sconvolgere l’equilibrio incerto di un’esistenza costruita come con i pezzi di un ipotetico domino; un precario castello di carte francesi.

 

***

 

Un’auto grigio argento indugiava nel buio spesso di una serataccia appiccicosa di foschia. Alla guida un ragazzo di diciannove vent’anni al massimo; i capelli ancora puzzolenti di doccia-schiuma da mega ipermercato; le ascelle e la faccia trasudavano Axe. Nella desolazione circostante di quelle strade invisibili di un novembre lattiginoso di tanto in tanto passava giusto qualche spazzino negro; non erano proprio un gran belvedere, anche perché non si vedevano affatto –dimmi come cazzo fai a vedere un negro di notte e con questa merdosa foschia che è già tanto se vedi il cruscotto. Potrei addirittura scambiare un negro per un colono, uno di quegli stramaledetti indigeni bianchi-.

Il ragazzo alla guida sembrava divertito dai suoi pensieri, sorrideva patetico, inopportuno; giocava indiscreto con le dita sul volante di simil-pelle.

-I turisti credono tutti che Parigi di notte sia romantica, ma sono sicuro che qui un Giapponese non ha mai poggiato il suo fottuto trentasette di piede, né la sua strafottuta Fujica o Canon o Dio sa solo quale cazzo di altra macchinetta dal teleobbiettivo a metraggio ha mai aperto il suo occhietto meccanico per impressionare un solo negativo con questa merda- xenofobi pensieri sconnessi scoreggiavano in quella testolina bionda e profumata.

Era una sera come tante sere d’autunno: le foglie che cadono, la gente sempre più infagottata nei propri tristi panni medioborghesi, le giornate sempre più corte, la pioggia che cade stronza e flebile un giorno sì e il giorno dopo più forte. Insomma era una sera come tante sere parigine d’autunno, un autunno che quella sera però pareva fosse diventato eterno.

L’auto inchiodò decisa sotto un portone quasi invisibile, camuffato dall’enorme indicazione di un Intermarché e dall’insegna di un parcheggio multi-piano. Una ragazza infreddolita, semi-inghiottita da un enorme e prematuro sciarpone invernale, pareva lo aspettasse già da un pezzo. Salutò invadente con un gesto esageratamente costruito della mano. Corse un poco; si fermò di fronte alla portiera. Quello da dentro gliela apri in faccia. Chiese scusa, lei rideva col naso in mano, lui richiuse lo sportello e lo riaprì lentamente.

"Sei sempre il solito cazzone!"

"Io te l’avevo detto di rifarti il naso."

Lei ride; poi parla ancora: "Che facciamo?"

"Ancora non lo so. Adesso ci facciamo un giro, così ti godi il panorama di questa splendida serata; forse se ti sforzi puoi anche vedere il bordo del marciapiede dal finestrino."

"Eh si! Sei sempre il solito cazzone" e ricomincia di nuovo a ridere.

-Che serata del cazzo- era la frase che palpitava a intermittenza tra le meningi smembrate da quell’umidità: un mal di testa che a prendere una spranga bollente in culo non avresti sentito nessun dolore. Quella sera gli sarebbero bastati un paio di Cassis per andare lungo e invece si trovava a paccare in un parcheggio come un liceale, casto e olezzante tra le braccia della sua principessa dal quoziente intellettivo sessantanove; oltretutto quei merdosi sedili di scamosciatino sintetico gli facevano anche allergia.

"Bene, se adesso ti va di fare qualcosa sparala subito o io vado a casa ché ho un mal di testa che non so come cazzo ci sta tutto qui dentro" deciso si tira su e si mette a sedere lasciando giù lei che oramai a preso la forma del portaoggetti.

Ci fu un momento di silenzio che li lasciò entrambi così, senza una sensazione precisa da ricordare: una poltiglia di imbarazzo, serenità, stupore, paura, panico; la faccia di lei ancora col segno della portiera su una guancia, la faccia di lui con gli occhi ancora spalmati sulle sue tette.

Poi risero; risero. E poi risero ancora, senza motivo. Risero. Risero fino a conficcarsi la pancia nei ginocchi; fino a che i loro occhi non assomigliarono a quattro palloni da football; fino a che non smisero. E smisero del tutto.

"È per questo che ti voglio bene" lei guardava lontano, per quanto la cosa più lontana che scorgeva era il cofano della loro auto, ma insomma, se avesse potuto avrebbe guardato senz’altro lontano, ma lontano davvero, lontano dove nessuno era mai arrivato a guardare: con due occhi tumefatti dalle risa puoi guardare anche che cazzo fa tuo zio in California (se hai il culo di averne uno). Ma non lo poté fare. Quindi guardò il cofano.

Lui restava sospeso con gli occhi a metà tra terra e cielo mentre era ormai convinto di avere degli splendidi sedili reclinabili.

Poi quando nessuno mai se lo sarebbe sognato accese la macchina e partì. Lei aveva ripreso instancabile a parlare. Il motore fece del suo meglio per coprire gli stupidi ragionamenti a voce alta di quella bambina viziata e soporifera, ma le sue parole suonavano come le note di un violino scordato sfregato coi denti. Il suo sistema nervoso stava andando in pezzi; l’emicrania prendeva rapida il posto del suo cervello ragionando lenta; gli pareva di avere al posto dei centri nervosi numerose stazioni del telegrafo che comunicavano tra loro con sibili acuti: linea linea, punto, punto linea punto, linea punto punto, punto linea.

La macchina inchiodò di colpo in mezzo alla strada, poi lentamente si spostò sul lato destro accanto al marciapiede.

"Senti" disse lui "non ce la faccio più. O facciamo qualcosa o ti riporto a casa. Sto troppo male."

Lei lo guardò accigliata come se la fosse presa, poi sorrise: era un sorriso scemo, ma erano gli occhi che sorridevano, non la bocca; due occhi azzurri liquefatti, due occhi che parevano non guardare lui; per la verità parevano non guardare proprio niente, ma piangevano e sorridevano e poi piangevano ancora. Poi d’un tratto i suoi occhi sembrarono di nuovo i suoi occhi e lei tornò di nuovo a guardarlo accigliata.

Lui non ci capì più nulla ma non pensò assolutamente di capirci qualcosa.

"Ti va di andare al cinema?" Lei aveva del tutto ripreso coscienza. Lui si sentiva come un imbuto dove lei versava violenta e stridula tutte le sue frasi insulse. Lui gli sparò qualche film iper-ragionato. Lei come da previsione disse di no. Poi disse qualche altra frasetta scema. Lui non ci fece caso. Gli pareva che non stesse parlando ma che emettesse un suono continuo e perpetuo. Si domandava se a volte prendesse fiato.

Poi cominciò a girare -gli parve di aver sentito il rumore di uno sparo solo meno sordo-. Da lì in poi non ci fu più nulla, solo girare; era un vorticare prima convulso, poi sempre più leggero; volteggiare leggiadro di una ballerina dell’Operà.

Strani pensieri cadevano dai suoi occhi, liquidi come lacrime scialbe di un invisibile sofferenza. Ma non aveva più il mal di testa.

Squarci di rumori tagliavano acuminati istanti eterni, ma non sembravano altro che fugaci interferenze in quel silenzio divino.

Per qualche secondo quel silenzio parve parlare, pressappoco diceva: " leiamaluimaluinonlavuoleepoisisposanoevisserotuttivisserofeliciecontenti"

Poi parole da lontano "Jhonny!"