Giuseppe Catozzella
ho 25 anni e amo scrivere da quando ho
imparato a farlo. uso la lettura e la scrittura come evasione. i concorsi o gli spazi che
riesco a trovarmi come lime e lenzuoli. buona lettura. |
Umberto
Niccolò Alfredo Leviàta Umberto Niccolò
Alfredo Leviàta, dottore, quella mattina appoggiò la valigetta per terra e infilò la
mano nella tasca interna del cappotto per estrarne il portafoglio e pagare, come tutte le
mattine, il suo quotidiano nuovo zeppo di notizie, all'edicola sotterranea della
metropolitana. Quella stessa mattina, però, quando fece per abbassarsi, la sua valigetta
non c'era più. Un ragazzino, infatti, molto più veloce di lui e di tutti gli astanti che
avevano osservato la scena senza muovere un muscolo, gliela sfilò praticamente da sotto
il naso e si mise a fare le scale a tre a tre per rispuntare fuori col suo bottino nuovo
zeppo. "Non c'è assolutamente niente che gli possa servire", pensò dopo
qualche secondo di rabbia viva in cui gli era venuto da prendere e corrergli dietro,
Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, "e del resto c'era poco che servisse anche a me, a
parte la valigetta di pelle".
Quella che il ragazzino aveva in mano era, infatti, la valigetta che, dieci anni prima,
Andreina Durenna, moglie di Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, gli aveva fatto trovare
sotto l'albero, e il regalo più grosso, in realtà; poi si era ritrovato a scartare un
paio di calze blu di lino e una camicia azzurra col collo alla francese, tutti regali di
gusto di Andreina Durenna, che aveva pensato, con tre pacchetti, di regalare anche un po'
di colore in più al salotto e di far sembrare il primo Natale passato sotto lo stesso
tetto meno povero di come fosse.
Si sentì strano, ai primi passi, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, dottore, senza la
valigetta nella destra, che a quel punto della giornata bilanciava la sua immagine col
giornale nella sinistra. Poi si sentì solo più leggero e, come tutte le mattine, passò
senza timbrare la dogana della metropolitana, mostrando la sua faccia sull'abbonamento.
Dopo che ebbe percorso pochi passi e si fu ritrovato sulla scala mobile che scendeva verso
il binario, con un gesto automatico, sempre solo con la sinistra, di scatto, aprì il
giornale e lesse i grandi titoli sulla prima pagina. Aspettò pigramente che arrivasse il
convoglio bianco della metropolitana senza guardare in faccia nessuno degli altri
aspiranti passeggeri, lesse a tratti gli articoli in prima pagina, il giornale sempre
nella sinistra. Quando, alla fine, vide il muso schiacciato della motrice, diede uno
sguardo rapido all'orologio digitale sul pannello sospeso della destinazione del convoglio
e salì un po' di fretta, con la solita ansia nascosta che il primo premio della giornata
dovesse essere la conquista di un posto tranquillo a sedere.
Aveva ereditato quello strano e vagamente nobiliare nome, Umberto Niccolò Alfredo
Leviàta, interamente dal sangue della sua famiglia. Per ciò che riguarda Umberto, da suo
nonno paterno, Umberto Leviàta, fervido monarchico e da generazioni, che aveva sempre
sostenuto, per quel poco che lui se ne potesse ricordare, di avere il profilo uguale
identico a quello di Vittorio Emanuele di Savoia e si era fatto fare un grosso ritratto di
profilo dal pittore ufficiale del circolo monarchico che aveva frequentato per tutta la
pensione; pittore, che del resto era noto per il suo particolare stile, consistente
nell'interpretare ogni volto secondo quella che per lui era la sua vera aspirazione e
finendo così per fare di ogni ritratto la caricatura di un monarca dei tempi passati e
per convincere chi si prestava, di avere la natura e il temperamento di un vero e proprio
re. Niccolò Elinni era il nome di suo nonno materno, morto giovanissimo di cirrosi
epatica, a trentatré anni e un po' più di bicchieri scolati, e che sua nonna Adelina mai
dimenticò, anche dopo essersi unita in seconde e poi in terze nozze a tali Ulrico Demetri
e Peppe Tanzone; e questo dopo aver dato alla luce Lucrezia Elinni, decisa per tutta la
vita a far sopravvivere almeno qualcosa del padre, che tutti ricordavano iroso e rissoso
e, solo lei, dolce come mai nessuno. Alfredo Leviàta, infine, era il fratello di Filippo,
suo padre, morto di tubercolosi a quattro mesi dalla nascita, l'unico figlio a non portare
nomi di monarchi, l'unica vittoria della volontà della nonna Velina, probabilmente
sopraffatta da un destino realmente tirannico.
Una volta ottenuto il suo primo e dovuto premio della giornata, Umberto Niccolò Alfredo
Leviàta, impiegato da dieci anni presso un grande studio di architettura, non poté fare
a meno di pensare alla sua valigetta e provò a immaginarsi i lineamenti del volto del
ragazzino che non aveva neanche avuto il tempo di vedere. Questo per qualche secondo, poi
scese alla seconda fermata per cambiare linea a arrivare a cinque minuti a piedi dal suo
ufficio. Era da dieci anni che il dottore in architettura lavorava allo Studio Bonpretti e
in realtà aveva anche contribuito in maniera molto rilevante a importanti progetti e
spesso si era proprio meritato gli elogi che il dott. Arch. Bonpretti in persona sempre
esagerava e elargiva, per la verità, a destra e a manca, dopo aver vinto un appalto, con
una bottiglia di ottimo Champagne in mano. Se glielo si fosse chiesto, Umberto Niccolò
Alfredo Leviàta, dottore, architetto, avrebbe detto che lo stipendio non era mai stato un
gran che e spesso era anche costretto a fare enormi straordinari; però che soddisfazione,
a volte; come quando progettarono il cinema proprio vicino a casa sua, nel quale tante
serate aveva poi passato con Andreina, o quando progettarono il parcheggio con più posti
auto al mondo, in Canada, rubando dieci centimetri a destra e dieci a sinistra alle
abituali misure dei posti auto, così che di posti ce n'erano tantissimi, ma di auto la
metà, essendo costretti a parcheggiare un posto sì e uno no, per riuscire a uscire dalle
portiere. Dieci anni di infaticabile lavoro per lui, che si era laureato con perfetto
tempismo, a venticinque anni e ottimi voti, aveva sposato dopo soli sei mesi Andreina,
dopo tre che aveva cominciato a lavorare per Bonpretti, facendo la felicità non solo dei
suoi amati genitori, ma anche di tutti i suoi numerosissimi zii e zie, che non avevano
avuto la fortuna che aveva avuto lui di potersi laureare e fare un lavoro così brillante
come l'architetto. Umberto Niccolò Alfredo Leviàta non gliel'aveva mai detto, però, che
in realtà il suo era un lavoro più da impiegato che da architetto vero e proprio; che si
occupava di sistemare dei pezzi molto particolareggiati di progetti fatti da altri e che
lui, un progetto suo, non l'aveva mai fatto; e non l'aveva detto non tanto per vanità, ma
per farli più contenti, così che potessero darsi le arie con gli amici, loro che avevano
un nipote architetto, che lavora da Bonpretti.
Lavorava da dieci anni, sempre con le stesse persone e facendo tutti i giorni gli stessi
identici percorsi in avanti e indietro, e certo non poteva sapere che la sua vita sarebbe
stata sul punto di cambiare completamente. Non sapeva che sarebbe successo qualcosa di lì
a poco che gliel'avrebbe rivoluzionata.
Ma andiamo per gradi.
Quel giorno arrivò in ufficio in orario, come d'abitudine, ma senza la sua valigetta.
Prese come sempre l'ascensore che lo portava al secondo piano, percorse il solito stretto
corridoio con la moquette beige e i grandi progetti incorniciati alla parete, salutò,
rivolto alla porta aperta a destra, prima di svoltare a sinistra verso la distesa di
scrivanie, distribuì saluti in qua e in là, si tolse il cappotto facendolo scivolare
come sempre lungo le maniche, lo appese dove sempre lo aveva appeso, si sedette alla
scrivania di fronte al suo pc già acceso. La scritta Studio Bonpretti gli passò davanti
tre volte veloce, sullo sfondo nero. Non successe nulla di assolutamente importante, quel
giorno, allo studio Bonpretti; non fece nulla di particolare, Umberto Niccolò Alfredo
Leviàta, né subì o osservò qualcosa di straordinario. Ciò che di importante è da
dire è quello che successe dopo il lavoro, a Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, dottore,
architetto. Alle diciotto e dieci, più o meno come sempre, aprì la porta a vetri, subito
oltre la piccola portineria, e fu in strada. Percorse i soliti cinque minuti a piedi verso
la grande stazione ferroviaria dove prendeva la linea Verde della metropolitana, per poi
cambiare, prendere la Gialla e poi l'autobus, che dopo trentacinque minuti buoni di
traffico convulso lo lasciava a soli cinquecento metri da casa. Quel giorno, però, forse
perché non aveva la sua valigetta e si sentiva più libero di guardasi un po' in giro, fu
colpito da una locandina che pubblicizzava uno spettacolo in un grande e famoso teatro del
centro, che diceva solo "un trentacinquenne, il suo lavoro, la sua vita, una dura
decisione. Ore 21.00 Teatro Rivoltella. ULTIMA MESSA IN SCENA.", proprio all'ingresso
del sotterraneo verso la linea Verde della metropolitana. Esitò un attimo, il giornale
nella sinistra alzato, e guardò l'ora. Faceva le diciotto e quindici, il suo orologio
elegante, dalle ottime rifiniture d'oro e pelle, regalo dell'architetto Bonpretti in
persona. Stette ad aspettare immobile per un attimo e forse, piccoli inconvenienti a
parte, era veramente la prima volta in dieci anni, che non andava dritto sparato verso
casa, all'uscita dallo studio. Così, da un attimo all'altro, anche e senz'altro aiutato
dal furto della sua valigia, che già impercettibilmente aveva incrinato il rigido e
stabile meccanismo collaudato in tanti anni, estrasse il suo telefono cellulare,
schiacciò il 2 sulla piccola tastiera, su cui era registrato il numero di casa e attese
la voce di Andreina. "Ciao Andreina, sono io", disse Niccolò, come più
semplicemente lo chiamava Andreina Durenna, "Oddio Niccolò, cosa è
successo?..", disse Andreina subito preoccupata, "..non mi chiami mai, cosa
c'è?", "ma niente, niente", disse Niccolò, "oggi mi hanno rubato la
valigetta..", "la valigetta, la mia valigetta?", puntualizzò Andreina,
"sì, la mia, cioè.. quella che mi hai regalato tu", le concesse Niccolò,
"e tu hai denunciato il fatto.. cosa ti hanno detto i Carabinieri?", "no,
non ho denunciato proprio niente, non c'era niente di importante dentro.. e comunque ormai
non c'è più.. Ascolta: stasera non torno a cena, vado a teatro, alle 21.00, in centro, e
non ce la farei a tornare a casa e poi essere lì alle nove. Perché non vieni anche tu,
non ci muoviamo mai molto.. adesso sono le sei e un quarto, ci possiamo incontrare per le
otto in centro..", disse Niccolò, che già sapeva che Andreina non sarebbe mai
andata. Era cambiata, Andreina, in dieci anni, pensò Niccolò, ma forse era cambiato
anche lui, pensò anche.
"No, Niccolò, non me la sento.. ma come ti è venuto di andare a teatro? Con chi
vai? Sei da solo?", gli chiese Andreina, che si sentiva più frustrata e sola di come
si sentisse di solito, ora. "Non ti sento più bene.. certo che sono solo, con chi
devo essere..? Torno verso mezzanotte, mi aspetti sveglia? Ciao, non ti sento più, non ti
sento più.." e attaccò, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, senza neanche stare a
sentire quello che gli rispondeva Andreina.
Era la storia di un trentacinquenne, sposato e senza figli,
impiegato in una grossa multinazionale, da undici anni la solita uguale identica vita, la
storia che vide quella sera Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, dottore, architetto. Solo
che un bel giorno, al dottor Leovinci, il protagonista, passò per la testa, magari
aiutato in questo dagli spettri che tutte le mattine incontrava nella metropolitana, che
magari, in realtà, fosse morto, anziché vivo. Che non ci fosse nulla, in realtà, che
potesse provargli di essere vivo. E lui, il dottor Leovinci, si adoperò con tutte le sue
energie a dimostrare il teorema per assurdo, che fosse morto, cioè. E effettivamente
Umberto Niccolò Alfredo Leviàta dovette dargli ragione quando vide che gli bastò
smettere di parlare con chiunque, perché chiunque non volesse più parlare con lui, che
gli bastò smettere di radersi, per essere ancora più invisibile, per strada, di come
sempre era stato, che gli bastò parlare al minimo anche con la moglie, perché anche lei
smettesse di parlare completamente con lui, e convincersi sempre più che, vivo o morto
non poteva saperlo, ma che di certo si sentiva più morto che vivo. E lo era anche, in
effetti, più morto che vivo. Successe, in poco tempo, al dottor Leovinci, di perdere il
lavoro, e, poco dopo, anche la moglie. Successe, al signor Leovinci, di ritrovarsi con una
pistola puntata sotto il mento dalla sua stessa mano destra, per provare un attimo a
sentirsi un po' più vivo.
E proprio nel preciso istante che precedette il BANG della pistola, successe quello per
cui stiamo raccontando questa storia di Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, dottore,
architetto. Ci fu un attimo, corto e impreciso e denso e limpido come solo un attimo può
essere, in cui la vita di Umberto Niccolò Alfredo Leviàta si ritrovò rivoltata, come
quando si sbuccia un'arancia e poi si guarda la buccia dal di dentro, o quando si mette
una calza di lana in lavatrice con le cuciture grosse in vista, o anche quando al circo i
giocolieri camminano sulle mani. Rivoltata, in un attimo. E fino alla fine, non seppe mai
che cosa precisamente successe in quell'istante; solo, lì per lì, si sentì coinvolto
proprio in prima persona, proprio lui; si sentì come quando, alle Scuole Medie, la
professoressa di francese, la più temuta e famosa in tutto l'istituto per i suoi capelli
arancioni da strega, dopo due o tre o quattro secondi di silenzio preistorico, diceva il
suo nome: "Umberto Leviàta, interrogato", diceva quella strega e a Umberto
Niccolò Alfredo Leviàta, che ai tempi si faceva chiamare Niccolò, su suggerimento di
Claudia, la sua cugina coetanea, veniva il sangue duro.
Così si sentì, più o meno; solo che le Medie, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta,
dottore, architetto, le aveva finite da un pezzo.
Quello fu il preciso secondo in cui la sua vita cambiò, senza che lui potesse ancora
saperlo; che cominciò a formare crepe e incrinature che di lì a poco si sarebbero aperte
e spaccate a dismisura; secondo, a cui seguì un solo e secco BANG da teatro e da quinta,
e si chiusero i sipari.
Quella sera stessa, si lasciò trasportare verso casa, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta,
più che andarci per conto proprio. Si lasciò trascinare dalle ultime parole del dottor
Leovinci, dal silenzio, dal secco BANG, dalle ultime parole del dottor Leovinci, dal
silenzio, dal secco BANG, dalle ultime parole del dottor Leovinci, dal silenzio, dal secco
BANG, dal silenzio, dal secco BANG, dal secco BANG. Cercò per tutta la notte di mettere a
fuoco il preciso istante che lo aveva fatto sobbalzare, che cosa fosse successo; si mise
anche a pensare alla topografia del teatro, se, dalla posizione in cui era seduto, gli
fosse sembrato di vedere una porta da cui qualcuno proprio in quell'istante fosse magari
entrato o uscito. Tentò di ricostruire ossessivamente i movimenti di tutte le persone che
stavano sedute vicino a lui, davanti, dietro, a destra e a sinistra, nella piccola sala
con i posti in pendenza. Più cercava di pensare a quell'istante e più gli si imponeva
solo la sensazione di un vuoto abissale, da pesci mostruosi, e una strana e potente
sensazione di risveglio, qualcosa che riguardava per forza lui, senza scampo.
I giorni che seguirono, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta li passò più che altro assorto
nella contemplazione di quel misterioso momento, e, qualunque cosa facesse, allo studio, o
a casa, lo riportava al dottor Leovinci e al suo destino. Un trentacinquenne, il suo
lavoro, la sua vita, una dura decisione, era scritto sul cartellone.
Andreina lo vedeva strano e pensieroso e assente come mai era stato nella sua vita, il suo
Niccolò, e si sentiva tremendamente impotente di fronte alla sua ostinazione nel negare
qualunque cosa. Era una cosa che non si poteva spiegare, pensava Umberto Niccolò Alfredo
Leviàta, era una cosa che doveva affrontare per forza da solo. E così, un giorno, dopo
un paio di settimane che sembrava sbarcato sulla terra da qualche sperduto pianeta di
qualche sperduta galassia extra solare, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta prese la
ragionata decisione che l'unica cosa che potesse fare fosse provare a rivivere sulla
propria pelle tutto il tragitto che il dottor Leovinci aveva già compiuto per conto suo,
così da rendersi conto di cosa gli fosse successo. Poi, però, si rese anche conto che
quel tragitto, forse, inconsapevolmente, aveva già cominciato a intraprenderlo, nel
momento stesso in cui era uscito dal teatro, da quando aveva smesso di avere i soliti
rapporti normali con chiunque. Si rese conto solo allora di come fosse vero, che, se ci si
pensava un po', era difficile capire se si fosse vivi o magari morti; se si fosse in un
lugubre sogno in cui le cose, comunque, avevano dei contorni confusi, incerti, non ben
definiti e scorrevano senza importanza e senza alcun senso, rette solo dalla pura
abitudine e familiarità.
Solo una volta Andreina, al limite, fu veramente sul punto di impazzire e, prendendolo per
il collo alla francese della camicia, facendogli anche saltare un bottone, tutta rossa e
trasformata in faccia, gli urlò da sei centimetri "ma si può sapere una volta per
tutte cosa cazzo c'hai che sembri un vegetale un rincoglionito cosa cazzo ti è successo
quella cazzo di sera a teatro ti sei rimbambito hai cominciato a drogarti pesantemente sei
un'ameba una larva che cazzo c'è: non mi ami più hai un'altra ma tanto anche con l'altra
saresti uguale che mi hanno telefonato pure dallo studio e dicono che nemmeno ti
riconoscono più con questa cazzo di barba incolta che te ne stai ore nei tuoi mondi e
un'altra non ce l'hai di certo che ti ho fatto seguire per otto giorni e non fai un cazzo
di diverso da quello che facevi prima solo forse ti hanno lobotomizzato" e glielo
urlò veramente con tutta la voce che da dieci anni almeno più non cacciava, che non
sapeva neanche più dove l'avesse tenuta nascosta, che per due giorni non riuscì più a
parlare, completamente afona. E Niccolò solo le rispose "è che non so più se sono
vivo o morto".
Da allora ci rinunciò completamente, Andreina, a farlo rinsavire, e cominciò a cercare
di ricostruirsi una vita decente, di avere almeno qualcuno con cui poter parlare, lei che
aveva scelto di fare la casalinga per accudire dei figli che non erano ancora nati.
Anche allo studio, l'architetto Bonpretti in persona aveva preso in mano la situazione
Leviàta e, col consiglio direttivo, aveva deciso di dare a quello che fu il valido
architetto Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, un'altra settimana di tempo per tornare
sulla terra.
Un giorno, però, accadde l'avvenimento che diede il colpo di grazia.
Quella mattina Umberto Niccolò Alfredo Leviàta si era alzato alla solita ora, si era
lavato male, non si era rasato come da ventidue giorni ormai usava, aveva fatto una misera
colazione a base di solo caffè d'orzo, come da sempre, invece, usava, si era vestito
distrattamente ed era uscito, senza neanche salutare la povera Andreina Durenna, sua
moglie. Aveva preso il suo solito autobus, comprato il solito quotidiano, che ormai
neanche più apriva, sceso verso il binario della solita prima linea della metropolitana.
Ma, a differenza degli ultimi dieci anni della sua vita, non scese dopo due fermate e non
cambiò linea, quella mattina, ma, senza un perché, si lasciò trasportare fino al centro
città. Quando riuscì in superficie si ritrovò proprio di fronte la maestosa cattedrale
gotica, di marmo bianco, ma neanche se ne accorse. Si lasciò trascinare, Umberto Niccolò
Alfredo Leviàta, dottore, verso la via che costeggiava la cattedrale. C'erano ragazzini
che avevano saltato la scuola, giovani trentenni rampanti che camminavano troppo veloce
con valigette simili in tutto e per tutto a quella che gli era stata rubata un mese, un
anno o forse un secolo prima, qualche carabiniere, qualche slavo seduto o in piedi,
qualche modella con la borsa nera in evidenza.
Gli successe di passare proprio dove un piccolo cinese, di indefinibile età, su un
piccolo banchetto un po' provvisorio, dipingeva su una striscia bianca di carta lunga e
stretta il nome di una delle due ragazzine che gli stavano di fronte, forse di quella di
sinistra, quella con il piede destro nervoso, appoggiato di taglio esterno ai lastroni
marroni del pavimento di marmo, e lo dipingeva con bellissimi fiori dai colori
improbabili, con favolosi uccelli dalle mille e più cromature, creando identità
incantevoli e multiformi.
Stette un po' incantato a guardare, il caso Leviàta, quella mano decisa che dipingeva
lettera per lettera con colori immaginari, dei nomi da sogno. Quando la ragazzina di
sinistra ebbe pagato e ringraziato, e il cinese legato con un grazioso nastro rosso il
foglio che aveva piegato per il verso lungo, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta lo guardò
fisso negli occhi. Il piccolo cinese allora gli chiese "vuoi che schivo tuo
nome?" e lui fece di sì con la testa. "Quale è tuo nome?", gli chiese il
cinese e lui disse tutto d'un fiato "UmbertoNiccolòAlfredoLeviàta", come
quando era piccolo e qualcuno glielo chiedeva. Allora il piccolo cinese disse
"schivi, io no capire" e Umberto Niccolò Alfredo Leviàta prese a scrivere su
un piccolo volantino colorato che il cinese usava per far scrivere i nomi difficili.
"Troppo lungo, io dipingere solo iniziali di tuo nome, U. N. A. LEVIATA, io dipingere
U N A L E V I A T A", e scrisse le lettere così staccate sul piccolo foglio rosso di
carta.
"Va bene?", Umberto Niccolò Alfredo Leviàta scosse in su e giù la testa.
"Guarda tuo nome", disse all'improvviso il piccolo cinese, "significa: UNA
E' LA VITA, bello tuo nome, bel significato".
"Cosa?", disse distratto Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, "sì, vedi: U N
A E L A V I T A. Io guardare sempre nomi di tutte le persone che qui vengono, per trovare
significati. In Cina ogni nome ha significato e per me in tutte le lingue, ogni nome ha
significato, basta cercare significato".
Umberto Niccolò Alfredo Leviàta ebbe un sorriso spontaneo, come ormai da settimane
intere non succedeva. Guardò l'esecuzione del suo dipinto e pagò con gli unici soldi che
per caso aveva ancora in tasca. Si allontanò dal piccolo cinese; era concitato, cominciò
a muoversi veloce come neanche più ricordava, cominciò ad allungare il passo senza
nessuna meta precisa, dirigendosi a caso lungo il corso che stava percorrendo, verso una
piazza con una grande e brutta fontana a forma di monte; cominciò a correre a perdifiato,
attraversò la piazza, attraversò la strada senza guardare, continuò a correre verso il
grande parco in cui c'era il Planetario comunale, passò il grosso cancello nero e aperto
e, alla fine, esausto, si sedette su una panchina, il suo piccolo rotolo in mano. Quando
il ritmo del suo cuore si fu regolarizzato un po', estrasse il piccolo rotolo dal nastro
rosso e lo tenne aperto con le due mani e lesse ad alta voce: U N A E' L A V I T A. Così
aveva fatto scrivere con un ghigno nella bocca. Così aveva voluto che fosse il
significato del suo nome, il suo nuovo nome.
E così, proprio in quegli stessi istanti, Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, ora
Unaèlavita, riuscì inspiegabilmente a veder più chiaro anche nel momento che segnò
quello che ormai era stato il cambiamento del suo nome, del suo destino. Così, in un
baleno lungo quanto quell'attimo nel teatro, capì cosa successe quella sera, cosa lo
avesse chiamato, proprio lui, a quell'appello diabolico, e ne rise di una risata piena,
compatta, da trasformato, di cui solo un nuovo battezzato poteva avere l'energia; e in
quella assurda risata c'era tutto il risentimento e tutto l'amore per tutte le cose del
mondo, per quegli alberi che vedeva, per quella ghiaia che calpestava, per quello stupido
e amabile cane che passava. E allora, capì. Capì che l'unica e semplicissima cosa che in
quell'abissale momento era successa, fu che il dottor Leovinci, il protagonista, tra tutti
gli spettatori presenti, aveva fissato gli occhi proprio su di lui, e l'aveva guardato con
tanta pena e pietà, da commuoverlo. Da risvegliarlo. Da piantargli nell'orecchio la pulce
più fastidiosa.
Ora, quella pulce, era riuscito a tirarsela fuori e sulla mano se la guardava con tutta la
curiosità del mondo. Con un gesto rapido chiuse il pugno, se lo portò alla bocca, lo
riaprì in fretta e, quella pulce, la ingoiò.
Così si ritrovò fuori dal parco del Planetario comunale, in una giornata che così bella
non se la ricordava da anni, respirò a fondo riempiendosi i polmoni di odore di muschio
umido e di smog e attraversò la strada, portandosi verso un altro parco comunale, più
piccolo ma più grazioso e curato, dove Umberto Niccolò Alfredo Leviàta, ora
Unaèlavita, a sedici anni amava rinchiudersi con Letizia Talleri, a cui aveva fatto e da
cui aveva, allora, ricevuto, una serissima proposta di matrimonio corredata anche di
scambio ufficiale degli anelli, facendo per sei mesi della loro vita, di quel piccolo e
perfetto parchetto, il loro castello incantato.
E si sdraiò sull'erba soffice e profumata, Unaèlavita, e lasciò che i piccoli abitanti
del micro mondo dei parchi si divertissero a salire e scendere su e giù per le sue
braccia e le sue gambe, lasciò che gli solleticassero le ciglia folte, anche, le piccole
formichine del parco, che gli entrassero anche un po' nei buchi delle orecchie. Si lasciò
andare come mai nella sua vita, sgomberò la mente anche dall'ultimo pensiero, che gli
diceva che non c'era proprio niente da pensare. E così finì per addormentarsi,
Unaèlavita, e di un sonno profondo, accarezzato dal sole che voleva giocare con la sua
pelle e coccolato appena dal vento, che scambiò i suoi capelli ben tagliati per una
strana qualità di erba. Dormì, da niente e nessuno disturbato, in quell'angolo che anni
prima si era costruito al riparo dal mondo, per tutto il giorno e poi tutta la notte e poi
tutta la mattina seguente e, solo verso le quattro del pomeriggio dopo, gli venne di
aprire gli occhi, completamente riposato e per nulla disorientato. Si alzò, si
striracchiò ben bene, percorse al contrario il percorso che aveva fatto la mattina
precedente, nella tasca della giacca il suo nuovo nome arrotolato. Ad un tratto si fermò
e guardò l'orologio d'oro e pelle dell'architetto Bonpretti e estrasse il cellulare di
cui sentiva il peso a ogni passo contro la coscia destra. Guardò il dispaly spento,
accese il telefono che si rispense quasi subito. "E' la batteria", pensò, e si
diresse verso un telefono incassato in un muro e cerchiato da una impalcatura arancione.
Prima di comporre il numero di casa, dovette ricostruirlo tre o quattro volte mentalmente.
Solo la sera, ritornando dalla casa di Francesca Ribelchi, una sua amica d'infanzia, dalla
quale aveva cenato dopo aver passato il pomeriggio alla stazione di Polizia, Andreina
Durenna vide che lampeggiava la segreteria telefonica. Vi si avvicinò lenta come se
stesse andando a toccare il corpo di Niccolò, irrimediabilmente morto. Subito riconobbe
la voce di suo marito attraverso il piccolo altoparlante, il messaggio era del pomeriggio,
delle 16.16; ringraziò il cielo che fosse vivo.
"Ciao.. qui è Unaèlavita..", disse l'altoparlante, "..sto bene. Se
chiamano dallo studio chiedi di parlare con l'architetto Bonpretti e digli che se lo può
tenere, il suo posto di lavoro. Quanto a me e te.. a noi.. non siamo mai stai veramente
felici.. Cerca di divertirti un po'.. cerca di stare bene.. Io ora non so che cosa farò,
né cosa vorrò fare. So solo che ora ho bisogno del mare e credo per un po' più di tempo
delle solite due settimane, d'estate.. di più non so.. Magari capisco che tutto quello
che ho sempre fatto era proprio quello che volevo.. ritornerei subito a fare l'architetto
sottopagato da un riccone mafioso e il marito frustrato da una moglie frustrata.. ma non
so.. e non credo
Mi dispiace
". Poi proprio più niente.
Dodici anni più tardi, Andreina Durenna, alle tre di pomeriggio,
andò ad aprire la porta a cui avevano bussato in modo strano, la piccola Simonetta
stretta in braccio. Sullo zerbino c'era un uomo con un'espressione un po' buffa, la pelle
cotta dal sole e un'abbondante camicia chiara a fiori grossi colorati. Diceva di chiamarsi
Unaèlavita e sorrideva con gli occhi, più che con le labbra. |