Gabriella Cuscinà
insegno lettere a Palermo.
Mi piace scrivere racconti di assoluta fantasia. |
La
registrazione
Pietro incontrò un amico di suo figlio che aveva
visto crescere. Questi gli raccontò che adesso faceva il cantautore.
Cantava per talune radio private e raggranellava qualche soldo.
"Tramite questo mestiere, ho scoperto la possibilità di comunicare
con l'aldilà. Non si sa bene se con i defunti, con angeli o con altre
forme di vita. Io personalmente mi sono imbattuto in questo fenomeno e
devo dire che all'inizio ho avuto paura."
"Ma va', finiscila. Non ci crederò mai."
"E' vero! Durante la registrazione dei miei pezzi, ho avuto delle
interferenze che, sia per il contenuto dei messaggi, sia per il modo in
cui avveniva la registrazione delle voci, credo proprio non si trattasse
di una allucinazione."
"Ma che interferenze! Non raccontare panzane!"
"Vorrei farle ascoltare qualche voce da me registrata per farle
appurare il fenomeno. Sono in buona fede, non scherzo. Se vuole provare,
deve usare un registratore, anche portatile, e registrare. Le consiglio di
non farlo troppo a lungo, ma per circa dieci minuti a microfono aperto.
Poi, provi ad ascoltare con attenzione, senza suggestionarsi troppo. Ci
vuole buon udito.
I messaggi potranno essere molto deboli, ma ricordi di mantenere il giusto
distacco emotivo in quanto non si sa chi parli, come faccia e
perché."
"Io non lo farò mai. Ragazzo mio, non ci credo. Quando lo
racconterò a mio figlio, si farà le più matte risate."
"Parlerò con lui e gli dirò che le entità hanno dimostrato di
poter cambiare quanto detto da chi registra. E' incredibile, ma è vero!
Quindi potrebbe sentire la sua voce dire cose che non ha detto. Inoltre
sembra che si servano proprio di rumori e voci già esistenti nell'aria e
le possano modificare a loro piacimento. Alcune comunicazioni potranno
essere anche in lingue straniere."
"Ah ah ah ah. Sì, magari in lingua aramaica. Ah ah ah ah."
Si erano salutati e Pietro aveva continuato a ostentare il suo
scetticismo.
Un mattino, mentre si trovava in ufficio, sentì l'impulso di telefonare
alla moglie e, non appena ebbe sfiorato il telefono, vide con gli occhi
della mente una scena allucinante: due automobili urtavano violentemente e
su di una vi erano il figlio e la moglie. Il telefono squillò e sentendo
la voce della consorte disse all'istante: "Avete avuto un incidente,
vero? Come state?"
" E tu come lo sai?"
"Lo so."
Si precipitò sul luogo dell'incidente, ma per fortuna si rese conto che
non era nulla di grave. Solo lievissimi graffi per gli occupanti delle
vetture e molti danni per le medesime.
In seguito pensò alla telepatia e alla trasmissione del pensiero. Certo
la moglie doveva avergli trasmesso quelle immagini, poiché le aveva viste
nitide come se guardasse la televisione! Era stata una percezione
extrasensoriale di ciò che sua moglie aveva sentito e pensato. I cavi
telefonici dovevano essere serviti da canali conduttori.
Mah! pensava Pietro: chi ci capisce è bravo!
Comunque cominciò a ricordare le esperienze dell'amico del figlio sulla
registrazione di voci.
Così una mattina non si recò al lavoro e attese d'essere solo in casa.
Si sedette accanto al registratore stereo e lo accese. Calcolò che doveva
registrare per dieci minuti. Ma registrare cosa? Non poteva parlare o
cantare da solo come un pazzo per tutto quel tempo!
Pensò di prendere la 'Divina Commedia' e di leggerla ad alta voce.
Prima di leggere, cominciò dicendo: "Io non credo di poter
registrare delle voci dall'aldilà poiché le anime dei defunti sono con
il buon Dio e non interferiscono con il nostro mondo."
Tacque per qualche secondo, poi iniziò a leggere il capolavoro di Dante.
Ogni tanto guardava l'orologio e andava avanti a leggere. Si sentiva un
fine dicitore, ma si sentiva pure molto scemo.
Trascorsero i dieci minuti e spense la registrazione.
Ora si trattava di riascoltare il tutto. Ma che idea bislacca! Ma che
scemata!
Riaccese e si mise in ascolto. Udì la propria voce che diceva: "Io
credo di poter registrare delle voci dall'aldilà poiché le anime dei
defunti son con il buon Dio che tutto può."
Balzò in piedi e spense di nuovo. Doveva avere sentito male, ma nel
frattempo i battiti del cuore avevano accelerato il ritmo.
Tornò indietro con la registrazione e riascoltò. La sua voce diceva ciò
che non aveva detto la prima volta. Pietro aveva lo stomaco scombussolato
e provava tremore e affanno, ma andò avanti ad ascoltare e udì se stesso
declamare i versi celebri della 'Commedia'.
Ad un certo punto, udì dei fruscii leggeri incisi sul nastro e delle
interruzioni. Poi mentre la sua voce declamava, si sentivano di nuovo i
fruscii e, in contemporanea, si udiva un'altra voce che sussurrava e
diceva qualcosa di incomprensibile.
Aveva ormai i brividi e i sudori freddi. Non sapeva se andare avanti ad
ascoltare o lasciar perdere tutto. Ma sarebbe stato peggio restare con il
dubbio. Cercò di calmarsi e di sforzare l'udito per meglio capire.
Gli sembrò di riconoscere la voce della madre che bisbigliava:
"Perdonaaaaa…..perdonaaaaa……perdonaaaaa……..perdonaaaaa………"
No! Non poteva essere! Era tutta una suggestione e aveva sentito male.
Oppure aveva creduto di sentire ciò che in realtà era solo un fischio o
un sibilo.
Pietro aveva addosso una paura incredibile! Si guardava attorno credendo
di poter essere circondato da forze occulte.
Che scemo che sono stato! Peggio per me che ho voluto fare questi
esperimenti! pensava.
Spense tutto e si alzò. Cominciò a passeggiare per la stanza, cercando
di calmarsi. Poi riaccese l'apparecchio, tornò indietro nella
registrazione e riascoltò.
Questa volta non udì più nulla. Tutto era come lui aveva detto e non vi
era più nessun fruscio o sibilo. Nessuna voce bisbigliante e niente di
niente.
Il
pittore
Dipingeva in stile espressionistico. La sua era
un'arte di pura espressione intima, per cui gli oggetti non erano che uno
schermo sui quali proiettava il drammatico travaglio dell'anima.
Esasperava i colori e deformava violentemente i corpi che rappresentava.
Tutto nella sua pittura era soggettivo; il mondo lo vedeva con dinamismo
estremo, lo spazio per lui era solo una visione passeggera.
Leopoldo si era diplomato all'Accademia di Belle Arti con il massimo dei
voti e adesso, dipingeva per gli allestimenti scenici del teatro lirico
della sua città. Era molto apprezzato per alcuni quadri che aveva esposto
nelle varie gallerie d'arte e che aveva anche venduto a prezzi esosi.
Talora aveva tracciato, sulla tela, figure che erano la trascrizione di
immagini interiori, visioni di sogno, con scenografie deserte e smaltate
da lisce stesure di colore.
Improvvisamente cominciò ad avere strane allucinazioni e si preoccupò
seriamente. Pensava di essere vittima del demonio o di essere divenuto il
più grande pittore del mondo. Infatti gli accadeva che, ogni volta che
dipingeva una figura, questa si muoveva, usciva dal quadro e a volte
infieriva su di lui.
Era stato schiaffeggiato dalle mani di San Bartolomeo che aveva ritratto
in atteggiamento di preghiera. Appena ebbe finito di tracciarne le mani,
queste si mossero di scatto e gli riempirono il viso di schiaffi.
Aveva dipinto il viso e gli occhi di "Aida" per i cartelloni
pubblicitari del teatro, che appunto metteva in scena quell'Opera. Gli
occhi però non smisero più di guardarlo e lo terrorizzavano poiché lo
seguivano ovunque.
Dipinse i teloni e i pannelli scenici per la rappresentazione di
"Cavalleria rusticana" e tracciò le immagini dei vari
personaggi; ma appena ebbe fatto loro le gambe, quelli scapparono
lasciando i pannelli vuoti.
Leopoldo era disperato e chiese consiglio al suo parroco, confidandogli
quegli strani fenomeni. Il prelato lo guardò attonito, aprì la bocca per
parlare, poi la richiuse e restò muto. Dopo un po' si limitò a battergli
una mano sulla spalla dicendo: "Coraggio, coraggio, è solo un
malessere passeggero causato dallo stress. Cerca di riposare e vedrai che
tutto tornerà normale."
Ma niente tornò normale.
Era celibe e non aveva mai trovato una compagna che sapesse stargli
accanto, qualcuno che lo amasse e capisse veramente l'estro e le
sfaccettature complesse della sua personalità. Figlio unico, aveva perso
i genitori da qualche anno. Dunque aveva solo degli amici, i quali spesso
lo adulavano e, al contempo, lo prendevano in giro per le sue bizzarrie da
pittore stravagante. Quando era in preda alle paturnie, lo canzonavano
dicendo che era un genio incompreso. Tutti però gli consigliarono di
rivolgersi ad uno psichiatra e di sottoporsi a delle sedute di analisi.
Leopoldo non volle sentir parlare di medici e cercò di dipingere con
degli accorgimenti particolari. Stava lontano dal quadro servendosi di una
canna con in cima un pennello, ma in questo modo disegnava male e non
riuscire a riprodurre sulla tela ciò che sentiva e che la mente gli
ispirava.
Allora pensò di dipingere paesaggi senza figure e senza personaggi che
potessero fuggire o nuocergli. Intraprese la rappresentazione di un bosco
con centinaia di alberi e s'era soffermato a colorare e sfumare un albero
dal tronco robusto e dai rami pieni di foglie e fiori.
Ad un certo punto però l'albero cominciò a parlare. Le sue parole erano
flebili e rotte dai singhiozzi.
"Tu mi ami" diceva " e certamente capirai tutta la mia
tristezza. Sono seccato e le mie foglie non spunteranno mai più perché
ho un grande dolore."
Il nostro pittore restò attonito, si fermò e non dipinse più.
Ma l'albero continuò: "Amavo una donna bellissima che in primavera
veniva a sedersi sotto di me. Allora io facevo cadere su di lei una
pioggia di petali e la mia ombra la copriva. Succhiavo più acqua dalla
terra affinché le gemme si aprissero e il profumo giungesse a lei in
tutta la sua dolcezza. A volte si addormentava e allora io chiamavo il
vento perché smuovesse le mie fronde e dai rami uscisse un lieve fruscio
che la cullava. Però un giorno ella venne insieme ad un giovane e si
baciarono a lungo parlando d'amore. Piansi e non volli più vivere, i miei
rami seccarono, le mie foglie ingiallirono e lentamente divenni uno
scheletro come ora mi vedi."
Leopoldo guardò l'albero che aveva dipinto e lo vide trasformato: si era
scheletrito e i suoi rami erano nudi e secchi, il tronco arido e contorto.
Continuò a guardarlo come in preda alle allucinazioni. Poi pensò che
forse lo aveva già dipinto così, la sua mente voleva rappresentarlo
proprio in quel modo. Rifletté che la sua arte aveva raggiunto la divina
perfezione e che la sua personalità era tanto forte da dar vita alle
figure che dipingeva.
Ciononostante qualcosa non lo convinceva; l'intelligenza gli suggeriva che
nella sua mente alcuni meccanismi non funzionavano più, la logica era
svanita insieme ai processi di deduzione temporale e di induzione
spaziale. Non si diede per vinto e volle dipingere se stesso. Voleva
vedere cosa sarebbe successo realizzando un autoritratto.
La propria immagine su tela si sarebbe mossa? Avrebbe schiaffeggiato
l'originale? Sarebbe fuggita?
Il risultato superò ogni aspettativa: venne fuori l'intera figura di un
uomo bellissimo, con un meraviglioso corpo atletico, muscoli torniti,
occhi azzurri affascinanti, capigliatura folta e ondulata.
Era lui. Era proprio Leopoldo, che in realtà, era stato sempre un uomo
seducente.
Quell'immagine non si mosse, non scappò, solo che il pittore continuò a
guardarla incantato. Rivisse le sensazioni del mitico Narciso e
s'innamorò di se stesso. Anzi a poco a poco si convinse che non fosse mai
esistito uomo più bello di lui. Cominciò a credere che tutte le donne
gli cadessero ai piedi e che alcune addirittura svenissero se le guardava.
Allora prese a vivere appartato e quando usciva, indossava cappello e
occhiali, mantenendo uno sguardo staccato e assente. Cercava di non farsi
riconoscere e sperava che non lo guardassero, temendo di creare trambusti
e disordini a causa della sua bellezza. Inoltre sospettava che lo sguardo
altrui potesse deteriorare il suo bel volto, come accade ai dipinti dei
musei colpiti dai flash delle macchine fotografiche.
Così restava sempre più spesso a casa, solo, rinchiuso, senza mangiare e
a rimuginare sulla sua sorte strana e funesta.
Un giorno, lo scenografo del teatro lo incaricò di dipingere i pannelli
scenici per la rappresentazione di "Manon Lescaut" e Leopoldo
cominciò a tracciare le immagini del mare dal quale sarebbe salpata la
nave dell'eroina. Sulla spiaggia però disegnò la sagoma delicata di un
bambino. Improvvisamente, il bimbo lo prese per mano e disse: "
Portami in riva al mare. Portami a toccare il mare. Voglio vedere il
mare."
Il pittore uscì dal teatro lirico e si recò al porto della sua città.
Appena vi arrivò, il piccolo corse, si buttò in mezzo alle onde e
scomparve. Lo chiamò e lo cercò disperato, ma non vedendolo più, anche
lui si immerse tra i flutti e continuò a invocarlo. Guardava quella
immensa distesa e lo cercava, poi lo ricordò, lo rivide con gli occhi
della mente e capì che era uguale a se stesso da bambino, era se stesso
bambino.
Allora bevendo acqua cominciò a gridare: "Leopoldo! Leopoldo!
Leopoldo! Dove sei Leopoldo?"
Scomparve tra le onde mentre continuava ad urlare.
Le
lumache
Erano sempre stati una combriccola di buon temponi
e stavano bene insieme.
Si riunivano e andavano a giocare a tennis o a calcetto. Con il
beneplacito delle mogli, avevano anche fondato un'associazione culturale
senza scopo di lucro. Avevano eletto presidente Lorenzo che fra tutti, era
il più carismatico. Tale associazione annoverava gente varia e
organizzava conferenze e occasioni di ritrovo. In realtà era un'altra
scusa per stare insieme, divertirsi, discutere e scherzare.
Quante belle serate, quanti convivi, e soprattutto quanti scherzi erano
stati perpetrati alle spalle di questo o quell'altro socio!
Indimenticabile resterà la beffa progettata ai danni dell'amico Alfonso.
Questi, per hobby, era divenuto un appassionato ricercatore di lumache. Le
studiava, le osservava al microscopio, faceva esperimenti e ricerche su di
esse. Aveva scoperto che lumaca è il nome di alcuni Gasteropodi
Polmonati, forniti di conchiglia solo rudimentale, considerati pertanto
molluschi 'nudi'. Ma nell'uso popolare, il nome è usato invece per
indicare la chiocciola. Alfonso sapeva che, in alcune regioni d'Italia, le
lumache si mangiano come piatto tradizionale. Per esempio, a Roma quelle
di vigna si mangiano per la notte di San Giovanni. Si fanno morire
nell'acqua dopo averle lasciate purgare e quindi si cuociono nell'olio con
aglio, pomodoro, mentuccia. In Francia sono un piatto molto ricercato.
Ne parlava sempre, per lui erano diventate una vera passione, una specie
di mania. Agli amici che avevano la disgrazia di capitargli tra le
grinfie, cominciava a blaterare che le sue benamate lumachine avevano un
corpo allungato e carnoso che, visto al microscopio, rivelava una cute
coriacea e un piede non ben distinto, un mantello piccolo a forma di
scudo, la regione cefalica con quattro tentacoli invaginabili che
funzionano come organi tattili ed olfattivi.
Gli ascoltatori cercavano di arginare la sua loquela e di svignarsela, ma
Alfonso li fagocitava e continuava a dissertare dicendo che le lumache
amano i luoghi umidi e freschi, si rinvengono numerose sotto le pietre e
tra i muschi, nei boschi, nelle grotte, nelle cantine, presso i corsi
d'acqua. Escono di preferenza di mattina, di sera e dopo le piogge
temporalesche. Molte specie sono notturne. Per mantenere il loro corpo
sempre umido in superficie, secernono una bava di vario colore. Si nutrono
di sostanze vegetali, funghi, foglie tenere, animali in decomposizione.
Lorenzo e gli altri amici, non potendone più di sentirlo sproloquiare
sempre in merito ai famosi Gasteropodi, una volta decisero di giocargli un
brutto tiro.
Durante una riunione dell'associazione, a tavola mentre bevevano e
scherzavano, ventilarono con noncuranza la possibilità di mettere su un
allevamento di lumache che avrebbe reso miliardi.
"Cosa? Ma dite sul serio? Sarebbe come realizzare tutti i sogni della
mia vita!" esclamò Alfonso.
"Oh, ma che ci vuole! Basta avere una villa in campagna e un po'
d'amore verso questi molluschi," fece Lorenzo ben sapendo che l'amico
era fornito dell'una e dell'altro.
"Sapete che non ci avevo mai pensato! Ma dite che davvero potrei
avviare un allevamento?"
"Guarda Alfonso, se vuoi noi ti aiutiamo." Il presidente
dell'associazione ormai era determinato a portare avanti uno scherzo
spettacolare.
Antonio, l'amico giocherellone e barzellettiere, aveva spalleggiato
Lorenzo aggiungendo:
"Beh, penso che dovresti presentare domanda alla Camera di commercio,
visto che si tratta di un'attività imprenditoriale."
"Ah! Sì sì certo. Una domanda in carta da bollo. Anzi no. Adesso
non ci vuole più il bollo, o sì?"
"No, il bollo no, però ci vorranno tutti i certificati da
presentare: certificato di nascita, di residenza, certificato di
matrimonio, di sana e robusta costituzione, di iscrizione alle liste
elettorali, carta d'identità."
Qualcuno ci mise il carico di briscola: "Penso che ci vorrà pure il
certificato di esistenza in vita!"
Alfonso in fondo era un gran credulone e un tipo un po' beota, dunque si
rivelava la vittima adatta.
"Sul serio tutti questi documenti!? Non ha importanza. Li
presenterò, e poi che dovrei fare?"
"Guarda Fonsy" aveva detto il presidente, " secondo me,
nella tua campagna dovresti creare un recinto adiacente alla casa, con
reticolato molto fitto. Poi magari noi amici ti regaleremmo le prime
quantità necessarie di lumache. Tu dovrai metterle nel recinto e badare
alla riproduzione."
"Che maraviglia! Ma alt, un momento! Non aumenteranno a dismisura?
Sapete, modestamente sono un esperto e so che si riproducono
vertiginosamente."
Aveva assunto un'aria piena di sussiego, con il mento sollevato e il naso
all'insù, come chi senta puzza sotto il naso.
A quel punto era intervenuto Dario, l'amico biologo che lavorava in un
Istituto botanico: "Per questo ci penso io. Sai, Fonsy, gli ortolani
e i giardinieri per combatterle usano delle sostanze polverulente, come
cenere e calce, che esauriscono l'attività secretrice delle loro
ghiandole mucose, provocandone la morte. Ti potrei fornire la polvere
adatta che abbiamo in Istituto, in modo da arginare la riproduzione."
"Magnifico! Ma scusa, non morirebbero tutte?"
"Che c'entra! Tu dovresti spargere la polvere ai bordi del recinto,
in modo da far morire solo quelle che tentassero di oltrepassarlo."
"Che meraviglia! Potrei raccogliere centinaia di migliaia di
lumachine e venderle. Differenzierei le specie e alleverei un po' tutte le
varietà."
Era eccitato ed euforico. Dunque si misero d'accordo sulle modalità per
fargli iniziare la nuova attività e sui vari aiuti che gli sarebbero
serviti.
Alfonso costruì con le sue mani il famoso recinto vicino alla casa e gli
amici in una bella mattinata di sole, gli portarono due ceste ricolme di
lumache.
Dario portò un sacco di innocuo sale fino e raffinato, spacciandolo per
la famosa polvere lumachicida.
I preparativi furono molto divertenti perché vedere all'opera Alfonso,
che quasi carezzava i cari molluschi, fu uno spettacolo tutto da ridere.
Bagnò accuratamente la terra per renderla umida, pose dentro il recinto
lattuga, barbabietole, bucce di patate. Sparpagliò le sue adorate
lumachine e cosparse infine il reticolato di quella che credeva la polvere
dell'Istituto di botanica.
Ma le risate più eclatanti per la combriccola di screanzati, furono
quelle che li fecero sganasciare una settimana dopo.
Tornarono nella campagna di Fonsy e lo trovarono con le mani nei capelli
mentre osservava un'invasione di lumache simile allo sbarco in Normandia!
Ce n'erano ovunque: oltre il recinto, sul prato, sulla casa, sui tronchi
degli alberi, fra gli angoli delle aiuole, fra i mattoni del terrazzo,
sulle finestre, sulle porte.
Alfonso pareva in preda ad una crisi isterica!
Vedeva ogni anfratto brulicante di uova, sulla superficie delle quali si
erano formate le minuscole spirali del futuro guscio.
Si erano riprodotte a migliaia, a grappoli, formando un'enorme massa, una
corazza di gusci. Avevano dato vita a composizioni bitorzolute; erano
state capaci di lacerare molte foglie e fiori.
L'invasione degli Unni in confronto, pareva la gradita visita di quattro
amici!
Alfonso camminava sui gusci che facevano rumore di ciottoli. Li calpestava
e aveva l'impressione d'infrangere del vetro.
Sentiva odore di pesce marcio!
Non poté neppure entrare in casa, poiché le fessure risultarono bloccate
e le cerniere delle porte incollate da quei dolci animaletti che lui aveva
così tanto amato!
Gli amici, tra una pestata e l'altra di lumache, ridevano a più non posso
e si contorcevano in preda ad eccessi d'ilarità.
ERMANNO
Giulio era un ragazzo sempre allegro e amante della
vita. Era molto amico di Ermanno, un giovane paraplegico, costretto, ormai
da diversi anni su una sedia a rotelle, a causa di un incidente: infatti,
si era trovato sotto un palazzo in costruzione a Palermo, e una trave,
sganciatasi da una gru, lo aveva preso in pieno sulla schiena.
Aveva rischiato di morire e per diversi giorni era stato tra la vita e la
morte.
I medici dell'ospedale, alla fine, lo avevano salvato, ma non erano
riusciti a restituirgli l'uso delle gambe.
Di sicuro non era una fortuna trovarsi vivo in quelle condizioni, ma se
n'era fatto una ragione, trovando un diverso equilibrio in tutte le
circostanze della vita. Si era reso presto autosufficiente, poiché la
cosa che soprattutto lo avviliva e lo angosciava era il dover dipendere
dagli altri. E poi si era sentito amato ancora da tutti. Stava in
compagnia, conversava con la gente, andava al mare, che lui adorava. Aveva
tanti amici, ma più di tutti gli era affezionato proprio Giulio, un
giovane aitante, alto, bello, riccioluto e scuro di pelle. Passeggiavano e
parlavano lungo la spiaggia, in tutte le stagioni, incuranti della sferza
del vento invernale o indifferenti alla calura estiva.
La loro amicizia era fatta di complicità e confidenza assoluta. Si
svelavano tutti i segreti ed ogni pensiero recondito. Al risveglio,
entrambi erano felici pensando di poter rivedere l'altro.
Nessuno dei due aveva voluto frequentare l'università e, appunto, una
cosa che li accomunava era la scarsa versatilità allo studio.
Tutte le domeniche i due ragazzi se n'andavano lungo il litorale. Nel
primo pomeriggio non c'era nessuno per le strade ed essi si sentivano i
padroni della città. Ermanno talora taceva assorto nella contemplazione
del paesaggio e dell'immensa distesa del mare. Dopotutto, si meravigliava
lui stesso del cambiamento del proprio carattere. Prima della disgrazia,
non dava significato a molte cose che dopo si erano rivelate sotto una
diversa luce. Aveva più tempo per rifletterci, per cui la vita aveva
assunto una luce nuova anche nelle cose quotidiane, piena di valori sino
ad allora sconosciuti. La città per esempio: la guardava con occhi nuovi
e ne scopriva, ogni giorno, dimensioni inesplorate ed insospettabili. Il
dedalo dei vicoli, così umani e caratteristici, per esempio; i vicoli di
una Palermo affascinante ed antica, romantica e piena di miseria morale e
materiale. Lui amava quella città, la amava con tutto se stesso, ed ora
dalla sua carrozzella poteva meglio contemplarla ed assaporarla. Purtroppo
era pure difficile camminarci e respirare in quelle strade piene
d'inquinamento.
Una volta, Giulio gli aveva detto: "Non so quello che avrei fatto se
fosse accaduta a me la tua stessa disgrazia!"
"Oh! Ti saresti abituato! Però, sai, vedi le cose in modo diverso,
come se qualcuno ti aprisse improvvisamente gli occhi: allora ti accorgi
della sporcizia delle strade, dell'inciviltà della gente e della miseria
che ti circonda. Ma soprattutto ti accorgi che gli altri sono insensibili.
Ti senti solo ed estraneo. Eppure vedi confusione e traffico dappertutto,
e io, in queste condizioni, sapessi che fatica! "
Se non fosse stato per Giulio, che molto spesso lo accompagnava, certe
volte non sarebbe riuscito neppure a tornare a casa. Lui stava bene solo
vicino al mare. Lì non gli mancava nulla e neanche la sua condizione gli
pareva più tanto tragica.
Il mare! Lo aveva amato sin da piccolissimo. Ne aveva sempre subito il
fascino prepotente. Lo guardava e ne ammirava la maestà e la potenza
infinita.
Prima, la sua passione più grande era stata quella di nuotare ed
immergersi nelle acque di Mondello.
Era, per lui, un elemento familiare ed amico.
Gli avevano assicurato che avrebbe potuto egualmente fare il bagno in
piscina, ma non era la stessa cosa. Non era come sentirsi libero e beato
nel mare.
Aveva allora cercato d'immergersi, lasciando la carrozzella sulla
spiaggia, ma c'erano volute quattro persone che lo aiutassero. Dunque vi
aveva rinunziato.
All'inizio, aveva sofferto molto anche per le piccole necessità
quotidiane, ma aveva poi trovato mille soluzioni, e riusciva sempre a
cavarsela. Se proprio gli andava storta qualcosa o si spazientiva, se
n'andava al cinema e questo lo distraeva e lo calmava.
Spesso si recava alla villa<Giulia>, dove trascorreva il tempo
davanti la vasca dei pesci a conversare con i vecchi pensionati.
La vita trascorreva così. Era bella la vita per chi era stato ad un passo
dalla morte. Ermanno la apprezzava più di tanti altri. Guardava il sole,
il mare, i fiori, le montagne, e sapeva, con esatta cognizione cosa voglia
dire essere sul punto di non rivederli mai più.
Le sue giornate trascorrevano con serena rassegnazione, un po' monotone in
fondo, senza che accadesse mai niente di diverso.
Ma un giorno qualcosa avvenne e lasciò il segno per sempre.
Era Luglio, un primo pomeriggio domenicale.
Il caldo aveva fatto evadere tutti nei luoghi di villeggiatura, oppure al
mare, dove la brezza leniva l'afa. In giornate come quelle le strade
rimanevano deserte fino a sera.
Ermanno e Giulio si trovavano invece a passeggiare in un luogo solitario
della città.
Giulio spingeva, come il solito, la sedia a rotelle e chiacchieravano
felici e paghi ognuno della compagnia dell'altro.
Ogni tanto qualche automobile sfrecciava e li superava rompendo la quiete.
I due amici si riparavano dal sole, fermandosi ogni tanto all'ombra di
qualche albero. Si guardavano intorno e ritrovavano la loro Palermo
tranquilla come ormai non era più. Rivedevano cose viste da sempre e di
cui soltanto ora sembravano accorgersi. Specialmente per Ermanno era un
vero piacere.
Ad un tratto, gridò: " Attento! " Infatti, aveva scorto una
moto di grossa cilindrata che correva a folle velocità verso di loro.
Sbandava paurosamente con un sibilo sinistro di pneumatici.
Fu questione di un momento: Giulio avvertì anche lui il pericolo e fece
appena in tempo a spingere di lato la carrozzella dell'amico prima di
essere investito. Il motociclista, nonostante l'urto, continuò la sua
corsa.
"Giulio, Giulio, rispondimi!" esclamò Ermanno appena riavutosi
dallo spavento.
L'amico giaceva a terra, senza sensi, piegato su se stesso come una
marionetta. Un rivolo di sangue gli colava agli angoli della bocca, ma si
capiva che era ancora vivo da come il torace si alzava e si abbassava.
"Oh per carità, Giulio! Aiuto! Aiuto! Aiuto!" gridava Ermanno.
Attorno non vi era anima viva.
Tentò di fermare con ampi gesti delle braccia un'automobile in transito,
ma questa senza neppure rallentare, accelerò e sparì.
Aveva con sé il telefonino e cercò allora di chiamare il pronto
intervento. Purtroppo però l'apparecchio risultava senza campo e non
prendeva la linea. Riprovò infinite volte con mani tremanti e con il
cuore in tumulto, ma niente da fare. Ricordò che l'amico aveva pure un
telefonino in tasca e, forse, il suo avrebbe funzionato. Però l'investito
era riverso su se stesso e sarebbe stato difficile arrivare a
prenderglielo. Ci provò. Doveva fare sforzi sovrumani dalla sedia a
rotelle. Si piegava in avanti, rischiava di cadere, ma non desisteva.
Provava ad allungarsi e a mettere una mano sotto il corpo di Giulio, ma
l'impresa era disperata. Mai come in quel momento aveva avvertito la
miseria della sua condizione.
Alla fine, con uno strattone disperato, Ermanno riuscì ad estrarre il
telefonino dal pantalone del ragazzo privo di sensi.
Fortunatamente, quest'altro apparecchio si collegò con l'ospedale.
"Pronto! Pronto! Fate presto! Mandate subito un'ambulanza in Via……Correte
presto! C'è un ferito grave! Gravissimo!"
Parlò tutto d'un fiato, concitato, terrorizzato, allarmato oltre ogni
dire.
Trascorse del tempo prima che avvertisse la sirena dell'ambulanza che si
avvicinava e l'attesa gli parve interminabile. Era angosciato, disperato,
ed ogni fibra del suo essere era vicina a Giulio.
Gli infermieri li caricarono entrambi sull'ambulanza, e, via, a sirene
spiegate.
Ermanno aveva ripreso le forze e parlava raccontando l'accaduto. Parlava,
parlava e guardava Giulio. Il suo Giulio pallido come un morto. Ma poco
dopo, questi cominciò a lamentarsi e l'infermiere che gli teneva il polso
disse laconico: " Secondo me, se la caverà benissimo."
Li portarono, a sirene spiegate, al Pronto Soccorso dell'Ospedale Civico
di Palermo.
Qui Giulio ricevette i primissimi soccorsi e fu subito messo sotto
osservazione.
Ermanno non lo abbandonò un secondo. Si allontanò per qualche minuto,
solo dopo aver avuto l'assicurazione dei medici che l'amico non correva
assolutamente pericolo di morte.
Telefonò ai familiari di Giulio. Riferire ed annunziare la terribile
notizia a quei poveri signori sarebbe stata un'impresa assai difficile e
grave. Si fece coraggio e compose il numero.
"Pronto, signora, sono Ermanno. E' accaduta una cosa gravissima.
Giulio è stato investito da una moto, non è grave, ma i medici lo
vogliono tenere sotto osservazione. Siamo al Pronto Soccorso dell'Ospedale
Civico."
Dall'altra parte, silenzio assoluto.
"Pronto, signora mi sente? Giulio è ferito, ma non è grave."
A questo punto, sentì rispondere: "Stiamo arrivando." E tosto
fu tolta la comunicazione.
Conosceva bene la madre del suo amico: in quel momento sarà stata come
tramortita. Poveretta! E questo perché Giulio aveva voluto innanzi tutto
salvare la vita di Ermanno.
La vita! Era proprio strana la vita! Ma bellissima. Un sentimento che va
oltre ogni confine dell'umano aveva spinto Giulio ad agire, così
spontaneamente. Non aveva pensato ad altro che a lui, ad Ermanno. Caro
Giulio, non aveva pensato per niente a se stesso!
Dalla camera di rianimazione uscì, dopo mezz'ora, una bella ragazza in
camice bianco. Era una infermiera. Vedendo Ermanno annunziò subito:
" La prognosi è riservata; ciò che preoccupa i medici è una
leggera lesione alla colonna vertebrale."
Ermanno sentì una fitta dolosa al cuore; proprio qualcosa di fisico che
gli stringeva la gola e non lo faceva respirare.
La colonna vertebrale! Le gambe! Come lui, proprio come lui.
Se la lesione fosse stata permanente ed irreversibile, Giulio sarebbe
stato condannato anche lui per sempre su una sedia a rotelle! Lo stesso
destino. Ed Ermanno conosceva troppo bene il significato di quel destino.
Sentì che le lacrime lo stavano assalendo, ma non doveva piangere. Aveva
già da tempo imparato a non piangere su se stesso. Adesso doveva
sforzarsi, doveva vincersi e frenarsi. Non doveva piangere neppure per
Giulio. Ma era molto più difficile. Il suo amico era l'immagine della
salute, della gioia di vivere! Aveva vent'anni ed era molto bello, alto,
con spalle larghe e ben tornite. Con una carnagione che sembrava
eternamente abbronzata e dei capelli nerissimi, ondulati, corti, e sempre
spettinati. Giulio, che rideva sempre, che sapeva tenerlo allegro, con i
suoi scherzi salaci e le sue battute irresistibili. Giulio che gli voleva
bene e che glielo aveva sempre dimostrato in mille modi. Adesso aveva
persino rischiato la propria vita per lui.
"Non piangere Ermanno! Non devi piangere. Lo devi fare per
Giulio", si diceva il ragazzo.
Ma era un bel dire e un bel pensare: lacrime copiose gli scendevano per le
guance mentre lui teneva la testa reclinata verso la sedia a rotelle.
"Non pianga", gli fece una voce " il suo amico non morirà
di certo, non è gravissimo".
Era l'infermiera di poc'anzi che cercava di fargli animo. Gli sorrideva
incoraggiante e quel sorriso era dolcissimo, sincero e fatto di denti
bianchissimi e perfetti.
" Temo che possa aspettarlo la stessa mia sorte, vede", replicò
Ermanno asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, "sarebbe
terribile! Non è possibile! No, per Giulio non è possibile."
"Ma che dice, chi l'ha detto che potrebbe perdere l'uso delle gambe?
" ribatté subito la ragazza,
"la lesione alla colonna è lieve e al momento non si può dire
nulla."
"Quando sono divenuto io paraplegico, quattro anni fa, fu proprio a
causa di una lesione alla colonna vertebrale". Ricordando quei fatti,
Ermanno era divenuto pallidissimo.
"Mi dispiace molto, ma di certo il suo danno sarà stato devastante
ed irreversibile, non sarà così,
per il suo amico, vedrà."
"Dio lo voglia, pensi che Giulio mi ha sempre chiesto come facessi a
tollerare la mia situazione!" L'infermiera lo guardava con due occhi
pieni di meraviglia. Erano castani o dorati quegli occhi? In ogni caso
Ermanno li fissava incantato. Erano l'unica cosa che riuscisse a
distoglierlo dalle sue preoccupazioni. E poi era difficile, anzi quasi
raro, incontrare in un ospedale di Palermo un'infermiera cosi sollecita,
gentile e disponibile. Per non dire che era pure una gran bella ragazza. E
doveva avere all'incirca la stessa età di Ermanno. Quindi giovanissima,
ventidue anni, più o meno.
Di lì a poco arrivarono i genitori di Giulio. Erano stravolti. Pallidi e
tremanti non chiesero nulla a nessuno, ma i loro occhi erano rivolti ad
Ermanno, occhi sgranati, atterriti e in cui una sola domanda era presente:
" E' vivo? "
Il ragazzo si fece loro incontro con la sua carrozzella: " E' vivo,
cosa credete? I medici lo tengono sotto osservazione perché ha un leggera
lesione alla colonna vertebrale, ma non c'è nessun pericolo di
morte."
Ebbe l'impressione di veder ritornare un po' di colore su quei due visi.
Sì certo. La cosa importante era che fosse vivo. Ma lui aveva anche
accennato al pericolo che correva Giulio. Però ormai lo sapeva: era
meglio su una sedia a rotelle che morto. Ma era proprio vero ?
A questo punto i due signori lo subissarono di domande. Volevano sapere
tutto: le ferite riportate, le fratture, se c'era trauma cranico, e
infine, come era successo.
Ermanno non sapeva rispondere a quei particolari, se non in generale. Poi
però iniziò a narrare ogni cosa sulla dinamica dell'incidente.
Quando giunse a raccontare della moto che sbandava e di come Giulio avesse
voluto innanzi tutto proteggere lui, i genitori ammutolirono nuovamente, e
con la testa china, volevano nascondere ognuno le proprie lacrime.
" Che ragazzo!" sbottò il padre " che ragazzo, questo mio
figlio! "
La madre adesso singhiozzava.
"Non pianga, signora, sa, non dovrà mai farsi vedere piangere da
Giulio."
"Hai ragione Ermanno, ma adesso vorrei proprio vederlo."
Stava ritornando l'infermiera di prima: " Siete i genitori? Tra breve
lo trasferiranno in ortopedia;
l'elettroencefalogramma ha dato esito positivo, al cervello non ha
nulla."
"E la colonna vertebrale?" fecero in coro i due signori.
"Appunto, va in ortopedia per essere del tutto controllato."
Poco dopo, infatti, su di una lettiga spinta da un altro infermiere,
apparve Giulio.
Era irriconoscibile, col viso tumefatto e i capelli tutti insanguinati.
Appena però si accorse della presenza dei suoi genitori, si affrettò a
salutarli facendo un tremendo sforzo:
"Ciao papà, ciao mamma."
Quest'ultima fece: " Giulio! " E cercò di sorridere.
Via di corsa, l'infermiere lo sospinse verso l'ascensore: "Eroe,
stiamo andando al reparto dei fratturati, ringrazia che non dobbiamo
andare in rianimazione!"
Se dovevamo andare lì, mica me lo dicevi, giacché io non ti avrei
sentito; pensò subito il ragazzo.
Arrivarono in una specie di camerata. Bello quel posto! Si sentivano
gemiti un po' dappertutto. Adesso Giulio cominciava di nuovo ad
addormentarsi. Stava benissimo quando dormiva. Era solo quando riprendeva
coscienza che soffriva e avvertiva dei tremendi dolori ovunque. Ma perché
si affannavano a tenerlo sveglio? Voleva dormire, e non pensare, non
sapere. Anzi quando il fatto era successo, si era sentito improvvisamente
come trasportato fuori da se stesso e si stava meravigliosamente. Tutti
erano come lontanissimi e si affannavano attorno a lui senza sapere che
stava benissimo e che avrebbe preferito che lo lasciassero in pace.
Nella corsia erano arrivati il padre, la madre ed Ermanno, ma Giulio
dormiva.
Lo avevano lasciato con la lettiga in mezzo alla corsia, poiché non c'era
più posto. Vicini a lui, vi erano due sposi novelli che avevano avuto un
incidente d'auto appena partiti per il viaggio di nozze.
Entrambi si lamentavano. Poi arrivò la solita bella infermiera, e volle
condurre la sposina nel reparto delle donne: " No! Lasciatemi qui con
mio marito!" cominciò ad urlare. Le grida erano altissime e
disperate. Giulio aprì gli occhi.
Il padre se ne accorse e gli si avvicinò: " Papà non preoccuparti!
Me la caverò. Tuo figlio è coriaceo." Ma una fitta di dolore lo
attanagliò al torace e lo fece tossire mentre stringeva gli occhi.
"Stai zitto figlio, non parlare." Prima di chiudere di nuovo gli
occhi, il ferito si era accorto che il padre piangeva. Quel papà sempre
scherzoso, che non piangeva mai, adesso pareva una fontana.
E perché? pensava Giulio, cosa aveva saputo? Di certo lui le gambe non le
sentiva più. Anzi le sentiva, ma non riusciva a muoverle. E poi che
dolere al petto! E alla schiena e alla fronte!
Eroe, lo avevano chiamato eroe, ma perché? Ah! Si, forse ora ricordava:
aveva voluto a tutti i costi spingere di lato la carrozzella di Ermanno, e
non aveva guardato più la moto che arrivava.
Accidenti a quel motociclista! Correva che pareva un razzo!
Ma che dolore, porca miseria, che dolore! Però Ermanno stava benissimo, e
questo lo faceva sentire importante. Il dolore stava aumentando. Più
ritornava la coscienza e più aumentava il dolore.
Ma perché non lo avevano lasciato in santa pace! No, invece tutti attorno
a svegliarlo. E adesso i dolori li sentiva lui. Tra poco sarebbero
divenuti insopportabili, anzi già lo erano.
Cominciò a lamentarsi. Capiva poco, sapeva solo che quel dolore generale
era tremendo. Sentiva un bruciore in tutto il corpo. Era come se avesse
fuoco in testa. Voleva trattenere i gemiti, ma quelli uscivano da soli
dalla sua gola.
La madre gli fu accanto: " Giulio, tesoro, adesso chiamo
l'infermiera."
Di lì a poco sopraggiunse la solita infermiera con un sedativo.
Gli praticò un'iniezione e il ragazzo si tranquillizzò e si addormentò.
Ermanno chiese di poter restare con lui durante la notte, ma furono
mandati via tutti. Anche la mamma dovette andarsene nonostante le sue
insistenze.
L'indomani furono effettuati su Giulio tutti i controlli del caso e
risultò che aveva entrambi i femori rotti, una clavicola e due costole
fratturate e la famosa lesione alla colonna vertebrale. Di quest'ultima
però, non si poteva ancora stimare l'entità e la gravità. Per giunta
era meglio non farne cenno al ferito.
Non ci fu giorno, successivamente, che Ermanno non gli fosse accanto.
Anche quando lo operarono per ridurre le fratture ai femori ed alla
spalla, l'amico non lo lasciò mai. Sempre fuori dalla sala operatoria in
attesa. Le operazioni andarono tutte benissimo.
Però aveva sempre dei fortissimi dolori alla schiena. I medici gli
dicevano che ancora non poteva muoversi per via delle costole rotte.
Un giorno l'ammalato chiese a bruciapelo: " Ermanno cosa ho alla
schiena?"
La carrozzella era vicinissima al letto di Giulio: " Hai le costole a
pezzi e devi stare immobile affinché si rinsaldino", però la voce
di Ermanno tradiva la bugia.
"Perché allora mio padre e mia madre sono sempre tristi, in fondo,
sta andando tutto bene."
"Ma perché in ogni caso non è bello quello che ti è successo, che
domande!"
"Ermanno, tu non hai mai saputo mentirmi, anche questa volta ci
riesci male, dai, dimmi la verità, cosa ho alla colonna vertebrale?"
Com'è la vita? Bella o brutta? In questi casi è orribile. Come si fa a
dire ad un amico: " Guarda che forse resterai anche tu su una sedia a
rotelle come me."
"Giulio non domandarlo a me, chiedilo ai dottori."
"Ho capito, ho qualcosa di brutto alla schiena " ed Ermanno
taceva.
"Anzi, ho qualcosa alla colonna vertebrale", e l'amico
continuava a tacere con la testa bassa.
"No! " urlò Giulio " Non è possibile! No, no, no! "
Accorse la solita infermiera: " Cosa è successo? Giulio che hai?
" e guardò l'altro, aspettando una risposta.
"Dice d'avere qualcosa alla colonna vertebrale." Ermanno era
pallidissimo e stringeva con le mani i braccioli della carrozzella.
"Hai ragione Giulio, i dottori hanno riscontrato una lesione alla
colonna vertebrale."
Emanuela, questo era il nome della ragazza, era seria e un po' triste, ma
non guardava Giulio con compassione. Questi cercò di sollevarsi dal letto
e gridò: " Anche io, vero? Anche io resterò su una sedia a
rotelle?"
"No, non è detto, la lesione non è grave", ed Emanuela
sorrideva.
Adesso erano rimasti soli e l'ammalato le aveva afferrato la mano.
"Stai mentendo Emanuela, vuoi illudermi."
"No, e perché? per prenderti in giro? E' vero, i medici affermano
che non è grave, ma che bisogna attendere il decorso generale del tuo
stato di salute ed il saldamento della lesione, solo allora si potrà dare
un responso ufficiale."
Il ragazzo voleva crederle, doveva crederle. Anche lui ora sorrideva. Con
quei suoi denti perfetti e bianchissimi, Giulio, era proprio bello. Ma
chissà perché, Emanuela preferiva Ermanno; sarà stata forse compassione
o senso materno di protezione, ma l'infermiera provava una fortissima
attrazione per il paraplegico e le sue simpatie erano rivolte sempre a
lui, sempre verso di lui.
Ed Ermanno se ne era accorto. Si sentiva lusingato per questo. D'altra
parte, come si faceva a restare indifferenti nei confronti di una così
bella ragazza?
Qualche istante dopo, ricomparve Ermanno: " Allora, Giulio, ti sei
tranquillizzato? "
"Si, Emanuela è riuscita a tranquillizzarmi", e l'ammalato la
guardava con occhi adoranti. Questa era una novità. Fino a quel momento,
Giulio l'aveva osservata solo con molta ammirazione.
Ma la ragazza gli si fece subito incontro: " Hai visto Ermanno
?Adesso è sereno, ha capito che deve aspettare e pazientare."
Gli occhi di Giulio ora esprimevano un po' di gelosia, poiché
l'infermiera era stata molto sollecita e affettuosa nei confronti
dell'altro.
Ma che strana faccenda! Il suo amico si stava innamorando di Emanuela. E
lui? Lui non era già forse invaghito di quella ragazza dagli occhi
nocciola e dolcissimi? Una ragazza come poche, sempre presente sul posto
di lavoro, disponibile, che considerava il suo operato come una missione.
Per lei ci voleva un uomo sano e robusto. Ci voleva un tipo come Giulio,
amante della vita, solare, bello, il suo Giulio insomma.
La giovane gli disse all'improvviso: " Ermanno mi offri un caffè?
"
Non poteva rifiutare: " Si, certo! Giulio torniamo subito", e
gli occhi di quello erano ancora colmi di gelosia.
Si recarono al bar dell'ospedale e consumarono due caffè. Emanuela adesso
aveva proprio l'atteggiamento di una ragazza che vuol farsi corteggiare
poiché prova simpatia ed attrazione per il ragazzo che l'accompagna. Ma
come faceva a provare attrazione per un paraplegico come lui? Le strade
del cuore sono proprio strane!
Non si rendeva conto, però, Ermanno, di quanto fosse bello lui, proprio
lui, con il suo mezzo busto aitante, il suo viso mascolino, non perfetto,
ma molto attraente, con le sue fossette sulle guance che si accentuavano
moltissimo non appena sorrideva. Ermanno sarebbe piaciuto a qualsiasi
ragazza, se solo fosse stato sano e normale.
"Sai " fece l'infermiera " vorrei qualche volta uscire con
te, prendere il posto di Giulio e accompagnarti in giro per la città? Ti
piacerebbe? "
Caspita se gli sarebbe piaciuto!
"Sì certo, mi piacerebbe, ma questo vorrebbe dire quasi sostituirti
al mio amico."
"Che centra! Lui resterebbe sempre l'amico che ti accompagna quando
può."
"Guarda che Giulio poteva sempre."
"Ho capito, niente da fare! Preferisci la compagnia di Giulio alla
mia."
"Ma che dici, sarei un vero scemo o altro…….., se così
fosse!"
"Allora quando usciamo?"
"Per ora verrò ogni giorno qui per Giulio, quando si saprà di lui
qualcosa di sicuro, allora decideremo."
"D'accordo allora, intesi, sono proprio contenta."
E' strana la vita, è propria strana! Quella ragazza così bella era
contenta di uscire con un paraplegico!
Tornarono da Giulio, lo trovarono un po' imbronciato, ma subito sollevato
di rivederli.
"Ermanno sai che mi sento meglio? Mi sento più forte, sarà la
continua vicinanza di Emanuela!"
Il ragazzo sorrideva scherzoso. In quel che diceva però, si intuiva
l'esatta realtà.
"Questa sì che è una bella notizia! " fece l'amico "
Vedrai che tra poco ti sentirai in grado di camminare."
L'indomani Ermanno era puntualmente al fianco di Giulio.
"Come va? Come ti senti oggi?"
"Sempre meglio, davvero, sempre meglio. Spero che i medici presto si
pronuncino, ed in senso positivo, ovviamente."
"Succederà, vedrai che presto succederà", ed Ermanno
esprimeva, sinceramente, tutta la sua
solidarietà.
Arrivò Emanuela. Quando c'era Ermanno, la ragazza pareva materializzarsi
all'improvviso.
Ma anche questo dava un po' fastidio a Giulio. Che brutta cosa la gelosia!
Uccide i sentimenti più nobili!
"Ragazzi, una bella notizia! Oggi rifaranno la radiografia alla
colonna vertebrale di Giulio e, se la lesione si è saldata perfettamente,
controlleranno tutto il resto. Insomma, le cose si stanno mettendo proprio
bene!"
Il viso di Giulio esprimeva una gioia grandissima.
"Vieni Ermanno, oggi te l'offro io il caffè". In pochi attimi
invece, lo stesso viso si era rabbuiato.
Porca miseria! Ma come era possibile tutto ciò?
"Senti Emanuela, oggi non mi va di prenderlo, scusa sai, fai conto
che lo abbia accettato."
Arrivarono gli infermieri per trasportare Giulio in radiologia.
Emanuela dovette seguirli ed Ermanno restò solo a rimuginare. Sì, era
così, il suo amico si era innamorato di quella bella ragazza.
Trascorse circa un'ora. Quindi ritornarono tutti. Giulio era radioso: la
lesione, dopo tanti giorni di immobilità, si era perfettamente
rinsaldata, e questo anche grazie alla sua giovane età e alla sua
robustezza.
"Adesso rifaranno di nuovo tutti i controlli" disse Emanuela
"ma le aspettative sono delle più incoraggianti."
Oh! Finalmente! L'incubo stava per avere un epilogo. Ermanno se ne voleva
andare, sentiva il bisogno di restare solo. Tra l'altro, voleva lasciare
soli quei due.
"Dai, Ermanno, ora dobbiamo proprio andare a festeggiare", ed
Emanuela era proprio invitante ed affettuosa. Come dirle di no? Ma tutta
la gioia era scomparsa dal volto di Giulio.
"Va bene, un caffè e poi vado via. Giulio sono proprio contento.
Tornerò più tardi."
L'amico non rispose. Chissà, forse avrebbe voluto dirgli: " Per me,
puoi anche non tornare!"
Quel caffè, infatti, gli andò per traverso. Salutò la ragazza che lo
guardava stranita e se ne andò.
Ritornò dopo venti quattro ore. Avevano già rifatto tutti i controlli e
la notizia era strepitosa: non c'era nessun altro danno; di lì a pochi
giorni, il degente avrebbe potuto iniziare la fisioterapia per la
rieducazione degli arti inferiori.
Abbracciò l'amico che era ritornato sereno e sorridente. A questo punto,
si sentì abbracciare da Emanuela: "Hai visto Ermanno? Tutto a posto!
Ve lo avevo detto io!"
Il viso di Giulio era ritornato turbato. Da quel momento in poi il suo
stato d'animo sarebbe dipeso dalle azioni e dal comportamento della
ragazza.
Ermanno restò con loro tutto il giorno, ma aveva preso la sua decisione:
non sarebbe più tornato in ospedale.
Verso sera abbracciò l'amico fortemente. Quella, sarebbe stata l'ultima
volta che lo vedeva, ma Giulio non lo sapeva: " Ciao Ermanno, ci
vediamo domani."
"Sì certo", mentì e diede la mano ad Emanuela. Anche lei non
l'avrebbe più rivista. La ragazza avvertì qualcosa di strano in quel
saluto, ma non disse niente.
Nei giorni successivi lo avrebbero cercato, lo sarebbero subissato di
telefonate, ma lui si sarebbe sempre negato. Alla fine si sarebbero
stancati, e chissà, forse avrebbero anche capito!
Fu fuori, all'aria aperta, con la sua carrozzella, solo. D'ora in poi
sarebbe stato sempre solo, senza Giulio.
Portava avanti la sedia a rotelle con la morte nel cuore. Non si era mai
sentito così disperato. Aveva tanto sofferto per la sua condizione, ma la
vicinanza dell'amico era stata sempre il miglior toccasana.
All'improvviso si accorse di avere di fronte il mare: no, non era solo!
C'era il mare! Ci sarebbe stato per sempre il mare! Il suo mare, il mare
di Palermo!
Peripezie
di un libro
Era un libro piccolino, rilegato in cartoncino
lucido.
L'immagine di copertina rappresentava un fiore azzurro su uno sfondo
chiaro.
La sua veste tipografica era senza pretese, con una brossura normale e
senza prefazione nell'occhiello.
Conteneva la storia di una ragazza che era riuscita a dare una svolta alla
propria esistenza grazie alla sua passione per la scrittura.
Stampato e pubblicato in varie copie, aveva riscosso molto successo,
seppure in sordina. Infatti la sua autrice era un esordiente e, come tale,
snobbata e ignorata dagli addetti ai lavori.
Una delle copie era stata acquistata dalla cugina Erminia per farne una
strenna natalizia ad un'amica. Il dono era stato accompagnato dalla
raccomandazione di poterlo riavere in prestito, dopo che fosse stato
letto.
L'amica divorò il romanzo in meno di tre giorni. Si appassionò alla
storia e ne parlò entusiasticamente al telefono con la sorella.
Naturalmente quest'ultima, incuriosita, insistette per averlo prestato.
"Riportamelo al più presto, " avvisò la proprietaria
"perché lo devo prestare a chi me l'ha regalato."
Invece la sorella leggendolo, se ne appassionò tanto che credette
opportuno parlarne a Laura, la sua più cara amica, la quale a sua volta,
lo volle prestato.
"Dai ti prego, portamelo a casa e te lo restituirò subito."
La famosa sorella uscì da casa annunziando al marito che si stava recando
da Laura.
Il consorte però non sapeva del cambio di domicilio di quest'ultima.
Quando incontrò per caso la moglie da un'altra parte della città, fu
colto da eccessi di gelosia.
"Perché mi hai detto una menzogna? Con chi ti dovevi
incontrare?"
Ci volle del tempo e grandi arti di persuasione per convincerlo del fatto
che il libro era stato recapitato al nuovo indirizzo di Laura.
Questa adesso viveva con la madre che era un'anziana signora molto
stordita e svanita. Tra l'altro era maniaca dell'ordine e, vedendo il
romanzo sul tavolo della cucina, pensò bene di riporlo dentro il
frigorifero. La figlia trascorse un'intera giornata a cercarlo.
"Scusa, perché lo hai preso? Dove l'hai messo?"
"Non so, non ricordo, però ho messo tutto al suo posto."
Fu ritrovato verso sera tra uova, prosciutto, scatolame e barattoli vari.
Poi alla fine Laura lo lesse e fu avvinta dalla storia che vi veniva
narrata. Quindi ne parlò con suo fratello Giuseppe.
"Senti, mi hai fatto venire la curiosità, prestamelo," disse
lui "te lo restituirò subito."
Il libro transitò quindi nelle mani di costui che, di lì a poco, si
recò nella villa dei suoceri per una breve vacanza. Giusto gli parve
portare con sé il libro per leggerlo in relax. Quella era una dimora
assai bella, di gente benestante, piena di mobili, quadri e porcellane
antiche. Per causa del libro, fu distrutta una di quelle porcellane tanto
care alla suocera. Si trattava di un'anfora preziosa posta su una piccola
colonna di marmo.
Il nipotino di sei anni aveva preso il libro dello zietto e ne aveva
danneggiato alcune pagine. Poi intuendo la monelleria commessa, aveva
cercato di nasconderlo dentro l'anfora, ma proprio in quel momento
Giuseppe aveva urlato: "Cosa stai facendo col mio libro?" Il
bambino si era spaventato ed aveva mandato in frantumi il vaso antico.
Comunque il romanzo era stato recuperato e, dopo qualche tempo, restituito
a Laura.
Lei s'affrettò subito a restituirlo alla sorella della legittima
proprietaria, che poi ne tornò in possesso.
Ora poteva prestarlo e farlo leggere ad Erminia, che l'aveva acquistato,
donato, ne aveva udito parlare in termini lusinghieri, ma non era mai
riuscita a posare gli occhi su quelle pagine.
Erano trascorsi due mesi da che l'aveva regalato, e poteva finalmente
leggerlo in santa pace, costatando di persona se veramente meritasse tutto
il clamore che aveva suscitato tra i suoi amici e conoscenti.
Si dispose dunque alla lettura, ma il suo cane reclamava di essere
condotto a passeggio.
"Aspetta Bobby, usciremo più tardi."
Macché! Il barboncino bianco abbaiava, la tirava, le saltava addosso e
non le consentiva di leggere.
Erminia si rassegnò ad uscire e, inavvertitamente, si mise il libro sotto
un'ascella.
Passeggiava pazientemente ed osservava tutte le pipì del cagnolino legato
al guinzaglio, quando fu avvicinata da Girolamo, suo collega d'ufficio.
"Ciao carissima! A passeggio col cane? Ma cos'hai sotto il braccio,
un libro?"
Lei abbassò gli occhi, guardò bene e s'accorse del gesto involontario
che aveva compiuto.
"Oh sì! E' un libro che sto leggendo, anzi devo ancora iniziare a
leggerlo. Mi hanno detto che è graziosissimo."
"Davvero? Se ancora non lo hai iniziato, prestamelo." E così
dicendo le sfilò il volume dall'ascella.
"No, no, non è possibile! Ridammelo. Lo devo restituire a mia cugina
cui l'ho regalato e che me l'ha prestato."
Gli tolse dunque il libro dalle mani. Ma Girolamo non si diede per vinto.
A sua volta glielo tolse e insistette:
"Che fretta c'è? Dai, lo leggo e te lo restituisco subito."
"Ho detto di no! Mi dispiace, dammelo."
Bobby nel frattempo osservava questa scena col nasino all'insù e la
testolina piegata da un lato.
Alla fine Erminia si convinse e lasciò il libro al collega.
"Riportamelo al più presto in ufficio. Lo voglio leggere anch'io
accidenti!"
Ora si dava il caso che Girolamo fosse segretamente innamorato di lei.
Prima di riportarglielo, nascose fra le pagine del romanzo una lettera in
cui le dichiarava tutto il suo amore. Un amore appassionato, segreto e
inconfessato, celato per timidezza e paura di essere rifiutato e deriso.
Quando lo riportò in ufficio, chiese ad Erminia di non toccare il libro
se prima non fosse tornata a casa.
"Ma perché scusa? Non capisc…." Nel dire così, si accorse
che dentro vi era qualcosa. Per discrezione, aggiunse:
"Va bene, va bene, come vuoi."
Naturalmente la curiosità cominciò a roderle dentro e non vide l'ora che
finisse quella giornata di lavoro. Andò via mezz'ora prima del consueto.
Quando arrivò a casa, Bobby l'accolse tutto festante e, more solito,
iniziò a tirarla e a saltare per essere condotto fuori ad espletare i
suoi bisogni.
"Stasera dovrai aspettare Bobby! Ho una cosa molto più importante da
fare."
Il cagnolino si arrestò sorpreso e deluso, ed osservò le azioni della
sua padrona.
Con enorme premura, Erminia aprì il libro e trovò la lettera di
Girolamo. La svolse con crescente curiosità ed agitazione. Aveva sempre
considerato il collega un vero amico e un confidente insostituibile, con
cui ridere e intrattenersi volentieri sul luogo di lavoro.
Mai si sarebbe aspettata una dichiarazione di stile ottocentesco!
Aprì la missiva e lesse:
Cara Erminia,
ti parrà strano il fatto che ti scrivo, giacché ci vediamo ogni giorno e
ci parliamo di continuo. Ma ciò che sto scrivendo non sarei mai capace di
pronunziarlo a voce e con parole compiute.
Da quando, tre anni fa, sei stata assunta nel nostro ufficio e ti ho
conosciuta, ho cominciato ad amarti, dapprima inconsapevolmente, poi pian
piano mi sono reso conto di non poter fare a meno di te. Non te l'ho mai
dimostrato e tu non l'hai mai sospettato,
perché mi sono sempre guardato dal farti capire qualcosa, nel timore che
ti allontanassi da me. Ma ti amo Erminia, amo il tuo carattere dolce, il
tuo viso solare e i tuoi modi affabili. Il tuo sorriso spontaneo illumina
le mie giornate. Ridere insieme a te riempie di gioia la mia vita. Tu sei
single come me, e come me vicina agli …anta. Saresti la compagna ideale.
Per te sono sempre stato l'amico fraterno e il collega complice, e quindi
forse ho poche speranze di essere ricambiato. Se così è, straccia questa
lettera e domani quando mi rivedrai, sorridimi e io capirò. Se per puro
caso, non ti sono indifferente come uomo ed eventuale compagno, prendi il
telefono e chiamami. Mi renderai la persona più felice della terra.
Un caro abbraccio
Tuo Girolamo
Erminia rimase con la lettera a mezz'aria e la
rilesse circa una decina di volte.
Non poteva credere a quello che vi era scritto!
Intanto Bobby, arrabbiatissimo, ogni tanto abbaiava e la guardava senza
sortire alcun risultato. Infatti la padrona era tutta compenetrata in
quella lettera che le aveva fatto risvegliare ancestrali voglie di
compagnia maschile e di romanticherie.
Il cagnolino intuiva che tutto questo scombussolamento in Erminia era
prodotto da qualcosa che aveva a che fare col libro, il quale nel
frattempo era stato lasciato su una poltrona dell'ingresso.
Il cane, colto dalla gelosia, andò ad afferrarlo e cominciò a scuoterlo
con i denti, poi se lo mise sotto le zampine e iniziò a lacerarne le
pagine. Faceva questo ringhiando e sfogando la sua rabbia, mentre il libro
si andava decomponendo sempre più in fogli sparsi.
Di tutto ciò, la padrona non s'accorgeva poiché era presa e compresa a
pensare a Girolamo.
Dopo circa un'oretta, prese il telefono e chiamò il suddetto che,
all'udire la sua voce, ebbe l'impressione che i violini suonassero, le
campane rintoccassero e gli angeli cantassero!
Prima di andare a letto, Erminia cercò il libro per leggerlo e lo trovò
squinternato, distrutto e lacerato.
L'indomani volle riacquistarlo e lo cercò in tutte le librerie, ma era
esaurito.
Sul
lago Dahl
Un bus stracarico di uomini, avvolti nei loro
turbanti, arrancava per una strada impervia della regione del Kashmir
indiano. I poveretti erano stipati dentro un malandato veicolo ed alcuni
sedevano pure sul tetto.
Ad una curva, le ruote slittarono sulla fanghiglia ed il conduttore perse
il controllo del mezzo.
Si udì il sibilo dei freni, poi uno sferragliare meccanico.
Al di sotto della strada, un burrone scendeva verso le rive del lago Dahl.
Impennandosi di fianco, il bus si capovolse ed iniziò a precipitare in
quella scarpata.
Urla, gente schizzata fuori, rumori raccapriccianti. Poi niente. Solo un
silenzio di morte, interrotto ogni tanto da qualche esile lamento.
Con la sua jeep, in quel momento, si trovava a passare il tenente italiano
Mauro Bei, del gruppo Osservatori delle Nazioni Unite.
Era un ufficiale di carriera e s'era arruolato nell'ONU per allontanarsi
dal reggimento ove prestava servizio e soprattutto da Gianni, suo amico di
sempre.
Quanta invidia, quanta acrimonia avevano rovinato la loro solidarietà!
Facevano entrambi lo stesso mestiere di militari abituati alla disciplina,
al senso del dovere. Ma la rivalità e il desiderio di primeggiare sono
come l'acqua che, prima o poi, corrode i ponti. Ed avevano corroso i loro
rapporti.
Adesso Mauro era sereno, lontano migliaia di chilometri e sempre a
contatto con della gente completamente diversa da quella che aveva mai
conosciuto. Gente povera, ma dalle antiche tradizioni, che il progresso
aveva scalfito appena. Gente dallo sguardo dolce e rassegnato.
Con il suo gruppo di ufficiali Osservatori, viveva lavorando molto spesso
alla radio, da cui comunicava, in lingua inglese, tutto ciò che poteva
aiutare a mantenere la pace tra due popoli fratelli, ma divisi da due
religioni diverse, in quel lembo del mondo, in quella terra tormentata
sulla linea del <cessate il fuoco> tra l'India e il Pakistan.
Nei giorni di riposo, aveva viaggiato ed aveva conosciuto posti
incantevoli. Aveva fatto esperienze nuove ed aveva iniziato ad abituarsi
alle usanze, al cibo, alla lingua di quelle persone.
Che paesaggi affascinanti! Nei suoi occhi, quanti monumenti antichi che
affondavano le loro radici nel cuore dell'umanità!
Aveva preso ad amare quei luoghi, a scoprirli sempre con rinnovato
piacere.
Gli ufficiali alloggiavano molto spesso case galleggianti sul fiume Dahl.
In quel periodo, Mauro occupava una house-boat, insieme ad alcuni
colleghi.
Ricevevano ospiti importanti e avevano a servizio un personale costituito
da Kashmiri di nazionalità indiana, ma di fede musulmana e cuore
pakistano.
Settimanalmente, un piccolo aereo da trasporto canadese, atterrando nel
vicino aeroporto, depositava per loro tante varie ed abbondanti derrate
alimentari ed ogni altro genere di necessità.
Una sera, erano arrivati da Srinigar degli uomini anziani e gli ufficiali
li avevano invitati a cena.
Mentre mangiavano, uno dei più vecchi aveva cominciato a narrare una
antica leggenda del Kashmir.
"Quando guardi le stelle" aveva detto "e in una di loro
intravedi una persona cara, ma non ne sei sicuro a causa della distanza,
volgi lo sguardo dalla tua house- boat verso le acque del lago Dahl.
Se quella persona ti vuol bene, la vedrai rispecchiare nelle sue
dolcissime acque."
Così nelle notti successive, Mauro cominciò a guardare gli astri stando
seduto sul terrazzino della sua casa galleggiante.
I riflessi della luna sulle sponde del lago creavano un'atmosfera irreale,
di sogno. In lontananza, s'intravedevano le ombre di alcune antiche
pagode,
gli alberi stagliavano contro il cielo le loro fronde come tante braccia
protese in preghiera.
Sarà stata la suggestione o quel paesaggio da fiaba, ma il tenente aveva
proprio l'impressione di scorgere, nelle stelle, il viso di Gianni.
Con quel ragazzo aveva condiviso tutta una vita! Erano stati amici per la
pelle, confidenti, complici in tante avventure.
Poi il lavoro li aveva divisi, ma l'amicizia è dura a morire quando si
cresce, si studia, si gioca assieme.
Gianni! Ricordava le risate, i divertimenti, gli scherzi.
Ancora nessuno dei due aveva trovato la ragazza adatta cui vincolare la
propria libertà. In vero ci avevano provato spesso, ma con scarsi
risultati.
Mauro aveva conosciuto suor Priscilla, in una Missione cattolica, un po'
scuola un po' ospedale.
Faceva parte della congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta.
Era una oscura suorina, ma santa anche lei. Giovane, alta e slanciata,
sempre sorridente e pronta a sacrificarsi per i suoi poveri. Proveniva
dall'Italia come lui e l'aveva subito affascinato con i suoi occhi di un
azzurro intenso.
Alla dogana, suor Priscilla contrabbandava oggetti utili per i suoi
assistiti.
L'aveva scoperta un giorno mentre diceva che, nel pacco ricevuto, c'era
solo Holy Mary.
L'aveva ammirata per il suo coraggio e ne era divenuto complice.
Adesso, quando poteva, s'industriava per aiutarla nel suo lavoro
d'assistenza ai poveri e agli ammalati.
Quindi, il senso della sua vita aveva acquistato un valore diverso. Si
sentiva utile e soddisfatto.
Quando rivedeva la suora, il cuore subiva un arresto. La guardava
estasiato. Avrebbe voluto curare quelle mani tutte sciupate da umili
lavori.
Nelle stelle, sul lago Dahl, vedeva il volto soave di Priscilla, ma se si
volgeva alle acque, non lo vedeva riflettersi. E sapeva bene il perché.
Il suo era un amore impossibile!
Una volta alla dogana, s'era accorto che la suora s'era messa nei guai.
Era prontamente intervenuto e si era fatto garante per lei, in qualità di
ufficiale delle Nazioni Unite.
"Grazie tenente," gli aveva detto in seguito "non scorderò
mai la sua bontà!"
Quegli occhi che lo guardavano erano più azzurri di ogni cielo azzurro.
Non l'aveva più rivista da parecchi giorni e sapeva che era andata a
soccorrere un gruppo di disperati senza tetto, che volevano trovare
rifugio in qualche luogo.
La jeep dell'ONU, guidata da un caporale indiano, procedeva celermente
lungo la strada che costeggiava il lago, quando era avvenuto il disastro.
Mauro, a poche centinaia di metri, aveva assistito all'incidente. Ordinò
di frenare ed all'istante balzò giù dall'auto. Si affacciò sull'orlo
della scarpata e scorse uno spettacolo tremendo.
Un fumo denso si alzava dal bus ridotto in rottami e corpi inerti e
lacerati erano sparsi ovunque.
Si precipitò giù nel burrone per dare aiuto ai malcapitati e ai
sopravvissuti.
D'un tratto, si sentì chiamare: "Tenente! Venga mi aiuti!"
Si volse e dietro un grosso sasso, vide suor Priscilla china, accanto ad
un moribondo.
"Sorella! Lei qua! Oh per carità, come sta, cosa si è fatta?"
La sua voce era allarmata, ansiosa.
"Mi aiuti a trasportare questo poveretto. Vede, è ancora vivo,
bisogna portarlo all'ospedale. Ce ne saranno altri. Chiami soccorso alla
radio. La prego!"
"Sì, ma lei come si sente, può alzarsi?"
"Io sono illesa. Il buon Dio mi ha protetta, ma dobbiamo darci da
fare per tutti gli altri."
Era ricoperta di polvere ed aveva l'abito talare strappato, ma si alzò
repentinamente.
Mauro s'avvicinò al ferito e, con sua enorme meraviglia, ravvisò in quel
viso agonizzante un'incredibile rassomiglianza.
I capelli lisci e neri incorniciavano un viso bruno assai bello. Era un
viso molto simile a quello di Gianni.
Com'è strana la vita! Non era lui, ma lo ricordava in maniera
straordinaria.
Non pensava più a Priscilla, guardava il ferito come inebetito.
"Tenente! Presto! Non bisogna perdere tempo!"
Se lo caricò sulle spalle e cominciò la salita della scarpata con quel
peso non indifferente.
Arrancava e ad ogni passo che compiva, aveva l'impressione d'avere una
montagna addosso e questo perché doveva procedere in salita.
Quando era disceso non s'era accorto di quanto fosse ripida.
Il caldo era terribile e riusciva a stento a respirare per la fatica.
La suora gli stava dietro e cercava d'aiutarlo in qualche modo.
Quando finalmente arrivò stremato alla jeep, adagiò sui sedili il ferito
che si lamentò e pronunciò qualche parola sconnessa.
La voce! La stessa voce di Gianni!
Doveva essere proprio vero quell'antico adagio secondo cui, nel mondo,
siamo in sette ad essere quasi identici.
Mauro accese la radio e cominciò a chiedere soccorso ai suoi colleghi
designando il punto preciso dell'incidente.
Di lì a breve sarebbero sopraggiunti in forze per recare aiuto ai
sopravvissuti.
La suora si sedette accanto a lui e s'avviarono verso il più vicino
ospedale.
Quando vi arrivarono, compresero che per quel poveraccio vi erano poche
speranze.
Fu praticato ogni intervento necessario e suor Priscilla gli restò sempre
accanto per alleviargli le sofferenze.
"Come ti chiami? Hai famiglia?" gli aveva chiesto.
"Mohamed," aveva detto in un bisbiglio.
Aveva lo sterno e lo stomaco fracassato.
S'era lamentato in preda a dolori atroci e lei gli aveva stretta la mano,
gli aveva bagnato la fronte, lo aveva carezzato, aveva fatto tutto il
possibile per non farlo soffrire troppo. Aveva finanche chiesto che gli
somministrassero della morfina.
Mauro non s'era mai allontanato ed aveva profondamente ammirato lo spirito
d'abnegazione di quella donna. Suor Priscilla aveva un unico scopo nella
vita: servire gli altri. In specie gli ultimi degli ultimi, i sofferenti e
i moribondi.
Mohamed aveva esalato l'ultimo respiro e lei l'aveva aiutato a morire in
pace.
Che impressine però! Era stato un po' come veder morire il suo Gianni.
Dopo qualche ora, erano sopraggiunte le station wagon dell'ONU che
recavano gli altri feriti, e i giornalisti locali che chiedevano notizie
sull'incidente. Gli avevano domandato come si chiamasse, ma non aveva
voluto rispondere.
Aveva fatto ritorno alla sua house-boat, accompagnato solo da una grande
tristezza.
Il giorno dopo, come anonimo Osservatore delle Nazioni Unite, aveva
provato l'intima soddisfazione di leggere, sul giornale locale, di un
ufficiale italiano che aveva soccorso invano il fu Mohamed.
Il lago Dahl continuava a rispecchiare un volto: il volto di Gianni.
La malinconia aveva cominciato ad aleggiare sul sorriso di Mauro.
Ma un giorno, "segno di quella Provvidenza Divina che tutto vede e
che consola", come diceva un grande scrittore, una telefonata gli
giunse da lontano: "Hallo Sir. A call from Italy. Hold the
line."
"Pronto, sono il tenente De Cesari. Sono Gianni De Cesari e vorrei
parlare con il tenente Bei."
La sua voce!
D'un tratto, Mauro ricordò quando al liceo avevano studiato Aristotele
che, interrogato su cosa fosse un amico, aveva risposto che è un'anima
che vive in due corpi.
"Sono io! Gianni sono Mauro!"
Le due voci attraversavano L'Asia e L'Europa, ma in quel momento erano
vicinissime poiché i cuori battevano all'unisono.
"Ehi scemo! Come va!?"
Per un corpo ammalato occorre il medico, ma per l'anima ci vuole l'amico.
E si sentiva già meglio.
"Gianni dove sei? Come stai?"
"Sto bene, ma mi va di rivederti. Senti, siccome da domani sono in
ferie, ho pensato che potrei venire come turista in Kashmir. Che ne
pensi?"
Come comportarsi con gli amici? Semplice: come vorremmo che loro si
comportassero con noi! E Gianni stava facendo proprio come lui avrebbe
voluto.
Che eccitazione! Quanta gioia inespressa!
"Quando arrivi, a che ora, dove, con quale volo? Dove atterri?"
Era una raffica di domande convulse.
"Ah ah ah ah ah. Arrivo domani l'altro a Srinigar. Verrai a
prendermi?"
"Ci puoi giurare."
Notte di
misteroAnselmo era partito per uno dei
suoi tanti viaggi di lavoro e la moglie quella notte sarebbe rimasta sola.
Si preannunciava un temporale e, fuori, i tuoni ed i fulmini erano stati violenti.
Giulia, la moglie, aveva recentemente visto un film di fantasmi ed il suo animo non era
ben disposto ad affrontare la solitudine di quella nottata tempestosa.
"Ci mancavano pure i lampi e i boati dei tuoni!" si era detta, mentre
s'apprestava a coricarsi.
S'era fatta coraggio e adesso stava leggendo un bel romanzo d'avventure.
Il protagonista purtroppo non era un tipo fortunato, poiché dopo una serie di casi
sventurati, era finito in ospedale. Lì, aveva cominciato ad avere le prime visioni e le
prime percezioni extrasensoriali.
"Bella questa!" aveva pensato Giulia " Ci voleva pure un romanzo con i
fantasmi!"
Aveva dunque richiuso il libro e si stava addormentando, quando sentì un rumore provenire
dalla stanza accanto.
Leggeri brividi la pervasero, ma pensò bene d'andare ad accertarsi di cosa si trattasse.
Nella camera adiacente, accese la luce e, d'un tratto, vide un oggetto indefinibile, un
qualcosa mai visto, dai contorni sbiaditi, luminescente ed informe, né umano né animale.
Aprì la bocca e gridò, ma si ritrovò nel letto e si mise a sedere di scatto.
"E' stato un sogno," pensò " mi devo mettere tranquilla a dormire, senza
lasciarmi impressionare da nulla."
Poco dopo, squillò il telefono. Era Melania, la sua più cara amica.
"Giulia, come stai? Scusa se ti disturbo. Sai sono sola, perché Aldo è
partito."
"Ah! Anche tu! Sono sola anch'io."
" Se sapessi! Ho fatto un sogno bruttissimo. Ho visto un oggetto informe, dai
contorni sbiaditi, luminescente, non era un animale, però non era neppure un uomo. Non so
cosa fosse. So solo che mi sono impressionata tantissimo ed ho avuto il bisogno di sentire
la tua voce."
Altri brividi attraversarono le membra di lei!
"Dove l'hai visto scusa?" fece con voce atona.
"Come dove l'ho visto? Ma in sogno naturalmente. Ah! Mi pareva che si trovasse in una
stanza della mia casa."
"Una stanza vicina alla tua camera da letto?" La voce di Giulia ora era un
sussurro.
Dall'altra parte silenzio. Poi:
"Come fai a
a saperlo?" Melania era interdetta.
"L'ho sognato anch'io. Un oggetto come l'hai descritto tu."
"Ma va! Ho capito, vuoi prendermi in giro per incoraggiarmi. Sei sempre la solita,
Giulia!"
"Non ti prendo in giro. Sto tremando internamente, ho fatto anch'io il medesimo
sogno."
Di nuovo un primo silenzio dall'altra parte del cavo!
" E perché? Oh, che impressione! E che vuol dire? Può essere solo una
coincidenza?" La povera Melania aveva la voce strozzata.
"Non lo so, avevo la certezza che fosse reale ciò che vedevo. Mi sono accorta di
sognare solo dopo avere gridato per la paura."
"Io sono sconvolta! Perché abbiamo fatto lo stesso sogno, scusa?"
"Non so che dirti. Adesso però bisogna che ci tranquillizziamo. Qualsiasi cosa ti
succeda, richiamami. Io farò altrettanto."
"Va bene Giulia. Terrò il telefono portatile accanto a me, sul letto."
"Okay. Buona notte Melania."
Chiuse la comunicazione, ma era agitata. Non riusciva a spiegarsi il perché e come mai
fosse potuta capitare una cosa del genere!
Ma no! Era stata solo una casualità! Doveva mettersi tranquillamente a dormire.
Stava finalmente per addormentarsi, quando squillò nuovamente il telefono.
"Sì pronto" rispose.
"Pronto signora, lei è la moglie di Anselmo
?" Una voce d'uomo aveva
pronunziato anche il cognome del marito.
Si allarmò all'istante. Cosa era avvenuto? Perché chiedeva di lui?
"Sì, sì, certo sono io. Cosa è successo a mio marito?"
"No, nessun incidente. Volevo solo avvisarla che in questo momento si trova con
Amelia. Sa, quella è una rovina famiglie."
Quel tono di voce era strano, profondo, come insolente ed insinuante.
Giulia di nuovo s'era messa a sedere sul letto.
"Scusi, ma lei chi è?"
"Il mio nome non importa. Le sto dicendo di stare attenta perché Amelia ha già
consumato varie famiglie."
"Sì, ma lei prima si presenti e poi possiamo continuare a discutere."
Cominciava ad innervosirsi. Quella persona era arrogante e poi perché non voleva dire
come si chiamava?
"Non c'è bisogno signora, lei deve sapere che suo marito è partito con
Amelia."
"Senta, se lei non si presenta, io le dico che è un gran maleducato!"
Giulia era tutta rossa in viso ed arrabbiatissima. Aveva una fiducia cieca in Anselmo e
sentirlo accusare così gratuitamente e, ancor peggio, in maniera anonima, la indignava.
Dall'altra parte del filo, la sua reazione era evidentemente giunta inattesa.
Infatti udì ancora qualche frase sconnessa, e poi la comunicazione fu interrotta.
"Ecco appunto! Bella educazione!" Guardava ancora la cornetta, come se da un
momento all'altro, potesse venirne fuori la faccia di quello screanzato.
Internamente avvertiva una strana inquietudine, una particolare agitazione.
Ma che belle nottata di mistero! E chi era quell'individuo? Che intenzioni aveva? Perché
le aveva detto quelle cose?
Come si poteva più riaddormentare! Una cosa del genere non le era mai capitata.
Si rigirava nel letto, pensando se dovesse o meno telefonare a Melania per raccontarle
l'accaduto, quando squillò ancora il telefono.
"Se è lui lo mando a quel paese! Porca miseria!" disse fra sé.
Difatti rispose urlando: "Prooonto!"
"Ehi, Giulia, ma che c'è mogliettina, perché gridi?
Era Anselmo, meravigliato di sentirla rispondere a quel modo.
"Non sai cosa mi è capitato!" Che sollievo però udire la sua voce!
"Stai bene? E' tutto a posto?"
"Sì sto bene, ma un cretino ha telefonato e ha detto che tu eri partito con
Amelia."
"Con chi?"
"Ma che ne so! Amelia, ha detto Amelia."
"Ah! Ho capito di chi si tratta, e forse ho pure capito chi ti ha telefonato.
Aspetta, non ti preoccupare, fra non molto riceverai una telefonata chiarificatrice."
"Anselmo, ma che stai dicendo? Chi mi deve telefonare?"
"Tu stai tranquilla. Tra poco, capirai tutto. Ciao amore, ci risentiamo."
La comunicazione cadde.
Ma quella era proprio una notte di mistero! E adesso chi avrebbe dovuto telefonare?
Intanto s'era fatta mezzanotte.
Tornò a rigirarsi nel letto e trascorsero così altri dieci minuti, dopo i quali,
squillò per l'ennesima volta il telefono.
"Pronta signora, sono l'architetto Amelia
, so che ha ricevuto la
telefonata del mio ex compagno."
"Sì sono io ed ho ricevuto una telefonata a dir poco inquietante. Mi scusi sa, ma è
pazzo il suo ex?"
"E' un mascalzone, signora, non stia più ad ascoltarlo."
"Io non lo avrei mai ascoltato, ma ha telefonato senza presentarsi, ha detto che lei
era partita con mio marito. Che è una rovina famiglie."
"Signora, io sono qui in città, se vuole, la vengo a trovare. Vede, con quell'uomo
ho avuto un figlio. Siccome è un tipo poco raccomandabile, non glielo faccio più vedere
per precauzione."
"Capisco, deve essere proprio pazzo."
"Peggio, è un lestofante! Pensi che vuole farmela pagare cercando di mettermi in
cattiva luce con tutti coloro con cui lavoro, tra cui suo marito."
"Accidenti! E' un bel pasticcio!"
"Secondo la sua mente contorta, non potrò più lavorare e sarò costretta a tornare
con lui."
"Ha fatto bene a chiamare architetto. Ora so che lei è una brava persona. Mi
dispiace per la situazione. Si faccia coraggio."
Bella anche questa! Ora era Giulia a dover incoraggiare gli altri!
Trascorsero altri dieci minuti, e richiamò suo marito.
"Pronto tesoro, hai capito adesso? Quella è un architetto con cui ho lavorato; le ho
telefonato subito ed ho spiegato la situazione."
"Sì ho capito, mi è sembrata una brava signora."
"Era già divorziata con due figli. In seguito ha conosciuto quello lì e s'è
inguaiata!"
"Anselmo ma che ore sono?"
"Ormai è tardi. Cerca di dormire. Buona notte amore."
Una parola dormire, dopo tante emozioni! Ormai il letto era divenuto come il famoso
giaciglio chiodato del fachiro.
Si alzò e andò a guardare nella stanza incriminata.
Tutto era tranquillo e nessun oggetto luminescente faceva bella mostra di sé. Meno male.
Andò in cucina: avrebbe bevuto una tazza di latte caldo per conciliare il sonno. Fece
così e tornò a letto.
Ma perché non riusciva ancora ad addormentarsi? Già, il perché era chiaro: si sentiva
troppo agitata e nervosa.
Pensò di telefonare a Melania. In fondo s'erano ripromesse di chiamarsi se ci fossero
state novità. E più novità di ciò che le era capitato!
"Pronto sono io. Se sapessi ciò che m'è successo! Stento io stessa a crederci. Sono
scossa e non riesco a prendere sonno."
"Dai, racconta. Tanto neppure io riesco a dormire."
Trascorsero dunque tutto il resto della notte a raccontarsi e a commentare i fatti. Fecero
le dovute congetture ed espressero gli immancabili giudizi.
Melania sembrava esterrefatta di ciò ch'era capitato all'amica. Davvero pensava che,
nella vita, non si possa stare mai tranquilli.
Ritornarono a discutere dei loro strani e coincidenti sogni.
"Sono sempre più convinta che sia stata una casualità." Diceva Giulia.
"In vero una strana casualità, Giulietta!" ribadiva l'altra.
"Sì, ma vedi, secondo me, è il caso che domina gli uomini, non sono essi a poter
intervenire sul caso." Sarà stata l'ora tarda, ma cominciava a diventare filosofa.
"Va bene, il caso ci domina, però io mi stupisco lo stesso."
"Melany, i due più grandi tiranni della terra sono il caso e il tempo!"
L'amica l'ascoltava affascinata.
"Per esempio c'è un filosofo tedesco che invece sostiene che nulla al mondo avviene
per caso."
"Già, allora a noi perché è accaduto di fare il medesimo sogno?"
"Domandalo a lui. Io, più invecchio, più mi convinco che il caso faccia i tre
quarti del lavoro in questa vita. Proprio perché il Padre Eterno ha tutto programmato
affinché sia esso ad intervenire sempre. Poi noi, con il nostro libero arbitrio facciamo
il resto."
"Giulia mi stai facendo ricordare Flaubert quando dice: " C'est la faute de la
fatalitè!" cioè: "E' colpa della fatalità!"
"Ecco appunto. Vedi anche lui era d'accordo con me."
Nel frattempo, cominciava ad albeggiare e le prime luci s'insinuavano tra le fessure delle
serrande.
"Questa notte non abbiamo dormito. Prima che sia troppo tardi, consiglio di provarci.
Buona notte Melania."
"Buona notte Giulia."
Tina e il presidente
Quella sera, Tina tornò a casa pensando ancora al suo racconto che
era stato pubblicato, e ne era vieppiù eccitata.
Bisognava che rivedesse bene quell'altro che aveva già scritto, in modo da portarlo,
l'indomani, al presidente della casa editrice. Lo fece: lesse, corresse, rilesse,
ricorresse, e stampò il tutto. Quando, a notte fonda, fu alfine soddisfatta del suo
lavoro, andò a dormire.
Di buon ora, si preparò più elegantemente del solito. Già si vedeva sottoporre al
presidente Careri, il suo nuovo eleborato.
Fu colta da un'idea improvvisa: doveva forse preavvisare Andrea di ciò che aveva scritto?
Pensava proprio di sì. Bene! Avrebbe dapprima parlato con lui, il giovane addetto alle
pubbliche relazioni, per consultarlo e sentire il suo parere.
Arrivando negli uffici della casa editrice, fu riconosciuta da tutti ed accolta
amichevolmente. Lei chiese tosto di poter parlare con il suddetto collaboratore e lo vide
immediatamente spuntare da una stanza.
"Tina! Che piacere! Venga, si accomodi", e la condusse in un locale attiguo.
"Senta Andrea, siccome ho scritto un altro racconto, volevo avvisarla che riguarda un
po' lei."
"Riguarda me? Sono onorato! Ma come, scusi?"
"Ho rielaborato la storia di sua sorella, che lei mi ha raccontato. Ora però, le
devo chiedere il permesso di farla leggere al presidente."
"Toh! E chi l'avrebbe mai detto! Ha proprio una bella capacità creativa Tina! Posso
leggere io per primo?"
"Certo! Ecco qua." Così dicendo, porse i fogli al giovane.
Questi lesse e sembrò entusiasta.
"Sa cosa le dico: riferisca pure al presidente che è una storia realmente accaduta,
che riguarda mia sorella, e che gliel'ho raccontata io."
"Va bene Andrea, come vuole."
Si alzò, e l'altro la fece annunziare al signor Careri.
L'ufficio del presidente, lei già lo conosceva, ma lo osservava solo ora: era vastissimo,
con poltrone di pelle, quadri enormi appesi alle pareti, vetrate immense da cui si vedeva
uno stupendo panorama. Un fantasioso mobile bar occupava parte di una parete.
Quando Tina entrò, l'obeso signore, con il cranio pelato, stava appunto versandosi da
bere.
"Eccola qui la nostra Ina! Ha fatto presto a ritornare. Brava! Venga,
s'accomodi."
"Mi chiamo Tina, presidente, non ricorda?"
"Ah già, sì certo, Tina! Resta in piedi come la statua della libertà?"
Lei si sedette su una di quelle poltrone che avrebbero potuto accogliere due individui.
Teneva in mano i fogli stampati, aveva la borsetta a tracollo, e non sapeva dove
appoggiare la schiena, data l'enormità del suo sedile. La volta precedente non aveva
notato tutte quelle amenità. Forse perché era stata troppo emozionata.
"Gradisce un goccio di Porto, cara?"
"No grazie, a quest'ora non bevo mai."
"Male! Dovrebbe abituarsi. Si affronta meglio la giornata!"
"Purtroppo sono leggermente astemia."
Lui continuava a versarsi da bere, e intanto passeggiava e la scrutava. L'esame però,
sembrava lo soddisfacesse parecchio.
"Allora Ina, è soddisfatta della pubblicazione?"
"Oh sissignore! Non sembra neppure ciò che ho scritto io! Sebbene il racconto venga
riprodotto pedissequamente, la veste tipografica lo trasforma. E' splendido! Però mi
chiamo Tina, ah, ah, ah."
"L'ho ribattezzata, ma deve sapere che mi capita sempre così con tutti." Rideva
pure lui e scuoteva il grosso ventre ed il doppio mento.
"Ho portato un altro racconto, dottor Careri. E' una storia realmente accaduta, che
riguarda la sorella di Andrea."
"La sorella di chi?" Sempre in posizione eretta e con il bicchiere in mano, il
corpulento signore aveva inarcato le folte sopracciglia.
"Andrea. Sa l'addetto alle pubbliche relazioni?"
"Oh quello! Il fiume umano di parole. E che c'entra sua sorella?"
"Mi ha raccontato la sua storia, e io ne ho tratto una novella, ma gli ho anche
chiesto il consenso per sottoporgliela."
"Corretto! Proprio corretto da parte tua, Ina!"
"Sono Tina signore." Adesso appariva rassegnata ed allegra.
"Beh! Dammi, fammi leggere. E' questa che hai in mano?"
Era passato con la massima naturalezza dal <Lei> al <Tu>. Finalmente si assise
sulla sua poltrona presidenziale e si dispose alla lettura, avendo inforcato dei grassi
occhiali che portava sulla punta del naso. Leggeva, e più andava avanti, più pareva
interessato e immerso nella narrazione.
Lei, dal canto suo, si guardava attorno incuriosita e roteava la testa tutt'intorno.
Vedeva una vasta parete di legno piena di scaffali e trofei, un antico paravento
giapponese, un caminetto moderno, insulso quanto inutile, visto che i sistemi di
riscaldamento ed areazione erano efficienti e ricercati. Poi la sua attenzione fu attratta
da un dipinto che rappresentava il volto di una bellissima donna.
"Era mia moglie, " gli sentì dire " siamo vissuti assieme per
quarant'anni, poi ella ha pensato bene di ritornare al Creatore e lasciarmi solo."
Aveva terminato di scorrere le pagine e guardava l'autrice da sopra gli occhiali e con
espressione compiaciuta.
"Mi spiace, presidente. Non sapevo."
"Ho ragione quando affermo di riconoscere il talento ad un miglio di distanza."
Tina era di nuovo in agitazione: " Le piace il racconto? Davvero?"
"Dovremo cambiare il posto della dicitura sui riferimenti casuali ad avvenimenti
realmente accaduti."
"Io l'ho inserita alla fine, poiché vi ho pensato in ritardo, però ho anche
romanzato certi episodi e taluni avvenimenti. Ho dato corso e spazio alla mia fantasia. Mi
sono divertita insomma. Naturalmente, se lei afferma che bisogna cambiare qualcosa, sarà
così. E' molto più esperto di me. Chissà da quanti anni lavora in questo campo!"
"Signorina, tu parli troppo! "
"Perché? Stavo solo spiegando il mio modo di procedere, scrivendo. Talora il mio
computer è come se scrivesse da solo. Le idee e le frasi vengono giù da sole, senza che
io le mediti o che vi faccia lunghe elucubrazioni sopra. Il tutto mi diverte in modo
incredibile! Appunto ho cambiato tante volte le sequenze narrative; ho variato
l'impostazione e l'ambientazione dei fatti. Ho usato nomi di pura fantasia per i
personaggi."
"Quella tua bocca si può chiudere un momento? Sì? E allora chiudila. Santo cielo!
Sembri un personaggio di Shakespeare nei suoi soliloqui. Dunque, a proposito della
dicitura famosa, stavo dicendo che la porremo all'inizio del racconto per mettere
sull'avviso i lettori e per evitare delle denunzie agli editori. D'altro canto, in tal
guisa si opera nell'editoria."
"Certo, è giusto. Sa presidente che ho in mente dell'altro materiale per un nuovo
racconto? Anche questo l'avrei tratto da un fatto realmente accaduto e che ha
dell'incredibile!"
"Non credevo d'essermi imbattuto in una fornace d'idee. Ma giacché ci sei, racconta.
Così io potrò consigliarti e tu, al contempo, potrai dare sfogo al tuo temperamento
garrulo."
Così dicendo, il dottor Careri si alzò e andò a sedersi su di una sedia posta di fronte
a Tina. Teneva le spalle appoggiate allo schienale e i piedi puntati e piantati a terra.
Ascoltava ed ogni tanto si dondolava.
Lei cominciò a narrare del procedimento giudiziario contro un tale amministratore
condominiale, filantropo ed innamorato. Un uomo che sembrava un antico cavaliere
medioevale. Raccontò che i di lui coinquilini volevano pagare, a tutti i costi, le quote
condominiali, senza riuscirvi. Diede spazio ai particolari e fu precisa nei dettagli:
poiché nel condominio abitava una signorina indigente, di cui l'amministratore era
segretamente innamorato, pagava lui le quote per tutti. D'altra parte era ricchissimo e se
lo poteva permettere. Infine narrò della sentenza del giudice istruttore, che lo aveva
rimosso dall'incarico, ed aveva scoperto la faccenda del suo amore unilaterale e segreto.
"Ina, conosci per caso il nome di quel tizio?" Il presidente si teneva il mento
e continuava a dondolarsi sulla sedia.
Lei conosceva il cognome dell'amministratore incriminato ed assai galante. Pensò di
poterlo ripetere: " Io mi chiamo Tina, lui invece si chiama Fernando Rinaldi."
In quel momento, sentendo questo nome, il corpulento signore diede uno scatto più forte
all'indietro e perse l'equilibrio, cadendo rovinosamente sul pavimento. La sua testa andò
a prendere contatto col morbido e folto tappeto. Sembrò ignorare ogni male fisico, che in
realtà non doveva esserci stato. Disteso ancora per terra, alzò gli occhi verso di lei:
" Non vorrai mica dire che si tratta del mio vecchio commilitone Nando Rinaldi!"
Ella non sapeva se ridere o preoccuparsi per l'accaduto. Davvero non si era fatto male?
Adesso come avrebbe potuto rialzarsi e sollevare la sua poderosa mole, simile a quella di
un bisonte? Invece, il presidente diede sfoggio di inattesa agilità, tornando, con lenti
ma determinati movimenti, in posizione eretta.
A questo punto, Tina diede sfogo alla sua ilarità repressa e cominciò a ridere di cuore.
Il presidente Careri era la personificazione dell'umana sorpresa e costernazione. La
guardava con tanta meraviglia che pareva non riuscisse più a chiudere i suoi occhi bovini
e spalancati.
Lentamente, lei aveva smesso di sghignazzare.
"Sei sicura che si chiami in quel modo? Ha press'a poco la mia età? S'innamora
segretamente e non si dichiara mai?"
"Il nome è certamente quello. Alle altre domande non saprei dare risposta, però
posso meglio informarmi presso fonte sicura. Ma perché, forse lei conosce Fernando
Rinaldi?"
"Se lo conosco! Pensa che gli soffiai e sposai la donna che lui amava, ed alla quale
non era mai stato capace di dichiarare il suo amore."
"Possibile?! Amava la donna del ritratto? Sua moglie?!"
"La storia è lunga e complessa, ma il risultato fu proprio quello. Io sposai la
donna del suo cuore, che lui stesso mi aveva fatto conoscere."
"Presidente, il fatto mi sembra interessantissimo e intrigante, sarebbe un'idea
fantastica scrivere tutta la storia, con il suo permesso naturalmente, però lei me la
dovrà narrare per intero e nei dettagli."
"Se non è lui, che storia vuoi scrivere? Prima accertati che si tratti di quel Nando
che conobbi io."
"Ritengo invece che una storia possa nascere da qualsiasi idea, anche costruita e
frammista di verità ed immaginazione. Qualcosa d'inventato con la fantasia, ma che possa
partire o appoggiarsi su avvenimenti realmente accaduti. La prego dottor Careri, mi
racconti ciò che accadde."
"E va bene! Ascolta dunque e fanne tesoro. Mi fido di te.
"Avevo poco più di vent'anni e mi mandarono sotto le armi. Là conobbi un ragazzo
timidissimo, magro ed allampanato. Si chiamava Fernando Rinaldi. Facemmo amicizia subito e
divenimmo inseparabili. Ci legava la stessa passione per la letteratura e le buone
letture; ci scambiavamo, di continuo, romanzi e libri di vario genere. Gli altri
commilitoni presero a chiamarci francobolli, poiché non ci staccavamo mai l'uno
dall'altro. Era una di quelle amicizie giovanili, fatte di lealtà, complicità, fiducia,
confidenza e piacere di stare insieme."
Tina pendeva dalle sue labbra, era coinvolta emotivamente ed esclamò:
"Accidenti! Eravate amici per giunta! E una donna vi divise!"
"Signorina, ascolta e non m'interrompere. Dicevo appunto che eravamo inseparabili e
che ci confidavamo ogni cosa. Così lui mi rivelò di essere innamorato, segretamente e
perdutamente, di una ragazza, figlia d'amici dei suoi genitori. Disse però, che non era
mai riuscito ad esternarle il suo amore, per troppa timidezza e ritrosia.
Una volta andando in licenza, per non separarci, mi propose di andare a casa sua e di
trascorrere quel periodo insieme. Accettai e andai con lui. Erano persone molto abbienti e
mi ospitarono come un principe. Ma il bello doveva ancora arrivare. Una sera, infatti, mi
fece conoscere la ragazza dei suoi sogni. Per me, fu il classico colpo di fulmine. Anche
io me ne innamorai e sentii che era la donna della mia vita. A quei tempi ero piuttosto
piacente. Sempre robusto, ma non così grasso come mi sono ridotto ora. Avevo tutti i
capelli, la fronte spaziosa, gli occhi grandi ed accesi dal fuoco della gioventù.
La famosa ragazza mi ricambiò all'istante e, solo guardandoci, capimmo di essere fatti
l'uno per l'altra. Lei si fece tosto corteggiare da me; fu invitante e seducente. Insomma,
mi fece capire in mille modi che le piacevo e che mi desiderava. Ci fidanzammo e ci
scambiammo eterna fedeltà.
Puoi capire come prese la cosa il mio amico!"
"Però non poteva accusarla di nulla, in fondo lei non ha fatto nulla di male,
presidente. E' stata la ragazza a scegliere." Tina appariva interessatissima.
"Sì, ma il mio amico si sentì tradito e non mi rivolse mai più la parola. Quando
ci congedammo,
le nostre strade si separarono e non seppi mai più nulla di lui. Mi restò il ricordo e
la malinconia di un'amicizia perduta. Spesso penso ancora a lui, e rivedo quel ragazzetto
che correva a cercarmi per raccontarmi ogni nonnulla. Un ragazzo che trovava in me la
sicurezza e la forza per affrontare la vita. Io, dal canto mio, mi sposai e vissi
felicemente e lungamente con la mia adorata ragazza."
"E' una storia romantica, dottor Careri, pare un romanzo d'altri tempi. Mi permetta
di ricostruirla a modo mio; però lei dovrà anche aiutarmi. Se è lui la persona in
questione, mi prometta che andrà a trovarlo."
"Cooosa? Sei uscita di senno? Io andare da Nando? Non lo farò mai! Scordatelo!"
"Presidente, pensi che novità assoluta! Lei mi farà vivere la storia che scriverò.
La prego, l'idea mi è frullata improvvisamente mentre parlava. Dobbiamo costruire insieme
tutto il racconto. Io lo scriverò, partendo da ciò che lei mi ha narrato. Poi farò le
mie indagini sul famoso Nando, e se risulterà, come spero, che si tratta del nostro uomo,
lei dovrà contattarlo."
"Tu puoi scrivere tutto quello che vuoi e io pubblicherò il tuo racconto. Potrai
inventare pure che gli asini volano, ma non sperare che io vada da Rinaldi."
Ormai lei era divorata dal sacro fuoco della creatività. Pensava che la sua storia
andasse vissuta e realmente seguita nella veridicità degli avvenimenti. Ma, per far
questo, bisognava che il protagonista riallacciasse i legami con il suo amico.
"Non mi dica di no, io farò la cronaca di tutto ciò che accadrà. Pensi che cosa
meravigliosa! Lei mi costruirà la storia, la vivrà, come l'ha già vissuta. Si rivedrà
con Nando e seguiremo l'evolversi degli avvenimenti."
"Ina, la fantasia ci permette di compiere i voli pindarici più assurdi e pericolosi.
Potrai inventare tutto quello che vuoi anche se non si trattasse della medesima persona
che io conobbi. Non pretendere però che riapra una ferita che ancora sanguina."
"In questo ha ragione. Io cercherò di costruire, in ogni caso, una storia intrigante
e coinvolgente.
Rielaborerò tutti gli avvenimenti e li romanzerò. Non dubiti, d'altro canto, che farò
le mie brave ricerche su Rinaldi e gliele comunicherò."
"Fai come credi. Buon lavoro signorina! Ora procura di scomparire poiché mi hai già
rubato gran parte della mattinata."
Tina balzò in piedi. Non doveva più annoiarlo. Gli strinse la mano e si accinse a
scappare via.
Il presidente volle accompagnarla alla porta ed avanzò in quella direzione col suo passo
imponente, che faceva pensare ad un elefante a passeggio per una giungla indiana.
Una notte insonne! Aveva letto e sentito dire che, alla vigilia di
un evento speciale, qualcuno non riesce a dormire e trascorre le ore notturne a vegliare.
Era accaduto anche a lei.
Tina pensava e ripensava a come sarebbe stato l'incontro fatale! Si rigirava nel letto ed
immaginava i due signori a guardarsi in cagnesco. Quando alfine prese sonno, suonò la
sveglia e si sentiva più stanca di quando si era coricata.
Dalle rivelazioni del suo amico Marco, ispettore di polizia, aveva saputo chi fosse l'uomo
che, quarant'anni prima, aveva litigato, a causa di una donna, con il presidente della sua
casa editrice. Difatti, il suo capo aveva rubato, all'altro, la ragazza di cui era
innamorato. Ora, Tina aveva insistito per farli incontrare e riconciliare.
Fu puntuale all'appuntamento, e trovò una stupenda automobile, sotto casa, ad attenderla.
Il dottor Careri era già a bordo ed un autista impeccabile la fece accomodare.
Arrivarono in un quartiere residenziale della città e si fermarono dinanzi ad uno stabile
molto elegante. Il custode non era un tipo giovanile e si fece loro incontro ansimando. Li
annunziò al citofono, dopo averli squadrati attentamente: "Signor Rinaldi, c'è un
tale che dice di chiamarsi Leonardo Careri, insieme con una signorina."
"Ah, con una signorina? Con una signorina, eh? Certo, certo." Tutti potevano
lamentarsi della sua lentezza mentale, ma, all'occorrenza, Fernando Rinaldi qualcosa
l'afferrava al volo. " Sì, sì, non c'è dubbio, una signorina."
"Mi scusi, può vederli?"
"No, dove sono?" disse, volgendo un'occhiata in giro.
"Sono qui e chiedono di vederla. Posso farli accomodare?"
"Vedere me? E perché vogliono vedere me?"
"Non saprei."
"Se mi vogliono vedere sono due seccatori, ad ogni modo li faccia salire."
Il custode indicò il piano, e l'ascensore li depositò davanti ad un portone. Bussarono e
venne ad aprire Fernando Rinaldi in persona. Non riconobbe nessuno e li guardò con aria
beota.
Careri invece era rimasto molto interdetto. Si sarebbe aspettato di tutto: occhiate
feroci, urla ed invettive, ma non quello sguardo tra il deficiente ed il trasognato.
"Nando, sono io. Sono Leonardo, mi riconosci?"
Continuava a guardarli incantato. Poi li fece passare in un grande salone, e si sedettero.
"Chi dice di essere? Leonardo? Conoscevo un giovane, Leo Careri, quando avevo poco
più di vent'anni, ma era un tipo tortuoso. Era il mio migliore amico. Lei, scusi, chi
è?"
"Sono proprio quel Leo, sono io."
"Quale Leo, di chi parla scusi?"
Il dottor Careri sospirò, avrebbe volentieri sbuffato, ma non lo fece. Parlò invece con
la dolcezza forzata di un uomo che conversa con una persona poco perspicace.
"Il tuo migliore amico, quello tortuoso come un cavaturaccioli. Avevamo poco più di
vent'anni, Nando, e abbiamo fatto il servizio militare insieme. Eravamo amici
inseparabili. Mi chiamo Leonardo. Ti ricordi di me?"
"Io sono divenuto un po' debole di memoria. Però mi ricordo di te. Rammento quegli
occhi. E quella bocca! Mi sarebbe gradito, Leo, se tu non tenessi la bocca aperta quando
ti parlo. Sembri un merluzzo."
Tina intanto, stava riflettendo che il suo amico ispettore non le aveva parlato della
labilità mentale di Fernando Rinaldi. Chissà perché!
Careri sembrava sollevato:
"Allora non mi tieni rancore! Non mi odi più! Non sai quanto mi fa piacere
rivederti."
"Ah! Quando dici di essere Leonardo Careri, parli di Leo Careri. Certo. Certo. E
perché dovrei odiarti? Questa è bella! Che hai fatto, scusa?"
"Ho sposato Costanza, la ragazza che tu amavi, ricordi?"
"Chi
.?"
"Oh Nando! Hai proprio perso la memoria!"
"Chi dovrei ricordare adesso?"
"L'amavi tanto, mi parlavi sempre di lei, di quanto fosse dolce e cara. Invece io te
la soffiai. Ti portai via Costanza, perché lei preferì me a te."
A questo punto, Nando emise un suono molto simile a quello che produce chi mette un
pollice sul coperchio di una pentola in ebollizione.
"Ohhhh! Costanza! Quella spelacchiata, che appena le parlavo scappava via. Sì, ora
ricordo. Fu il primo amore della mia vita, ma per fortuna, tu Leo, ti occupasti di
portarmela fuori dei piedi. Bel lavoro ragazzo! Ti sarò grato per la vita!"
Altro che novella e racconto! Lì c'era da scrivere una commedia del genere umoristico,
pensava Tina. Guardò di sottecchi il suo direttore, che ricambiò l'occhiata. Appariva
costernato:
"Spelacchiata! Fuori dei piedi! Ma come! Se n'eri pazzo e non riuscivi a
dichiararti!"
"Questa fu sempre una mia prerogativa. Devi sapere, caro, che nella mia vita, non ho
mai detto a nessuna di amarla. Sono stato molto riservato. Per questo ho preferito, di
solito, le avventure passeggere, fosse anche a pagamento."
"Io invece sposai Costanza, che mi rese l'uomo più felice. Abbiamo vissuto a lungo
insieme. Mi ha dato due figlioli maschi, che fanno entrambi gli ingegneri all'estero. Non
hanno mai voluto occuparsi di editoria, forse perché ci sono cresciuti in mezzo e ne sono
stati soffocati.
Purtroppo, da qualche anno, un cancro ha portato via mia moglie e sono rimasto solo."
Parlava con il piacere di conversare e confidarsi con un amico ritrovato, il quale, dal
canto suo, lo ascoltava con grande attenzione:
"Questo mi spiace molto, Leo. Non la ricordo la tua Costanza, ma il fatto mi addolora
per te."
Lo guardava con la solidarietà antica che avevano nutrito reciprocamente. Pareva che non
si fossero mai lasciati, che si fossero visti il giorno prima. Ancora, come quando avevano
vent'anni, stando insieme, il tempo si fermava. Negli occhi avevano, l'uno per l'altro,
una dolcezza profonda, ignota ai più, ma che accompagna sempre le grandi amicizie.
"Come hai vissuto, Nando? Sempre solo? Non ti è mancata una presenza
femminile?"
"Devi sapere che ho avuto tante governanti e poi, come compagnia femminile,
purtroppo, ho molto spesso quella di mia sorella Eva. E' la mia unica parente prossima,
con quattro figli, i quali tutti aspirano a spartirsi il patrimonio che ho
ereditato."
Quanto materiale per il suo racconto! pensava Tina. Ma no, questa volta avrebbe potuto
scrivere addirittura un romanzo. Vi erano tutti gli ingredienti: c'era il mistero, poi il
lato romantico del protagonista. Beh! Avrebbe potuto scrivere e rielaborare tutta la vita
di Fernando Rinaldi. Un'esistenza interessante e strana, tutto sommato.
"Signor Rinaldi, io vorrei scrivere un racconto sulla sua vita. Lei sarebbe
d'accordo?"
"Una signorina. Il custode mi ha annunziato che c'era una signorina. Leo, chi è
costei?"
"Perdonami amico. Ancora non te l'ho presentata. Si tratta di una mia collaboratrice.
Scrive racconti per il nostro giornale. Si chiama Tina."
"Perché vorrebbe scrivere la storia della mia vita? In fondo io sono un povero
diavolo!"
"Sono venuta a conoscenza, signore, del fatto che lei pagava tutte le quote
condominiali di questo stabile! Mi sembra un fatto insolito e romantico, visto che le
pagava per l'amore che nutre nei riguardi di una condomina indigente. Davvero mi fa
pensare ad un personaggio da romanzo."
"Oh, il condominio! Quello lo amministravo bene, anche se la mente non mi aiuta più
del tutto. Pagavo tutto io! Poi mia sorella Eva lo venne a sapere e, pensando che stavo
sperperando il patrimonio di famiglia, lo andò a spifferare ai capoccia dello stabile, e
quelli hanno voluto fare la parte degli integerrimi e puntuali pagatori, e mi hanno
denunziato perché non li facevo pagare."
"So invece, che c'è, qui nel palazzo, una donna indigente di cui lei è innamorato.
Insomma, Signor Rinaldi, mi permetta di costruirci sopra tutta una storia
interessante."
"Faccia un po' quello che vuole; non avrei mai supposto di divenire un caso. Tutto è
cominciato da quando quel poliziotto mi ha mandato a chiamare e mi ha fatto mille domande.
Quell'individuo non lo scorderò mai più. Mi scrutava e mi esaminava come se volesse
penetrarmi in fondo all'anima. Io non credo di avere commesso un grave reato."
Quelle parole fecero molto effetto su Tina. Destarono, in lei, mille sospetti. Il
riferimento a Marco l'aveva sorpresa. L'ispettore si era comportato stranamente nei
riguardi di Rinaldi! Perché?
"E' stato però trattato con equità. So che, dopo la denunzia, è stato rimosso
dall'incarico d'amministratore."
"Sì. Quello che voglio dire è che quel poliziotto, da quando mi ha visto e
conosciuto, non mi ha mollato più, ha indagato su di me, mi perseguitava, mi telefonava,
mi faceva sorvegliare da altri poliziotti. Non sono mai riuscito a capirne il motivo. Io
non sto più bene con la testa, ma posso ancora cavarmela da solo e pensare a me
stesso."
Mille campanelli suonavano nella mente di Tina e centinaia d'idee le frullavano per la
mente.
Una però era predominante: Marco aveva dovuto scoprire dell'altro su Rinaldi. Ma cosa?
Improvvisamente impallidì ed ebbe un sobbalzo. Forse lo sapeva! La sua immaginazione
certo galoppava troppo! Il pensiero però era lì, presente, incalzante: l'ispettore, che
era un figlio adottivo, aveva scoperto che quell'uomo era il suo padre naturale! No! Non
era possibile! Queste cose succedono solo nei romanzi. Eppure il sospetto era troppo
pressante. Adesso la famosa realtà romanzesca superava ogni limite.
"Signor Rinaldi, sto per farle una domanda delicata, indiscreta e molto privata. Lei,
per caso, nel suo passato, ha avuto dei rapporti con qualche donna, e questa ha avuto da
lei un figlio, che è stato poi adottato?"
"Tina! Che dici! Che domande fai?" Il dottor Careri la guardava con
disapprovazione e soggiunse:
"Leo, non starla ad ascoltare, ha le traveggole e, come ogni scrittore, è senza
riserbo e non si fa i fatti propri!"
"In ogni caso non riesco a seguirla, signorina. Lei tergiversa sull'argomento e non
mi fa capire nulla. Sia chiara. Sia esplicita. Sia franca e aperta. Sospetta per caso che
io abbia illegalmente adottato un figlio?"
Aveva affermato che non stava più bene con la testa. Lei avrebbe detto che era del tutto
stordito e svanito. Le veniva quasi da ridere:
"No, non lei. Chiedevo se per caso ricorda di avere avuto un figlio naturale, che è
stato poi adottato."
"Eppure la parola figlio mi suscita dei ricordi. Come qualcosa che abbia a che fare
con mia sorella. La rivedo, infuriata, mentre strepita che porterà quel figlio
all'orfanotrofio. Ma dovrebbe chiedere a lei, signorina. I miei ricordi sono molto sfumati
purtroppo."
Adesso Tina guardava con maggiore attenzione quei capelli ricciuti e folti, ormai quasi
tutti brizzolati. Osservava l'altezza imponente dell'uomo, sebbene incurvato e rinsecchito
per l'età, i tratti regolari e gradevoli, solcati dalle rughe. Decisamente, Fernando
Careri poteva somigliare a Marco, ma forse era tutta una suggestione.
Più ci pensava però, più si convinceva che quella era la spiegazione di tutto:
l'ispettore aveva scoperto che Rinaldi era il suo padre naturale e non voleva rivelarlo.
"Senta" fece poco dopo, "se io le facessi improvvisamente conoscere quel
figlio che lei ebbe tanti anni fa, sarebbe pronto ad accettarlo, a rivederlo?"
"La cosa mi pare del tutto assurda! Io non ricordo niente, signorina. Ma se lei
afferma che ci potrebbe essere quest'eventualità, perché no! Anzi! Avrei un immenso
piacere nello scoprire così, su due piedi, di avere un erede, seppure naturale."
Rimasero, dunque, che si sarebbero rivisti e che, probabilmente, Tina avrebbe avuto per
lui un'incredibile sorpresa!
Si trattava adesso di convincere Marco a dichiarare la verità.
Lo chiamò al telefono: "Secondo me, tu sai, su Fernando Rinaldi, molto più di
quanto vuoi dare a credere. E' colui che ti ha generato, vero Marco? Lo hai scoperto
casualmente, hai approfondito le indagini, ed ora ne sei sicuro, solo che non lo vuoi
ammettere!"
"Sì, è così. Ma per me, i genitori sono sempre stati quelli che mi hanno adottato,
quando ero piccolissimo, ed ora non voglio sapere più nulla del mio padre naturale."
"Perché? Provi rancore? O no. Forse no. Ti vergogni di lui! E' un pover uomo che non
ragiona più bene, e il signor ispettore ha ritegno a far sapere che è suo padre!"
All'altro capo del filo, silenzio.
Tina sapeva di aver colto nel segno!
"Che centra! No, non è vero! Solo che non voglio rivederlo, giacché lui non ha più
voluto sapere niente di me." Continuava a non ammettere la verità.
"Marco, ti vergogni di lui. Se avessi saputo che era uno scienziato, ti saresti fatto
riconoscere!"
Adesso non replicava più, era rimasto interdetto.
Tina incalzò: "E' sempre tuo padre, è colui che ti ha dato il dono prezioso della
vita. Non ha voluto crescerti, ma ora mi ha assicurato che sarebbe felice di
rivederti!"
"Io invece non voglio vedere lui!"
"Vergognarsi del proprio padre è terribile, Marco, pensaci! Potresti pentirtene.
Fernando Rinaldi è un povero diavolo, molto affabile e simpatico però, anche se
completamente fra le nuvole."
Il riferimento all'imbarazzo ad ammettere di avere un padre ormai quasi demente, era stato
determinante. L'ispettore era in ambasce, stava per convincersi.
Lei continuò: "Mi fai ricordare il protagonista dell'antica canzone <Lo
zappatore>. Anche lì, un avvocato di grido si vergognava di suo padre zappatore.
Avanti, dimmi di sì, dimmi che verrai con me a rivedere quel brav'uomo."
L'esclamazione fu liberatoria: "Hai vinto! Va bene! Verrò!"
"Oh! Finalmente! Prenderemo appuntamento e ti porterò a casa sua."
Fu così che Nando Rinaldi, un giorno, vide presentarsi, nella sua dimora, Tina in
compagnia del giovane poliziotto.
A guardarli insieme, Marco e l'anziano signore si somigliavano parecchio.
L'ispettore ristette sulla soglia, muto, pallido, con espressione indecifrabile.
L'attempato signore lo guardava con la sua aria inebetita, svagata, in cui era altresì,
una luce di speranza!
Riconobbe Tina e: "Signorina! E' tornata! Che piacere!" Poi, osservò meglio
l'uomo che era con lei, e tutti gli interrogativi del mondo furono nei suoi occhi.
"Venite, accomodatevi. Non ho niente da offrirvi, ma un caffè posso sempre
prepararvelo."
Passarono nel solito salone: "Signor Rinaldi, lei conosce l'ispettore Milani. La
rivelazione che sto per farle è molto particolare ed importante, mi ascolti: da indagini
eseguite, è risultato che è suo figlio naturale! Mancherebbe solo la prova del DNA, ma
poi tutto coincide. Lei è il vero padre di Marco Milani."
Nando era trasalito! Aveva fatto un balzo, con mani tremanti, aveva esitato qualche
attimo, quindi s'era mosso verso Marco e l'aveva abbracciato.
"Mio figlio! Mio figlio! Sei mio figlio! Non posso crederci, è una gioia troppo
grande!"
Dopo che un uomo è stato abituato, per anni, ad indagare su criminali e gaglioffi, la sua
tempra morale si rafforza, al punto che ben poco può sconvolgerlo, ma quella situazione
era nuova per Marco. Appariva difatti basito, turbato. Quell'abbraccio era oltremodo
affettuoso, sincero, disarmante. Lo ricambiò. Strinse fortemente l'anziano signore. Non
ricordava più da quanto tempo non piangeva, ma adesso, suo malgrado, calde lacrime gli
rigavano le guance.
Lo strano corteo
La conobbi un giorno mentre mi recavo al lavoro e vidi che stava
dando da mangiare
a dei gatti in un angolo della strada.
Era una vecchietta gracile, ma si affannava a lasciare del cibo per quelle graziose
bestiole.
Mi fermai a guardare poiché alcuni micetti erano proprio graziosi e chiesi:
"Cosa fa signora, sono suoi questi gatti?"
"No cara" rispose " sono tutti quelli del quartiere. Vedi, ce n'è in
quantità e bisogna pure che qualcuno dia loro da mangiare."
Così ogni giorno, andando e tornando a casa, la incontravo e poco alla volta facemmo
amicizia.
Avevo notato che una certa bellezza caratterizzava il suo viso. Doveva essere stata, nel
suo passato, una bella donna anche se ora dei segni evidenti di malattia l'affliggevano.
I capelli erano tutti bianchi e raccolti strettamente sulla nuca. Gli occhi, di un verde
brillante, erano frangiati da ciglia folte e lunghe. Era alta quanto me, ma molto più
esile e con le spalle incurvate.
Seppi che si chiamava Bice ed era vedova.
"La mia storia è molto lunga e triste" mi disse un giorno "non voglio
affliggerti."
"No, no" risposi "sarà interessante ascoltarla, tanto ci vediamo ormai
tutti i giorni."
"Ero sposata con un uomo che adoravo. Era ricco e mi faceva vivere nel lusso.
I primi anni di matrimonio li vissi come in una favola. Lui era innamorato e mi circondava
di ogni attenzione."
"Suo marito è morto, Bice, se le fa male ricordarlo, lasci perdere."
"Magari fosse morto subito!" incalzò " No sai, finì in carcere per
omicidio."
"Omicidio? Mi spiace. E chi ha ucciso? Se posso saperlo."
La cosa cominciava ad incuriosirmi parecchio.
"Te l'ho detto che è una storia lunga. Ha ammazzato colui che credeva fosse il mio
amante."
"Il suo amante! Ma perché lei aveva un'amante?"
Ormai dovevo sembrare proprio un'intrigante impicciona.
"Tutto cominciò quando lui prese a trascurarmi. Stava sempre fuori casa e
m'accorgevo che impiegava stranamente i suoi capitali. Seppi che frequentava altre donne
ed, in particolare, aveva perso la testa per una signora dell'alta società. Io cercavo di
farlo ragionare e distoglierlo da lei, ma inutilmente."
Mentre narrava, la sua espressione era divenuta dura e gli occhi guardavano lontano, verso
luoghi ed immagini noti solo a lei.
"Non ricordi più, lasci stare Bice." Ogni tanto il mio senso d'altruismo prende
il sopravvento.
"No, ormai ho stappato la botte. Sta venendo tutto fuori. Ascolta."
Era determinata e serrava le mandibole con rabbia.
"Mi sentivo disperata," riprese " tutte le mie illusioni erano state
infrante. Il mio amore calpestato. Cominciai a frequentare le associazioni di beneficenza
e mi recavo presso i centri di assistenza ai poveri. Cercavo di affogare il mio dolore in
mezzo al dolore degli altri. Durante una di quelle visite, conobbi un signore molto
distinto.
Era scapolo e molto abbiente. Ben presto s'innamorò di me."
"Bene! Ripagò suo marito della stessa moneta!" Avevo creduto di capire tutto e
invece ne ero lontana.
"Non gli feci mai alcun torto. So che può sembrare una storia d'altri tempi, ma fu
proprio quel che avvenne. Quel signore mi seguiva ovunque. Ci vedevamo per le solite opere
di carità, eravamo divenuti amici, ma io non lo incoraggiai mai minimamente. Non
divenimmo mai amanti."
"Ma le piaceva almeno?" Non avevo più ritegno.
"Trovavo in lui tutta la comprensione che mio marito mi negava, mi sentivo
desiderata, amata, ma non lo contraccambiavo. La signora dell'alta società prese a
frequentare la nostra stessa associazione di beneficenza e io la conobbi. Era bellissima.
Poteva fare invaghire di sé qualunque uomo. Seduceva al primo sguardo.
Era una di quelle donne che fanno credere agli uomini di essere disponibili, e poi si
negano. Dicono di sì con ogni atteggiamento, e poi sono pronte a dire no al momento
giusto. Ci tentò anche con il mio amico, ma fece fiasco. Lui era diverso e troppo preso
di me."
"Bice" avevo chiesto " quella signora non capì di chi lei fosse
moglie?"
"No, credo che non avesse fatto caso al mio cognome. Il bello fu quando un giorno mio
marito venne a cercarla all'associazione. Mi vide e rimase allibito. Sapeva che mi
occupavo di beneficenza, ma non s'aspettava di trovarmi in compagnia della donna dei suoi
sogni. Tra l'altro, capì che avevo uno spasimante e fu colto dalla più folle gelosia.
Penso che si trattasse piuttosto di orgoglio ferito, di sospetti insensati."
Scuoteva la testa. Il ricordo le faceva ancora male.
Era davvero una storia interessante. A questo punto, volevo sapere tutto:
"Sarebbe stata l'occasione propizia per ricondurlo all'ovile."
"Non so perché, ma non volevo più. Infatti non feci nulla e continuai la mia vita e
la mia attività benefica. Mio marito divenne assiduo dell'associazione, però la
frequentava per meglio sorvegliarmi. Mi controllava, la sua gelosia cresceva ogni giorno
sino a divenire ossessiva. Sino a divenire mania omicida!"
"Non mi dica! Uccise quell'uomo?"
"Sì, un giorno lo trovarono con un coltello sanguinante in mano, accanto al cadavere
di quel poveretto. Fu arrestato e condannato a trent'anni di carcere. Si scoprì che
prestava denaro ad usura e quindi sequestrarono ogni suo avere. Ormai da anni, mio marito
è morto in carcere."
Quella storia era stata penosa e strana, ma tutto sommato rientrava nei vari casi della
vita di cui ogni tanto sentiamo narrare. La cosa più sorprendente fu invece il funerale
di Bice.
Già da qualche giorno non l'avevo più rivista e non l'avevo più incontrata.
Poi un giorno, tornando dal lavoro, vidi uno stranissimo corteo funebre per la strada
vicino casa mia. Lo strano consisteva nel fatto che tutti i gatti del quartiere stavano
seguendo il feretro. Erano tutti là, composti, in fila, mogi e silenziosi. Formavano il
corteo più inverosimile che mai occhio umane potesse immaginare!
Non ebbi necessità di chiedere chi fosse il morto. Tristemente avevo compreso di chi si
trattasse.
Erano i suoi gatti, quelle bestiole mansuete cui, per anni, Bice aveva portato da
mangiare. Adesso erano là, tutti quanti, non ne mancava nessuno, come se avessero
compreso cosa fosse accaduto e chi stessero portando via. Erano posti in fila, a formare
quel corteo ordinato, lugubre, straziante. Erano là per dare l'estremo saluto alla loro
benefattrice.
Se non lo avessi visto con i miei occhi, non vi avrei mai creduto.
Come me, altre persone erano rimaste allibite per quella scena! Tutti guardavano e quasi
inavvertitamente seguivano e s'aggiungevano al corteo, pur essendo sconosciuti a Bice. Lei
sempre così sola, adesso, grazie ai suoi amici gatti, aveva dietro a sé tantissime
persone ad accompagnarla. Naturalmente c'ero pure io! |