Gabriella Cuscinà

insegno lettere a Palermo.
Mi piace scrivere racconti di assoluta fantasia.

La registrazione

Pietro incontrò un amico di suo figlio che aveva visto crescere. Questi gli raccontò che adesso faceva il cantautore. Cantava per talune radio private e raggranellava qualche soldo.
"Tramite questo mestiere, ho scoperto la possibilità di comunicare con l'aldilà. Non si sa bene se con i defunti, con angeli o con altre forme di vita. Io personalmente mi sono imbattuto in questo fenomeno e devo dire che all'inizio ho avuto paura."
"Ma va', finiscila. Non ci crederò mai."
"E' vero! Durante la registrazione dei miei pezzi, ho avuto delle interferenze che, sia per il contenuto dei messaggi, sia per il modo in cui avveniva la registrazione delle voci, credo proprio non si trattasse di una allucinazione."
"Ma che interferenze! Non raccontare panzane!"
"Vorrei farle ascoltare qualche voce da me registrata per farle appurare il fenomeno. Sono in buona fede, non scherzo. Se vuole provare, deve usare un registratore, anche portatile, e registrare. Le consiglio di non farlo troppo a lungo, ma per circa dieci minuti a microfono aperto. Poi, provi ad ascoltare con attenzione, senza suggestionarsi troppo. Ci vuole buon udito.
I messaggi potranno essere molto deboli, ma ricordi di mantenere il giusto distacco emotivo in quanto non si sa chi parli, come faccia e perché."
"Io non lo farò mai. Ragazzo mio, non ci credo. Quando lo racconterò a mio figlio, si farà le più matte risate."
"Parlerò con lui e gli dirò che le entità hanno dimostrato di poter cambiare quanto detto da chi registra. E' incredibile, ma è vero! Quindi potrebbe sentire la sua voce dire cose che non ha detto. Inoltre sembra che si servano proprio di rumori e voci già esistenti nell'aria e le possano modificare a loro piacimento. Alcune comunicazioni potranno essere anche in lingue straniere."
"Ah ah ah ah. Sì, magari in lingua aramaica. Ah ah ah ah."
Si erano salutati e Pietro aveva continuato a ostentare il suo scetticismo.
Un mattino, mentre si trovava in ufficio, sentì l'impulso di telefonare alla moglie e, non appena ebbe sfiorato il telefono, vide con gli occhi della mente una scena allucinante: due automobili urtavano violentemente e su di una vi erano il figlio e la moglie. Il telefono squillò e sentendo la voce della consorte disse all'istante: "Avete avuto un incidente, vero? Come state?"
" E tu come lo sai?"
"Lo so."
Si precipitò sul luogo dell'incidente, ma per fortuna si rese conto che non era nulla di grave. Solo lievissimi graffi per gli occupanti delle vetture e molti danni per le medesime.
In seguito pensò alla telepatia e alla trasmissione del pensiero. Certo la moglie doveva avergli trasmesso quelle immagini, poiché le aveva viste nitide come se guardasse la televisione! Era stata una percezione extrasensoriale di ciò che sua moglie aveva sentito e pensato. I cavi telefonici dovevano essere serviti da canali conduttori.
Mah! pensava Pietro: chi ci capisce è bravo!
Comunque cominciò a ricordare le esperienze dell'amico del figlio sulla registrazione di voci.
Così una mattina non si recò al lavoro e attese d'essere solo in casa.
Si sedette accanto al registratore stereo e lo accese. Calcolò che doveva registrare per dieci minuti. Ma registrare cosa? Non poteva parlare o cantare da solo come un pazzo per tutto quel tempo!
Pensò di prendere la 'Divina Commedia' e di leggerla ad alta voce.
Prima di leggere, cominciò dicendo: "Io non credo di poter registrare delle voci dall'aldilà poiché le anime dei defunti sono con il buon Dio e non interferiscono con il nostro mondo."
Tacque per qualche secondo, poi iniziò a leggere il capolavoro di Dante.
Ogni tanto guardava l'orologio e andava avanti a leggere. Si sentiva un fine dicitore, ma si sentiva pure molto scemo.
Trascorsero i dieci minuti e spense la registrazione.
Ora si trattava di riascoltare il tutto. Ma che idea bislacca! Ma che scemata!
Riaccese e si mise in ascolto. Udì la propria voce che diceva: "Io credo di poter registrare delle voci dall'aldilà poiché le anime dei defunti son con il buon Dio che tutto può."
Balzò in piedi e spense di nuovo. Doveva avere sentito male, ma nel frattempo i battiti del cuore avevano accelerato il ritmo.
Tornò indietro con la registrazione e riascoltò. La sua voce diceva ciò che non aveva detto la prima volta. Pietro aveva lo stomaco scombussolato e provava tremore e affanno, ma andò avanti ad ascoltare e udì se stesso declamare i versi celebri della 'Commedia'.
Ad un certo punto, udì dei fruscii leggeri incisi sul nastro e delle interruzioni. Poi mentre la sua voce declamava, si sentivano di nuovo i fruscii e, in contemporanea, si udiva un'altra voce che sussurrava e diceva qualcosa di incomprensibile.
Aveva ormai i brividi e i sudori freddi. Non sapeva se andare avanti ad ascoltare o lasciar perdere tutto. Ma sarebbe stato peggio restare con il dubbio. Cercò di calmarsi e di sforzare l'udito per meglio capire.
Gli sembrò di riconoscere la voce della madre che bisbigliava: "Perdonaaaaa…..perdonaaaaa……perdonaaaaa……..perdonaaaaa………"
No! Non poteva essere! Era tutta una suggestione e aveva sentito male. Oppure aveva creduto di sentire ciò che in realtà era solo un fischio o un sibilo.
Pietro aveva addosso una paura incredibile! Si guardava attorno credendo di poter essere circondato da forze occulte.
Che scemo che sono stato! Peggio per me che ho voluto fare questi esperimenti! pensava.
Spense tutto e si alzò. Cominciò a passeggiare per la stanza, cercando di calmarsi. Poi riaccese l'apparecchio, tornò indietro nella registrazione e riascoltò.
Questa volta non udì più nulla. Tutto era come lui aveva detto e non vi era più nessun fruscio o sibilo. Nessuna voce bisbigliante e niente di niente.

 

Il pittore

Dipingeva in stile espressionistico. La sua era un'arte di pura espressione intima, per cui gli oggetti non erano che uno schermo sui quali proiettava il drammatico travaglio dell'anima. Esasperava i colori e deformava violentemente i corpi che rappresentava. Tutto nella sua pittura era soggettivo; il mondo lo vedeva con dinamismo estremo, lo spazio per lui era solo una visione passeggera.
Leopoldo si era diplomato all'Accademia di Belle Arti con il massimo dei voti e adesso, dipingeva per gli allestimenti scenici del teatro lirico della sua città. Era molto apprezzato per alcuni quadri che aveva esposto nelle varie gallerie d'arte e che aveva anche venduto a prezzi esosi. Talora aveva tracciato, sulla tela, figure che erano la trascrizione di immagini interiori, visioni di sogno, con scenografie deserte e smaltate da lisce stesure di colore.
Improvvisamente cominciò ad avere strane allucinazioni e si preoccupò seriamente. Pensava di essere vittima del demonio o di essere divenuto il più grande pittore del mondo. Infatti gli accadeva che, ogni volta che dipingeva una figura, questa si muoveva, usciva dal quadro e a volte infieriva su di lui.
Era stato schiaffeggiato dalle mani di San Bartolomeo che aveva ritratto in atteggiamento di preghiera. Appena ebbe finito di tracciarne le mani, queste si mossero di scatto e gli riempirono il viso di schiaffi.
Aveva dipinto il viso e gli occhi di "Aida" per i cartelloni pubblicitari del teatro, che appunto metteva in scena quell'Opera. Gli occhi però non smisero più di guardarlo e lo terrorizzavano poiché lo seguivano ovunque.
Dipinse i teloni e i pannelli scenici per la rappresentazione di "Cavalleria rusticana" e tracciò le immagini dei vari personaggi; ma appena ebbe fatto loro le gambe, quelli scapparono lasciando i pannelli vuoti.
Leopoldo era disperato e chiese consiglio al suo parroco, confidandogli quegli strani fenomeni. Il prelato lo guardò attonito, aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e restò muto. Dopo un po' si limitò a battergli una mano sulla spalla dicendo: "Coraggio, coraggio, è solo un malessere passeggero causato dallo stress. Cerca di riposare e vedrai che tutto tornerà normale."
Ma niente tornò normale.
Era celibe e non aveva mai trovato una compagna che sapesse stargli accanto, qualcuno che lo amasse e capisse veramente l'estro e le sfaccettature complesse della sua personalità. Figlio unico, aveva perso i genitori da qualche anno. Dunque aveva solo degli amici, i quali spesso lo adulavano e, al contempo, lo prendevano in giro per le sue bizzarrie da pittore stravagante. Quando era in preda alle paturnie, lo canzonavano dicendo che era un genio incompreso. Tutti però gli consigliarono di rivolgersi ad uno psichiatra e di sottoporsi a delle sedute di analisi.
Leopoldo non volle sentir parlare di medici e cercò di dipingere con degli accorgimenti particolari. Stava lontano dal quadro servendosi di una canna con in cima un pennello, ma in questo modo disegnava male e non riuscire a riprodurre sulla tela ciò che sentiva e che la mente gli ispirava.
Allora pensò di dipingere paesaggi senza figure e senza personaggi che potessero fuggire o nuocergli. Intraprese la rappresentazione di un bosco con centinaia di alberi e s'era soffermato a colorare e sfumare un albero dal tronco robusto e dai rami pieni di foglie e fiori.
Ad un certo punto però l'albero cominciò a parlare. Le sue parole erano flebili e rotte dai singhiozzi.
"Tu mi ami" diceva " e certamente capirai tutta la mia tristezza. Sono seccato e le mie foglie non spunteranno mai più perché ho un grande dolore."
Il nostro pittore restò attonito, si fermò e non dipinse più.
Ma l'albero continuò: "Amavo una donna bellissima che in primavera veniva a sedersi sotto di me. Allora io facevo cadere su di lei una pioggia di petali e la mia ombra la copriva. Succhiavo più acqua dalla terra affinché le gemme si aprissero e il profumo giungesse a lei in tutta la sua dolcezza. A volte si addormentava e allora io chiamavo il vento perché smuovesse le mie fronde e dai rami uscisse un lieve fruscio che la cullava. Però un giorno ella venne insieme ad un giovane e si baciarono a lungo parlando d'amore. Piansi e non volli più vivere, i miei rami seccarono, le mie foglie ingiallirono e lentamente divenni uno scheletro come ora mi vedi."
Leopoldo guardò l'albero che aveva dipinto e lo vide trasformato: si era scheletrito e i suoi rami erano nudi e secchi, il tronco arido e contorto. Continuò a guardarlo come in preda alle allucinazioni. Poi pensò che forse lo aveva già dipinto così, la sua mente voleva rappresentarlo proprio in quel modo. Rifletté che la sua arte aveva raggiunto la divina perfezione e che la sua personalità era tanto forte da dar vita alle figure che dipingeva.
Ciononostante qualcosa non lo convinceva; l'intelligenza gli suggeriva che nella sua mente alcuni meccanismi non funzionavano più, la logica era svanita insieme ai processi di deduzione temporale e di induzione spaziale. Non si diede per vinto e volle dipingere se stesso. Voleva vedere cosa sarebbe successo realizzando un autoritratto.
La propria immagine su tela si sarebbe mossa? Avrebbe schiaffeggiato l'originale? Sarebbe fuggita?
Il risultato superò ogni aspettativa: venne fuori l'intera figura di un uomo bellissimo, con un meraviglioso corpo atletico, muscoli torniti, occhi azzurri affascinanti, capigliatura folta e ondulata.
Era lui. Era proprio Leopoldo, che in realtà, era stato sempre un uomo seducente.
Quell'immagine non si mosse, non scappò, solo che il pittore continuò a guardarla incantato. Rivisse le sensazioni del mitico Narciso e s'innamorò di se stesso. Anzi a poco a poco si convinse che non fosse mai esistito uomo più bello di lui. Cominciò a credere che tutte le donne gli cadessero ai piedi e che alcune addirittura svenissero se le guardava. Allora prese a vivere appartato e quando usciva, indossava cappello e occhiali, mantenendo uno sguardo staccato e assente. Cercava di non farsi riconoscere e sperava che non lo guardassero, temendo di creare trambusti e disordini a causa della sua bellezza. Inoltre sospettava che lo sguardo altrui potesse deteriorare il suo bel volto, come accade ai dipinti dei musei colpiti dai flash delle macchine fotografiche.
Così restava sempre più spesso a casa, solo, rinchiuso, senza mangiare e a rimuginare sulla sua sorte strana e funesta.
Un giorno, lo scenografo del teatro lo incaricò di dipingere i pannelli scenici per la rappresentazione di "Manon Lescaut" e Leopoldo cominciò a tracciare le immagini del mare dal quale sarebbe salpata la nave dell'eroina. Sulla spiaggia però disegnò la sagoma delicata di un bambino. Improvvisamente, il bimbo lo prese per mano e disse: " Portami in riva al mare. Portami a toccare il mare. Voglio vedere il mare."
Il pittore uscì dal teatro lirico e si recò al porto della sua città. Appena vi arrivò, il piccolo corse, si buttò in mezzo alle onde e scomparve. Lo chiamò e lo cercò disperato, ma non vedendolo più, anche lui si immerse tra i flutti e continuò a invocarlo. Guardava quella immensa distesa e lo cercava, poi lo ricordò, lo rivide con gli occhi della mente e capì che era uguale a se stesso da bambino, era se stesso bambino.
Allora bevendo acqua cominciò a gridare: "Leopoldo! Leopoldo! Leopoldo! Dove sei Leopoldo?"
Scomparve tra le onde mentre continuava ad urlare.

 

Le lumache

Erano sempre stati una combriccola di buon temponi e stavano bene insieme.
Si riunivano e andavano a giocare a tennis o a calcetto. Con il beneplacito delle mogli, avevano anche fondato un'associazione culturale senza scopo di lucro. Avevano eletto presidente Lorenzo che fra tutti, era il più carismatico. Tale associazione annoverava gente varia e organizzava conferenze e occasioni di ritrovo. In realtà era un'altra scusa per stare insieme, divertirsi, discutere e scherzare.
Quante belle serate, quanti convivi, e soprattutto quanti scherzi erano stati perpetrati alle spalle di questo o quell'altro socio!
Indimenticabile resterà la beffa progettata ai danni dell'amico Alfonso.
Questi, per hobby, era divenuto un appassionato ricercatore di lumache. Le studiava, le osservava al microscopio, faceva esperimenti e ricerche su di esse. Aveva scoperto che lumaca è il nome di alcuni Gasteropodi Polmonati, forniti di conchiglia solo rudimentale, considerati pertanto molluschi 'nudi'. Ma nell'uso popolare, il nome è usato invece per indicare la chiocciola. Alfonso sapeva che, in alcune regioni d'Italia, le lumache si mangiano come piatto tradizionale. Per esempio, a Roma quelle di vigna si mangiano per la notte di San Giovanni. Si fanno morire nell'acqua dopo averle lasciate purgare e quindi si cuociono nell'olio con aglio, pomodoro, mentuccia. In Francia sono un piatto molto ricercato.
Ne parlava sempre, per lui erano diventate una vera passione, una specie di mania. Agli amici che avevano la disgrazia di capitargli tra le grinfie, cominciava a blaterare che le sue benamate lumachine avevano un corpo allungato e carnoso che, visto al microscopio, rivelava una cute coriacea e un piede non ben distinto, un mantello piccolo a forma di scudo, la regione cefalica con quattro tentacoli invaginabili che funzionano come organi tattili ed olfattivi.
Gli ascoltatori cercavano di arginare la sua loquela e di svignarsela, ma Alfonso li fagocitava e continuava a dissertare dicendo che le lumache amano i luoghi umidi e freschi, si rinvengono numerose sotto le pietre e tra i muschi, nei boschi, nelle grotte, nelle cantine, presso i corsi d'acqua. Escono di preferenza di mattina, di sera e dopo le piogge temporalesche. Molte specie sono notturne. Per mantenere il loro corpo sempre umido in superficie, secernono una bava di vario colore. Si nutrono di sostanze vegetali, funghi, foglie tenere, animali in decomposizione.
Lorenzo e gli altri amici, non potendone più di sentirlo sproloquiare sempre in merito ai famosi Gasteropodi, una volta decisero di giocargli un brutto tiro.
Durante una riunione dell'associazione, a tavola mentre bevevano e scherzavano, ventilarono con noncuranza la possibilità di mettere su un allevamento di lumache che avrebbe reso miliardi.
"Cosa? Ma dite sul serio? Sarebbe come realizzare tutti i sogni della mia vita!" esclamò Alfonso.
"Oh, ma che ci vuole! Basta avere una villa in campagna e un po' d'amore verso questi molluschi," fece Lorenzo ben sapendo che l'amico era fornito dell'una e dell'altro.
"Sapete che non ci avevo mai pensato! Ma dite che davvero potrei avviare un allevamento?"
"Guarda Alfonso, se vuoi noi ti aiutiamo." Il presidente dell'associazione ormai era determinato a portare avanti uno scherzo spettacolare.
Antonio, l'amico giocherellone e barzellettiere, aveva spalleggiato Lorenzo aggiungendo:
"Beh, penso che dovresti presentare domanda alla Camera di commercio, visto che si tratta di un'attività imprenditoriale."
"Ah! Sì sì certo. Una domanda in carta da bollo. Anzi no. Adesso non ci vuole più il bollo, o sì?"
"No, il bollo no, però ci vorranno tutti i certificati da presentare: certificato di nascita, di residenza, certificato di matrimonio, di sana e robusta costituzione, di iscrizione alle liste elettorali, carta d'identità."
Qualcuno ci mise il carico di briscola: "Penso che ci vorrà pure il certificato di esistenza in vita!"
Alfonso in fondo era un gran credulone e un tipo un po' beota, dunque si rivelava la vittima adatta.
"Sul serio tutti questi documenti!? Non ha importanza. Li presenterò, e poi che dovrei fare?"
"Guarda Fonsy" aveva detto il presidente, " secondo me, nella tua campagna dovresti creare un recinto adiacente alla casa, con reticolato molto fitto. Poi magari noi amici ti regaleremmo le prime quantità necessarie di lumache. Tu dovrai metterle nel recinto e badare alla riproduzione."
"Che maraviglia! Ma alt, un momento! Non aumenteranno a dismisura? Sapete, modestamente sono un esperto e so che si riproducono vertiginosamente."
Aveva assunto un'aria piena di sussiego, con il mento sollevato e il naso all'insù, come chi senta puzza sotto il naso.
A quel punto era intervenuto Dario, l'amico biologo che lavorava in un Istituto botanico: "Per questo ci penso io. Sai, Fonsy, gli ortolani e i giardinieri per combatterle usano delle sostanze polverulente, come cenere e calce, che esauriscono l'attività secretrice delle loro ghiandole mucose, provocandone la morte. Ti potrei fornire la polvere adatta che abbiamo in Istituto, in modo da arginare la riproduzione."
"Magnifico! Ma scusa, non morirebbero tutte?"
"Che c'entra! Tu dovresti spargere la polvere ai bordi del recinto, in modo da far morire solo quelle che tentassero di oltrepassarlo."
"Che meraviglia! Potrei raccogliere centinaia di migliaia di lumachine e venderle. Differenzierei le specie e alleverei un po' tutte le varietà."
Era eccitato ed euforico. Dunque si misero d'accordo sulle modalità per fargli iniziare la nuova attività e sui vari aiuti che gli sarebbero serviti.
Alfonso costruì con le sue mani il famoso recinto vicino alla casa e gli amici in una bella mattinata di sole, gli portarono due ceste ricolme di lumache.
Dario portò un sacco di innocuo sale fino e raffinato, spacciandolo per la famosa polvere lumachicida.
I preparativi furono molto divertenti perché vedere all'opera Alfonso, che quasi carezzava i cari molluschi, fu uno spettacolo tutto da ridere. Bagnò accuratamente la terra per renderla umida, pose dentro il recinto lattuga, barbabietole, bucce di patate. Sparpagliò le sue adorate lumachine e cosparse infine il reticolato di quella che credeva la polvere dell'Istituto di botanica.
Ma le risate più eclatanti per la combriccola di screanzati, furono quelle che li fecero sganasciare una settimana dopo.
Tornarono nella campagna di Fonsy e lo trovarono con le mani nei capelli mentre osservava un'invasione di lumache simile allo sbarco in Normandia!
Ce n'erano ovunque: oltre il recinto, sul prato, sulla casa, sui tronchi degli alberi, fra gli angoli delle aiuole, fra i mattoni del terrazzo, sulle finestre, sulle porte.
Alfonso pareva in preda ad una crisi isterica!
Vedeva ogni anfratto brulicante di uova, sulla superficie delle quali si erano formate le minuscole spirali del futuro guscio.
Si erano riprodotte a migliaia, a grappoli, formando un'enorme massa, una corazza di gusci. Avevano dato vita a composizioni bitorzolute; erano state capaci di lacerare molte foglie e fiori.
L'invasione degli Unni in confronto, pareva la gradita visita di quattro amici!
Alfonso camminava sui gusci che facevano rumore di ciottoli. Li calpestava e aveva l'impressione d'infrangere del vetro.
Sentiva odore di pesce marcio!
Non poté neppure entrare in casa, poiché le fessure risultarono bloccate e le cerniere delle porte incollate da quei dolci animaletti che lui aveva così tanto amato!
Gli amici, tra una pestata e l'altra di lumache, ridevano a più non posso e si contorcevano in preda ad eccessi d'ilarità.

 

ERMANNO

Giulio era un ragazzo sempre allegro e amante della vita. Era molto amico di Ermanno, un giovane paraplegico, costretto, ormai da diversi anni su una sedia a rotelle, a causa di un incidente: infatti, si era trovato sotto un palazzo in costruzione a Palermo, e una trave, sganciatasi da una gru, lo aveva preso in pieno sulla schiena.
Aveva rischiato di morire e per diversi giorni era stato tra la vita e la morte.
I medici dell'ospedale, alla fine, lo avevano salvato, ma non erano riusciti a restituirgli l'uso delle gambe.
Di sicuro non era una fortuna trovarsi vivo in quelle condizioni, ma se n'era fatto una ragione, trovando un diverso equilibrio in tutte le circostanze della vita. Si era reso presto autosufficiente, poiché la cosa che soprattutto lo avviliva e lo angosciava era il dover dipendere dagli altri. E poi si era sentito amato ancora da tutti. Stava in compagnia, conversava con la gente, andava al mare, che lui adorava. Aveva tanti amici, ma più di tutti gli era affezionato proprio Giulio, un giovane aitante, alto, bello, riccioluto e scuro di pelle. Passeggiavano e parlavano lungo la spiaggia, in tutte le stagioni, incuranti della sferza del vento invernale o indifferenti alla calura estiva.
La loro amicizia era fatta di complicità e confidenza assoluta. Si svelavano tutti i segreti ed ogni pensiero recondito. Al risveglio, entrambi erano felici pensando di poter rivedere l'altro.
Nessuno dei due aveva voluto frequentare l'università e, appunto, una cosa che li accomunava era la scarsa versatilità allo studio.
Tutte le domeniche i due ragazzi se n'andavano lungo il litorale. Nel primo pomeriggio non c'era nessuno per le strade ed essi si sentivano i padroni della città. Ermanno talora taceva assorto nella contemplazione del paesaggio e dell'immensa distesa del mare. Dopotutto, si meravigliava lui stesso del cambiamento del proprio carattere. Prima della disgrazia, non dava significato a molte cose che dopo si erano rivelate sotto una diversa luce. Aveva più tempo per rifletterci, per cui la vita aveva assunto una luce nuova anche nelle cose quotidiane, piena di valori sino ad allora sconosciuti. La città per esempio: la guardava con occhi nuovi e ne scopriva, ogni giorno, dimensioni inesplorate ed insospettabili. Il dedalo dei vicoli, così umani e caratteristici, per esempio; i vicoli di una Palermo affascinante ed antica, romantica e piena di miseria morale e materiale. Lui amava quella città, la amava con tutto se stesso, ed ora dalla sua carrozzella poteva meglio contemplarla ed assaporarla. Purtroppo era pure difficile camminarci e respirare in quelle strade piene d'inquinamento.
Una volta, Giulio gli aveva detto: "Non so quello che avrei fatto se fosse accaduta a me la tua stessa disgrazia!"
"Oh! Ti saresti abituato! Però, sai, vedi le cose in modo diverso, come se qualcuno ti aprisse improvvisamente gli occhi: allora ti accorgi della sporcizia delle strade, dell'inciviltà della gente e della miseria che ti circonda. Ma soprattutto ti accorgi che gli altri sono insensibili. Ti senti solo ed estraneo. Eppure vedi confusione e traffico dappertutto, e io, in queste condizioni, sapessi che fatica! "
Se non fosse stato per Giulio, che molto spesso lo accompagnava, certe volte non sarebbe riuscito neppure a tornare a casa. Lui stava bene solo vicino al mare. Lì non gli mancava nulla e neanche la sua condizione gli pareva più tanto tragica.
Il mare! Lo aveva amato sin da piccolissimo. Ne aveva sempre subito il fascino prepotente. Lo guardava e ne ammirava la maestà e la potenza infinita.
Prima, la sua passione più grande era stata quella di nuotare ed immergersi nelle acque di Mondello.
Era, per lui, un elemento familiare ed amico.
Gli avevano assicurato che avrebbe potuto egualmente fare il bagno in piscina, ma non era la stessa cosa. Non era come sentirsi libero e beato nel mare.
Aveva allora cercato d'immergersi, lasciando la carrozzella sulla spiaggia, ma c'erano volute quattro persone che lo aiutassero. Dunque vi aveva rinunziato.
All'inizio, aveva sofferto molto anche per le piccole necessità quotidiane, ma aveva poi trovato mille soluzioni, e riusciva sempre a cavarsela. Se proprio gli andava storta qualcosa o si spazientiva, se n'andava al cinema e questo lo distraeva e lo calmava.
Spesso si recava alla villa<Giulia>, dove trascorreva il tempo davanti la vasca dei pesci a conversare con i vecchi pensionati.
La vita trascorreva così. Era bella la vita per chi era stato ad un passo dalla morte. Ermanno la apprezzava più di tanti altri. Guardava il sole, il mare, i fiori, le montagne, e sapeva, con esatta cognizione cosa voglia dire essere sul punto di non rivederli mai più.
Le sue giornate trascorrevano con serena rassegnazione, un po' monotone in fondo, senza che accadesse mai niente di diverso.
Ma un giorno qualcosa avvenne e lasciò il segno per sempre.
Era Luglio, un primo pomeriggio domenicale.
Il caldo aveva fatto evadere tutti nei luoghi di villeggiatura, oppure al mare, dove la brezza leniva l'afa. In giornate come quelle le strade rimanevano deserte fino a sera.
Ermanno e Giulio si trovavano invece a passeggiare in un luogo solitario della città.
Giulio spingeva, come il solito, la sedia a rotelle e chiacchieravano felici e paghi ognuno della compagnia dell'altro.
Ogni tanto qualche automobile sfrecciava e li superava rompendo la quiete. I due amici si riparavano dal sole, fermandosi ogni tanto all'ombra di qualche albero. Si guardavano intorno e ritrovavano la loro Palermo tranquilla come ormai non era più. Rivedevano cose viste da sempre e di cui soltanto ora sembravano accorgersi. Specialmente per Ermanno era un vero piacere.
Ad un tratto, gridò: " Attento! " Infatti, aveva scorto una moto di grossa cilindrata che correva a folle velocità verso di loro. Sbandava paurosamente con un sibilo sinistro di pneumatici.
Fu questione di un momento: Giulio avvertì anche lui il pericolo e fece appena in tempo a spingere di lato la carrozzella dell'amico prima di essere investito. Il motociclista, nonostante l'urto, continuò la sua corsa.
"Giulio, Giulio, rispondimi!" esclamò Ermanno appena riavutosi dallo spavento.
L'amico giaceva a terra, senza sensi, piegato su se stesso come una marionetta. Un rivolo di sangue gli colava agli angoli della bocca, ma si capiva che era ancora vivo da come il torace si alzava e si abbassava.
"Oh per carità, Giulio! Aiuto! Aiuto! Aiuto!" gridava Ermanno.
Attorno non vi era anima viva.
Tentò di fermare con ampi gesti delle braccia un'automobile in transito, ma questa senza neppure rallentare, accelerò e sparì.
Aveva con sé il telefonino e cercò allora di chiamare il pronto intervento. Purtroppo però l'apparecchio risultava senza campo e non prendeva la linea. Riprovò infinite volte con mani tremanti e con il cuore in tumulto, ma niente da fare. Ricordò che l'amico aveva pure un telefonino in tasca e, forse, il suo avrebbe funzionato. Però l'investito era riverso su se stesso e sarebbe stato difficile arrivare a prenderglielo. Ci provò. Doveva fare sforzi sovrumani dalla sedia a rotelle. Si piegava in avanti, rischiava di cadere, ma non desisteva. Provava ad allungarsi e a mettere una mano sotto il corpo di Giulio, ma l'impresa era disperata. Mai come in quel momento aveva avvertito la miseria della sua condizione.
Alla fine, con uno strattone disperato, Ermanno riuscì ad estrarre il telefonino dal pantalone del ragazzo privo di sensi.
Fortunatamente, quest'altro apparecchio si collegò con l'ospedale.
"Pronto! Pronto! Fate presto! Mandate subito un'ambulanza in Via……Correte presto! C'è un ferito grave! Gravissimo!"
Parlò tutto d'un fiato, concitato, terrorizzato, allarmato oltre ogni dire.
Trascorse del tempo prima che avvertisse la sirena dell'ambulanza che si avvicinava e l'attesa gli parve interminabile. Era angosciato, disperato, ed ogni fibra del suo essere era vicina a Giulio.
Gli infermieri li caricarono entrambi sull'ambulanza, e, via, a sirene spiegate.
Ermanno aveva ripreso le forze e parlava raccontando l'accaduto. Parlava, parlava e guardava Giulio. Il suo Giulio pallido come un morto. Ma poco dopo, questi cominciò a lamentarsi e l'infermiere che gli teneva il polso disse laconico: " Secondo me, se la caverà benissimo."
Li portarono, a sirene spiegate, al Pronto Soccorso dell'Ospedale Civico di Palermo.
Qui Giulio ricevette i primissimi soccorsi e fu subito messo sotto osservazione.
Ermanno non lo abbandonò un secondo. Si allontanò per qualche minuto, solo dopo aver avuto l'assicurazione dei medici che l'amico non correva assolutamente pericolo di morte.
Telefonò ai familiari di Giulio. Riferire ed annunziare la terribile notizia a quei poveri signori sarebbe stata un'impresa assai difficile e grave. Si fece coraggio e compose il numero.
"Pronto, signora, sono Ermanno. E' accaduta una cosa gravissima. Giulio è stato investito da una moto, non è grave, ma i medici lo vogliono tenere sotto osservazione. Siamo al Pronto Soccorso dell'Ospedale Civico."
Dall'altra parte, silenzio assoluto.
"Pronto, signora mi sente? Giulio è ferito, ma non è grave."
A questo punto, sentì rispondere: "Stiamo arrivando." E tosto fu tolta la comunicazione.
Conosceva bene la madre del suo amico: in quel momento sarà stata come tramortita. Poveretta! E questo perché Giulio aveva voluto innanzi tutto salvare la vita di Ermanno.
La vita! Era proprio strana la vita! Ma bellissima. Un sentimento che va oltre ogni confine dell'umano aveva spinto Giulio ad agire, così spontaneamente. Non aveva pensato ad altro che a lui, ad Ermanno. Caro Giulio, non aveva pensato per niente a se stesso!
Dalla camera di rianimazione uscì, dopo mezz'ora, una bella ragazza in camice bianco. Era una infermiera. Vedendo Ermanno annunziò subito: " La prognosi è riservata; ciò che preoccupa i medici è una leggera lesione alla colonna vertebrale."
Ermanno sentì una fitta dolosa al cuore; proprio qualcosa di fisico che gli stringeva la gola e non lo faceva respirare.
La colonna vertebrale! Le gambe! Come lui, proprio come lui.
Se la lesione fosse stata permanente ed irreversibile, Giulio sarebbe stato condannato anche lui per sempre su una sedia a rotelle! Lo stesso destino. Ed Ermanno conosceva troppo bene il significato di quel destino. Sentì che le lacrime lo stavano assalendo, ma non doveva piangere. Aveva già da tempo imparato a non piangere su se stesso. Adesso doveva sforzarsi, doveva vincersi e frenarsi. Non doveva piangere neppure per Giulio. Ma era molto più difficile. Il suo amico era l'immagine della salute, della gioia di vivere! Aveva vent'anni ed era molto bello, alto, con spalle larghe e ben tornite. Con una carnagione che sembrava eternamente abbronzata e dei capelli nerissimi, ondulati, corti, e sempre spettinati. Giulio, che rideva sempre, che sapeva tenerlo allegro, con i suoi scherzi salaci e le sue battute irresistibili. Giulio che gli voleva bene e che glielo aveva sempre dimostrato in mille modi. Adesso aveva persino rischiato la propria vita per lui.
"Non piangere Ermanno! Non devi piangere. Lo devi fare per Giulio", si diceva il ragazzo.
Ma era un bel dire e un bel pensare: lacrime copiose gli scendevano per le guance mentre lui teneva la testa reclinata verso la sedia a rotelle.
"Non pianga", gli fece una voce " il suo amico non morirà di certo, non è gravissimo".
Era l'infermiera di poc'anzi che cercava di fargli animo. Gli sorrideva incoraggiante e quel sorriso era dolcissimo, sincero e fatto di denti bianchissimi e perfetti.
" Temo che possa aspettarlo la stessa mia sorte, vede", replicò Ermanno asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, "sarebbe terribile! Non è possibile! No, per Giulio non è possibile."
"Ma che dice, chi l'ha detto che potrebbe perdere l'uso delle gambe? " ribatté subito la ragazza,
"la lesione alla colonna è lieve e al momento non si può dire nulla."
"Quando sono divenuto io paraplegico, quattro anni fa, fu proprio a causa di una lesione alla colonna vertebrale". Ricordando quei fatti, Ermanno era divenuto pallidissimo.
"Mi dispiace molto, ma di certo il suo danno sarà stato devastante ed irreversibile, non sarà così,
per il suo amico, vedrà."
"Dio lo voglia, pensi che Giulio mi ha sempre chiesto come facessi a tollerare la mia situazione!" L'infermiera lo guardava con due occhi pieni di meraviglia. Erano castani o dorati quegli occhi? In ogni caso Ermanno li fissava incantato. Erano l'unica cosa che riuscisse a distoglierlo dalle sue preoccupazioni. E poi era difficile, anzi quasi raro, incontrare in un ospedale di Palermo un'infermiera cosi sollecita, gentile e disponibile. Per non dire che era pure una gran bella ragazza. E doveva avere all'incirca la stessa età di Ermanno. Quindi giovanissima, ventidue anni, più o meno.
Di lì a poco arrivarono i genitori di Giulio. Erano stravolti. Pallidi e tremanti non chiesero nulla a nessuno, ma i loro occhi erano rivolti ad Ermanno, occhi sgranati, atterriti e in cui una sola domanda era presente: " E' vivo? "
Il ragazzo si fece loro incontro con la sua carrozzella: " E' vivo, cosa credete? I medici lo tengono sotto osservazione perché ha un leggera lesione alla colonna vertebrale, ma non c'è nessun pericolo di morte."
Ebbe l'impressione di veder ritornare un po' di colore su quei due visi. Sì certo. La cosa importante era che fosse vivo. Ma lui aveva anche accennato al pericolo che correva Giulio. Però ormai lo sapeva: era meglio su una sedia a rotelle che morto. Ma era proprio vero ?
A questo punto i due signori lo subissarono di domande. Volevano sapere tutto: le ferite riportate, le fratture, se c'era trauma cranico, e infine, come era successo.
Ermanno non sapeva rispondere a quei particolari, se non in generale. Poi però iniziò a narrare ogni cosa sulla dinamica dell'incidente.
Quando giunse a raccontare della moto che sbandava e di come Giulio avesse voluto innanzi tutto proteggere lui, i genitori ammutolirono nuovamente, e con la testa china, volevano nascondere ognuno le proprie lacrime.
" Che ragazzo!" sbottò il padre " che ragazzo, questo mio figlio! "
La madre adesso singhiozzava.
"Non pianga, signora, sa, non dovrà mai farsi vedere piangere da Giulio."
"Hai ragione Ermanno, ma adesso vorrei proprio vederlo."
Stava ritornando l'infermiera di prima: " Siete i genitori? Tra breve lo trasferiranno in ortopedia;
l'elettroencefalogramma ha dato esito positivo, al cervello non ha nulla."
"E la colonna vertebrale?" fecero in coro i due signori.
"Appunto, va in ortopedia per essere del tutto controllato."
Poco dopo, infatti, su di una lettiga spinta da un altro infermiere, apparve Giulio.
Era irriconoscibile, col viso tumefatto e i capelli tutti insanguinati. Appena però si accorse della presenza dei suoi genitori, si affrettò a salutarli facendo un tremendo sforzo:
"Ciao papà, ciao mamma."
Quest'ultima fece: " Giulio! " E cercò di sorridere.
Via di corsa, l'infermiere lo sospinse verso l'ascensore: "Eroe, stiamo andando al reparto dei fratturati, ringrazia che non dobbiamo andare in rianimazione!"
Se dovevamo andare lì, mica me lo dicevi, giacché io non ti avrei sentito; pensò subito il ragazzo.
Arrivarono in una specie di camerata. Bello quel posto! Si sentivano gemiti un po' dappertutto. Adesso Giulio cominciava di nuovo ad addormentarsi. Stava benissimo quando dormiva. Era solo quando riprendeva coscienza che soffriva e avvertiva dei tremendi dolori ovunque. Ma perché si affannavano a tenerlo sveglio? Voleva dormire, e non pensare, non sapere. Anzi quando il fatto era successo, si era sentito improvvisamente come trasportato fuori da se stesso e si stava meravigliosamente. Tutti erano come lontanissimi e si affannavano attorno a lui senza sapere che stava benissimo e che avrebbe preferito che lo lasciassero in pace.
Nella corsia erano arrivati il padre, la madre ed Ermanno, ma Giulio dormiva.
Lo avevano lasciato con la lettiga in mezzo alla corsia, poiché non c'era più posto. Vicini a lui, vi erano due sposi novelli che avevano avuto un incidente d'auto appena partiti per il viaggio di nozze.
Entrambi si lamentavano. Poi arrivò la solita bella infermiera, e volle condurre la sposina nel reparto delle donne: " No! Lasciatemi qui con mio marito!" cominciò ad urlare. Le grida erano altissime e disperate. Giulio aprì gli occhi.
Il padre se ne accorse e gli si avvicinò: " Papà non preoccuparti! Me la caverò. Tuo figlio è coriaceo." Ma una fitta di dolore lo attanagliò al torace e lo fece tossire mentre stringeva gli occhi.
"Stai zitto figlio, non parlare." Prima di chiudere di nuovo gli occhi, il ferito si era accorto che il padre piangeva. Quel papà sempre scherzoso, che non piangeva mai, adesso pareva una fontana.
E perché? pensava Giulio, cosa aveva saputo? Di certo lui le gambe non le sentiva più. Anzi le sentiva, ma non riusciva a muoverle. E poi che dolere al petto! E alla schiena e alla fronte!
Eroe, lo avevano chiamato eroe, ma perché? Ah! Si, forse ora ricordava: aveva voluto a tutti i costi spingere di lato la carrozzella di Ermanno, e non aveva guardato più la moto che arrivava.
Accidenti a quel motociclista! Correva che pareva un razzo!
Ma che dolore, porca miseria, che dolore! Però Ermanno stava benissimo, e questo lo faceva sentire importante. Il dolore stava aumentando. Più ritornava la coscienza e più aumentava il dolore.
Ma perché non lo avevano lasciato in santa pace! No, invece tutti attorno a svegliarlo. E adesso i dolori li sentiva lui. Tra poco sarebbero divenuti insopportabili, anzi già lo erano.
Cominciò a lamentarsi. Capiva poco, sapeva solo che quel dolore generale era tremendo. Sentiva un bruciore in tutto il corpo. Era come se avesse fuoco in testa. Voleva trattenere i gemiti, ma quelli uscivano da soli dalla sua gola.
La madre gli fu accanto: " Giulio, tesoro, adesso chiamo l'infermiera."
Di lì a poco sopraggiunse la solita infermiera con un sedativo.
Gli praticò un'iniezione e il ragazzo si tranquillizzò e si addormentò.
Ermanno chiese di poter restare con lui durante la notte, ma furono mandati via tutti. Anche la mamma dovette andarsene nonostante le sue insistenze.
L'indomani furono effettuati su Giulio tutti i controlli del caso e risultò che aveva entrambi i femori rotti, una clavicola e due costole fratturate e la famosa lesione alla colonna vertebrale. Di quest'ultima però, non si poteva ancora stimare l'entità e la gravità. Per giunta era meglio non farne cenno al ferito.
Non ci fu giorno, successivamente, che Ermanno non gli fosse accanto. Anche quando lo operarono per ridurre le fratture ai femori ed alla spalla, l'amico non lo lasciò mai. Sempre fuori dalla sala operatoria in attesa. Le operazioni andarono tutte benissimo.
Però aveva sempre dei fortissimi dolori alla schiena. I medici gli dicevano che ancora non poteva muoversi per via delle costole rotte.
Un giorno l'ammalato chiese a bruciapelo: " Ermanno cosa ho alla schiena?"
La carrozzella era vicinissima al letto di Giulio: " Hai le costole a pezzi e devi stare immobile affinché si rinsaldino", però la voce di Ermanno tradiva la bugia.
"Perché allora mio padre e mia madre sono sempre tristi, in fondo, sta andando tutto bene."
"Ma perché in ogni caso non è bello quello che ti è successo, che domande!"
"Ermanno, tu non hai mai saputo mentirmi, anche questa volta ci riesci male, dai, dimmi la verità, cosa ho alla colonna vertebrale?"
Com'è la vita? Bella o brutta? In questi casi è orribile. Come si fa a dire ad un amico: " Guarda che forse resterai anche tu su una sedia a rotelle come me."
"Giulio non domandarlo a me, chiedilo ai dottori."
"Ho capito, ho qualcosa di brutto alla schiena " ed Ermanno taceva.
"Anzi, ho qualcosa alla colonna vertebrale", e l'amico continuava a tacere con la testa bassa.
"No! " urlò Giulio " Non è possibile! No, no, no! "
Accorse la solita infermiera: " Cosa è successo? Giulio che hai? " e guardò l'altro, aspettando una risposta.
"Dice d'avere qualcosa alla colonna vertebrale." Ermanno era pallidissimo e stringeva con le mani i braccioli della carrozzella.
"Hai ragione Giulio, i dottori hanno riscontrato una lesione alla colonna vertebrale."
Emanuela, questo era il nome della ragazza, era seria e un po' triste, ma non guardava Giulio con compassione. Questi cercò di sollevarsi dal letto e gridò: " Anche io, vero? Anche io resterò su una sedia a rotelle?"
"No, non è detto, la lesione non è grave", ed Emanuela sorrideva.
Adesso erano rimasti soli e l'ammalato le aveva afferrato la mano.
"Stai mentendo Emanuela, vuoi illudermi."
"No, e perché? per prenderti in giro? E' vero, i medici affermano che non è grave, ma che bisogna attendere il decorso generale del tuo stato di salute ed il saldamento della lesione, solo allora si potrà dare un responso ufficiale."
Il ragazzo voleva crederle, doveva crederle. Anche lui ora sorrideva. Con quei suoi denti perfetti e bianchissimi, Giulio, era proprio bello. Ma chissà perché, Emanuela preferiva Ermanno; sarà stata forse compassione o senso materno di protezione, ma l'infermiera provava una fortissima attrazione per il paraplegico e le sue simpatie erano rivolte sempre a lui, sempre verso di lui.
Ed Ermanno se ne era accorto. Si sentiva lusingato per questo. D'altra parte, come si faceva a restare indifferenti nei confronti di una così bella ragazza?
Qualche istante dopo, ricomparve Ermanno: " Allora, Giulio, ti sei tranquillizzato? "
"Si, Emanuela è riuscita a tranquillizzarmi", e l'ammalato la guardava con occhi adoranti. Questa era una novità. Fino a quel momento, Giulio l'aveva osservata solo con molta ammirazione.
Ma la ragazza gli si fece subito incontro: " Hai visto Ermanno ?Adesso è sereno, ha capito che deve aspettare e pazientare."
Gli occhi di Giulio ora esprimevano un po' di gelosia, poiché l'infermiera era stata molto sollecita e affettuosa nei confronti dell'altro.
Ma che strana faccenda! Il suo amico si stava innamorando di Emanuela. E lui? Lui non era già forse invaghito di quella ragazza dagli occhi nocciola e dolcissimi? Una ragazza come poche, sempre presente sul posto di lavoro, disponibile, che considerava il suo operato come una missione.
Per lei ci voleva un uomo sano e robusto. Ci voleva un tipo come Giulio, amante della vita, solare, bello, il suo Giulio insomma.
La giovane gli disse all'improvviso: " Ermanno mi offri un caffè? "
Non poteva rifiutare: " Si, certo! Giulio torniamo subito", e gli occhi di quello erano ancora colmi di gelosia.
Si recarono al bar dell'ospedale e consumarono due caffè. Emanuela adesso aveva proprio l'atteggiamento di una ragazza che vuol farsi corteggiare poiché prova simpatia ed attrazione per il ragazzo che l'accompagna. Ma come faceva a provare attrazione per un paraplegico come lui? Le strade del cuore sono proprio strane!
Non si rendeva conto, però, Ermanno, di quanto fosse bello lui, proprio lui, con il suo mezzo busto aitante, il suo viso mascolino, non perfetto, ma molto attraente, con le sue fossette sulle guance che si accentuavano moltissimo non appena sorrideva. Ermanno sarebbe piaciuto a qualsiasi ragazza, se solo fosse stato sano e normale.
"Sai " fece l'infermiera " vorrei qualche volta uscire con te, prendere il posto di Giulio e accompagnarti in giro per la città? Ti piacerebbe? "
Caspita se gli sarebbe piaciuto!
"Sì certo, mi piacerebbe, ma questo vorrebbe dire quasi sostituirti al mio amico."
"Che centra! Lui resterebbe sempre l'amico che ti accompagna quando può."
"Guarda che Giulio poteva sempre."
"Ho capito, niente da fare! Preferisci la compagnia di Giulio alla mia."
"Ma che dici, sarei un vero scemo o altro…….., se così fosse!"
"Allora quando usciamo?"
"Per ora verrò ogni giorno qui per Giulio, quando si saprà di lui qualcosa di sicuro, allora decideremo."
"D'accordo allora, intesi, sono proprio contenta."
E' strana la vita, è propria strana! Quella ragazza così bella era contenta di uscire con un paraplegico!
Tornarono da Giulio, lo trovarono un po' imbronciato, ma subito sollevato di rivederli.
"Ermanno sai che mi sento meglio? Mi sento più forte, sarà la continua vicinanza di Emanuela!"
Il ragazzo sorrideva scherzoso. In quel che diceva però, si intuiva l'esatta realtà.
"Questa sì che è una bella notizia! " fece l'amico " Vedrai che tra poco ti sentirai in grado di camminare."
L'indomani Ermanno era puntualmente al fianco di Giulio.
"Come va? Come ti senti oggi?"
"Sempre meglio, davvero, sempre meglio. Spero che i medici presto si pronuncino, ed in senso positivo, ovviamente."
"Succederà, vedrai che presto succederà", ed Ermanno esprimeva, sinceramente, tutta la sua
solidarietà.
Arrivò Emanuela. Quando c'era Ermanno, la ragazza pareva materializzarsi all'improvviso.
Ma anche questo dava un po' fastidio a Giulio. Che brutta cosa la gelosia! Uccide i sentimenti più nobili!
"Ragazzi, una bella notizia! Oggi rifaranno la radiografia alla colonna vertebrale di Giulio e, se la lesione si è saldata perfettamente, controlleranno tutto il resto. Insomma, le cose si stanno mettendo proprio bene!"
Il viso di Giulio esprimeva una gioia grandissima.
"Vieni Ermanno, oggi te l'offro io il caffè". In pochi attimi invece, lo stesso viso si era rabbuiato.
Porca miseria! Ma come era possibile tutto ciò?
"Senti Emanuela, oggi non mi va di prenderlo, scusa sai, fai conto che lo abbia accettato."
Arrivarono gli infermieri per trasportare Giulio in radiologia.
Emanuela dovette seguirli ed Ermanno restò solo a rimuginare. Sì, era così, il suo amico si era innamorato di quella bella ragazza.
Trascorse circa un'ora. Quindi ritornarono tutti. Giulio era radioso: la lesione, dopo tanti giorni di immobilità, si era perfettamente rinsaldata, e questo anche grazie alla sua giovane età e alla sua robustezza.
"Adesso rifaranno di nuovo tutti i controlli" disse Emanuela "ma le aspettative sono delle più incoraggianti."
Oh! Finalmente! L'incubo stava per avere un epilogo. Ermanno se ne voleva andare, sentiva il bisogno di restare solo. Tra l'altro, voleva lasciare soli quei due.
"Dai, Ermanno, ora dobbiamo proprio andare a festeggiare", ed Emanuela era proprio invitante ed affettuosa. Come dirle di no? Ma tutta la gioia era scomparsa dal volto di Giulio.
"Va bene, un caffè e poi vado via. Giulio sono proprio contento. Tornerò più tardi."
L'amico non rispose. Chissà, forse avrebbe voluto dirgli: " Per me, puoi anche non tornare!"
Quel caffè, infatti, gli andò per traverso. Salutò la ragazza che lo guardava stranita e se ne andò.
Ritornò dopo venti quattro ore. Avevano già rifatto tutti i controlli e la notizia era strepitosa: non c'era nessun altro danno; di lì a pochi giorni, il degente avrebbe potuto iniziare la fisioterapia per la rieducazione degli arti inferiori.
Abbracciò l'amico che era ritornato sereno e sorridente. A questo punto, si sentì abbracciare da Emanuela: "Hai visto Ermanno? Tutto a posto! Ve lo avevo detto io!"
Il viso di Giulio era ritornato turbato. Da quel momento in poi il suo stato d'animo sarebbe dipeso dalle azioni e dal comportamento della ragazza.
Ermanno restò con loro tutto il giorno, ma aveva preso la sua decisione: non sarebbe più tornato in ospedale.
Verso sera abbracciò l'amico fortemente. Quella, sarebbe stata l'ultima volta che lo vedeva, ma Giulio non lo sapeva: " Ciao Ermanno, ci vediamo domani."
"Sì certo", mentì e diede la mano ad Emanuela. Anche lei non l'avrebbe più rivista. La ragazza avvertì qualcosa di strano in quel saluto, ma non disse niente.
Nei giorni successivi lo avrebbero cercato, lo sarebbero subissato di telefonate, ma lui si sarebbe sempre negato. Alla fine si sarebbero stancati, e chissà, forse avrebbero anche capito!
Fu fuori, all'aria aperta, con la sua carrozzella, solo. D'ora in poi sarebbe stato sempre solo, senza Giulio.
Portava avanti la sedia a rotelle con la morte nel cuore. Non si era mai sentito così disperato. Aveva tanto sofferto per la sua condizione, ma la vicinanza dell'amico era stata sempre il miglior toccasana.
All'improvviso si accorse di avere di fronte il mare: no, non era solo! C'era il mare! Ci sarebbe stato per sempre il mare! Il suo mare, il mare di Palermo!

 

Peripezie di un libro

Era un libro piccolino, rilegato in cartoncino lucido.
L'immagine di copertina rappresentava un fiore azzurro su uno sfondo chiaro.
La sua veste tipografica era senza pretese, con una brossura normale e senza prefazione nell'occhiello.
Conteneva la storia di una ragazza che era riuscita a dare una svolta alla propria esistenza grazie alla sua passione per la scrittura.
Stampato e pubblicato in varie copie, aveva riscosso molto successo, seppure in sordina. Infatti la sua autrice era un esordiente e, come tale, snobbata e ignorata dagli addetti ai lavori.
Una delle copie era stata acquistata dalla cugina Erminia per farne una strenna natalizia ad un'amica. Il dono era stato accompagnato dalla raccomandazione di poterlo riavere in prestito, dopo che fosse stato letto.
L'amica divorò il romanzo in meno di tre giorni. Si appassionò alla storia e ne parlò entusiasticamente al telefono con la sorella. Naturalmente quest'ultima, incuriosita, insistette per averlo prestato.
"Riportamelo al più presto, " avvisò la proprietaria "perché lo devo prestare a chi me l'ha regalato."
Invece la sorella leggendolo, se ne appassionò tanto che credette opportuno parlarne a Laura, la sua più cara amica, la quale a sua volta, lo volle prestato.
"Dai ti prego, portamelo a casa e te lo restituirò subito."
La famosa sorella uscì da casa annunziando al marito che si stava recando da Laura.
Il consorte però non sapeva del cambio di domicilio di quest'ultima. Quando incontrò per caso la moglie da un'altra parte della città, fu colto da eccessi di gelosia.
"Perché mi hai detto una menzogna? Con chi ti dovevi incontrare?"
Ci volle del tempo e grandi arti di persuasione per convincerlo del fatto che il libro era stato recapitato al nuovo indirizzo di Laura.
Questa adesso viveva con la madre che era un'anziana signora molto stordita e svanita. Tra l'altro era maniaca dell'ordine e, vedendo il romanzo sul tavolo della cucina, pensò bene di riporlo dentro il frigorifero. La figlia trascorse un'intera giornata a cercarlo.
"Scusa, perché lo hai preso? Dove l'hai messo?"
"Non so, non ricordo, però ho messo tutto al suo posto."
Fu ritrovato verso sera tra uova, prosciutto, scatolame e barattoli vari. Poi alla fine Laura lo lesse e fu avvinta dalla storia che vi veniva narrata. Quindi ne parlò con suo fratello Giuseppe.
"Senti, mi hai fatto venire la curiosità, prestamelo," disse lui "te lo restituirò subito."
Il libro transitò quindi nelle mani di costui che, di lì a poco, si recò nella villa dei suoceri per una breve vacanza. Giusto gli parve portare con sé il libro per leggerlo in relax. Quella era una dimora assai bella, di gente benestante, piena di mobili, quadri e porcellane antiche. Per causa del libro, fu distrutta una di quelle porcellane tanto care alla suocera. Si trattava di un'anfora preziosa posta su una piccola colonna di marmo.
Il nipotino di sei anni aveva preso il libro dello zietto e ne aveva danneggiato alcune pagine. Poi intuendo la monelleria commessa, aveva cercato di nasconderlo dentro l'anfora, ma proprio in quel momento Giuseppe aveva urlato: "Cosa stai facendo col mio libro?" Il bambino si era spaventato ed aveva mandato in frantumi il vaso antico.
Comunque il romanzo era stato recuperato e, dopo qualche tempo, restituito a Laura.
Lei s'affrettò subito a restituirlo alla sorella della legittima proprietaria, che poi ne tornò in possesso.
Ora poteva prestarlo e farlo leggere ad Erminia, che l'aveva acquistato, donato, ne aveva udito parlare in termini lusinghieri, ma non era mai riuscita a posare gli occhi su quelle pagine.
Erano trascorsi due mesi da che l'aveva regalato, e poteva finalmente leggerlo in santa pace, costatando di persona se veramente meritasse tutto il clamore che aveva suscitato tra i suoi amici e conoscenti.
Si dispose dunque alla lettura, ma il suo cane reclamava di essere condotto a passeggio.
"Aspetta Bobby, usciremo più tardi."
Macché! Il barboncino bianco abbaiava, la tirava, le saltava addosso e non le consentiva di leggere.
Erminia si rassegnò ad uscire e, inavvertitamente, si mise il libro sotto un'ascella.
Passeggiava pazientemente ed osservava tutte le pipì del cagnolino legato al guinzaglio, quando fu avvicinata da Girolamo, suo collega d'ufficio.
"Ciao carissima! A passeggio col cane? Ma cos'hai sotto il braccio, un libro?"
Lei abbassò gli occhi, guardò bene e s'accorse del gesto involontario che aveva compiuto.
"Oh sì! E' un libro che sto leggendo, anzi devo ancora iniziare a leggerlo. Mi hanno detto che è graziosissimo."
"Davvero? Se ancora non lo hai iniziato, prestamelo." E così dicendo le sfilò il volume dall'ascella.
"No, no, non è possibile! Ridammelo. Lo devo restituire a mia cugina cui l'ho regalato e che me l'ha prestato."
Gli tolse dunque il libro dalle mani. Ma Girolamo non si diede per vinto. A sua volta glielo tolse e insistette:
"Che fretta c'è? Dai, lo leggo e te lo restituisco subito."
"Ho detto di no! Mi dispiace, dammelo."
Bobby nel frattempo osservava questa scena col nasino all'insù e la testolina piegata da un lato.
Alla fine Erminia si convinse e lasciò il libro al collega.
"Riportamelo al più presto in ufficio. Lo voglio leggere anch'io accidenti!"
Ora si dava il caso che Girolamo fosse segretamente innamorato di lei.
Prima di riportarglielo, nascose fra le pagine del romanzo una lettera in cui le dichiarava tutto il suo amore. Un amore appassionato, segreto e inconfessato, celato per timidezza e paura di essere rifiutato e deriso.
Quando lo riportò in ufficio, chiese ad Erminia di non toccare il libro se prima non fosse tornata a casa.
"Ma perché scusa? Non capisc…." Nel dire così, si accorse che dentro vi era qualcosa. Per discrezione, aggiunse:
"Va bene, va bene, come vuoi."
Naturalmente la curiosità cominciò a roderle dentro e non vide l'ora che finisse quella giornata di lavoro. Andò via mezz'ora prima del consueto.
Quando arrivò a casa, Bobby l'accolse tutto festante e, more solito, iniziò a tirarla e a saltare per essere condotto fuori ad espletare i suoi bisogni.
"Stasera dovrai aspettare Bobby! Ho una cosa molto più importante da fare."
Il cagnolino si arrestò sorpreso e deluso, ed osservò le azioni della sua padrona.
Con enorme premura, Erminia aprì il libro e trovò la lettera di Girolamo. La svolse con crescente curiosità ed agitazione. Aveva sempre considerato il collega un vero amico e un confidente insostituibile, con cui ridere e intrattenersi volentieri sul luogo di lavoro.
Mai si sarebbe aspettata una dichiarazione di stile ottocentesco!
Aprì la missiva e lesse:

Cara Erminia,
ti parrà strano il fatto che ti scrivo, giacché ci vediamo ogni giorno e ci parliamo di continuo. Ma ciò che sto scrivendo non sarei mai capace di pronunziarlo a voce e con parole compiute.
Da quando, tre anni fa, sei stata assunta nel nostro ufficio e ti ho conosciuta, ho cominciato ad amarti, dapprima inconsapevolmente, poi pian piano mi sono reso conto di non poter fare a meno di te. Non te l'ho mai dimostrato e tu non l'hai mai sospettato,
perché mi sono sempre guardato dal farti capire qualcosa, nel timore che ti allontanassi da me. Ma ti amo Erminia, amo il tuo carattere dolce, il tuo viso solare e i tuoi modi affabili. Il tuo sorriso spontaneo illumina le mie giornate. Ridere insieme a te riempie di gioia la mia vita. Tu sei single come me, e come me vicina agli …anta. Saresti la compagna ideale. Per te sono sempre stato l'amico fraterno e il collega complice, e quindi forse ho poche speranze di essere ricambiato. Se così è, straccia questa lettera e domani quando mi rivedrai, sorridimi e io capirò. Se per puro caso, non ti sono indifferente come uomo ed eventuale compagno, prendi il telefono e chiamami. Mi renderai la persona più felice della terra.
Un caro abbraccio
Tuo Girolamo

Erminia rimase con la lettera a mezz'aria e la rilesse circa una decina di volte.
Non poteva credere a quello che vi era scritto!
Intanto Bobby, arrabbiatissimo, ogni tanto abbaiava e la guardava senza sortire alcun risultato. Infatti la padrona era tutta compenetrata in quella lettera che le aveva fatto risvegliare ancestrali voglie di compagnia maschile e di romanticherie.
Il cagnolino intuiva che tutto questo scombussolamento in Erminia era prodotto da qualcosa che aveva a che fare col libro, il quale nel frattempo era stato lasciato su una poltrona dell'ingresso.
Il cane, colto dalla gelosia, andò ad afferrarlo e cominciò a scuoterlo con i denti, poi se lo mise sotto le zampine e iniziò a lacerarne le pagine. Faceva questo ringhiando e sfogando la sua rabbia, mentre il libro si andava decomponendo sempre più in fogli sparsi.
Di tutto ciò, la padrona non s'accorgeva poiché era presa e compresa a pensare a Girolamo.
Dopo circa un'oretta, prese il telefono e chiamò il suddetto che, all'udire la sua voce, ebbe l'impressione che i violini suonassero, le campane rintoccassero e gli angeli cantassero!
Prima di andare a letto, Erminia cercò il libro per leggerlo e lo trovò squinternato, distrutto e lacerato.
L'indomani volle riacquistarlo e lo cercò in tutte le librerie, ma era esaurito.

 

Sul lago Dahl

Un bus stracarico di uomini, avvolti nei loro turbanti, arrancava per una strada impervia della regione del Kashmir indiano. I poveretti erano stipati dentro un malandato veicolo ed alcuni sedevano pure sul tetto.
Ad una curva, le ruote slittarono sulla fanghiglia ed il conduttore perse il controllo del mezzo.
Si udì il sibilo dei freni, poi uno sferragliare meccanico.
Al di sotto della strada, un burrone scendeva verso le rive del lago Dahl.
Impennandosi di fianco, il bus si capovolse ed iniziò a precipitare in quella scarpata.
Urla, gente schizzata fuori, rumori raccapriccianti. Poi niente. Solo un silenzio di morte, interrotto ogni tanto da qualche esile lamento.
Con la sua jeep, in quel momento, si trovava a passare il tenente italiano Mauro Bei, del gruppo Osservatori delle Nazioni Unite.
Era un ufficiale di carriera e s'era arruolato nell'ONU per allontanarsi dal reggimento ove prestava servizio e soprattutto da Gianni, suo amico di sempre.
Quanta invidia, quanta acrimonia avevano rovinato la loro solidarietà!
Facevano entrambi lo stesso mestiere di militari abituati alla disciplina, al senso del dovere. Ma la rivalità e il desiderio di primeggiare sono come l'acqua che, prima o poi, corrode i ponti. Ed avevano corroso i loro rapporti.
Adesso Mauro era sereno, lontano migliaia di chilometri e sempre a contatto con della gente completamente diversa da quella che aveva mai conosciuto. Gente povera, ma dalle antiche tradizioni, che il progresso aveva scalfito appena. Gente dallo sguardo dolce e rassegnato.
Con il suo gruppo di ufficiali Osservatori, viveva lavorando molto spesso alla radio, da cui comunicava, in lingua inglese, tutto ciò che poteva aiutare a mantenere la pace tra due popoli fratelli, ma divisi da due religioni diverse, in quel lembo del mondo, in quella terra tormentata sulla linea del <cessate il fuoco> tra l'India e il Pakistan.
Nei giorni di riposo, aveva viaggiato ed aveva conosciuto posti incantevoli. Aveva fatto esperienze nuove ed aveva iniziato ad abituarsi alle usanze, al cibo, alla lingua di quelle persone.
Che paesaggi affascinanti! Nei suoi occhi, quanti monumenti antichi che affondavano le loro radici nel cuore dell'umanità!
Aveva preso ad amare quei luoghi, a scoprirli sempre con rinnovato piacere.
Gli ufficiali alloggiavano molto spesso case galleggianti sul fiume Dahl. In quel periodo, Mauro occupava una house-boat, insieme ad alcuni colleghi.
Ricevevano ospiti importanti e avevano a servizio un personale costituito da Kashmiri di nazionalità indiana, ma di fede musulmana e cuore pakistano.
Settimanalmente, un piccolo aereo da trasporto canadese, atterrando nel vicino aeroporto, depositava per loro tante varie ed abbondanti derrate alimentari ed ogni altro genere di necessità.
Una sera, erano arrivati da Srinigar degli uomini anziani e gli ufficiali li avevano invitati a cena.
Mentre mangiavano, uno dei più vecchi aveva cominciato a narrare una antica leggenda del Kashmir.
"Quando guardi le stelle" aveva detto "e in una di loro intravedi una persona cara, ma non ne sei sicuro a causa della distanza, volgi lo sguardo dalla tua house- boat verso le acque del lago Dahl.
Se quella persona ti vuol bene, la vedrai rispecchiare nelle sue dolcissime acque."
Così nelle notti successive, Mauro cominciò a guardare gli astri stando seduto sul terrazzino della sua casa galleggiante.
I riflessi della luna sulle sponde del lago creavano un'atmosfera irreale, di sogno. In lontananza, s'intravedevano le ombre di alcune antiche pagode,
gli alberi stagliavano contro il cielo le loro fronde come tante braccia
protese in preghiera.
Sarà stata la suggestione o quel paesaggio da fiaba, ma il tenente aveva proprio l'impressione di scorgere, nelle stelle, il viso di Gianni.
Con quel ragazzo aveva condiviso tutta una vita! Erano stati amici per la pelle, confidenti, complici in tante avventure.
Poi il lavoro li aveva divisi, ma l'amicizia è dura a morire quando si cresce, si studia, si gioca assieme.
Gianni! Ricordava le risate, i divertimenti, gli scherzi.
Ancora nessuno dei due aveva trovato la ragazza adatta cui vincolare la propria libertà. In vero ci avevano provato spesso, ma con scarsi risultati.
Mauro aveva conosciuto suor Priscilla, in una Missione cattolica, un po' scuola un po' ospedale.
Faceva parte della congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta.
Era una oscura suorina, ma santa anche lei. Giovane, alta e slanciata, sempre sorridente e pronta a sacrificarsi per i suoi poveri. Proveniva dall'Italia come lui e l'aveva subito affascinato con i suoi occhi di un azzurro intenso.
Alla dogana, suor Priscilla contrabbandava oggetti utili per i suoi assistiti.
L'aveva scoperta un giorno mentre diceva che, nel pacco ricevuto, c'era solo Holy Mary.
L'aveva ammirata per il suo coraggio e ne era divenuto complice.
Adesso, quando poteva, s'industriava per aiutarla nel suo lavoro d'assistenza ai poveri e agli ammalati.
Quindi, il senso della sua vita aveva acquistato un valore diverso. Si sentiva utile e soddisfatto.
Quando rivedeva la suora, il cuore subiva un arresto. La guardava estasiato. Avrebbe voluto curare quelle mani tutte sciupate da umili lavori.
Nelle stelle, sul lago Dahl, vedeva il volto soave di Priscilla, ma se si volgeva alle acque, non lo vedeva riflettersi. E sapeva bene il perché.
Il suo era un amore impossibile!
Una volta alla dogana, s'era accorto che la suora s'era messa nei guai.
Era prontamente intervenuto e si era fatto garante per lei, in qualità di ufficiale delle Nazioni Unite.
"Grazie tenente," gli aveva detto in seguito "non scorderò mai la sua bontà!"
Quegli occhi che lo guardavano erano più azzurri di ogni cielo azzurro.
Non l'aveva più rivista da parecchi giorni e sapeva che era andata a soccorrere un gruppo di disperati senza tetto, che volevano trovare rifugio in qualche luogo.
La jeep dell'ONU, guidata da un caporale indiano, procedeva celermente lungo la strada che costeggiava il lago, quando era avvenuto il disastro.
Mauro, a poche centinaia di metri, aveva assistito all'incidente. Ordinò di frenare ed all'istante balzò giù dall'auto. Si affacciò sull'orlo della scarpata e scorse uno spettacolo tremendo.
Un fumo denso si alzava dal bus ridotto in rottami e corpi inerti e lacerati erano sparsi ovunque.
Si precipitò giù nel burrone per dare aiuto ai malcapitati e ai sopravvissuti.
D'un tratto, si sentì chiamare: "Tenente! Venga mi aiuti!"
Si volse e dietro un grosso sasso, vide suor Priscilla china, accanto ad un moribondo.
"Sorella! Lei qua! Oh per carità, come sta, cosa si è fatta?"
La sua voce era allarmata, ansiosa.
"Mi aiuti a trasportare questo poveretto. Vede, è ancora vivo, bisogna portarlo all'ospedale. Ce ne saranno altri. Chiami soccorso alla radio. La prego!"
"Sì, ma lei come si sente, può alzarsi?"
"Io sono illesa. Il buon Dio mi ha protetta, ma dobbiamo darci da fare per tutti gli altri."
Era ricoperta di polvere ed aveva l'abito talare strappato, ma si alzò repentinamente.
Mauro s'avvicinò al ferito e, con sua enorme meraviglia, ravvisò in quel viso agonizzante un'incredibile rassomiglianza.
I capelli lisci e neri incorniciavano un viso bruno assai bello. Era un viso molto simile a quello di Gianni.
Com'è strana la vita! Non era lui, ma lo ricordava in maniera straordinaria.
Non pensava più a Priscilla, guardava il ferito come inebetito.
"Tenente! Presto! Non bisogna perdere tempo!"
Se lo caricò sulle spalle e cominciò la salita della scarpata con quel peso non indifferente.
Arrancava e ad ogni passo che compiva, aveva l'impressione d'avere una montagna addosso e questo perché doveva procedere in salita.
Quando era disceso non s'era accorto di quanto fosse ripida.
Il caldo era terribile e riusciva a stento a respirare per la fatica.
La suora gli stava dietro e cercava d'aiutarlo in qualche modo.
Quando finalmente arrivò stremato alla jeep, adagiò sui sedili il ferito che si lamentò e pronunciò qualche parola sconnessa.
La voce! La stessa voce di Gianni!
Doveva essere proprio vero quell'antico adagio secondo cui, nel mondo, siamo in sette ad essere quasi identici.
Mauro accese la radio e cominciò a chiedere soccorso ai suoi colleghi designando il punto preciso dell'incidente.
Di lì a breve sarebbero sopraggiunti in forze per recare aiuto ai sopravvissuti.
La suora si sedette accanto a lui e s'avviarono verso il più vicino ospedale.
Quando vi arrivarono, compresero che per quel poveraccio vi erano poche speranze.
Fu praticato ogni intervento necessario e suor Priscilla gli restò sempre accanto per alleviargli le sofferenze.
"Come ti chiami? Hai famiglia?" gli aveva chiesto.
"Mohamed," aveva detto in un bisbiglio.
Aveva lo sterno e lo stomaco fracassato.
S'era lamentato in preda a dolori atroci e lei gli aveva stretta la mano, gli aveva bagnato la fronte, lo aveva carezzato, aveva fatto tutto il possibile per non farlo soffrire troppo. Aveva finanche chiesto che gli somministrassero della morfina.
Mauro non s'era mai allontanato ed aveva profondamente ammirato lo spirito d'abnegazione di quella donna. Suor Priscilla aveva un unico scopo nella vita: servire gli altri. In specie gli ultimi degli ultimi, i sofferenti e i moribondi.
Mohamed aveva esalato l'ultimo respiro e lei l'aveva aiutato a morire in pace.
Che impressine però! Era stato un po' come veder morire il suo Gianni.
Dopo qualche ora, erano sopraggiunte le station wagon dell'ONU che recavano gli altri feriti, e i giornalisti locali che chiedevano notizie sull'incidente. Gli avevano domandato come si chiamasse, ma non aveva voluto rispondere.
Aveva fatto ritorno alla sua house-boat, accompagnato solo da una grande tristezza.
Il giorno dopo, come anonimo Osservatore delle Nazioni Unite, aveva provato l'intima soddisfazione di leggere, sul giornale locale, di un ufficiale italiano che aveva soccorso invano il fu Mohamed.
Il lago Dahl continuava a rispecchiare un volto: il volto di Gianni.
La malinconia aveva cominciato ad aleggiare sul sorriso di Mauro.
Ma un giorno, "segno di quella Provvidenza Divina che tutto vede e che consola", come diceva un grande scrittore, una telefonata gli giunse da lontano: "Hallo Sir. A call from Italy. Hold the line."
"Pronto, sono il tenente De Cesari. Sono Gianni De Cesari e vorrei parlare con il tenente Bei."
La sua voce!
D'un tratto, Mauro ricordò quando al liceo avevano studiato Aristotele che, interrogato su cosa fosse un amico, aveva risposto che è un'anima che vive in due corpi.
"Sono io! Gianni sono Mauro!"
Le due voci attraversavano L'Asia e L'Europa, ma in quel momento erano vicinissime poiché i cuori battevano all'unisono.
"Ehi scemo! Come va!?"
Per un corpo ammalato occorre il medico, ma per l'anima ci vuole l'amico. E si sentiva già meglio.
"Gianni dove sei? Come stai?"
"Sto bene, ma mi va di rivederti. Senti, siccome da domani sono in ferie, ho pensato che potrei venire come turista in Kashmir. Che ne pensi?"
Come comportarsi con gli amici? Semplice: come vorremmo che loro si comportassero con noi! E Gianni stava facendo proprio come lui avrebbe voluto.
Che eccitazione! Quanta gioia inespressa!
"Quando arrivi, a che ora, dove, con quale volo? Dove atterri?" Era una raffica di domande convulse.
"Ah ah ah ah ah. Arrivo domani l'altro a Srinigar. Verrai a prendermi?"
"Ci puoi giurare."

Notte di mistero

Anselmo era partito per uno dei suoi tanti viaggi di lavoro e la moglie quella notte sarebbe rimasta sola.
Si preannunciava un temporale e, fuori, i tuoni ed i fulmini erano stati violenti.
Giulia, la moglie, aveva recentemente visto un film di fantasmi ed il suo animo non era ben disposto ad affrontare la solitudine di quella nottata tempestosa.
"Ci mancavano pure i lampi e i boati dei tuoni!" si era detta, mentre s'apprestava a coricarsi.
S'era fatta coraggio e adesso stava leggendo un bel romanzo d'avventure.
Il protagonista purtroppo non era un tipo fortunato, poiché dopo una serie di casi sventurati, era finito in ospedale. Lì, aveva cominciato ad avere le prime visioni e le prime percezioni extrasensoriali.
"Bella questa!" aveva pensato Giulia " Ci voleva pure un romanzo con i fantasmi!"
Aveva dunque richiuso il libro e si stava addormentando, quando sentì un rumore provenire dalla stanza accanto.
Leggeri brividi la pervasero, ma pensò bene d'andare ad accertarsi di cosa si trattasse.
Nella camera adiacente, accese la luce e, d'un tratto, vide un oggetto indefinibile, un qualcosa mai visto, dai contorni sbiaditi, luminescente ed informe, né umano né animale.
Aprì la bocca e gridò, ma si ritrovò nel letto e si mise a sedere di scatto.
"E' stato un sogno," pensò " mi devo mettere tranquilla a dormire, senza lasciarmi impressionare da nulla."
Poco dopo, squillò il telefono. Era Melania, la sua più cara amica.
"Giulia, come stai? Scusa se ti disturbo. Sai sono sola, perché Aldo è partito."
"Ah! Anche tu! Sono sola anch'io."
" Se sapessi! Ho fatto un sogno bruttissimo. Ho visto un oggetto informe, dai contorni sbiaditi, luminescente, non era un animale, però non era neppure un uomo. Non so cosa fosse. So solo che mi sono impressionata tantissimo ed ho avuto il bisogno di sentire la tua voce."
Altri brividi attraversarono le membra di lei!
"Dove l'hai visto scusa?" fece con voce atona.
"Come dove l'ho visto? Ma in sogno naturalmente. Ah! Mi pareva che si trovasse in una stanza della mia casa."
"Una stanza vicina alla tua camera da letto?" La voce di Giulia ora era un sussurro.
Dall'altra parte silenzio. Poi:
"Come fai a… a saperlo?" Melania era interdetta.
"L'ho sognato anch'io. Un oggetto come l'hai descritto tu."
"Ma va! Ho capito, vuoi prendermi in giro per incoraggiarmi. Sei sempre la solita, Giulia!"
"Non ti prendo in giro. Sto tremando internamente, ho fatto anch'io il medesimo sogno."
Di nuovo un primo silenzio dall'altra parte del cavo!
" E perché? Oh, che impressione! E che vuol dire? Può essere solo una coincidenza?" La povera Melania aveva la voce strozzata.
"Non lo so, avevo la certezza che fosse reale ciò che vedevo. Mi sono accorta di sognare solo dopo avere gridato per la paura."
"Io sono sconvolta! Perché abbiamo fatto lo stesso sogno, scusa?"
"Non so che dirti. Adesso però bisogna che ci tranquillizziamo. Qualsiasi cosa ti succeda, richiamami. Io farò altrettanto."
"Va bene Giulia. Terrò il telefono portatile accanto a me, sul letto."
"Okay. Buona notte Melania."
Chiuse la comunicazione, ma era agitata. Non riusciva a spiegarsi il perché e come mai fosse potuta capitare una cosa del genere!
Ma no! Era stata solo una casualità! Doveva mettersi tranquillamente a dormire.
Stava finalmente per addormentarsi, quando squillò nuovamente il telefono.
"Sì pronto" rispose.
"Pronto signora, lei è la moglie di Anselmo……?" Una voce d'uomo aveva pronunziato anche il cognome del marito.
Si allarmò all'istante. Cosa era avvenuto? Perché chiedeva di lui?
"Sì, sì, certo sono io. Cosa è successo a mio marito?"
"No, nessun incidente. Volevo solo avvisarla che in questo momento si trova con Amelia. Sa, quella è una rovina famiglie."
Quel tono di voce era strano, profondo, come insolente ed insinuante.
Giulia di nuovo s'era messa a sedere sul letto.
"Scusi, ma lei chi è?"
"Il mio nome non importa. Le sto dicendo di stare attenta perché Amelia ha già consumato varie famiglie."
"Sì, ma lei prima si presenti e poi possiamo continuare a discutere."
Cominciava ad innervosirsi. Quella persona era arrogante e poi perché non voleva dire come si chiamava?
"Non c'è bisogno signora, lei deve sapere che suo marito è partito con Amelia."
"Senta, se lei non si presenta, io le dico che è un gran maleducato!"
Giulia era tutta rossa in viso ed arrabbiatissima. Aveva una fiducia cieca in Anselmo e sentirlo accusare così gratuitamente e, ancor peggio, in maniera anonima, la indignava.
Dall'altra parte del filo, la sua reazione era evidentemente giunta inattesa.
Infatti udì ancora qualche frase sconnessa, e poi la comunicazione fu interrotta.
"Ecco appunto! Bella educazione!" Guardava ancora la cornetta, come se da un momento all'altro, potesse venirne fuori la faccia di quello screanzato.
Internamente avvertiva una strana inquietudine, una particolare agitazione.
Ma che belle nottata di mistero! E chi era quell'individuo? Che intenzioni aveva? Perché le aveva detto quelle cose?
Come si poteva più riaddormentare! Una cosa del genere non le era mai capitata.
Si rigirava nel letto, pensando se dovesse o meno telefonare a Melania per raccontarle l'accaduto, quando squillò ancora il telefono.
"Se è lui lo mando a quel paese! Porca miseria!" disse fra sé.
Difatti rispose urlando: "Prooonto!"
"Ehi, Giulia, ma che c'è mogliettina, perché gridi?
Era Anselmo, meravigliato di sentirla rispondere a quel modo.
"Non sai cosa mi è capitato!" Che sollievo però udire la sua voce!
"Stai bene? E' tutto a posto?"
"Sì sto bene, ma un cretino ha telefonato e ha detto che tu eri partito con Amelia."
"Con chi?"
"Ma che ne so! Amelia, ha detto Amelia."
"Ah! Ho capito di chi si tratta, e forse ho pure capito chi ti ha telefonato. Aspetta, non ti preoccupare, fra non molto riceverai una telefonata chiarificatrice."
"Anselmo, ma che stai dicendo? Chi mi deve telefonare?"
"Tu stai tranquilla. Tra poco, capirai tutto. Ciao amore, ci risentiamo."
La comunicazione cadde.
Ma quella era proprio una notte di mistero! E adesso chi avrebbe dovuto telefonare? Intanto s'era fatta mezzanotte.
Tornò a rigirarsi nel letto e trascorsero così altri dieci minuti, dopo i quali, squillò per l'ennesima volta il telefono.
"Pronta signora, sono l'architetto Amelia……, so che ha ricevuto la telefonata del mio ex compagno."
"Sì sono io ed ho ricevuto una telefonata a dir poco inquietante. Mi scusi sa, ma è pazzo il suo ex?"
"E' un mascalzone, signora, non stia più ad ascoltarlo."
"Io non lo avrei mai ascoltato, ma ha telefonato senza presentarsi, ha detto che lei era partita con mio marito. Che è una rovina famiglie."
"Signora, io sono qui in città, se vuole, la vengo a trovare. Vede, con quell'uomo ho avuto un figlio. Siccome è un tipo poco raccomandabile, non glielo faccio più vedere per precauzione."
"Capisco, deve essere proprio pazzo."
"Peggio, è un lestofante! Pensi che vuole farmela pagare cercando di mettermi in cattiva luce con tutti coloro con cui lavoro, tra cui suo marito."
"Accidenti! E' un bel pasticcio!"
"Secondo la sua mente contorta, non potrò più lavorare e sarò costretta a tornare con lui."
"Ha fatto bene a chiamare architetto. Ora so che lei è una brava persona. Mi dispiace per la situazione. Si faccia coraggio."
Bella anche questa! Ora era Giulia a dover incoraggiare gli altri!
Trascorsero altri dieci minuti, e richiamò suo marito.
"Pronto tesoro, hai capito adesso? Quella è un architetto con cui ho lavorato; le ho telefonato subito ed ho spiegato la situazione."
"Sì ho capito, mi è sembrata una brava signora."
"Era già divorziata con due figli. In seguito ha conosciuto quello lì e s'è inguaiata!"
"Anselmo ma che ore sono?"
"Ormai è tardi. Cerca di dormire. Buona notte amore."
Una parola dormire, dopo tante emozioni! Ormai il letto era divenuto come il famoso giaciglio chiodato del fachiro.
Si alzò e andò a guardare nella stanza incriminata.
Tutto era tranquillo e nessun oggetto luminescente faceva bella mostra di sé. Meno male.
Andò in cucina: avrebbe bevuto una tazza di latte caldo per conciliare il sonno. Fece così e tornò a letto.
Ma perché non riusciva ancora ad addormentarsi? Già, il perché era chiaro: si sentiva troppo agitata e nervosa.
Pensò di telefonare a Melania. In fondo s'erano ripromesse di chiamarsi se ci fossero state novità. E più novità di ciò che le era capitato!
"Pronto sono io. Se sapessi ciò che m'è successo! Stento io stessa a crederci. Sono scossa e non riesco a prendere sonno."
"Dai, racconta. Tanto neppure io riesco a dormire."
Trascorsero dunque tutto il resto della notte a raccontarsi e a commentare i fatti. Fecero le dovute congetture ed espressero gli immancabili giudizi.
Melania sembrava esterrefatta di ciò ch'era capitato all'amica. Davvero pensava che, nella vita, non si possa stare mai tranquilli.
Ritornarono a discutere dei loro strani e coincidenti sogni.
"Sono sempre più convinta che sia stata una casualità." Diceva Giulia.
"In vero una strana casualità, Giulietta!" ribadiva l'altra.
"Sì, ma vedi, secondo me, è il caso che domina gli uomini, non sono essi a poter intervenire sul caso." Sarà stata l'ora tarda, ma cominciava a diventare filosofa.
"Va bene, il caso ci domina, però io mi stupisco lo stesso."
"Melany, i due più grandi tiranni della terra sono il caso e il tempo!"
L'amica l'ascoltava affascinata.
"Per esempio c'è un filosofo tedesco che invece sostiene che nulla al mondo avviene per caso."
"Già, allora a noi perché è accaduto di fare il medesimo sogno?"
"Domandalo a lui. Io, più invecchio, più mi convinco che il caso faccia i tre quarti del lavoro in questa vita. Proprio perché il Padre Eterno ha tutto programmato affinché sia esso ad intervenire sempre. Poi noi, con il nostro libero arbitrio facciamo il resto."
"Giulia mi stai facendo ricordare Flaubert quando dice: " C'est la faute de la fatalitè!" cioè: "E' colpa della fatalità!"
"Ecco appunto. Vedi anche lui era d'accordo con me."
Nel frattempo, cominciava ad albeggiare e le prime luci s'insinuavano tra le fessure delle serrande.
"Questa notte non abbiamo dormito. Prima che sia troppo tardi, consiglio di provarci. Buona notte Melania."
"Buona notte Giulia."

 

Tina e il presidente

Quella sera, Tina tornò a casa pensando ancora al suo racconto che era stato pubblicato, e ne era vieppiù eccitata.
Bisognava che rivedesse bene quell'altro che aveva già scritto, in modo da portarlo, l'indomani, al presidente della casa editrice. Lo fece: lesse, corresse, rilesse, ricorresse, e stampò il tutto. Quando, a notte fonda, fu alfine soddisfatta del suo lavoro, andò a dormire.
Di buon ora, si preparò più elegantemente del solito. Già si vedeva sottoporre al presidente Careri, il suo nuovo eleborato.
Fu colta da un'idea improvvisa: doveva forse preavvisare Andrea di ciò che aveva scritto? Pensava proprio di sì. Bene! Avrebbe dapprima parlato con lui, il giovane addetto alle pubbliche relazioni, per consultarlo e sentire il suo parere.
Arrivando negli uffici della casa editrice, fu riconosciuta da tutti ed accolta amichevolmente. Lei chiese tosto di poter parlare con il suddetto collaboratore e lo vide immediatamente spuntare da una stanza.
"Tina! Che piacere! Venga, si accomodi", e la condusse in un locale attiguo.
"Senta Andrea, siccome ho scritto un altro racconto, volevo avvisarla che riguarda un po' lei."
"Riguarda me? Sono onorato! Ma come, scusi?"
"Ho rielaborato la storia di sua sorella, che lei mi ha raccontato. Ora però, le devo chiedere il permesso di farla leggere al presidente."
"Toh! E chi l'avrebbe mai detto! Ha proprio una bella capacità creativa Tina! Posso leggere io per primo?"
"Certo! Ecco qua." Così dicendo, porse i fogli al giovane.
Questi lesse e sembrò entusiasta.
"Sa cosa le dico: riferisca pure al presidente che è una storia realmente accaduta, che riguarda mia sorella, e che gliel'ho raccontata io."
"Va bene Andrea, come vuole."
Si alzò, e l'altro la fece annunziare al signor Careri.
L'ufficio del presidente, lei già lo conosceva, ma lo osservava solo ora: era vastissimo, con poltrone di pelle, quadri enormi appesi alle pareti, vetrate immense da cui si vedeva uno stupendo panorama. Un fantasioso mobile bar occupava parte di una parete.
Quando Tina entrò, l'obeso signore, con il cranio pelato, stava appunto versandosi da bere.
"Eccola qui la nostra Ina! Ha fatto presto a ritornare. Brava! Venga, s'accomodi."
"Mi chiamo Tina, presidente, non ricorda?"
"Ah già, sì certo, Tina! Resta in piedi come la statua della libertà?"
Lei si sedette su una di quelle poltrone che avrebbero potuto accogliere due individui. Teneva in mano i fogli stampati, aveva la borsetta a tracollo, e non sapeva dove appoggiare la schiena, data l'enormità del suo sedile. La volta precedente non aveva notato tutte quelle amenità. Forse perché era stata troppo emozionata.
"Gradisce un goccio di Porto, cara?"
"No grazie, a quest'ora non bevo mai."
"Male! Dovrebbe abituarsi. Si affronta meglio la giornata!"
"Purtroppo sono leggermente astemia."
Lui continuava a versarsi da bere, e intanto passeggiava e la scrutava. L'esame però, sembrava lo soddisfacesse parecchio.
"Allora Ina, è soddisfatta della pubblicazione?"
"Oh sissignore! Non sembra neppure ciò che ho scritto io! Sebbene il racconto venga riprodotto pedissequamente, la veste tipografica lo trasforma. E' splendido! Però mi chiamo Tina, ah, ah, ah."
"L'ho ribattezzata, ma deve sapere che mi capita sempre così con tutti." Rideva pure lui e scuoteva il grosso ventre ed il doppio mento.
"Ho portato un altro racconto, dottor Careri. E' una storia realmente accaduta, che riguarda la sorella di Andrea."
"La sorella di chi?" Sempre in posizione eretta e con il bicchiere in mano, il corpulento signore aveva inarcato le folte sopracciglia.
"Andrea. Sa l'addetto alle pubbliche relazioni?"
"Oh quello! Il fiume umano di parole. E che c'entra sua sorella?"
"Mi ha raccontato la sua storia, e io ne ho tratto una novella, ma gli ho anche chiesto il consenso per sottoporgliela."
"Corretto! Proprio corretto da parte tua, Ina!"
"Sono Tina signore." Adesso appariva rassegnata ed allegra.
"Beh! Dammi, fammi leggere. E' questa che hai in mano?"
Era passato con la massima naturalezza dal <Lei> al <Tu>. Finalmente si assise sulla sua poltrona presidenziale e si dispose alla lettura, avendo inforcato dei grassi occhiali che portava sulla punta del naso. Leggeva, e più andava avanti, più pareva interessato e immerso nella narrazione.
Lei, dal canto suo, si guardava attorno incuriosita e roteava la testa tutt'intorno. Vedeva una vasta parete di legno piena di scaffali e trofei, un antico paravento giapponese, un caminetto moderno, insulso quanto inutile, visto che i sistemi di riscaldamento ed areazione erano efficienti e ricercati. Poi la sua attenzione fu attratta da un dipinto che rappresentava il volto di una bellissima donna.
"Era mia moglie, " gli sentì dire " siamo vissuti assieme per quarant'anni, poi ella ha pensato bene di ritornare al Creatore e lasciarmi solo."
Aveva terminato di scorrere le pagine e guardava l'autrice da sopra gli occhiali e con espressione compiaciuta.
"Mi spiace, presidente. Non sapevo."
"Ho ragione quando affermo di riconoscere il talento ad un miglio di distanza."
Tina era di nuovo in agitazione: " Le piace il racconto? Davvero?"
"Dovremo cambiare il posto della dicitura sui riferimenti casuali ad avvenimenti realmente accaduti."
"Io l'ho inserita alla fine, poiché vi ho pensato in ritardo, però ho anche romanzato certi episodi e taluni avvenimenti. Ho dato corso e spazio alla mia fantasia. Mi sono divertita insomma. Naturalmente, se lei afferma che bisogna cambiare qualcosa, sarà così. E' molto più esperto di me. Chissà da quanti anni lavora in questo campo!"
"Signorina, tu parli troppo! "
"Perché? Stavo solo spiegando il mio modo di procedere, scrivendo. Talora il mio computer è come se scrivesse da solo. Le idee e le frasi vengono giù da sole, senza che io le mediti o che vi faccia lunghe elucubrazioni sopra. Il tutto mi diverte in modo incredibile! Appunto ho cambiato tante volte le sequenze narrative; ho variato l'impostazione e l'ambientazione dei fatti. Ho usato nomi di pura fantasia per i personaggi."
"Quella tua bocca si può chiudere un momento? Sì? E allora chiudila. Santo cielo! Sembri un personaggio di Shakespeare nei suoi soliloqui. Dunque, a proposito della dicitura famosa, stavo dicendo che la porremo all'inizio del racconto per mettere sull'avviso i lettori e per evitare delle denunzie agli editori. D'altro canto, in tal guisa si opera nell'editoria."
"Certo, è giusto. Sa presidente che ho in mente dell'altro materiale per un nuovo racconto? Anche questo l'avrei tratto da un fatto realmente accaduto e che ha dell'incredibile!"
"Non credevo d'essermi imbattuto in una fornace d'idee. Ma giacché ci sei, racconta. Così io potrò consigliarti e tu, al contempo, potrai dare sfogo al tuo temperamento garrulo."
Così dicendo, il dottor Careri si alzò e andò a sedersi su di una sedia posta di fronte a Tina. Teneva le spalle appoggiate allo schienale e i piedi puntati e piantati a terra. Ascoltava ed ogni tanto si dondolava.
Lei cominciò a narrare del procedimento giudiziario contro un tale amministratore condominiale, filantropo ed innamorato. Un uomo che sembrava un antico cavaliere medioevale. Raccontò che i di lui coinquilini volevano pagare, a tutti i costi, le quote condominiali, senza riuscirvi. Diede spazio ai particolari e fu precisa nei dettagli: poiché nel condominio abitava una signorina indigente, di cui l'amministratore era segretamente innamorato, pagava lui le quote per tutti. D'altra parte era ricchissimo e se lo poteva permettere. Infine narrò della sentenza del giudice istruttore, che lo aveva rimosso dall'incarico, ed aveva scoperto la faccenda del suo amore unilaterale e segreto.
"Ina, conosci per caso il nome di quel tizio?" Il presidente si teneva il mento e continuava a dondolarsi sulla sedia.
Lei conosceva il cognome dell'amministratore incriminato ed assai galante. Pensò di poterlo ripetere: " Io mi chiamo Tina, lui invece si chiama Fernando Rinaldi."
In quel momento, sentendo questo nome, il corpulento signore diede uno scatto più forte all'indietro e perse l'equilibrio, cadendo rovinosamente sul pavimento. La sua testa andò a prendere contatto col morbido e folto tappeto. Sembrò ignorare ogni male fisico, che in realtà non doveva esserci stato. Disteso ancora per terra, alzò gli occhi verso di lei: " Non vorrai mica dire che si tratta del mio vecchio commilitone Nando Rinaldi!"
Ella non sapeva se ridere o preoccuparsi per l'accaduto. Davvero non si era fatto male? Adesso come avrebbe potuto rialzarsi e sollevare la sua poderosa mole, simile a quella di un bisonte? Invece, il presidente diede sfoggio di inattesa agilità, tornando, con lenti ma determinati movimenti, in posizione eretta.
A questo punto, Tina diede sfogo alla sua ilarità repressa e cominciò a ridere di cuore.
Il presidente Careri era la personificazione dell'umana sorpresa e costernazione. La guardava con tanta meraviglia che pareva non riuscisse più a chiudere i suoi occhi bovini e spalancati.
Lentamente, lei aveva smesso di sghignazzare.
"Sei sicura che si chiami in quel modo? Ha press'a poco la mia età? S'innamora segretamente e non si dichiara mai?"
"Il nome è certamente quello. Alle altre domande non saprei dare risposta, però posso meglio informarmi presso fonte sicura. Ma perché, forse lei conosce Fernando Rinaldi?"
"Se lo conosco! Pensa che gli soffiai e sposai la donna che lui amava, ed alla quale non era mai stato capace di dichiarare il suo amore."
"Possibile?! Amava la donna del ritratto? Sua moglie?!"
"La storia è lunga e complessa, ma il risultato fu proprio quello. Io sposai la donna del suo cuore, che lui stesso mi aveva fatto conoscere."
"Presidente, il fatto mi sembra interessantissimo e intrigante, sarebbe un'idea fantastica scrivere tutta la storia, con il suo permesso naturalmente, però lei me la dovrà narrare per intero e nei dettagli."
"Se non è lui, che storia vuoi scrivere? Prima accertati che si tratti di quel Nando che conobbi io."
"Ritengo invece che una storia possa nascere da qualsiasi idea, anche costruita e frammista di verità ed immaginazione. Qualcosa d'inventato con la fantasia, ma che possa partire o appoggiarsi su avvenimenti realmente accaduti. La prego dottor Careri, mi racconti ciò che accadde."
"E va bene! Ascolta dunque e fanne tesoro. Mi fido di te.
"Avevo poco più di vent'anni e mi mandarono sotto le armi. Là conobbi un ragazzo timidissimo, magro ed allampanato. Si chiamava Fernando Rinaldi. Facemmo amicizia subito e divenimmo inseparabili. Ci legava la stessa passione per la letteratura e le buone letture; ci scambiavamo, di continuo, romanzi e libri di vario genere. Gli altri commilitoni presero a chiamarci francobolli, poiché non ci staccavamo mai l'uno dall'altro. Era una di quelle amicizie giovanili, fatte di lealtà, complicità, fiducia, confidenza e piacere di stare insieme."
Tina pendeva dalle sue labbra, era coinvolta emotivamente ed esclamò:
"Accidenti! Eravate amici per giunta! E una donna vi divise!"
"Signorina, ascolta e non m'interrompere. Dicevo appunto che eravamo inseparabili e che ci confidavamo ogni cosa. Così lui mi rivelò di essere innamorato, segretamente e perdutamente, di una ragazza, figlia d'amici dei suoi genitori. Disse però, che non era mai riuscito ad esternarle il suo amore, per troppa timidezza e ritrosia.
Una volta andando in licenza, per non separarci, mi propose di andare a casa sua e di trascorrere quel periodo insieme. Accettai e andai con lui. Erano persone molto abbienti e mi ospitarono come un principe. Ma il bello doveva ancora arrivare. Una sera, infatti, mi fece conoscere la ragazza dei suoi sogni. Per me, fu il classico colpo di fulmine. Anche io me ne innamorai e sentii che era la donna della mia vita. A quei tempi ero piuttosto piacente. Sempre robusto, ma non così grasso come mi sono ridotto ora. Avevo tutti i capelli, la fronte spaziosa, gli occhi grandi ed accesi dal fuoco della gioventù.
La famosa ragazza mi ricambiò all'istante e, solo guardandoci, capimmo di essere fatti l'uno per l'altra. Lei si fece tosto corteggiare da me; fu invitante e seducente. Insomma, mi fece capire in mille modi che le piacevo e che mi desiderava. Ci fidanzammo e ci scambiammo eterna fedeltà.
Puoi capire come prese la cosa il mio amico!"
"Però non poteva accusarla di nulla, in fondo lei non ha fatto nulla di male, presidente. E' stata la ragazza a scegliere." Tina appariva interessatissima.
"Sì, ma il mio amico si sentì tradito e non mi rivolse mai più la parola. Quando ci congedammo,
le nostre strade si separarono e non seppi mai più nulla di lui. Mi restò il ricordo e la malinconia di un'amicizia perduta. Spesso penso ancora a lui, e rivedo quel ragazzetto che correva a cercarmi per raccontarmi ogni nonnulla. Un ragazzo che trovava in me la sicurezza e la forza per affrontare la vita. Io, dal canto mio, mi sposai e vissi felicemente e lungamente con la mia adorata ragazza."
"E' una storia romantica, dottor Careri, pare un romanzo d'altri tempi. Mi permetta di ricostruirla a modo mio; però lei dovrà anche aiutarmi. Se è lui la persona in questione, mi prometta che andrà a trovarlo."
"Cooosa? Sei uscita di senno? Io andare da Nando? Non lo farò mai! Scordatelo!"
"Presidente, pensi che novità assoluta! Lei mi farà vivere la storia che scriverò. La prego, l'idea mi è frullata improvvisamente mentre parlava. Dobbiamo costruire insieme tutto il racconto. Io lo scriverò, partendo da ciò che lei mi ha narrato. Poi farò le mie indagini sul famoso Nando, e se risulterà, come spero, che si tratta del nostro uomo, lei dovrà contattarlo."
"Tu puoi scrivere tutto quello che vuoi e io pubblicherò il tuo racconto. Potrai inventare pure che gli asini volano, ma non sperare che io vada da Rinaldi."
Ormai lei era divorata dal sacro fuoco della creatività. Pensava che la sua storia andasse vissuta e realmente seguita nella veridicità degli avvenimenti. Ma, per far questo, bisognava che il protagonista riallacciasse i legami con il suo amico.
"Non mi dica di no, io farò la cronaca di tutto ciò che accadrà. Pensi che cosa meravigliosa! Lei mi costruirà la storia, la vivrà, come l'ha già vissuta. Si rivedrà con Nando e seguiremo l'evolversi degli avvenimenti."
"Ina, la fantasia ci permette di compiere i voli pindarici più assurdi e pericolosi. Potrai inventare tutto quello che vuoi anche se non si trattasse della medesima persona che io conobbi. Non pretendere però che riapra una ferita che ancora sanguina."
"In questo ha ragione. Io cercherò di costruire, in ogni caso, una storia intrigante e coinvolgente.
Rielaborerò tutti gli avvenimenti e li romanzerò. Non dubiti, d'altro canto, che farò le mie brave ricerche su Rinaldi e gliele comunicherò."
"Fai come credi. Buon lavoro signorina! Ora procura di scomparire poiché mi hai già rubato gran parte della mattinata."
Tina balzò in piedi. Non doveva più annoiarlo. Gli strinse la mano e si accinse a scappare via.
Il presidente volle accompagnarla alla porta ed avanzò in quella direzione col suo passo imponente, che faceva pensare ad un elefante a passeggio per una giungla indiana.



Una notte insonne! Aveva letto e sentito dire che, alla vigilia di un evento speciale, qualcuno non riesce a dormire e trascorre le ore notturne a vegliare. Era accaduto anche a lei.
Tina pensava e ripensava a come sarebbe stato l'incontro fatale! Si rigirava nel letto ed immaginava i due signori a guardarsi in cagnesco. Quando alfine prese sonno, suonò la sveglia e si sentiva più stanca di quando si era coricata.
Dalle rivelazioni del suo amico Marco, ispettore di polizia, aveva saputo chi fosse l'uomo che, quarant'anni prima, aveva litigato, a causa di una donna, con il presidente della sua casa editrice. Difatti, il suo capo aveva rubato, all'altro, la ragazza di cui era innamorato. Ora, Tina aveva insistito per farli incontrare e riconciliare.
Fu puntuale all'appuntamento, e trovò una stupenda automobile, sotto casa, ad attenderla.
Il dottor Careri era già a bordo ed un autista impeccabile la fece accomodare.
Arrivarono in un quartiere residenziale della città e si fermarono dinanzi ad uno stabile molto elegante. Il custode non era un tipo giovanile e si fece loro incontro ansimando. Li annunziò al citofono, dopo averli squadrati attentamente: "Signor Rinaldi, c'è un tale che dice di chiamarsi Leonardo Careri, insieme con una signorina."
"Ah, con una signorina? Con una signorina, eh? Certo, certo." Tutti potevano lamentarsi della sua lentezza mentale, ma, all'occorrenza, Fernando Rinaldi qualcosa l'afferrava al volo. " Sì, sì, non c'è dubbio, una signorina."
"Mi scusi, può vederli?"
"No, dove sono?" disse, volgendo un'occhiata in giro.
"Sono qui e chiedono di vederla. Posso farli accomodare?"
"Vedere me? E perché vogliono vedere me?"
"Non saprei."
"Se mi vogliono vedere sono due seccatori, ad ogni modo li faccia salire."
Il custode indicò il piano, e l'ascensore li depositò davanti ad un portone. Bussarono e venne ad aprire Fernando Rinaldi in persona. Non riconobbe nessuno e li guardò con aria beota.
Careri invece era rimasto molto interdetto. Si sarebbe aspettato di tutto: occhiate feroci, urla ed invettive, ma non quello sguardo tra il deficiente ed il trasognato.
"Nando, sono io. Sono Leonardo, mi riconosci?"
Continuava a guardarli incantato. Poi li fece passare in un grande salone, e si sedettero.
"Chi dice di essere? Leonardo? Conoscevo un giovane, Leo Careri, quando avevo poco più di vent'anni, ma era un tipo tortuoso. Era il mio migliore amico. Lei, scusi, chi è?"
"Sono proprio quel Leo, sono io."
"Quale Leo, di chi parla scusi?"
Il dottor Careri sospirò, avrebbe volentieri sbuffato, ma non lo fece. Parlò invece con la dolcezza forzata di un uomo che conversa con una persona poco perspicace.
"Il tuo migliore amico, quello tortuoso come un cavaturaccioli. Avevamo poco più di vent'anni, Nando, e abbiamo fatto il servizio militare insieme. Eravamo amici inseparabili. Mi chiamo Leonardo. Ti ricordi di me?"
"Io sono divenuto un po' debole di memoria. Però mi ricordo di te. Rammento quegli occhi. E quella bocca! Mi sarebbe gradito, Leo, se tu non tenessi la bocca aperta quando ti parlo. Sembri un merluzzo."
Tina intanto, stava riflettendo che il suo amico ispettore non le aveva parlato della labilità mentale di Fernando Rinaldi. Chissà perché!
Careri sembrava sollevato:
"Allora non mi tieni rancore! Non mi odi più! Non sai quanto mi fa piacere rivederti."
"Ah! Quando dici di essere Leonardo Careri, parli di Leo Careri. Certo. Certo. E perché dovrei odiarti? Questa è bella! Che hai fatto, scusa?"
"Ho sposato Costanza, la ragazza che tu amavi, ricordi?"
"Chi….?"
"Oh Nando! Hai proprio perso la memoria!"
"Chi dovrei ricordare adesso?"
"L'amavi tanto, mi parlavi sempre di lei, di quanto fosse dolce e cara. Invece io te la soffiai. Ti portai via Costanza, perché lei preferì me a te."
A questo punto, Nando emise un suono molto simile a quello che produce chi mette un pollice sul coperchio di una pentola in ebollizione.
"Ohhhh! Costanza! Quella spelacchiata, che appena le parlavo scappava via. Sì, ora ricordo. Fu il primo amore della mia vita, ma per fortuna, tu Leo, ti occupasti di portarmela fuori dei piedi. Bel lavoro ragazzo! Ti sarò grato per la vita!"
Altro che novella e racconto! Lì c'era da scrivere una commedia del genere umoristico, pensava Tina. Guardò di sottecchi il suo direttore, che ricambiò l'occhiata. Appariva costernato:
"Spelacchiata! Fuori dei piedi! Ma come! Se n'eri pazzo e non riuscivi a dichiararti!"
"Questa fu sempre una mia prerogativa. Devi sapere, caro, che nella mia vita, non ho mai detto a nessuna di amarla. Sono stato molto riservato. Per questo ho preferito, di solito, le avventure passeggere, fosse anche a pagamento."
"Io invece sposai Costanza, che mi rese l'uomo più felice. Abbiamo vissuto a lungo insieme. Mi ha dato due figlioli maschi, che fanno entrambi gli ingegneri all'estero. Non hanno mai voluto occuparsi di editoria, forse perché ci sono cresciuti in mezzo e ne sono stati soffocati.
Purtroppo, da qualche anno, un cancro ha portato via mia moglie e sono rimasto solo."
Parlava con il piacere di conversare e confidarsi con un amico ritrovato, il quale, dal canto suo, lo ascoltava con grande attenzione:
"Questo mi spiace molto, Leo. Non la ricordo la tua Costanza, ma il fatto mi addolora per te."
Lo guardava con la solidarietà antica che avevano nutrito reciprocamente. Pareva che non si fossero mai lasciati, che si fossero visti il giorno prima. Ancora, come quando avevano vent'anni, stando insieme, il tempo si fermava. Negli occhi avevano, l'uno per l'altro, una dolcezza profonda, ignota ai più, ma che accompagna sempre le grandi amicizie.
"Come hai vissuto, Nando? Sempre solo? Non ti è mancata una presenza femminile?"
"Devi sapere che ho avuto tante governanti e poi, come compagnia femminile, purtroppo, ho molto spesso quella di mia sorella Eva. E' la mia unica parente prossima, con quattro figli, i quali tutti aspirano a spartirsi il patrimonio che ho ereditato."
Quanto materiale per il suo racconto! pensava Tina. Ma no, questa volta avrebbe potuto scrivere addirittura un romanzo. Vi erano tutti gli ingredienti: c'era il mistero, poi il lato romantico del protagonista. Beh! Avrebbe potuto scrivere e rielaborare tutta la vita di Fernando Rinaldi. Un'esistenza interessante e strana, tutto sommato.
"Signor Rinaldi, io vorrei scrivere un racconto sulla sua vita. Lei sarebbe d'accordo?"
"Una signorina. Il custode mi ha annunziato che c'era una signorina. Leo, chi è costei?"
"Perdonami amico. Ancora non te l'ho presentata. Si tratta di una mia collaboratrice. Scrive racconti per il nostro giornale. Si chiama Tina."
"Perché vorrebbe scrivere la storia della mia vita? In fondo io sono un povero diavolo!"
"Sono venuta a conoscenza, signore, del fatto che lei pagava tutte le quote condominiali di questo stabile! Mi sembra un fatto insolito e romantico, visto che le pagava per l'amore che nutre nei riguardi di una condomina indigente. Davvero mi fa pensare ad un personaggio da romanzo."
"Oh, il condominio! Quello lo amministravo bene, anche se la mente non mi aiuta più del tutto. Pagavo tutto io! Poi mia sorella Eva lo venne a sapere e, pensando che stavo sperperando il patrimonio di famiglia, lo andò a spifferare ai capoccia dello stabile, e quelli hanno voluto fare la parte degli integerrimi e puntuali pagatori, e mi hanno denunziato perché non li facevo pagare."
"So invece, che c'è, qui nel palazzo, una donna indigente di cui lei è innamorato. Insomma, Signor Rinaldi, mi permetta di costruirci sopra tutta una storia interessante."
"Faccia un po' quello che vuole; non avrei mai supposto di divenire un caso. Tutto è cominciato da quando quel poliziotto mi ha mandato a chiamare e mi ha fatto mille domande. Quell'individuo non lo scorderò mai più. Mi scrutava e mi esaminava come se volesse penetrarmi in fondo all'anima. Io non credo di avere commesso un grave reato."
Quelle parole fecero molto effetto su Tina. Destarono, in lei, mille sospetti. Il riferimento a Marco l'aveva sorpresa. L'ispettore si era comportato stranamente nei riguardi di Rinaldi! Perché?
"E' stato però trattato con equità. So che, dopo la denunzia, è stato rimosso dall'incarico d'amministratore."
"Sì. Quello che voglio dire è che quel poliziotto, da quando mi ha visto e conosciuto, non mi ha mollato più, ha indagato su di me, mi perseguitava, mi telefonava, mi faceva sorvegliare da altri poliziotti. Non sono mai riuscito a capirne il motivo. Io non sto più bene con la testa, ma posso ancora cavarmela da solo e pensare a me stesso."
Mille campanelli suonavano nella mente di Tina e centinaia d'idee le frullavano per la mente.
Una però era predominante: Marco aveva dovuto scoprire dell'altro su Rinaldi. Ma cosa?
Improvvisamente impallidì ed ebbe un sobbalzo. Forse lo sapeva! La sua immaginazione certo galoppava troppo! Il pensiero però era lì, presente, incalzante: l'ispettore, che era un figlio adottivo, aveva scoperto che quell'uomo era il suo padre naturale! No! Non era possibile! Queste cose succedono solo nei romanzi. Eppure il sospetto era troppo pressante. Adesso la famosa realtà romanzesca superava ogni limite.
"Signor Rinaldi, sto per farle una domanda delicata, indiscreta e molto privata. Lei, per caso, nel suo passato, ha avuto dei rapporti con qualche donna, e questa ha avuto da lei un figlio, che è stato poi adottato?"
"Tina! Che dici! Che domande fai?" Il dottor Careri la guardava con disapprovazione e soggiunse:
"Leo, non starla ad ascoltare, ha le traveggole e, come ogni scrittore, è senza riserbo e non si fa i fatti propri!"
"In ogni caso non riesco a seguirla, signorina. Lei tergiversa sull'argomento e non mi fa capire nulla. Sia chiara. Sia esplicita. Sia franca e aperta. Sospetta per caso che io abbia illegalmente adottato un figlio?"
Aveva affermato che non stava più bene con la testa. Lei avrebbe detto che era del tutto stordito e svanito. Le veniva quasi da ridere:
"No, non lei. Chiedevo se per caso ricorda di avere avuto un figlio naturale, che è stato poi adottato."
"Eppure la parola figlio mi suscita dei ricordi. Come qualcosa che abbia a che fare con mia sorella. La rivedo, infuriata, mentre strepita che porterà quel figlio all'orfanotrofio. Ma dovrebbe chiedere a lei, signorina. I miei ricordi sono molto sfumati purtroppo."
Adesso Tina guardava con maggiore attenzione quei capelli ricciuti e folti, ormai quasi tutti brizzolati. Osservava l'altezza imponente dell'uomo, sebbene incurvato e rinsecchito per l'età, i tratti regolari e gradevoli, solcati dalle rughe. Decisamente, Fernando Careri poteva somigliare a Marco, ma forse era tutta una suggestione.
Più ci pensava però, più si convinceva che quella era la spiegazione di tutto: l'ispettore aveva scoperto che Rinaldi era il suo padre naturale e non voleva rivelarlo.
"Senta" fece poco dopo, "se io le facessi improvvisamente conoscere quel figlio che lei ebbe tanti anni fa, sarebbe pronto ad accettarlo, a rivederlo?"
"La cosa mi pare del tutto assurda! Io non ricordo niente, signorina. Ma se lei afferma che ci potrebbe essere quest'eventualità, perché no! Anzi! Avrei un immenso piacere nello scoprire così, su due piedi, di avere un erede, seppure naturale."
Rimasero, dunque, che si sarebbero rivisti e che, probabilmente, Tina avrebbe avuto per lui un'incredibile sorpresa!
Si trattava adesso di convincere Marco a dichiarare la verità.
Lo chiamò al telefono: "Secondo me, tu sai, su Fernando Rinaldi, molto più di quanto vuoi dare a credere. E' colui che ti ha generato, vero Marco? Lo hai scoperto casualmente, hai approfondito le indagini, ed ora ne sei sicuro, solo che non lo vuoi ammettere!"
"Sì, è così. Ma per me, i genitori sono sempre stati quelli che mi hanno adottato, quando ero piccolissimo, ed ora non voglio sapere più nulla del mio padre naturale."
"Perché? Provi rancore? O no. Forse no. Ti vergogni di lui! E' un pover uomo che non ragiona più bene, e il signor ispettore ha ritegno a far sapere che è suo padre!"
All'altro capo del filo, silenzio.
Tina sapeva di aver colto nel segno!
"Che centra! No, non è vero! Solo che non voglio rivederlo, giacché lui non ha più voluto sapere niente di me." Continuava a non ammettere la verità.
"Marco, ti vergogni di lui. Se avessi saputo che era uno scienziato, ti saresti fatto riconoscere!"
Adesso non replicava più, era rimasto interdetto.
Tina incalzò: "E' sempre tuo padre, è colui che ti ha dato il dono prezioso della vita. Non ha voluto crescerti, ma ora mi ha assicurato che sarebbe felice di rivederti!"
"Io invece non voglio vedere lui!"
"Vergognarsi del proprio padre è terribile, Marco, pensaci! Potresti pentirtene. Fernando Rinaldi è un povero diavolo, molto affabile e simpatico però, anche se completamente fra le nuvole."
Il riferimento all'imbarazzo ad ammettere di avere un padre ormai quasi demente, era stato determinante. L'ispettore era in ambasce, stava per convincersi.
Lei continuò: "Mi fai ricordare il protagonista dell'antica canzone <Lo zappatore>. Anche lì, un avvocato di grido si vergognava di suo padre zappatore. Avanti, dimmi di sì, dimmi che verrai con me a rivedere quel brav'uomo."
L'esclamazione fu liberatoria: "Hai vinto! Va bene! Verrò!"
"Oh! Finalmente! Prenderemo appuntamento e ti porterò a casa sua."
Fu così che Nando Rinaldi, un giorno, vide presentarsi, nella sua dimora, Tina in compagnia del giovane poliziotto.
A guardarli insieme, Marco e l'anziano signore si somigliavano parecchio.
L'ispettore ristette sulla soglia, muto, pallido, con espressione indecifrabile.
L'attempato signore lo guardava con la sua aria inebetita, svagata, in cui era altresì, una luce di speranza!
Riconobbe Tina e: "Signorina! E' tornata! Che piacere!" Poi, osservò meglio l'uomo che era con lei, e tutti gli interrogativi del mondo furono nei suoi occhi.
"Venite, accomodatevi. Non ho niente da offrirvi, ma un caffè posso sempre prepararvelo."
Passarono nel solito salone: "Signor Rinaldi, lei conosce l'ispettore Milani. La rivelazione che sto per farle è molto particolare ed importante, mi ascolti: da indagini eseguite, è risultato che è suo figlio naturale! Mancherebbe solo la prova del DNA, ma poi tutto coincide. Lei è il vero padre di Marco Milani."
Nando era trasalito! Aveva fatto un balzo, con mani tremanti, aveva esitato qualche attimo, quindi s'era mosso verso Marco e l'aveva abbracciato.
"Mio figlio! Mio figlio! Sei mio figlio! Non posso crederci, è una gioia troppo grande!"
Dopo che un uomo è stato abituato, per anni, ad indagare su criminali e gaglioffi, la sua tempra morale si rafforza, al punto che ben poco può sconvolgerlo, ma quella situazione era nuova per Marco. Appariva difatti basito, turbato. Quell'abbraccio era oltremodo affettuoso, sincero, disarmante. Lo ricambiò. Strinse fortemente l'anziano signore. Non ricordava più da quanto tempo non piangeva, ma adesso, suo malgrado, calde lacrime gli rigavano le guance.


Lo strano corteo

La conobbi un giorno mentre mi recavo al lavoro e vidi che stava dando da mangiare
a dei gatti in un angolo della strada.
Era una vecchietta gracile, ma si affannava a lasciare del cibo per quelle graziose bestiole.
Mi fermai a guardare poiché alcuni micetti erano proprio graziosi e chiesi:
"Cosa fa signora, sono suoi questi gatti?"
"No cara" rispose " sono tutti quelli del quartiere. Vedi, ce n'è in quantità e bisogna pure che qualcuno dia loro da mangiare."
Così ogni giorno, andando e tornando a casa, la incontravo e poco alla volta facemmo amicizia.
Avevo notato che una certa bellezza caratterizzava il suo viso. Doveva essere stata, nel suo passato, una bella donna anche se ora dei segni evidenti di malattia l'affliggevano.
I capelli erano tutti bianchi e raccolti strettamente sulla nuca. Gli occhi, di un verde brillante, erano frangiati da ciglia folte e lunghe. Era alta quanto me, ma molto più
esile e con le spalle incurvate.
Seppi che si chiamava Bice ed era vedova.
"La mia storia è molto lunga e triste" mi disse un giorno "non voglio affliggerti."
"No, no" risposi "sarà interessante ascoltarla, tanto ci vediamo ormai tutti i giorni."
"Ero sposata con un uomo che adoravo. Era ricco e mi faceva vivere nel lusso.
I primi anni di matrimonio li vissi come in una favola. Lui era innamorato e mi circondava di ogni attenzione."
"Suo marito è morto, Bice, se le fa male ricordarlo, lasci perdere."
"Magari fosse morto subito!" incalzò " No sai, finì in carcere per omicidio."
"Omicidio? Mi spiace. E chi ha ucciso? Se posso saperlo."
La cosa cominciava ad incuriosirmi parecchio.
"Te l'ho detto che è una storia lunga. Ha ammazzato colui che credeva fosse il mio amante."
"Il suo amante! Ma perché lei aveva un'amante?"
Ormai dovevo sembrare proprio un'intrigante impicciona.
"Tutto cominciò quando lui prese a trascurarmi. Stava sempre fuori casa e m'accorgevo che impiegava stranamente i suoi capitali. Seppi che frequentava altre donne ed, in particolare, aveva perso la testa per una signora dell'alta società. Io cercavo di farlo ragionare e distoglierlo da lei, ma inutilmente."
Mentre narrava, la sua espressione era divenuta dura e gli occhi guardavano lontano, verso luoghi ed immagini noti solo a lei.
"Non ricordi più, lasci stare Bice." Ogni tanto il mio senso d'altruismo prende il sopravvento.
"No, ormai ho stappato la botte. Sta venendo tutto fuori. Ascolta."
Era determinata e serrava le mandibole con rabbia.
"Mi sentivo disperata," riprese " tutte le mie illusioni erano state infrante. Il mio amore calpestato. Cominciai a frequentare le associazioni di beneficenza e mi recavo presso i centri di assistenza ai poveri. Cercavo di affogare il mio dolore in mezzo al dolore degli altri. Durante una di quelle visite, conobbi un signore molto distinto.
Era scapolo e molto abbiente. Ben presto s'innamorò di me."
"Bene! Ripagò suo marito della stessa moneta!" Avevo creduto di capire tutto e invece ne ero lontana.
"Non gli feci mai alcun torto. So che può sembrare una storia d'altri tempi, ma fu proprio quel che avvenne. Quel signore mi seguiva ovunque. Ci vedevamo per le solite opere di carità, eravamo divenuti amici, ma io non lo incoraggiai mai minimamente. Non divenimmo mai amanti."
"Ma le piaceva almeno?" Non avevo più ritegno.
"Trovavo in lui tutta la comprensione che mio marito mi negava, mi sentivo desiderata, amata, ma non lo contraccambiavo. La signora dell'alta società prese a frequentare la nostra stessa associazione di beneficenza e io la conobbi. Era bellissima. Poteva fare invaghire di sé qualunque uomo. Seduceva al primo sguardo.
Era una di quelle donne che fanno credere agli uomini di essere disponibili, e poi si negano. Dicono di sì con ogni atteggiamento, e poi sono pronte a dire no al momento giusto. Ci tentò anche con il mio amico, ma fece fiasco. Lui era diverso e troppo preso di me."
"Bice" avevo chiesto " quella signora non capì di chi lei fosse moglie?"
"No, credo che non avesse fatto caso al mio cognome. Il bello fu quando un giorno mio marito venne a cercarla all'associazione. Mi vide e rimase allibito. Sapeva che mi occupavo di beneficenza, ma non s'aspettava di trovarmi in compagnia della donna dei suoi sogni. Tra l'altro, capì che avevo uno spasimante e fu colto dalla più folle gelosia. Penso che si trattasse piuttosto di orgoglio ferito, di sospetti insensati."
Scuoteva la testa. Il ricordo le faceva ancora male.
Era davvero una storia interessante. A questo punto, volevo sapere tutto:
"Sarebbe stata l'occasione propizia per ricondurlo all'ovile."
"Non so perché, ma non volevo più. Infatti non feci nulla e continuai la mia vita e la mia attività benefica. Mio marito divenne assiduo dell'associazione, però la frequentava per meglio sorvegliarmi. Mi controllava, la sua gelosia cresceva ogni giorno sino a divenire ossessiva. Sino a divenire mania omicida!"
"Non mi dica! Uccise quell'uomo?"
"Sì, un giorno lo trovarono con un coltello sanguinante in mano, accanto al cadavere di quel poveretto. Fu arrestato e condannato a trent'anni di carcere. Si scoprì che prestava denaro ad usura e quindi sequestrarono ogni suo avere. Ormai da anni, mio marito è morto in carcere."
Quella storia era stata penosa e strana, ma tutto sommato rientrava nei vari casi della vita di cui ogni tanto sentiamo narrare. La cosa più sorprendente fu invece il funerale di Bice.
Già da qualche giorno non l'avevo più rivista e non l'avevo più incontrata.
Poi un giorno, tornando dal lavoro, vidi uno stranissimo corteo funebre per la strada vicino casa mia. Lo strano consisteva nel fatto che tutti i gatti del quartiere stavano seguendo il feretro. Erano tutti là, composti, in fila, mogi e silenziosi. Formavano il corteo più inverosimile che mai occhio umane potesse immaginare!
Non ebbi necessità di chiedere chi fosse il morto. Tristemente avevo compreso di chi si trattasse.
Erano i suoi gatti, quelle bestiole mansuete cui, per anni, Bice aveva portato da mangiare. Adesso erano là, tutti quanti, non ne mancava nessuno, come se avessero compreso cosa fosse accaduto e chi stessero portando via. Erano posti in fila, a formare quel corteo ordinato, lugubre, straziante. Erano là per dare l'estremo saluto alla loro benefattrice.
Se non lo avessi visto con i miei occhi, non vi avrei mai creduto.
Come me, altre persone erano rimaste allibite per quella scena! Tutti guardavano e quasi inavvertitamente seguivano e s'aggiungevano al corteo, pur essendo sconosciuti a Bice. Lei sempre così sola, adesso, grazie ai suoi amici gatti, aveva dietro a sé tantissime persone ad accompagnarla. Naturalmente c'ero pure io!