Alberto Caputi
Mi chiamo Alberto Caputi, laureato, lettore,
e...scrivo |
UOMINI L'infamia della luce colse impreparati i nostri occhi, ci svegliammo colle
pupille forate da fasci di giallo obliquo nelle nostre tute grinzose ed opache.
La prima visione fu terrificante, tra il velo del sonno che si stava lentamente
sciogliendo intravedevamo gli sguardi irrisori e crudeli del nemico, colle armi nelle mani
puntate verso le nostre teste indifese.
Nessuno può immaginare il terrore che si cela dietro il passaggio da un posto irrealmente
onirico, popolato di calore e quiete, alla realtà così cruda e violenta, si percepisce
la morte dopo averla provata, tutte le sensazioni vengono posticipate di un attimo
rispetto alle azioni, fino a quando si é scagliati in un posto dove tutto é solo
sensazione, illusione.
Le armi bianche del nemico rilucevano belle al sole, il freddo le aveva rese compatte e
dure. Sapevamo già da ieri che al dolore della sconfitta si sarebbe aggiunto quello
fisico, erano lì, a guardarci e a godere della vittoria prima di perpetuarla, prima che
lo scempio sui nostri vestiti e sul nostro orgoglio avesse ridotto tutto ad una festa e ad
un ricordo destinato a perdersi nelle nostre profonde menti. Le pareti bianche esaltavano
i loro colori, segni indicibili di forza ed organizzazione, erano da sempre i padroni
della materia bellica, e noi piccoli soldati armati di coraggio sprezzante, ma solo di
quello, non potevamo competere.
Io ero il capo, qualche pelo morbido sul labbro aveva valso la mia elezione a generale. La
preparazione fu dura, il ripudio dell'Estate gaia ci aveva dato molta sofferenza, il
sacrificio del gioco per un più alto ideale mi fece capire che l'animo dei miei uomini
era votato alla vittoria oppure, come avvenne, alla morte.
Fummo colpiti, le nostre anime si dilaniarono, e non potendo né sanguinare né urlare
implosero in silenzio senza lasciare tracce. I colpi infertici non ci segnarono il corpo,
rimasero solo delle macchie d'acqua e qualche mollica bianca a testimoniare la sconfitta,
dopo la sferzata delle risa il nemico si ritirò, lasciandoci immersi in un sole che non
riscaldava.
Tutto era finito, i più tornarono dalle loro donne che li cambiarono e gli diedero la
zuppa mattutina, forse qualche schiaffo per essersi bagnati, io restai lì per molto
tempo, sedotto da un'indicibile voglia di requie e silenzio, poi mia madre mi venne a
prelevare. La neve si sciolse, ed il nostro arsenale si ridusse ad un mucchio di
pozzanghere umide da cui nacque erba, il tempo cancellò il passato, né la storia
ricordò quella guerra. L'inverno successivo ci trovò cambiati, gli animi erano ancora
segnati, ma da solchi stretti e poco profondi che in poco tempo si chiusero senza quasi
lasciare traccia.
Tutto ciò che successe ora lo ricordo con rabbia, colla rabbia che solo un uomo di
quarant'anni può avere quando scopre che il mondo e il suo corpo l'hanno tradito, celando
un bambino che solo adesso potrebbe vivere, e avendo celato un uomo che solo allora poteva
esistere. |