Luckino
23 anni è deejay, musicista e artista a 360
gradi. Scrive racconti per piacere personale, adora il mare, gli animali e tutte le
espressioni d'arte in genere. |
ALTA MAREA La leucemia me lo portò via in un grigio e piovoso pomeriggio di fine
settembre, uno di quei giorni che fa ancora troppo caldo per mettere il maglione, ma fa
già troppo freddo per non metterlo e, alla fine, decidi che non t'importa poi così tanto
e, il maglione lo metti lo stesso. E poi, può succedere che ti ritrovi a piangere,
stretto in quel maglione che ti ha regalato lui, fuori da un Autogrill e che il freddo lo
senti davvero, e fa anche male, come centinaia di piccoli serpenti che ti mordono la
pelle.
Fa davvero male guardare sua madre negli occhi, gli stessi occhi blu di Marco e capire che
entrambi avete perso tutto, che non ci saranno più vacanze insieme e
"signoraquantosonobuonelesuelasagne!".
"Vieni, il dottore ti spiegherà tutto", mi aveva detto tre giorni prima, quando
ero andato all'ospedale per vedere come stava il mio piccolo principe. Avevo comprato per
lui un orsacchiotto che teneva in mano un grande cuore rosso. La commessa del negozio di
giocattoli mi aveva sorriso chiedendomi se era per la mia ragazza, io avevo risposto di
sì, senza nemmeno alzare lo sguardo.
Il medico era un signore sui cinquant'anni, alto e muscoloso. Non avrebbe certo sfigurato
come protagonista di qualche telefilm americano. "Purtroppo ci siamo accorti tardi
della malattia, le cellule leucemiche hanno già compromesso diversi organi, mi dispiace,
non credo che resisterà più di un mese...".
"Non mi basta un mese!", avevo detto aggrappandomi con tutte le mie forze
all'orsacchiotto. "Vuoi vederlo?", mi aveva interrotto, con infinita dolcezza,
la madre.
Nei corridoi l'odore di etere e di medicinali era insopportabile. Avrei voluto vomitare.
Alcuni pazienti camminavano avanti e indietro, senza badare a noi e alle lacrime che ci
bagnavano gli occhi.
La stanza di Marco era completamente arredata di bianco: mobili bianchi, lenzuola bianche
e anche lui era vestito di bianco. Nel letto, con l'ago della flebo infilato nel braccio
sembrava ancora più dolce e indifeso di quello che era realmente. Un angelo che si è
spezzato le ali e non riesce più a volare.
"Sai che sto per morire?", mi aveva detto sorridendomi. "Non morirai e
appena esci da qui ti porto al mare, te lo prometto!". Non sapevo come avrei potuto
mantenere la mia promessa, ma come si fa a dire a un ragazzo di sedici anni che sì, ha
ragione, sta per morire?
"Ti amo", mi aveva detto mentre gli davo il regalo. "Anche io ti
amo...", e solo Dio sa quanto era vero in quel momento. "Torno domani, adesso
riposati". Ma non ci sarebbe stato nessun domani!
Boom boom boom, la musica techno a duecento battute al minuto mi rimbalza nella testa,
entra dalle orecchie, non ha vie d'uscita, spacca il cervello. La bassa marea colpisce al
cuore, improvvisamente, lasciando il suo carico di conchiglie, rifiuti e meduse morte che
si scioglieranno con l'arrivo del primo sole.
La madre di Marco, seduta in prima fila, di fianco a me, non ha nemmeno la forza per
alzarsi in piedi quando il prete comicia a recitare l'omelia. Suo padre, c'era da
giurarci, non è venuto. Nessuno ha più avuto sue notizie da quando è scappato con
quella ballerina polacca. Gli amici, in piedi in fondo alla chiesa, piangono. Guardo la
bara bianca, guardo l'orsacchiotto appoggiato sopra, ce l'ho messo io, guardo Don Franco
che, forse più di tutti, comprende quanto stiamo soffrendo. Lo guardo, ma non riesco a
sentire le sue parole.
La chiesa di San Giovanni è piena di gente, più che un funerale sembra una sfilata di
moda. Tutte le signore ostentano il loro falso dolore di circostanza nascoste dietro i
loro bei vestitini firmati, comprati per l'occasione o recuperati dal matrimonio di
qualche lontano cugino. Gran parte dei loro mariti avrebbe voluto venire ma "sapete,
col lavoro che fanno, proprio non hanno potuto!". Penso a come sono vestito io: jeans
neri e una maglietta nera con la scritta "CIAO MARCO". Me la sono fatta stampare
in un centro commerciale. A lui sarebbe piaciuta. A me fa soltanto capire che, a
vent'anni, sono rimasto solo. Per sempre.
Fuori dalla chiesa mi rendo conto che è una bella giornata di sole, l'azzuro del cielo è
lo stesso colore degli occhi della persona che ho amato per due anni e che adesso,
semplicemente, non c'è più. La madre del piccolo principe mi prende per mano, mentre il
corteo si avvia, tristemente, verso il cimitero.
"Ti ricordi quanto ci siamo divertiti l'altra estate, al mare?". Ricordo tutto
perfettamente. Le notti passate in spiaggia con Marco, abbracciati, senza dire una sola
parola, il profumo della sua pelle, i baci davanti all'immensità del mare. Ricordo
benissimo, ad una ad una, le notti stellate della Versilia e sua madre che ci prendeva
sempre in giro. "Vi siete divertiti ieri sera? Ma perchè non vi sposate?", e
tutti e tre ridevamo. Ricordo che giocavamo a inseguirci in spiaggia, e quando uno dei due
riusciva a catturare l'altro lo sommergeva di baci e di carezze. Ricordo che ho fatto una
promessa a Marco e la devo mantenere.
"Devo scappare!", dico non appena finisce lo straziante rito della sepoltura.
Corro fuori dal cimitero, cercando di asciugare le lacrime che mi bagnano gli occhi. Salgo
in macchina, abbasso il finestrino e accendo una Marlboro. L'aria che entra nella Ford mi
parla di Marco, mentre sto guidando in autostrada a centonovanta all'ora.
Arrivo a Viareggio che ormai è quasi buio, lascio la macchina sulla statale ed entro
nella pineta. In pochi minuti raggiungo la spiaggia. Non c'è nessuno. A circa duecento
metri vedo l'ombra del molo dove ci sedevamo ogni sera a mangiare il gelato. Corro ancora,
più veloce che posso, anche se le scarpe affondano nella sabbia.
L'alta marea colpisce alle spalle, improvvisamente, riportandosi via conchiglie e rifiuti.
Le meduse, quelle no, ormai si sono sciolte al sole. Porta via qualche ricordo, non tutti.
Porta via i miei sogni, le mie speranze, il mio futuro. Porta via le mie lacrime.
"Non morirai e appena esci da qui ti porto al mare, te lo prometto!".
Porta via una foto di Marco che tenevo in una tasca dei jeans. |