Akul K.

Nato a Napoli il 1967 e ivi residente.
Alto circa un metro e ottanta, capelli neri e spettinati, ha un fisicaccio longilineo da cui spicca un accenno di pancia. Voce nasale con lieve cadenza napoletana e mani grandi da post-artigiano, il nostro Akul è contento del proprio aspetto fisico. Lo sguardo è certamente il suo punto di forza, non a caso fa il fotografo da più di dieci anni: occhi mandorlati e profondi, che trasmettono uno spessore non reale, come un bluff al poker. Il suo sogno da bambino era di fare il mantenuto, poter passeggiare per Via Toledo con un cappotto elegante e austero; oggi, dopo aver nell'ordine sognato di fare: il francescano, il papa, il trascinatore di masse, il marinaio, l'artista e il fotografo, sogna un'altra volta di fare il mantenuto. Invece combatte per la sopravvivenza, sua e della famiglia, è arrivato tante volte vicino ad un'affermazione professionale o almeno ad una conveniente organizzazione esistenziale, ma ogni volta qualcosa è andato storto e tutto si è risolto con una ripartenza e un trasloco.

Vita, sangue e altre sciocchezze

I Capitolo

Scrittori per caso
I detenuti e le lettere d'amore

"In carcere subito si sparge la voce che c'è un poeta, nessuno sa scrivere e iniziano a chiederti lettere d'amore. La cosa più tosta è che io mi devo immedesimare in altre storie, una cosa è scrivere alla propria fidanzata, un'altra è cercare di conquistare o peggio riconquistare una donna non mia. Per mesi rispondi a lettere, a volte molto intime, a persone che non hai mai visto. Ci vuole fegato a non sputtanare i compagni sui ciccino o sulle varie promesse erotiche. Ma che potevo fare, per telefonare devi avere un rapporto di parentela e spesso quando si è innamorati, tanto da desiderare un contatto con le persone, è prima di sposarsi. Poi prova a dire certe cose carine con uno sbirro che ascolta e i compagni in fila dietro che ti prendono per il culo."

Bodè è un poeta. Quando è di buon umore scrive versi d'amore che sono utilizzati da altri detenuti per stupire la proprie donne o, se è fuori, da qualcuno che vuole rassicurare i compagni carcerati. Ha quarant'anni, i capelli bianco saggezza e l'aspetto di un asceta. Alle spalle venticinque anni di eroina, venticinque anni di dentro e fuori la vita, dentro e fuori il carcere.
L'incontro è a Piazza Plebiscito, Bodè è uscito da un paio di mesi e questa volta dice di far sul serio: ha appena comprato duecento carte di metadone e sta andando farsi la rota a casa. L'anziana mamma ha già avvertito amici e parenti di stare per qualche giorno alla larga.

"Ieri ho aspettato sei ore mia sorella per avere un po' di soldi, il cobretto (eroina sintetica) non è come l'eroina, il cobretto ti fotte il cervello, entra nei polmoni e ti leva le parole dalla bocca. In carcere anche da lucido dai la testa al muro, ma adesso non voglio più casini.
Andiamo, prima di rinchiudermi a casa ti accompagno da Stefano, ti aiuterà più di me. Io non ci capisco più niente."

Scendiamo la scalinata del Gigante sotto braccio, a vederci da dietro sembriamo due turisti, solo le nostre facce del sud ricordano alle vecchiette di passaggio di avvinghiarsi alle proprie borse.

Stefano Esposito ha quarantatré anni e diciassette di carcere, scontati in cinque riprese. Fa il parcheggiatore abusivo fuori dai cancelli del Circolo Canottieri, quello di Rosolino e dell'alta borghesia. Nel 93 ha conosciuto una ragazza madre e l'ha sposata, ma il matrimonio è durato poco, poi Stefano è tornato in galera. Durante l'ultima detenzione, un anno in una casa di lavoro, non ha mai scritto.
"Con gli anni mi era passata la voglia di scrivere, All'inizio non sapevo neanche farlo, poi ho fatto un po' di scuola in carcere. Mi dava fastidio che quando una ragazza mi scriveva dovevo farmi leggere la lettera e, soprattutto, farmi scrivere la risposta. Gli altri scrivono con il loro cervello e io volevo riuscire a comunicare le mie parole. Solo così sentivo le lettere dentro di me. Quando verso le quattro del pomeriggio, chiudevano l'aria, mi sedevo e scrivevo le mie cose. Ho anche insegnato ad un ragazzo a scrivere il suo nome e cognome, non che riuscisse a leggerlo, firmava come se fosse un disegno. Si chiamava Russo Pasquale."
A.K.: Non c'è mai stato un momento in cui rimpiangi di essere fuori?
S.: E' troppo negativo, dentro ti viene un'ansia che ti brucia, un'ansia che mi ha fatto crescere senza niente davanti. Soltanto ferro. Nella detenzione più lunga ho lasciato una sorella piccola e quando sono uscito era sposata.
A.K.: Una lettera che non sei riuscito a scrivere?
S.: Ero appena rientrato da un permesso speciale, sotto scorta e con le manette, avevo visto morire mia madre, volevo dare una parola alle mie sorelle, mi è rimasta in gola, un foglio bianco e qualcosa nella testa che si era rotta per sempre.

Venti miliardi girano per l'Italia e vari magistrati cercano Luigi di Perna per recuperarli. Io sono andato a trovarlo a casa. Quarantacinque anni, di cui undici in carcere per condanne sempre inferiori ai tre anni, Luigi vive con moglie e figli, in una casa occupata di circa trentacinque metri quadrati. L'ho conosciuto qualche anno fa quando aveva occupato un'aiuola di Piazza Municipio.
Aveva piazzato una branda, un tavolo e due comodini e si era trasferito lì con l'intera famiglia. Una protesta eclatante che aveva attirato molti mass media. Poi alcuni studenti gli offrirono una sistemazione nei locali dello studentato e Luigi sparì, dentro quel vicolo strettissimo in cui ho fatto fatica a camminare con la mia borsa di fotografo senza strusciare sui muri.

Con le lettere d'amore non c'entra molto. Ha scritto spesso alla moglie, ma il più delle volte per risolvere problemi burocratici, però ci tiene molto ad apparire in questo servizio: così tutti i magistrati possono confutargli le varie rapine, ma insieme, senza lo stillicidio di continue carcerazioni preventive di due o tre mesi, nell'attesa di incidenti probatori e confronti che alla fine lo scagionano sempre.
" Verona, Torino, Bologna città in cui non sono mai stato e complici che non mi conoscono. E' la faccia che mi fotte, assomiglio a Totò e quindi sono familiare. I testimoni mi riconoscono sulle foto segnaletiche e parte l'inchiesta, dopo gli stessi testimoni riconoscono di non avermi mai visto e io ne esco sempre pulito, ma nel frattempo ho avuto un sacco di rogne e detenzioni ingiuste."

Pasqualino Gragnaniello ha trentasette anni; si è fatto sei anni di carcere in tre detenzioni diverse. Il ricordo del primo arresto e l'entrata nel carcere sono impressi nella memoria, come la pagina più nera della sua esistenza. La sconfortante prassi burocratica, poi l'invio in cella. I lunghi corridoi che inghiottivano i suoi sogni e quei cancelli pesanti, troppo pesanti per l'adolescenza di Pasqualino, che si chiudevano alle sue spalle con un rumore sordo e sconvolgente.
"All'inizio solo rabbia. La rabbia vera è una sensazione che ti prende in pancia e non ti molla. Poi apprendi la regola non scritta della sopravvivenza in carcere: il silenzio del tempo."

Ha fatto migliaia di disegni e di lettere per sé e per i compagni, oggi è un L.s.u e fa il manager di un gruppo di musicisti da strada Rom (Pamunt) di cui il fratello Enzo, il noto cantante è produttore. Mi è difficile parlare di Pasqualino perché è un mio amico. Posso soltanto dire che ha un estro vero e che, in un'altra società, forse il suo destino sarebbe stato diverso.

Pepp'o riccio alias Giuseppe Silvestri è nato il 1958, è sposato ed ha tre figli, quando è in carcere scrive per professione. Ufficialmente è "scrivano": aiuta altri detenuti a fare le varie domande scritte che la burocrazia carceraria richiede. Così riesce anche a mandare due lire a casa.
" Quando chiudevano i passeggi solo chi lavorava poteva stare in giro. Io passavo come un sacerdote, mi appartavo vicino alle grate e ascoltavo i messaggi che poi dovevo scrivere.
Momenti intimi che venivano sussurrati, ma le lettere private, che io facevo extra e gratis, erano le più intense. Erano sempre promesse. Io cercavo di dare conforto, anche perché sapevo che quelle erano promesse mancate. Nello stretto vedi l'uomo, capisci subito chi è buono e chi è una chiavica. In carcere ci sono false speranze, ma non c'è menzogna: ognuno è solo ed è solo se stesso. Io cercavo di capire e trasmettere, senza fronzoli personali. In alcuni casi ho conosciuto fuori o ai colloqui le destinatarie delle mie lettere, ma non ho avuto nessun imbarazzo, perché finita la lettera me ne distaccavo sempre."
Peppino ha settanta anni, due mogli, dieci figli vivi, quaranta, cinquanta nipoti, una ventina di pronipoti e una decina d'anni di carcere. Detenzioni vissute in epoche così diverse, che è un po' un esperto dei mutamenti della detenzione.
"Quando ero giovane è stato per me un passaggio obbligato, mi sentivo spaesato, ma era abbastanza sereno sia io sia l'ambiente. L'ultima volta, invece è stata spaventosa, il carcere è diventato un inferno: a Poggioreale, nel settanta, eravamo massimo sei in cella; a Santa Maria Capua Vetere, nella fine degli anni ottanta, eravamo quarantotto e una volta arrivammo a sessanta in una camerata e con un cesso solo. Anche la violenza è diventata piano piano più malata.
La volontà di scrivere con gli anni è diminuita: la televisione a manetta, tutti che fumano e parlano ad alta voce, per trovare, non dico un'intimità con me stesso, ma un po' di pace, dovevo aspettare la notte. Solo allora nella mia branda riuscivo a scrivere qualche parola d'amore."
A.K.: Con te ho finito il servizio, chiudiamolo con un'immagine bella.
P.: "Gli ultimi tempi a Santa Maria avevano fiducia in me e mi mandavano, accompagnato da uno sbirro, a spazzare il viale antistante il carcere. Quell'oretta che uscivo mia moglie veniva a guardarmi, a volte portava un figlio o un amico e stavamo lì a guardarci da lontano."

 

II Capitolo

Cuori d'inverno
La vana ricerca di fotografare gratis qualche spogliarellista.

La stanza è buia, illuminata soltanto da alcune candele rosse. Seduto al centro del locale vuoto c'è un uomo sulla cinquantina. Sul tavolo c'è un libro di Erri de Luca. Mi avvicino e domando se è arrivato A.. L'uomo mi guarda con aria sospetta e risponde: "Dipende". Solo allora capisco che è lui la persona che debbo incontrare.Mi aspettavo un uomo grasso e volgare e mi ritrovo davanti un tipetto con l'aria sognante e un libro tra le mani.
La conversazione è assurda:
A.K.: In realtà io sono un fotografo, saltuariamente scrivo qualcosa.
A: Non sarà semplice, io proverò ad aiutarti, non perché me ne freghi, ma perché sei amico di Alessandra.
A.K.: (contento di aver finalmente trovato un buon motivo per aver realizzato gratis la copertina del disco di Alessandra) Grande amica. Grande voce. Lei mi ha detto che sei un tipo giusto.
A: Debbo sondare il terreno, ci vorrà qualche giorno, le ragazze sono un po' sotto tensione in questo periodo.
A.K.: Perché si avvicina Natale?
A: (sorride di tanta ingenuità) Hanno paura dei giornalisti.
A.K.: Io non sono un giornalista, posso scrivere quello che voglio, non parlare di te e non dire neanche il nome della città dove siamo. L'importante è fotografare le ragazze fuori dell'attività lavorativa, vedere le loro case e sentirne le storie, io non entro in quello che fanno.
A: Ci provo, chiamami tra qualche giorno.
L'incontro si interrompe con questo vago impegno di A., organizzatore di spogliarelli e intellettuale mancato.

Gianturco non è granturco scritto male, è un quartiere alla periferia orientale di Napoli, l'ultima fermata della metropolitana.
Un inferno di rovine post tutto dove, tra puttane e cinesi, spuntano le ciminiere di un sogno industriale mancato.
C'è un centro sociale, imborghesito ma vivo, e un viavai di camion che non si sa cosa portano e dove.
H. mi guarda con l'aria di quella che non vuole essere presa per il culo.
La casa è buia, tutte le finestre sono chiuse, eppure si respira un'aria molto profumata.
Il bagno è pulitissimo, in stile dopoguerra, con il lavabo piccolo che perde. Vivono una decina di ragazze ucraine, tutte belle tranne una che accudisce un anziano paralitico del Vomero, le altre lavorano nei locali "cosi" della città. La paga è molto alta, anche tre milioni al mese, se vuoi non batti nemmeno. H. mette su un po' di musica, inizialmente mi sembra Gigi D'Alessio, poi capisco che si tratta di qualche "neomelodico" ucraino. Mi offre un caffè e mi chiede cinquecentomila lire di compenso per farsi fare le foto. Rifletto su cosa rispondere, poi opto per la verità: se tutto va bene le danno a me cinquecentomila lire. H. sorride incredula: "Allora niente foto e niente extra, ma se vuoi ti racconto qualcosa".
A.K.: Cosa rimpiangi?
H: Le feste al mio paese, la vita sobria, le pietanze delle grandi occasioni, piene di burro e la capacità di amare.
A.K.: Cosa ti impedisce di amare?
H: Tornare a casa e sentire l'odore di uomini sconosciuti sulla mia pelle.
A.K.: Perché non scappi?
H: Dove? Al mio paese sanno chi sono e anche io non lo dimentico mai.
A.K.: Hai mai provato?

H: Quattro o cinque di anni fa, ero da poco arrivata in Italia, ad un addio al celibato conobbi un ragazzo, mi riempì d'amore e di sogni, poi iniziò a provare una gelosia violenta e assurda. Io pronta a lasciare tutto e lui, che nel frattempo si era abituato ad una vita da nababbo, a farmi sentire una puttana ma a fottermi quotidianamente i soldi dal borsellino.
E' scomparso appena ha capito che in fondo la puttana era lui.
A.K.: Da allora?
H: Qualche amico e se mi va ci scopo pure gratis.
A.K.: Sei bella e sei sveglia, non è presto per la malinconia?
H: Portami con te bel fotografo, portami dalla tua mamma: questa è H. con cinquanta carte la vedi nuda, con cento ci fai qualcosina e con cinquecento ci fai le foto…la verità è che in questo mondo alcuni sfigati, a ventisette anni, sono già finiti.
A.K.: Non hai l'aria di chi è finita, cosa potresti fare?
H: Salutarti.
Appena finita questa sottospecie di intervista, H. si leva la maschera dannata e un po' fittizia e chiacchieriamo amabilmente per tutto il tragitto che ci separa dalla metropolitana. Mi parla del bosco del suo paese, del sabato sera alcolico tra amici, del freddo e del fatto che la fine dell'Unione Sovietica è stato un problema più nostro che loro.
Poi, seduti vicini restiamo in silenzio fino alla fermata della stazione centrale dove, tra la folla che sale, riconosco il mio amico Pino. Si avvicina con un sorriso ebete da conquistatore e, mentre li presento, capisco il senso delle sue parole: con cinquanta la vedi nuda, con cento ci fai qualcosina e con cinquecento ci fai le foto.
H. scende a Montesanto e mi saluta con immeritata cortesia.

Pino, scalfendo il mio precario segreto professionale, si offre di accompagnarmi la sera stessa allo XY, storico locale di strip tease e altro. Chiacchierando sull'argomento spogliarello salta fuori la storia di una certa D. di Secondigliano, una ragazza che incontrai un paio di volte, ma con la quale Pino ha avuto una storia qualche anno fa. Certamente non si farà fotografare, ma non mi negherà un'intervista. Un po' deluso, inizio a sospettare che senza soldi questo genere di foto non si fa. Mi faccio dare il numero del cellulare di D. e prendo appuntamento con Pino per le undici.
Poi, arrivato a casa, telefono:
A.K.: D. sono Akul l'amico di Pino, posso farti qualche domanda?
D: E' il tuo modo di eccitarti?
A.K.: Forse. Sto facendo un reportage sul tuo "mestiere".
D: Io non parlo.
A.K.: Dimmi almeno di Pino?
D: Ti ricordi che lavoravo in un pub al week-end? Lui veniva sempre, ci siamo scambiati il numero di telefono e ci siamo frequentati per un po'. Poi io ho iniziato a lavorare al locale X, guadagnavo un milione e mezzo a fine settimana, invece delle 250.000 del pub, allora Pino è sparito.
A.K.: Io non ne sapevo niente fino a questo pomeriggio. Come hai iniziato?
D: Per caso, cercavano una barista e quando hanno capito che ero pronta a tutto mi hanno proposto anche lo spettacolo.
A.K.: A casa tua che hanno detto?

D: Non sanno niente, per loro lavoro come barista per avere quei soldi che come studentessa figlia di operaio non avrei. Sono in regola con gli esami e tra un paio d'anni, se tutto va bene, sarò laureata, specializzata e piena di soldi. Libera di scappare da questo cesso di Secondigliano.
A.K.: In fondo Pino ti voleva bene; appena aveva un minuto correva lui in quel cesso di Secondigliano, per vederti. Ti aveva accettata così, studentessa, senza una lira e figlia di operai.
D: Ero io che non mi accettavo. Oggi ho quello che voglio: un futuro. Quando vado a letto con un cliente ci vado perché forse ci sarei andata anche gratis. Il mio lavoro è lo spettacolo; gli extra, quelli li gestisco io, quando, come e con chi voglio.
A.K.: In tutto quanto riesci a guadagnare?
D: Circa venti milioni al mese, netti e senza strafare.
A.K.: Una volta laureata e specializzata a stento ne guadagnerai tre.
D: Si ma avrò una casa di proprietà, un bel conto in banca e una città nuova dove nessuno sa di Secondigliano e del "mestiere".
La telefonata finisce più o meno così, inutile insistere sulle fotografie.
Ricordo il viso fresco e puro di D., il suo arrossire alle ripetute avances di Pino, la voce chiara, forse troppo chiara per una di Secondigliano.

XY è sul mare. Dopo aver litigato qualche minuto con la cassiera che non vuole tenere i nostri caschi, entriamo nel locale. Lo spettacolo è penoso, una ragazzona un po' in là con gli anni mima una danza erotica assolutamente priva di ritmo, avvicindosi, con i suoi seni cascanti, ai volti degli attempati spettatori. I pochi giovani sono quasi tutti bruttini, gli unici tavoli interessanti sono quelli degli addii al celibato dove, se non altro, c'è un po' di allegria. Di foto gratis neanche a parlarne, ma di interviste quante ne vuoi. Bello improvvisarmi giornalista, mi siedo con Pino al tavolo e mi faccio portare in visione tutte le ragazze che ci sono. Poi trovo quella che mi interessa, l'accordo è elementare, ogni cinque minuti di conversazione, il cameriere prende l'ordinazione alla ragazza. Mezzo bicchiere di acqua colorata ventimila lire. Un lungo tira e molla e l'affare è fatto: cinquantamila lire, la ragazza per due o tre giri e per noi birra.
A.K.: Voglio vedere la tua casa.
C.: Ci vuole mezzo milione.
A.K.: Ma cosa sono tariffe sindacali? Tutte mezzo milione, mica c'è la fila di reporter per vedere le vostre case o per fotografarvi.
C: (Estrae l'accendino dalla borsetta e mi illumina il volto) Io ti guardo in faccia, ma non so chi sei. Dove vanno le foto? Sono certa che non sei il tipo violento. Chissà forse è solo una scusa per scopare, ma è sempre un rischio, perché dovrei correrlo gratis? Cinquecentomila lire e facciamo foto, intervista e se vuoi una cosa a tre.

A.K.: Non mi piace farmi una donna pagando.
C.: Sei frocio?
A.K.: No, per nulla, è solo che non mi pare giusto. Ti sembra strano?
C.: Si. Secondo me o sei frocio o non hai i soldi.
A.K.: Da quanto tempo sei a Napoli?
C.: Qualche mese, noi restiamo poco in ogni città. Dobbiamo sempre dare la sensazione di essere fresche.
A.K.: (Oramai in preda a convulsioni marzullesche) Dimmi quello che vuoi? Chi sei? Cosa vuoi dalla vita oltre a mostrarti a qualche deficiente frustrato?

C.: Sono del Venezuela, ho venticinque anni, una figlia di otto, un matrimonio fallito, una famiglia che crede ancora alla favola che la figlia è venuta in Italia ed ha svoltato. Una cicatrice di venti punti sul torace, rimediata da uno che non aveva la faccia come la tua e il sogno, una volta raggranellati i soldi per dimostrare di non essere una fallita, di tornare a casa e ricominciare daccapo. Con mia figlia che grazie a questi soldi non farà la puttana. Semplice no?
A.K.: Fin troppo. Cosa fai quando non sei al locale?
C.: Chiudiamo verso le due, poi c'è sempre un festino o un cliente particolare e prima delle cinque non sono mai a casa. Dormo fino alle 13 e il pomeriggio scrivo una lettera a mia figlia e metto a posto la casa. Raramente sono invitata a pranzo e sempre per lavoro.
A.K.: Dove e quando mangi?
C.: La notte uscita dal locale vado a Piazza Municipio e prima di continuare la serata mangio un panino ai camion (chioschi ambulanti aperti tutta la notte); il giorno mangiucchio a casa.
Ci salutiamo, mentre Pino si avvia da solo verso l'uscita. Improvvisamente mi sento tirare una spalla, mi volto spaventato e vedo C..

Un corpo sottile, fasciato da un abito bianco scollatissimo da cui spicca la pelle dorata, mi trascina in un angolo buio. Accende l'accendino, illuminando questa volta il suo volto stupendo e mi mostra, accanto ai suoi occhi, la foto di sua figlia. Io estraggo senza riflettere il mio portafogli e spostando lentamente l'accendino, senza far perdere al suo viso il fascio di luce, gli mostro la foto dei miei.
Poi, senza neanche salutarci, ritorniamo alle nostre rispettive strade.

 

III Capitolo

Viaggio in Calabria

L'appuntamento è a Cosenza: parco Nicholas Greene. Arrivo per primo e resisto a fatica agli attacchi dei tossici: al primo regalo la mia scheda telefonica quasi esaurita, al secondo due sigarette, al terzo cinquecento lire, agli altri niente. Mary arriva quasi subito, scorgo la sua chioma bianca e rada da lontano, ha una giacca di pelle nera aperta, da cui spicca una silhouette ancora soda per una cinquantenne.
Cosa ci fa un'inglese snob e colta a Cosenza?
Ci siamo conosciuti quest'estate, sempre in Calabria, se non fosse che gli da fastidio quando le fumo vicino, sarebbe quasi perfetta. Cortese e alla mano, fin da subito, abbiamo deciso di fare qualche lavoro insieme. Lei è una scrittrice e collabora anche per alcuni giornali di lingua inglese.
Nata in un paesino "country", ventenne è scappata da casa approdando a Parigi in mezzo alle barricate del sessantotto. Poi, seguendo i suoi amori è arrivata a Milano, dove sebbene "non impegnata" si è vissuta l'aria frizzante degli anni settanta. La Milano da bere non l'ha bevuta, si era già ritirata in Toscana; un paesino del senese e un decentramento professionale proficuo e libero. Non ha figli né un marito, vive un'intensa storia d'amore con un tipo della zona e viaggia molto.
Mentre chiacchieriamo, arriva Silvia, nata a Tarsia, un paesino di cinquecento anime a pochi chilometri da Cosenza, ma da tempo residente a Bologna. Dove ha un marito, due figli maschi ed una società di ricerca e formazione che collabora a decine di progetti per lo sviluppo in più paesi europei e no. Silvia è figlia di gente semplice: un'incrollabile fede in Dio e nell'uomo la ha spinta ad una forsennata attività professionale, culminata nella realizzazione di molti dei suoi progetti e in varie pubblicazioni. Vedendola insieme alla madre, sembra che la storia abbia fatto un salto di parecchie generazioni.
Commentiamo la scritta "non calpestare le aiuole" che campeggia minacciosa su un terreno incolto e aspettiamo Chiara, la presidentessa italiana delle tessitrici a mano.

Chiara ha qualcosa di Francesco Guccini e qualcosa di Inge Feltrinelli, arriva con la sua Kango bianca e, senza reticenze, ci racconta di lei: padana e borghese, ha un passato in Lotta Continua. Abbandonata la famiglia per un operaio squattrinato ha vissuto in varie comuni, fino alla nascita della sua prima figlia e all'amore per il telaio. Il disimpegno politico, fisiologico per molti del suo vissuto, ha coinciso con un fervore a favore dell'artigianato e dell'agricoltura biologica, entrambe praticate in prima persona nella casa laboratorio a Sovana (Grosseto), insieme all'ultimo compagno che si occupa di giocattoli e alla seconda figlia.

***

Il viaggio si annuncia lungo, così senza indugiare confesso alle signore i miei limiti di postfotografopostindustriale: "Guido male e controvoglia, non riesco a fare le didascalie e soprattutto ho sempre fame".
Chiara si assume la responsabilità di guidare, Mary quella delle didascalie e Silvia dell'organizzazione degli incontri.
Si inizia da San Floro in provincia di Catanzaro. Arriviamo nella piazza del paese dove ci aspetta il sindaco Florino Vivino o Vivino Florino: un tipetto furbo e simpatico, miniatura struggente di Achille Occhetto.
Florino ci mostra la sua adesione sincera al progetto di Silvia su "moda e sviluppo" e un vestito da sposa dell'ottocento.
Penso: "Adesso glielo faccio indossare e lo fotografo", poi la razionalità ha il sopravvento e passiamo oltre.

A Cortale, sempre in provincia di Catanzaro, facciamo più fatica a trovare qualcosa o qualcuno d'interessante nel campo tessile. Il Sindaco ci spiega che, nonostante fosse stato avvisato, ci vogliono almeno quindici giorni di preavviso per organizzare, poi cede alle nostre insistenze, va al balcone e inizia ad urlare in una lingua incomprensibile, capisco solo il nome di chi cerca: Maria. Scendiamo dal municipio e, a pochi metri, veniamo ricevuti da Maria che ci fa entrare nella sua casa, senza intonaco né pavimento e ci mostra il telaio.

Dopo, vediamo la casa di Vittoria, anche questa senza intonaci, ma con il pavimento, e fotografiamo varie fasi della lavorazione della seta.
Attraversiamo Cimigliano, Soveria Mannelli, San Pietro Apostolo e andiamo a dormire a Decollatura.

***

La mattina ci svegliamo e troviamo la neve. La strada che dobbiamo fare e ancora lunga, a tratti ricoperta di fango e ghiaccio, io cerco con lo sguardo una cabina telefonica, ma non la trovo. Avete mai provato a cercare un telefono pubblico in Calabria? Si va avanti per chilometri, incontrando negozi, pompe di benzina e bar, ma di telefoni neanche a parlarne. Mia moglie, per fortuna, ha capito che quando vado in Calabria difficilmente telefono e non si preoccupa.
Arriviamo a Sellia Marina e incontriamo un romano che produce borse e sostiene che il suo più grande errore è stato sposarsi una calabrese e seguirla quaggiù, un gruppo di ricamatrici e la padrona dell'agriturismo, dove sono avvenuti gli incontri. Anche a Sellia domando se c'è un telefono e mi rispondono che loro non lo hanno, ma che alla pompa di benzina a un paio di chilometri forse c'è. Desisto.
Non avendo ancora trovato delle belle facce, fotografo le mie accompagnatrici con i prototipi dei vestiti del progetto e siamo di nuovo in macchina, verso la locride, si mangia al volo un piatto di pasta scotta e una parmigiana fredda e orribile, poi arriviamo a Gioiosa (RC).
Nel laboratorio della ricamatrice Rosanna c'è tensione: il marito la sera stessa deve essere ordinato diacono. Fotografiamo e ripartiamo.
A Riace incontriamo un gruppo di giovani un po' strani, sulle prime pensiamo le cose più terribili, poi capiamo che sono cosi e basta. Ho anche una specie di discussione con il loro capo, lui è diffidente a qualsiasi progetto assistito, peccato che abbia avuto ottanta milioni dalla banca etica e parecchi in regalo dal parroco.
A Locri il gruppo si divide, le donne vanno a dormire a casa del sindaco, io in quella di un magistrato in pensione. Ceniamo in un ristorante della zona rigorosamente senza telefono.

***

La mattina è luminosissima, si passa per Caulonia, dove incontriamo la proprietaria di una filanda per la seta, l'ultima in Italia, dove ormai anche nel comasco si usano semilavorati cinesi e si va verso il Crotonese.
Arriviamo esausti verso le 13, gli incontri sono vari, ma io sono stanco e non ricordo altro che quello che ho mangiato. Alle 16 ci rimettiamo in moto verso casa, è finita la spedizione. Attraversiamo la Sila quasi in silenzio. I monti sono innevati e tetri.
Silvia rompe il ghiaccio, ci narra che quando veniva a passeggiare da queste parti si portava un coltello in tasca, le domando se è ancora pericoloso, lei risponde che non passeggia da venti anni.
Arriviamo a Tarsia, prendiamo un caffè a casa sua e poi andiamo, Silvia rimane a dormire con la mamma, il giorno seguente ha una conferenza stampa a Bari. Noi riprendiamo, con impensabili difficoltà, l'autostrada Salerno - Reggio Calabria. Il viaggio è piacevole, Chiara e Mary mi lasciano alla stazione di Salerno verso le 21 e vanno a dormire in Costiera Amalfitana, per poi raggiungere la Toscana il giorno dopo.

***

Il treno è pieno di giovani, noto con un certo imbarazzo una ragazzona sui venti anni con una mini gonna inesistente, mi passa accanto e va ad aggiungersi ad un drappello di suoi coetanei. Scende a Nocera Inferiore, ma solo dopo aver sorriso a tutti e baciato sguaiatamente uno del gruppo.
Improvvisamente immagino Giorgio Bocca seduto al mio posto che, un po' depresso, prepara un sermone sulle donne della kango (versione moderna della Renoult 4) e quelle del treno. Un articolo triste, con la padana che si fa operaia artigiana a spese sue e per scelta e le indolenti tessitrici calabresi alle quali hanno anche acquistato il telaio. Sulle tre ex sessantottine piene di luce e sulla sbiadita ragazzona di Nocera inferiore: coscia lunga e sguardo spento. G.B. continua la sua amara riflessione rivedendo le tante persone incontrate, delle quali nessuna aveva realizzato il suo progetto con energie proprie. Tutti avevano usufruito di fondi pubblici, dai barbieri alle tessitrici, dagli artigiani ai ristoratori.
Poi, alza il tiro: "Non sarebbe meglio rendere percorribile l'autostrada o almeno mettere tante cabine telefoniche, anziché creare dopo i cassaintegrati, i fasulli industriali, i lavoratori socialmente utili, i falsi invalidi ecc.ecc., anche gli artigiani improvvisati o i ristoratori a scrocco?"
Ma ecco che intravedo la zona orientale di Napoli, sono arrivato. Mi avvio, felice verso l'erretre che mi porta a casa.

Piazza Garibaldi è desolata, qualche battona ubriaca mi guarda come ad un'ultima spiaggia. Ripenso al viaggio, alle mie amiche, tanto più giovani di me. Poi, scorgo l'autobus e mi metto a correre: riuscirò un giorno ad avere anche io un finanziamento pubblico per comprarmi l'attrezzatura digitale che sogno?

 

IV Capitolo

Treno Roma - Napoli

Stefano è nato il 7 giugno di quest'anno, forse conoscerà il padre a Natale. Almeno se Ionut riuscirà ad apparare i dodici milioni che gli servono per comprarsi una casa in Romania. La madre è una delle tante laureate che, con l'arrivo dei padroni dall'ovest, è entrata in fabbrica: lavora per un tedesco che produce abiti da sera. Uno stabilimento rozzo e insicuro, dove riesce a guadagnare abbastanza per tirare avanti. Ionut è arrivato in Italia da sei mesi, ha fatto giusto in tempo a sposarsi e mettere incinta la moglie, poi ha deciso di partire. Il viaggio dalla sua città Baia di mare, al confine con l'Ungheria, ad Aversa, è durato 25 giorni. Ha preso un autobus per varcare il confine ungherese, dove ha sborsato 100 marchi ad una guardia, poi ha attraversato a piedi la Slovenia, cinque giorni senza mangiare, cinque giorni di marcia forzata, con i piedi che non riuscivano più a stare nelle scarpe. Il confine con l'Italia lo ha attraversato durante la notte, è stato anche fermato, ma si sa, gli italiani sono brava gente e Ionut è arrivato ad Aversa. Un paio di giorni per riprendersi, poi a faticare nei campi, albicocche, prugne, meloni, pomodori, olive, patate, 50.000 al giorno e se il padrone è buono ti offre anche il pranzo. Quando c'è da lavorare in qualche impresa di costruzione, è una festa, la giornata arriva fino a novantamila lire.

Vive in un appartamento di due stanze e cucinino in mezzo al sottovuoto spinto tra Caserta e Aversa, un nulla, dove però pagano quasi un milione al mese, sono in sei e con 150.000 a testa se la cavano. Una cinquantina di migliaia di lire tra utenze e varie, qualcosa per mangiare e il resto lo manda alla moglie a casa.

"Baia a mare è un posto dove ci si diverte, anche voi italiani lo avete capito, con due lire trovate tutto quello che serve ad una vacanza, l'estate dura sei mesi ed è molto mite, l'inverno è tosto, anche un metro e venti di neve." Ma perché la tua città si chiama Baia a mare se non c'è il mare? "Non so."

Ionut si accende l'ennesima mia sigaretta, poi domanda qualcosa di me. Io parlo dei miei figli e del fatto che anche io sono costretto a brevi trasferte di lavoro, ma mentre parlo, colgo tutta l'assurdità di questo paragone, così cambio argomento.

Mi viene in aiuto la figlia maggiore di Concetta, che estrae dal suo zainetto un oggetto molto misterioso. E' un portamedicine di plastica trasparente, dove spiccano tante pillole di colore diverso, ogni giorno è diviso in cinque cassettini: morning - lunch - afternonn - evening - bed.
Concetta mostra con orgoglio sia l'oggetto sia la devozione della figlia. Butta giù quattro pasticche colorate e inizia a parlare.
La sua lingua è antica: un napoletano stretto è incomprensibile, che Ionut fa fatica a seguire. Viene dal Minnesota dove vive dal 1947 e da dove, tranne una breve parentesi napoletana nel 1978, non si è mai mossa. Ha sposato un soldato americano, da cui ha avuto quattro figli, due maschi e due femmine e una vita agiata. Il marito è morto da tre mesi, così le figlie hanno deciso di farla distrarre riportandola, dopo quell'unica parentesi del 78, a Napoli. Le figlie hanno una quarantina d'anni, ipernutrite e iperamericane, sono vestite in modo identico e da scout, tranne che tutta quella carne abbondante e ostentata e gli anni, le mostrano sotto un aspetto completamente ridicolo.

Le scarpette da ginnastica firmate, i calzettoni bianchi, le gambocce, gonfie e pelose, i pantaloncini blu e la canottiera attillata e debordante. Non sanno una parola d'italiano, cosi lasciano la sola Concetta a parlare con noi.
Concetta è commossa da Ionut, ma è anche un po' commossa dal parlare in napoletano dopo tanti anni. Ionut è commosso dall'attenzione ricevuta ed io sono commosso dal ritardo del treno. Quando arriva il controllore interrompe un attimo di struggente e malinconico silenzio.
La prima a mostrare il biglietto è una ragazza che fino a quel momento non ci ha degnato di uno sguardo. A dir la verità, essendo bruttina e dal volto antipatico, è stata totalmente ricambiata. Si sfila il Walkman dalle orecchie, mostra il biglietto e lo rinfila, scomparendo in una musica misteriosa e impenetrabile. Ionut non ha il supplemento rapido e becca una multa, peccato pochi minuti e sfangava.

Quando il treno si ferma ad Aversa ci saluta con grande cortesia. Concetta ed io rimaniamo in silenzio alcuni minuti. Poi la più grande delle figlie mi chiede come mai conosco il Minnesota e se ci sono mai stato. Avrei voglia di risponderle male, ma non faccio in tempo a formulare qualche frase sarcastica nel mio terribile inglese, che mi arriva un'altra bordata, è la più piccola (si fa per dire) che sostiene che assomiglio a Dustin Hoffman.
Io sorrido, nascondendo il mio disappunto, poi mi alzo lentamente, saluto e mi avvio in testa al treno. Non resistevo un attimo in più in quello scompartimento: un tempo, le donne che volevano dirmi una cosa carina mi paragonavano a Mel Gibson.

 

V Capitolo

Un cane chiamato Michele

Il canile dove sono nato non è né a Napoli né a Caserta, ma sul confine tra le due città. Così Anna, la mia prima proprietaria, non prende sovvenzioni da nessun comune. Però di cani ne ha seicentocinquanta, sia di Napoli sia di Caserta. Mio padre, non so chi sia. Mia madre mi ha avuto insieme con altri quattro e mi ha accudito qualche mese. Poi, Anna mi ha portato a Via Toledo una domenica mattina e mi ha regalato. A Piazzetta Augusteo quel giorno c'era un casino mostruoso. Quando, verso le due, Anna stava per sbaraccare, ero rimasto solo io. Allora un uomo dall'aspetto rude mi ha preso con se e mi ha chiamato Michele.
A vederci camminare nel vicolo facciamo ridere: lui, il mio padrone, ha i lineamenti armeni, lo sguardo di un marocchino, la carnagione olivastra alla greca e il portamento di Gad Lerner; io, sono un incrocio tra vari bastardi, ho lo sguardo dello spinone, qualcosa di un pastore tedesco e il portamento di un labrador. La mia casa è circa quaranta metri quadrati. Ci abitiamo il padrone, la moglie, tre figli, la suocera ed io.

La mattina del venti dicembre il mio padrone era nervoso. Aveva in tasca trenta mila lire, le ultime. Non ho mai capito perché quando rimane senza soldi, invece di andare a comprare uova, pasta, pelate di pomodori e pane, spende tutto in zucchero e caffè. E' già successo altre volte ed è andata sempre così. Quella mattina però c'era qualcosa di strano. Forse la rabbia per l'avvicinarsi di un Natale povero, o il fatto che la moglie voleva farmi abbandonare, ma il mio padrone aveva, nel suo sguardo qualcosa di spirituale, una specie di rassegnazione quasi zen. Per fortuna rimediò un po' di lire, il Natale non fu così povero, ma la tensione aumentò.

A Santo Stefano, mentre camminavamo sul lungomare, i miei padroni bisticciarono violentemente. Io non sapevo cosa fare, anche perché uno dei motivi ero io. Il succo della questione era questo: la mia padrona voleva rientrare, per arrivare puntuale a casa di Paolo, dove erano invitati a pranzo, il padrone, invece si rompeva i coglioni e voleva portarmi in Villa Comunale a giocare. Alla fine andarono ognuno per la propria strada.
Non avevo capito che un litigio così banale avrebbe avuto conseguenze tanto pesanti e imprevedibili.

Verso le 16, passammo a casa, il mio padrone riempì una busta di plastica con dei cambi e andammo via.
Ma dove andare senza soldi il giorno di Santo Stefano?
Il mio padrone andò dritto allo studentato, una palazzina occupata abusivamente da alcuni anni e occupò abusivamente una stanza della struttura abusivamente occupata. Fu un trionfo, cui seguirono interminabili assemblee, dove però non si riesce tutt'oggi a stabilire se io e il mio padrone abbiamo diritto a quella stanza. Nel frattempo restiamo lì, se non c'è posto dormiamo in cucina e il possessore abusivo della stanza che noi abusivamente occupammo è molto solidale con noi, ci offre le sue coperte e, se esce, ci dà le chiavi della sua stanza.

Il mio padrone, da sempre attivista nei disoccupati organizzati, ha ripreso la lotta con più vigore e vi assicuro che a Napoli avremo una primavera caldissima. Ha anche conosciuto una bella ragazza, "giovane carina e disoccupata" che saltuariamente dorme con noi. La mia vita è molto migliorata: due padrone affettuose, tanti nuovi amici e sempre un sit-in o una manifestazione dove andare a giocare. Ho anche incominciato a fare le fusa alla bastardina adottata dalla prefettura, e né i poliziotti, né i compagni disoccupati, se ne danno pena.
Non abbiamo grandi progetti, se non quello di dormire al caldo, da mangiare si rimedia. Qui, nel nostro ambiente sociale è un po' così da sempre, del resto, il resto è di niente.

 

VI Capitolo

Valentina

Avete mai provato ad andare a appuntamento con un Trans?
Non sto dicendo di notte lungo un viale, quello non oso chiederlo, ma in pieno giorno, in una piazza frequentata e ferocemente vicino alla scuola dove va vostro figlio.
Per me è stata un'esperienza formativa: fino a quell'appuntamento mi sono sempre ritenuto uno scafato, strafottente e cosmopolita maschio del sud, dopo ho dovuto riconoscere l'alto tasso di provincialismo dei miei comportamenti. Ma andiamo per ordine.
L'incontro con Valentina, una cantante trans, è fissato alle 16 nei pressi di Villa Pignatelli, a circa cento metri dal mio studio. La strada che collega lo studio a Villa Pignatelli è quella della scuola e le 16 sono, purtroppo, l'orario in cui i bambini escono. Così, mentre aspetto Valentina, mi chiedo che faccia faranno i genitori dei compagni di mio figlio vedendomi in tanta dolcissima compagnia. Il pensiero mi mette in un certo imbarazzo.

***

Valentina spopola nelle reti private napoletane ed è stata anche ospite di vari programmi Rai, l'ultimo, l'ottavo nano. Io, però non guardo mai la televisione, così la seconda complicazione è riconoscerla.
Mi guardo attorno con crescente agitazione e tutte le donne che mi passano accanto mi sembrano potenziali trans. Tutto quel nero, per non parlare dei look e del trucco aggressivo e vistoso. Alle 16,10, mi passa accanto una biondona accompagnata da un tipo losco, non resisto e la saluto: non è lei. Alle 16,15, una mora in minigonna inguinale e tacchi a spillo, mi si avvicina, penso è arrivata. No. E' una donna che mi chiede di tenerle il posto per la macchina, quando parcheggia, scorgo sull'auto l'adesivo dell'ordine dei medici. Alle 16,20 arriva. E' lei che mi fa un cenno educato scorgendomi da lontano.
Prima amara considerazione: oggi è più facile riconoscere un fotografo, anche senza reflex al collo, che un trans.
Ha degli stivali di cuoio chiari, senza punte metalliche né tacchi, un jeans nero, ma molto sobrio e un piumino a mezza vita da adolescente: è vestita, più o meno, con lo stesso look morigerato di molte amiche.
Si presenta con professionalità e mi chiede se ha fatto bene portare dei cambi, poi si scusa per il ritardo e ci avviamo verso lo studio.
Lungo il tragitto non incontriamo quasi nessuno e i pochi che incrociamo, mi guardano più con invidia che con biasimo.
Valentina è molto bella, molto ambigua, ma molto donna.
Nella mia piccola sala di posa, in un cortile al piano terra di un palazzo al centro di Napoli, non c'è un gran viavai, diciamo che fotografo in studio un paio di volte al mese: qualche cantante o qualche amica.
Nessuno nel quartiere è attento alle persone che mi girano attorno, due settimane fa, per esempio, Silvio Perrella, un intellettuale molto apprezzato negli ambienti accademici, è venuto a farsi un ritratto che doveva mandare ad un convegno. Nessuno mi ha chiesto niente, solo Lello, il portiere, si è stupito a vedermi fotografare un uomo di mezza età. Con Valentina, invece, tutto il vicinato è entrato in fibrillazione, ed io, aumentando l'ambiguità dell'incontro, ho chiuso le tende della mia porta di vetro. Claudio, il barista ha bussato con vigore e mi ha portato due caffè in omaggio, è rimasto pochi secondi, poi lo ho buttato fuori. A Luigi, un mio amico, non l'ho fatto neanche entrare, non viene mai, anche se abita a mezzo chilometro e guarda caso oggi, che sapeva dell'incontro, passa da me per caso. Valentina, indifferente e abituata a suscitare tanta curiosità, quasi non ci fa caso a tanta indiscreta isteria.
La seconda amara considerazione, la lascio fare a voi.

***

Valentina ha ventinove anni, è nata a Napoli, quartiere Fuorigrotta, ma vive a Giuliano. E' entrata nel mondo dello spettacolo, quando ventenne esordì, come protagonista, nello spettacolo di Eugenio Bennato: Angeli del sud. Poi, ha inciso quattro dischi, partecipato a diverse trasmissioni, intervenuto in qualche film e fatto parlare molto di se, almeno dalla stampa locale. Nell'ultimo disco: strana, si è avvalsa della collaborazione preziosa di Leopoldo Mastelloni.

 

VII Capitolo

Lasagna, duplice omicidio e babà

La domenica si annuncia dura: mia moglie è sotto esame e mi tocca tenere i bambini. Per fortuna è una donna del sud e ha organizzato il tutto con l'aiuto di Emilia, mamma di due bambini, di cui uno compagno di classe del nostro. Così, verso le dieci sono già a zonzo per Via Toledo, il clima è bello ed è anche una "domenica a piedi". Alle 11 e 30, stanco della passeggiata, sono da loro. Ci accoglie Ciro Fusco, il marito di Emilia, fotografo come me.
I bambini iniziano a giocare tranquillamente, Emilia prepara il pranzo, Ciro ed io, spalmati in poltrona, discutiamo sul futuro del mondo. Verso le 14, arriva mia moglie e ci sediamo a tavola.
Il pranzo è principesco: Emilia ha preparato antipasti, lasagna e salsicce, mia moglie un'insalata e un babà.
Finite le salsicce squilla il telefono. E' Guglielmo, fotografo del Mattino, che oggi è di turno. Io rispondo al telefono e inizio a sfotterlo: " Hai sbagliato numero, sono Akul, alla tua età non sai più comporre un numero di telefono. Perché non ti ritiri?
Guglielmo è un fotografo vecchio stampo: sbilenco dalla fatica, solidale con i colleghi e giocherellone. Risponde a tono: " Se arrivi a cinquanta anni senza pisciarti sotto ne parliamo. Adesso ascolta, c'è un duplice omicidio a Cipriano, io sto andando, se volete ci vediamo all'uscita del porto tra dieci minuti. Tanto oggi è domenica e, mentre trovano il magistrato, riusciamo anche a fare i cadaveri per terra."

Ciro non ha esitazioni: rinuncia al babà. Io, che come molti colleghi della mia generazione, campo "fotografandomi i piedi con sofismi", potrei evitare, ma un duplice omicidio di domenica resta l'unica cosa alla quale non so resistere: è più forte di me, mi fa sentire un vero privilegiato, come l'accredito stampa allo stadio.

Alle 16 il dream team è al completo e si dirige verso l'asse mediano.
Al volante, in una posizione simile a quella stesa, c'è Ciro De Luca, fotografo del Roma detto "Cir o' copirait" (copyright), alla sua destra, Guglielmo Esposito, cinquanta due anni di cui quaranta in strada a faticare. Ciro Fusco ed io siamo stramazzati dalla lasagna sui sedili di dietro.
Nessuno di noi conosce la strada, sappiamo solo che Cipriano è tra Frattamaggiore e Frattaminore, ma ci telefona Ciro Lauria (non sto inventando, a Napoli, quasi tutti i reporter si chiamano Ciro) che è già sul posto.

La scena è quella di un film. Una strada di campagna malmessa e una golf nera con gli sportelli aperti. I due cadaveri giacciono, in un mare di sangue, attorniati da poliziotti e da radioline sintonizzate sul calcio. Il sole inizia a colorare la scena di rosso. Io non ho la borsa. Guglielmo subito ne approfitta e mi appioppa la sua. Nessuno ha una macchina tradizionale per me, tutti oramai hanno le fotocamere digitali ed io non so usarle. La polizia non ci fa avvicinare al luogo del delitto.
Ho un'idea brillante, naturalmente sbagliata, porto il gruppo sul cavalcavia, mai terminato di Frattamaggiore, per fare una foto dall'alto. Mentre scaliamo il cavalcavia, Riccardo Siano, il fotografo della Repubblica, arriva sulla scena del delitto e, avendo solo una macchinetta tascabile, riesce a fare indisturbato le foto. Noi, impotenti, assistiamo alla disfatta dal cavalcavia in eterna costruzione. Poi, pero riscattiamo il torto, fotografando un gruppo di centauri mentre fa le corse clandestine sulla strada interrotta: ieri ci sono stati un paio di morti, mi pare a Bari, durante una corsa e una foto certamente si venderà.
Ritorniamo alla Golf che è già scuro, ma non ci sono problemi, per una macchina fotografica digitale è sempre mezzogiorno.

Ci avviciniamo mentre "la mortuaria" chiude le bare. L'identità delle vittime non si conosce ancora. Ma è chiaro che si tratta di un regolamento di conti tra balordi e, in questi casi, nessuno se ne frega niente delle foto.
Riprendiamo l'asse mediano per Napoli, l'atmosfera è allegra come se avessimo fatto una scampagnata tra amici.
A Via Marina, in prossimità del parcheggio Brin, ieri sera hanno travolto un lavavetri marocchino. Cosi, per evitare complicazioni durante la partita, il dream team ferma un marocchino e lo fotografa sotto il parcheggio.
"Quelli (i giornalisti) alle nove si accorgono del buco e ci mandano a cercare un lavavetri marocchino durante la partita."
Ciro ed io scendiamo al porto. Arriviamo a casa verso le 19.30: della lasagna nei nostri stomaci non c'è più traccia. Così, stanchi e affamati attacchiamo il babà.

 

VIII Capitolo

Akul e la crisi dell'occidente
Perché un fotografo inizia a scrivere

Lo scrittore preferito dello scrittore preferito del mio scrittore preferito amava ripetere che ai russi piace più il ricordare del vivere, a Tina invece, interessa soltanto il sopravvivere. Forse per questo se ne fotte dei forestieri venuti ad intervistarla. Tina ha cento anni, alle spalle una vita agreste e monotona, con i lunghi inverni accanto al fuoco e le stressanti stagioni dei raccolti e delle semine. Siamo a Gioi Cilento, un paesino di montagna in provincia di Salerno, dove alcuni scienziati del CNR pensano ci sia una popolazione talmente isolata che è possibile condurvi delle ricerche genetiche. Io ho il compito di fotografare il paesino e i suoi attempati abitanti, mentre il giornalista dovrebbe raccontare queste esistenze tristi e poetiche. C'è un piccolo problema però: il giornalista è un francese e, non solo non parla in italiano, ma ha anche un pessimo inglese; in più, il mio inglese è una sottospecie di anglo napoletano comprensibile solo da mia moglie sarda e a stento capisco il dialetto strettissimo dei nostri interlocutori. Così traduco a fantasia l'incomprensibile dialetto in italiano, poi tento di tradurlo in un terribile inglese, che l'inviato, a sua volta, non capisce e si autotraduce in francese.
La cosa più buffa è che a me pagano circa trecentomila lire nette al giorno e il megainviato francese dorme in un albergo che costa trecentocinquanta mila a notte.

L'idea è geniale: paragonare i consumi e le entrate di alcune donne di Milano e Napoli. La giornalista del settimanale è orgogliosa della sua intuizione e mi commissiona le fotografie da fare a Napoli. Con i potenti mezzi di uno dei maggiori femminili italiani contatta una decina di napoletane. Nessuna risposta.
Queste donne non devono essere altro che carine e disponibili all'intervista telefonica. Eppure il giaguaro da redazione lombardo in quindici giorni non trova niente.
Più passa il tempo e più sento sfumare il milione di compenso. Cosi, dopo tre settimane, rompo gli indugi, telefono alla giornalista e mi assumo la responsabilità di reperire queste due testimoni eccellenti. Chiamo all'ex fidanzata di Pippo e ad un'amica d'infanzia e in un paio d'ore chiudo la pratica.
Provate ad immaginare il giaguaro da redazione padano che ha difficoltà a reperire due donne qualsiasi in una città come Napoli, a confrontarsi con la realtà femminile di un paese di musulmani.

Donatella ha quarant'anni e una direttrice che le controlla le telefonate. Ci siamo conosciuti due anni fa, quando il suo giornale aveva comprato un mio servizio sulla disoccupazione e l'aveva mandata a scrivere il testo. Inutile dire che Donatella brancolava nel buio e che io gratis (il servizio era già stato realizzato e venduto) la abbia dovuta accompagnare a fare le interviste. Dopo di allora solo telefonate e tutte da parte mia. Ultimamente mi chiama e mi chiede se posso realizzare con lei un servizio sul lavoro minorile a Napoli. Arriva con un intercity verso le dieci. L'unica idea è quella di mangiare con me una buona pizza, per il resto, confida sulle mie capacità. Verso le 16 siamo di nuovo alla stazione: la pizza era ottima e il servizio buono. Anche al giornale le foto sono piaciute, peccato, ma le migliori non le hanno pubblicate: "Erano un po' fortine". Dopo un paio di settimane ho richiamato Donatella per proporgli un servizio sul cobretto: una specie di eroina sintetica che sta girando a Napoli. A Donatella l'idea piace, ma la direttrice la boccia: "Non ne ha parlato ancora nessuno".
Un tempo, una notizia nuova era uno scoop. Ma la cosa più divertente è che la solerte giornalista è andata a regalare la mia idea ad un altro giornale.

Ho da un paio di giorni pubblicato un servizio sui Quartieri spagnoli, sono solo nel mio studio facendo finta di lavorare, in realtà aspetto che qualcuno mi chiami.
Di solito quando trascorro intere giornate a guardare il telefono, finisce che oltre a moglie, madre e alla amica Maria, nessuno mi chiami. Ad un tratto suona il telefono: è una giornalista della Rai. Tento con fatica a trattenere le lacrime di gioia. Ha visto il mio servizio e vorrebbe che uno dei soggetti fotografati prendesse parte alla loro trasmissione. Vorrebbero parlare di una presunta crisi dei femminielli nostrani nei confronti della più agguerrita ed economica prostituzione straniera. La gioia diventa dolore: la persona in questione non è un femminiello, ma soltanto uno stravagante accattone omosessuale. La giornalista con grande democraticità mi autorizza a darle del tu e mi chiede di spiegarle la differenza.
" I femminielli hanno le tette, capelli lunghi, si vestono da donna e battono nella maggioranza dei casi fino a quando non si tolgono l'uccellino; gli omosessuali eccentrici non hanno le tette e non è detto che battano."

Elemosino a tre o quattro tassisti una corsa fino al mercato di Resina per venti carte, ma nessuno accetta. Cosi mi avvio, scoglionato e con un mal di gola fortissimo, alla fermata del 157.
Arrivo ad Ercolano alle 6.30. E' ancora buio, solo qualche vecchietto inizia a tirare fuori i suoi stracci. Le faccie dei giovani fanno paura: guardo con malinconia le mie macchine fotografiche. Prendo un caffè e inizio sfacciato a fotografare. La giornalista che mi ha commissionato il servizio naturalmente non c'è; anzi mi debbo ricordare di recuperare le informazioni per farle scrivere il pezzo. Lei è di Roma e al mercatino degli stracci di Ercolano, da sempre chiamato resina, non c'è mai stata, ma qualche suo amico del cinema gli ha detto che è molto "fico".
Se Sergio Zavoli negli anni settanta c'è stato, perché la mia amica non c'è?
Finisco il reportage, informazioni comprese e mi avvio felice per aver salvato le macchine fotografiche alla fermata del 157.
Domando quando passa l'autobus ad una signora, lei mi guarda infastidita e risponde: "Tanto il re non ci sta più e ognuno fa quello che vuole."