Alessio Cassini |
Strade
Voglio raccontarvi dell'incidente.
Ho visto scivolare via la scarpa ed ho subito pensato, "è finita". Poi, visto
il sangue che scorreva copioso attraverso il casco integrale e la moto completamente
frantumata incastrata così bene che sembrava facesse parte della macchina, una BMW serie
3, ne sono stato assolutamente sicuro.
Il fatto è che non conoscevo il ragazzo che aveva fatto quell'incidente mortale, e a dire
il vero ora che so chi era, mi sento rabbrividire.
A quattro chilometri da quell'incidente c'è una spiaggia. Poco distante da Fregene, un
po' staccata, giusto per dire "noi abbiamo questa lingua di sabbia tutta per
noi". Ognuno ha avuto almeno una volta nella vita il desiderio di scoprire un lembo
di spiaggia tutta per sé, anche se il mare davanti fa schifo e magari il sole fa venire
le malattie della pelle.
Però quel tratto minimo di spiaggia era veramente sprovvisto di ombrelloni. E su quella
sabbia calda, che per camminarci sopra eri obbligato a mettere le ciabatte, c'erano il
giorno dell'incidente tre ragazzi.
Stefano, Claudia e Sara.
Sara l'aspettava per le tre, subito dopo pranzo li avrebbe raggiunti. Ma Giovanni non
arrivava ancora.
Ora però devo descrivervi quella strada, quella dell'incidente.
Io passavo su quel tratto di Portuense praticamente ogni giorno. Avevo la mia ditta di
tendaggi al numero 1117, di cui andavo molto orgoglioso. L'asfalto era rovente. Il fumo
provocato dalla polvere e dagli scarichi dei tanti camion sferraglianti a quell'ora in
quel tratto, avrebbe messo in seria difficoltà anche il più esperto dei centauri.
Ma Giovanni, il ragazzo dell'incidente, la sua Ducati 851 rossa fiammante, con la
distribuzione desmodronica unica nel suo genere, gli scarichi urlanti, la pedalina del
cambio netta e poderosa e quel serbatoio gigante, su cui uno si chinava sentendosi
protetto dal mondo come se fosse appoggiato al seno della propria madre; insomma,
quell'incredibile groviglio di tubi e bocchettoni che era la Ducati 851, Giovanni l'aveva
da appena un mese.
I suoi ventuno anni, il casco non perfettamente aderente, la fretta e la voglia di provare
i tanti cavalli a sua disposizione appena il polso girava un po' la manopola di destra,
avevano fatto il resto.
La strada era polverosa, l'asfalto rovente, i camion a quell'ora s'ammassavano uno
sull'altro su Ponte Galeria e lui dopo poco avrebbe girato per Fregene e sarebbe arrivato
sano e salvo alla spiaggia.
Baciando Sara, biondina e magra, con però un bel seno aperto e duro da diciottenne, gli
sarebbero passate tutte le noie di quella giornata.
Al posto di lavoro l'avevano sgridato perché non aveva regolato bene la carburazione ad
una Audi e il suo collega l'aveva preso in giro per il tatuaggio fatto proprio due giorni
addietro: un drago che sputa fiamme su un cavaliere coraggioso che si difende con lo
scudo.
Quel bacio, che avrebbe risolto tutti i suoi patemi, era un bacio così importante per
Giovanni che gli aveva fatto sfidare anche un leggero mal di schiena.
La strada era anche asfaltata male. Ora che ci ripenso molte volte la mia Honda 750 era
svicolata all'ultimo da una crepa profonda o da un dosso insidioso, passando per quel
punto maledetto.
Il ponte di Ponte Galeria passava sopra un cantiere, i muretti laterali che lo delineavano
erano vecchi ma robusti. In quella frazione di Roma c'erano la stazione dei Carabinieri,
la Posta, la Stazione, una scuola, dei palazzi in cortina e qualche negozio. Ma se passavi
a cinquanta all'ora la superavi quasi senza accorgertene.
Giovanni aveva fretta e aveva visto un varco probabilmente; io tornavo da Fiumicino dove
avevo mangiato con un cliente importante, e allegramente a bordo della sua macchina
potente, ridevamo dopo aver bevuto in due una bottiglia di vino bianco costosissimo.
Stavo per concludere l'affare della mia vita quel giorno. Una fornitura di tendaggi per
una catena d'alberghi di lusso sparsi per tutta l'Europa. Sarei diventato ricco facendo
firmare al mio cliente quel contratto. Per me avrebbe voluto dire, insieme coi guadagni
abituali, il salto di qualità. Dopo avrei potuto utilizzare nuove forme di pubblicità e
inserirmi finalmente anche nel mercato internazionale.
Quella che sarebbe diventata poi mia moglie m'avrebbe convinto a cambiare città per
aprire una succursale e ingrandirsi ancora di più. Niente da dire, mia moglie aveva fiuto
per gli affari; infatti, oggi, disponiamo di altre tre succursali di cui una è la più
grande e importante del nord Italia.
Mia moglie l'ho conosciuta due anni dopo il giorno dell'incidente. La conobbi durante una
cena, era la figlia di un cliente mi sembra di ricordare. Una sera ci fu una cena di
lavoro, e c'era anche lei. Era più giovane di me di otto anni, ma i sentimenti che
sbocciarono quasi all'istante nelle nostre anime furono predominanti e nessuno badò a
quella differenza di età.
Quando la conobbi sembrava un intermezzo tra grazia e malinconia. Ricordo che fui attratto
da quelle due caratteristiche apparentemente contrapposte.
Poi venne a vivere con me e cinque splendidi figli ci nacquero. E ancora oggi viviamo
insieme e siamo felicemente uniti. Certo però, oggi, qualcosa tra noi è cambiato.
Tutto è nato perché ero dovuto tornare per una settimana a Roma. Mia madre stava morendo
e avevo il dovere di vederla e renderle omaggio, anche se mia madre ed io non siamo mai
andati troppo d'accordo.
Però vederla distrutta dal cancro, senza quasi più un muscolo, la pelle tirata sopra
l'ossatura quasi deforme, il suo bel volto diventato quello di una vecchia sul punto di
morire, mi ha fatto passare ogni rancore e oggi che l'hanno murata nel suo piccolo
appartamento orizzontale al Verano, devo dire che nonostante gli sforzi per non
ammetterlo, sento di essere morto un po' anch'io.
Mia moglie mi ha protetto da questo dolore, fino a quando qualche ora dopo siamo passati
per quella strada. Lì, a distanza di anni, lei è voluta tornare.
La strada è sempre la stessa, anche se rimessa a nuovo, con l'asfalto rovente ma liscio e
perfettamente modellato, le linee regolari, la polvere ora sostituita da un praticello
tagliato da poco. I palazzi in cortina, la Stazione, i Carabinieri, la scuola ci sono
ancora. Ma la gente è cambiata. Sono passati più di trent'anni.
Una cosa non mi sono ricordato di descrivere dell'incidente. Il fioraio. Quell'uomo
apparentemente insignificante che fu il primo a fermare il traffico impazzito in quell'ora
maledetta, subito dopo lo scontro mortale. Il primo a correre in aiuto del ragazzo
frantumato in terra.
Il fioraio non c'era più. Era morto forse o solo trasferito, chissà. Al suo posto c'era
un bar mobile.
Quel fioraio, il suo volto tra l'arrabbiato e l'incredulo che s'era avventato contro la
nostra macchina, probabilmente con l'intenzione di rendere giustizia a quel ragazzo lì in
terra che aveva capito essere morto.
Quel volto non c'era più ma un buco in terra a dieci metri dal muretto che delimitava il
ponte c'era ancora. Certo noi avevamo bevuto, il mio cliente era brillo e forse correva un
po' troppo. Ma la moto c'era venuta addosso senza possibilità di scartarla. Lo giuro.
Ero rimasto così turbato nel vedere quel ragazzo in terra, la sua scarpa all'altro lato
della strada, i volti dei passanti e degli automobilisti accorsi subito in massa per
vedere, il faccione del fioraio, che quando il mio cliente aveva firmato sei mesi dopo le
pratiche dell'affare che avrebbe dato il via al mio benessere e alla mia fortuna, m'ero
sentito notevolmente in colpa.
Per giorni, dopo l'incidente in cui morì Giovanni ma rimanemmo illesi sia io sia il mio
importante cliente, avevo voluto conoscere quella ragazza. Quella che avevo visto tutti i
giorni dei seguenti sette mesi ferma in quel punto, accanto al fioraio che era intervenuto
per primo e che ora era diventato come un amico inconsapevole di quella giovane donna
affranta dalla scomparsa del suo bel ragazzo.
La ragazza di Giovanni. Quella Sara che l'aveva aspettato per tre ore prima di decidersi a
chiamare la madre del giovane e ricevere la sconcertante notizia. "Ha avuto un
incidente Sara; Sara, Sara" gridava pazza di dolore la donna per telefono "Sara
è morto Giovanni mio, è morto!"
Ogni giorno passavo di lì apposta, solo per vederla un istante. E lei era sempre lì,
seduta su una sedia probabilmente prestatale dal fioraio, dando la schiena alla strada del
delitto, piangendo e chiedendosi il perché, forse.
Ogni giorno avrei voluto fermarmi ma non lo feci mai. Più era grande la voglia di
afferrarle il braccio e chiederle perdono inginocchiato ai suoi piedi e più s'ingigantiva
la paura e l'orrore al ricordo di quel giorno funesto.
Così scorrevano i giorni, uno dopo l'altro, lei a riempire di fiori e bigliettini quella
lapide approssimativa di cui oggi è rimasto solo un buco. E io a passare per vederla
qualche secondo e niente più.
Finché poi la vidi venire sempre meno e poi mai più.
Avevo avuto il desiderio di conoscerla, ero andato ogni giorno in quel punto della
Portuense, anche solo per vederla un istante, ma non ero riuscito a fermarmi mai.
Solo qualche giorno fa però, quando mia moglie ed io siamo andati a trovare mia madre, un
caso irripetibile che ci ha obbligato a tornare nella nostra città natale che non
vedevamo dal giorno che avevamo deciso di aprire una nuova filiale in Lombardia, ho saputo
chi era quella ragazza che avevo visto passando per mesi in quel punto maledetto dov'era
avvenuto l'incidente.
Avevo avuto il desiderio di conoscerla e non sapevo che l'avevo sposata e avevo avuto
cinque figli da lei e che l'avevo amata moltissimo. Sara, mia moglie, era stata per due
anni con Giovanni.
E quando l'ho vista tornare dallo spiazzo dov'è ancora il buco della lapide, non ho avuto
il coraggio di avvicinarla, perché ho notato nel suo volto quel dolore, così lancinante
e assoluto, che solo l'amore indimenticato può dipingere sul viso di un essere umano.
Quel dolore e quell'amore fondendosi, erano così inarrivabili che il significato della
nostra storia, i cinque figli e le tutte le altre avventure di trent'anni di matrimonio,
svanì in un momento. Come quel ragazzo, a cui avevamo tolto la vita e l'amore, su una
strada asfaltata male, polverosa e sovraccarica di camion sbuffanti. |