Monia Procopio ho 31 anni, lavoro nel campo informatico anche se sono laureata in
ingegneria nucleare ed ho due miei racconti ad ammuffire sul mio hard disk.... |
Storia
di un aborto
Ci sono tantissimi libri e pubblicazioni
divulgative sulla gravidanza, su internet ci sono moltissimi siti ad essa
dedicati. In queste fonti di informazione, di solito, solo dei piccoli
spazi sono dedicati all'aborto. Sull'aborto, si trovano diversi trattati
scientifici, ma pochissime pubblicazioni divulgative.
Io ho avuto una esperienza di aborto. In ospedale mi hanno detto che è un
evento molto frequente e che la frequenza degli aborti è aumentata negli
ultimi anni. Forse è colpa dello stile di vita che ormai si è imposto
nella società, del modello stressante di superdonna intelligente,
affermata e bella che viene posto a riferimento delle giovani donne. Forse
è colpa dei fattori ambientali, dell'inquinamento, della qualità del
cibo, dei pesticidi. O forse, più semplicemente, molti aborti, in
passato, avvenivano in casa e non erano registrati o soggetti a
statistiche.
Proprio perché mi sembra che non si parli
abbastanza di aborto, ho deciso di raccontare la mia esperienza. L'aborto
è una brutta parola e nessuno la pronuncia volentieri. Di solito, le
donne lo vivono come una vergogna e con senso di colpa.
Le coppie che aspettano un figlio o ne hanno uno piccolo, inoltre, quando
intravedono uno sguardo triste nella donna che ha subito l'aborto, a
volte, scambiano i sentimenti di tristezza e di dolore per invidia. Per
questi motivi la donna tende ad isolarsi piuttosto che a parlare.
Un altro motivo che mi spinge a scrivere, è quello
di mettere in evidenza la negatività dell'attuale comune supposizione che
una donna debba necessariamente farsi seguire da un ginecologo privato. In
base a questa supposizione, parte delle strutture pubbliche si
deresponsabilizzano nel seguire la gravidanza e danno delle indicazioni
superficiali ed approssimative, sempre che si prendano la briga di dare
informazioni o indicazioni.
Raccontando la mia storia spero di dare un senso a
quello che mi è capitato, nell'aiuto che questa esperienza potrà, forse,
fornire a qualcuno.
Sicuramente scrivere ha dato aiuto a me, che ho
buttato fuori il mio dolore esteriorizzandolo nelle parole.
Messaggio ad un bambino nato morto
"Tu sei nato come un pensiero.
Arriva un momento nella vita di una persona in cui alzarsi alla mattina,
vestirsi, andare a lavorare, tornare a casa la sera stanchi e privi di
energia non ha più senso.
Arriva il momento in cui ci si domanda: perché lo faccio?
Perché alla mattina devo lasciare le coperte calde del letto? Perché mi
devo tuffare in quella lotta che è la vita? Prendere l'autobus, essere
strattonata e spintonata, andare in ufficio dalla mattina alla sera,
tornare a casa sui mezzi pubblici sempre in ritardo e puzzolenti, nella
massa egoista della folla. Mangiare. Dormire. La mattina ricominciare.
Fare la fila negli ospedali quando stai male, litigando per mantenere la
posizione, per poi parlare agli sportelli con qualche operatore spesso
sbrigativo, sgarbato e disinformato. Tutto ciò e molto altro ancora fino
alla fine della vita. Perché?
L'inconscio ha incominciato a dare risposta a queste domande più o meno
silenti, attraverso dei sogni.
Nell'ultimo anno ho sognato spesso di essere
incinta.
Una volta ho sognato una bambina ricciuta seduta su un gradino del mio
terrazzo, pallida sotto il luminoso sole primaverile. La luce ed il bianco
erano le tinte di quel sogno. Nel candore si stagliava la massa scura dei
ricci della mia bimba. Sotto la coltre ricciuta, però, il viso ed i suoi
lineamenti diventavano diafani ed impalpabili tanto da dissolversi nella
bianca luminosità del terrazzo.
Sei stato concepito probabilmente nella settimana
successiva al 24 dicembre del 2003. I giorni successivi al presunto
concepimento, io e tuo padre eravamo pervasi da sensazioni di attesa,
desiderio e paura. Basta un attimo per cambiare completamente la vita di
una persona. Anche se la scelta di avere un bambino era stata attentamente
ponderata e presa coscientemente da me e da papà, la consapevolezza che
da quel momento in poi la vita non sarebbe stata più la stessa, senza
poter prevedere tutti i risvolti della nuova situazione, ci spaventava un
po'. Sapevamo anche, però, che continuare a vivere solo per noi stessi
non ci bastava più.
Nei giorni scorsi, per cerare di capire se fossi
incinta prima di fare il test, ho cercato di prendere informazioni su come
ci si sente in gravidanza, dato che ancora era presto per il test.
Su molte fonti ho trovato la seguente affermazione "una donna è
incinta quando ha la profonda consapevolezza di esserlo". A dire la
verità, io non avevo nessuna sensazione particolare…non sentivo nulla
di cambiato in me, eppure tu c'eri già. Silenziosamente le tue cellule, a
partire dalle mie e da quelle di papà, si stavano moltiplicando in me e
miracolosamente ti davano una forma ben precisa.
Neanche dopo aver fatto il test di gravidanza ero certa di aspettarti,
anche se sapevo che i falsi positivi sono molto rari.
Addirittura, dopo aver fatto gli esami del sangue, a stento credevo di
essere incinta, non riuscivo proprio a credere che un miracolo così
grande potesse essere anche tanto silenzioso, al suo inizio.
Mentre la consapevolezza cresceva, non mi vergogno
a dirti, che crescevano anche le paure ed il senso di incertezza verso il
futuro.
Paura dei mutamenti fisici che mi avrebbero trasformata, paura dei dolori
del parto, paura di un eventuale taglio cesareo, paura delle veglie
notturne, paura di non saper gestire lavoro, casa e figlio, paura
addirittura di non saperti tenere in braccio nel modo corretto…
Ora, invece, col passare delle settimane, però,
queste paure stanno diventando sempre più esigue perché nella mia mente
si fanno sempre più frequenti le immagini di te e me in diverse
situazioni, come ad esempio mentre facciamo i primi bagni al mare o mentre
giochiamo insieme sul lettone. Non vedo l'ora di sentire le tue piccole
braccine stingersi intorno a me o di poter godere dei tuoi sorrisi.
E' bellissimo andare in giro con la consapevolezza
di non essere sola. Dentro di me, da me stessa e da tuo padre, ti stai
generando tu. Penso al mio utero, alla mia placenta, tutte cellule mie, a
partire dalle quali si stanno generando le tue cellule, ti stai formando
tu.
Io continuo la mia vita, mi alzo la mattina per
andare a lavorare, rientravo stanca la sera, e tu cresci dentro di
me."
Questo scrivevo su un quaderno all'inizio della mia
gravidanza. Volevo dire a mio figlio il motivo per cui lo stavo mettendo
al mondo, volevo dargli il messaggio positivo della vita che trova senso
in se stessa.
Ricordo che un momento incredibilmente bello fu
quando feci la mia prima ecografia alla decima settimana. Ho sentito il
cuore di mio figlio battere! Era la prima volta che sentivo qualcosa di
lui! Uscii dall'ospedale piena di gioia ma anche profondamente turbata.
Quella nuova vita, di cui avevo sentito il cuore, piccola, indifesa
dipendeva totalmente da me. Quello che io facevo, influiva anche su di
lui. Correvo, provavo ansia, mangiavo male, ogni mio comportamento avrebbe
coinvolto anche quella piccola vita.
Nei miei ricordi fu questo il momento in cui percepii maggiormente la sua
presenza ed il momento più felice della mia gravidanza se non uno dei
più felici della mia vita. Il più felice. Non avrei mai pensato quello
che sarebbe successo di lì a poco. Il pensiero di un aborto non mi aveva
neanche sfiorato.
Ora, desidererei tanto sentire dentro di me il suo
cuore che batte, i suoi movimenti, vorrei che ancora il mio utero lo
costudisse amorevolmente nel suo umido calore, ma non so neanche dove sia.
Che ne fanno gli ospedali del frutto di un aborto a quattro mesi e mezzo?
Forse è meglio non saperlo.
Purgatorio
Venerdì 16 aprile 2004 ero in ufficio. Da un paio di giorni, avevo
ritirato il Tritest, un test per lo screening della sindrome di Down. Devo
precisare, che avevo deciso autonomamente di fare il Tritest, dato che i
ginecologi della struttura ospedaliera presso la quale stavo facendo
seguire la gravidanza, non avevano ritenuto che fosse necessario. Parlo
del team di ginecologi perché, non avevo contattato privatamente un
ginecologo, decidendo di usufruire del servizio sanitario nazionale.
Il Tritest aveva avuto esito negativo (bassissima probabilità di sindrome
di Down) ma riportava nella sezione dei commenti delle frasi che non
riuscivo a capire:
***Rischio aumentato di trisomia 18 (5/6 alla nascita)***
***Aumento del rischio di sindrome di Smith-Lemli-Opitz (maggiore di
9/10)***
Sul principio avevo interpretato questi commenti come una valutazione
della bontà del test ovvero avevo dato alla frase il seguente significato
"la probabilità che il test rilevi un rischio aumentato di trisomia
18 è di 5/6 alla nascita". Tale interpretazione era avvalorata dal
fatto che lo screening era risultato negativo e dalla posizione del
commento citato, che veniva dopo aver dato delle statistiche sulla
probabilità di sindrome di Down in base alla sola età materna. Il
dubbio, però, mi assillava, nonostante le rassicurazioni, a volte anche
un po' beffarde, di amici, colleghi e famiglia. Mi sentivo, dunque, molto
sola. Spesso, infatti, alle donne incinte viene attaccata l'etichetta di
instabilità ed isteria. In ufficio, la gravidanza viene quasi sempre
considerata come il seccante preambolo del futuro comportamento
assenteista della neomamma. Una gravidanza ed una nascita sono
generalmente una seccatura per l'azienda e la donna gravida deve fare i
salti mortali per continuare la sua attività lavorativa senza essere
discriminata, sopportando i disagi fisici e psicologici della gravidanza,
incastrando nella sua vita i numerosi controlli medici senza farsi
scoraggiare dalla burocrazia degli ospedali. Forse è anche più facile,
dunque, "non preoccuparsi" come da suggerimento comune.
Nonostante ciò, io non mi davo pace. Di lì ad una quindicina di giorni
avevo prenotato l'appuntamento per una visita ginecologica all'ospedale,
ma non potevo aspettare. Dapprima mi recai presso un medico generico che
tentò, in vano, di contattare una sua amica ginecologa per interpretare
il test. Il medico generico mi disse, comunque, di stare tranquilla.
La risposta rassicurante non mi soddisfaceva e quindi quel venerdì,
dall'ufficio, decisi di contattare il laboratorio di analisi per farmi
dare una spiegazione dei commenti. Lo avrei dovuto fare prima. Una voce
femminile seccamente mi disse che avevano riportato quei commenti perché
avevo le beta HCG ( è una glicoproteina prodotta solo dalla placenta che
accerta e controlla la gravidanza in una donna) molto basse (1.7 iu/mL)
tanto che sospettavano una probabile interruzione di gravidanza.
Perché quando ritirai il test, il laboratorio non mi ha avvertito
immediatamente della situazione? Perché il medico generico mi ha
liquidato così in fretta?
La risposta è questa: si fa sempre conto che una donna incinta si faccia
seguire da un ginecologo privato, che sia lui, chiaramente a pagamento, ad
interpretare il test in tempi rapidi. Faccia vedere il test al suo
ginecologo, ma come non ha fatto vedere il test al suo ginecologo? Sono le
frasi che accompagnano, di solito, questi eventi.
Avevo fatto il Tritest una decina di giorni prima. C'era Pasqua di mezzo.
Probabilmente erano dieci giorni che avevo in grembo un figlio morto. La
disperazione fu profonda e totalizzante. A Pasqua ero stata a Venezia per
una breve vacanza. Il sole che brillava sui canali, le nere gondole
silenziose sibilavano sotto i suoi ponti, l'ampio orizzonte movimentato
dalla presenza delle isole…come avevo potuto godere spensieratamente
della bellezza quando la morte silenziosamente si insinuava nel mio utero?
Quella mattina, prima di entrare in ufficio, ero passata a comprare
l'acido folico, le vitamine che si prendono in gravidanza. Mi ero fermata
anche ad una bancarella per comprare i pantaloni di taglia large con i
lacci in vita, accennando al venditore che ero in crescita in quanto
aspettavo un bimbo.
Nel mio ufficio, la busta con gli acquisti era buttata lì, su una sedia
ed io la guardavo mentre il laboratorio al telefono mi diceva che mio
figlio probabilmente era morto.
In stanza con me c'erano altri due colleghi, giovani padri anche loro.
Piangevo. Dolore ed imbarazzo per il mio dolore.
Chiamai mio marito dandogli, tra le lacrime, delle istruzioni
telegrafiche. Esci dall'ufficio. Vai a casa. Prendi la cartellina degli
esami. Vieni a prendermi. Andiamo insieme al pronto soccorso. Forse il
bambino è morto.
Un tempo infinito passò tra la telefonata ed il momento in cui mio marito
mi venne a prendere. Passò l'ora di pranzo. I colleghi entravano ed
uscivano dalla stanza. Alcuni a conoscenza della mia situazione, alcuni
ignari, con uno sguardo interrogativo negli occhi.
Finalmente, mio marito arrivò.
Inferno
In macchina, oltre a mio marito, c'era mia madre, che faceva di tutto per
mostrarsi forte.
Decidemmo di andare in un famoso ospedale romano per il reparto di
maternità.
Pioveva a dirotto. Il paesaggio sembrava venuto fuori da un dipinto
espressionista. Il cielo era plumbeo, le acque del Tevere nere come il
petrolio, le foglie degli alberi erano tristi ed appesantite, battute
dalla pioggia.
"L'ho dovuto scoprire da sola" dicevo "perché non mi sono
fatta seguire da un ginecologo, perché ho voluto usufruire del servizio
sanitario nazionale. In fondo, se quelli del laboratorio non si sono presi
la briga di chiamarmi pur sospettando una interruzione di gravidanza,
forse dovevo stare a riposo e nessuno me lo ha detto: ho dei fibromi,
forse sono stati i fibromi."
"Ma l'ultima visita è andata bene" diceva mio marito
"nessuno ci ha detto niente"
"Ai miei tempi non si facevano tutte queste analisi" diceva mia
madre "nessuno della nostra famiglia si è fatto seguire mai da un
ginecologo, perché avresti dovuto farlo tu?"
"Perché a tutti gli altri è andata bene, per fortuna, ma può anche
andare male e ci vuole qualcuno che ti segua, in questi casi…"
risposi.
La discussione tra me, mio marito e mia madre andò avanti così.
Io da una parte incolpavo me stessa, perché non mi ero fatta seguire da
un ginecologo, dall'altra mia madre perché mi aveva sempre suggerito di
non andare in privato, mio marito perché aveva sottovalutato la
situazione ed infine il lavoro, perché negli uffici c'è poca attenzione
per una donna incinta, che comunque deve cercare di essere sempre al 100%.
Non è facile seguire i buoni consigli di rallentare, di prendersela un
po' più comoda. Gravidanza e lavoro sono conciliabili con molta
difficoltà.
Siamo arrivati all'ospedale, al pronto soccorso ginecologico.
Ho spiegato la situazione. Anche lì mi hanno chiesto se avevo fatto
vedere il Tritest al mio ginecologo. Mentre spiegavo che mi stavo facendo
seguire dall'ospedale e che l'appuntamento che avevo preso era troppo in
là, leggevo negli occhi degli operatori ospedalieri la disapprovazione.
Abbastanza velocemente, devo dire, sono entrata in ambulatorio dove c'era
la ginecologa di turno. Questa ha guardato il Tritest e mentre io le
spiegavo la situazione. Lei mi chiese perché fossi andata lì e non
all'ospedale dove mi stavano seguendo, dicendomi che era normale, nel
secondo trimestre, che le beta scendessero.
"Questo è un intervento ambulatoriale non da pronto soccorso"
mi diceva.
Io insistetti per farmi fare una ecografia. Non è possibile, nel dolore
fisico e morale, che sia la persona sofferente a farsi forza ed a
chiedere, con insistenza, attenzione. Forse, una persona meno forte o meno
apprensiva sarebbe tornata a casa aspettando la visita ambulatoriale
prenotata. Io non l'ho fatto, per fortuna.
Mentre la ginecologa mi faceva un'ecografia ostetrica, diceva alla sua
assistente: "vedi, questo è il torace…" riferendosi al feto.
Ma, dal torace, nessun battito cardiaco.
"Purtroppo la diagnosi del laboratorio è confermata, comunque la
mandiamo in ambulatorio per fare un'altra ecografia"
Mi sono rivestita, con un senso di estraneità, non sono io.
Sono andata in sala di attesa, dove una donna indiana stava avendo le
contrazioni. Non so quanto tempo ho aspettato. Non so quanto ho sofferto.
Non conosco il dolore di mio marito, di cui sentivo le lacrime piovermi
sui capelli, mentre mi abbracciava. Non conosco il dolore di mia madre che
piangeva in disparte.
Inutile dirlo. Anche l'altra ecografia dell'ambulatorio confermò la morte
del feto.
"Non c'è quasi più liquido amniotico" diceva il medico,
"deve essere successo da un po'".
Il medico dell'ambulatorio fu un po' più pietoso, mi fece andare in bagno
a lavarmi il viso, mi diede dei clinex, mi consolava dicendomi che ci
avrei potuto riprovare.
"Ma io voglio questo!" pensavo…"Non posso pensare ad un
altro, ora!"
Dall'ambulatorio sono ripassata al pronto soccorso, è terribile camminare
tra la gente con le lacrime che ti scendono sul volto, senza controllo.
Alcuni ti guardano imbarazzati, ma i peggiori sono quelli che fanno finta
di niente.
Al pronto soccorso ricevetti la seguente proposta dalla giovane ginecologa
di guardia:
"Io la dovrei ricoverare, signora. Ma non ho posti. Neanche al suo
ospedale ci sono posti. Ho telefonato. Io le consiglio di tornare a casa e
di tentare il ricovero domani, presso il suo ospedale. Però ci dovrebbe
firmare una liberatoria, perché io sarei obbligata a ricoverarla o a
mandare i fax in tutti gli ospedali di Roma per trovarle un posto…"
Fui indignata dalla proposta ricevuta, ma il dolore era troppo grande e
non mi andava di reagire. Dissi, con calma, che avrei preferito essere
ricoverata la sera stessa.
Mi accorsi del fastidio provato dalla ginecologa quando si accinse a
mandare i fax. Mi invitò ad accomodarmi di fuori, in attesa
dell'autoambulanza.
Con me c'era la donna indiana, che non parlava una parola di Italiano,
accompagnata dal marito, mia madre e mio marito. Il cellulare sembrava
impazzito. I miei colleghi, mia sorella volevano notizie. Mio marito si
occupava di rispondere.
Dopo un po' venne mia sorella, alla quale le notizie telefoniche non
bastavano più, che ebbe la presenza di spirito di occuparsi della
logistica.
Non so dopo quanto tempo, arrivò l'autoambulanza. Vi salimmo io e la
donna indiana con le doglie che si fece attendere perché il marito era
andato a prendere un caffè. Il personale dell'ambulanza mi fece
gentilmente accomodare. Purtroppo non ricordo il nome di colui che guidava
l'automezzo, che è stato molto gentile ed umano.
La donna indiana, che salì in ambulanza con me, aveva delle contrazioni
molto forti, soffriva tantissimo. Lei soffriva fuori. Io soffrivo dentro.
Non poteva parlarmi, non conosceva la lingua, si doveva sentire molto
sola. Era giovanissima.
Con l'autoambulanza, ripiombammo nella pioggia. Nessuno parlava, si
sentivano la sirena, gli scrosci d'acqua, ed i lamenti della donna
indiana.
Fummo condotte in un ospedale un po' periferico di Roma, circondato da
molto verde. I prati erano rigogliosi, con tutta quella pioggia, un
richiamo alla vita, unica nota stonata rispetto al dolore che provavo.
Uscendo dall'autoambulanza, la donna indiana mi guardò con occhi
sofferenti e si appoggiò al mio braccio. Questo mi diede forza. La
sostenni, accarezzandola un po'. Arrivati nella sala d'attesa una donna
alta ed attempata, con i capelli sale e pepe e col camice bianco ed il
mento all'insù mi chiese rabbiosamente perché io, che ero una paziente,
stavo sostenendo la signora con le doglie quando l'avrebbero dovuto fare
quelli dell'ambulanza. Rabbia inutile, perché i poveretti erano stati
trattenuti all'accettazione. La donna attempata ci fece qualche domanda.
Io le dissi che l'indiana non parlava italiano e lei stizzita disse
"ah, andiamo bene!", come se fosse colpa della giovane donna di
non conoscere la lingua. La dottoressa era il classico tipo che ce l'ha
col mondo, per qualsiasi cosa. Forse ne aveva viste troppe.
Nella sala, c'era una donna che soffriva di asma ed un signore alto ed
attempato di cui non so nulla.
La donna indiana, ormai, aveva le contrazioni quasi in maniera continua.
Le tenevo la mano scura e sottile. Nessuno si faceva vedere, allora chiesi
all'alto signore di andare a chiamare qualcuno. Chi soffre di meno si
prende cura degli altri. Lì ebbi anche il coraggio di chiedere alla
signora con l'asma come stava. Occuparmi degli altri mi faceva bene.
All'uomo alto non chiesi nulla. Se ne stava sulle sue, austero e
riservato.
Vennero a prendere la ragazza, la visitarono. Poi visitarono me. Ancora
una ecografia ostetrica. Mi visitò la signora ginecologa alta, con i
capelli bianchi ed il mento all'insù. Le chiesi di risparmiarmi
l'ennesima visione del feto e così la donna ebbe l'accortezza di girare
il monitor.
Fui accompagnata al reparto e persi di vista l'indiana.
Lì trovai mio marito e mia madre che mi aspettavano. C'era anche la
dottoressa col mento puntuto.
Mi estrassero subito il sangue. Io chiesi cosa mi sarebbe successo. Un
raschiamento, mi disse. Mio marito ne fu sollevato perché la ginecologa
giovane all'altro ospedale mi aveva prospettato un parto indotto. A me non
importava.
La ginecologa mi descrisse la possibilità di far analizzare il feto per
ottenere una mappa genetica in un laboratorio di analisi a pagamento. Mi
disse che avrebbero provveduto loro, col galoppino dell'ospedale, a
portare il feto. Io subito accettai, qualunque fosse stata la cifra. Poi
le chiesi, indotta da mia madre, se nel raschiamento avrebbero asportato
anche i fibromi.
"Lei fa troppe domande adesso, non le sembra presto? Fra un mese, con
calma, si domanderà cosa le abbiamo fatto"
Accidenti… la gente si rende conto quanto può ferire con una frase? Mi
fece sentire meschina perché facevo delle domande in un momento in cui
dovevo solo sentirmi disperata. Se avessi dato acolto solamente alla
disperazione, magari non sarei stata ricoverata, avrei aspettato la visita
ambulatoriale che avevo prenotato ed avrei rischiato forse la setticemia
con l'asportazione dell'utero. Troppo egoista? Avrei dovuto farmi
trascinare dal dolore, dagli eventi e subire l'approssimazione del
trattamento di parte delle strutture?
Per quel giorno, per fortuna, avevo finito. Un venerdì lunghissimo e
triste. Mi portarono in stanza dove ebbi come compagna una simpatica
signora di 38 anni che era stata ricoverata a causa di un versamento
interno dovuto a delle cisti ovariche.
Aveva già avuto dei problemi, in passato, per questo motivo ed ora
rischiava di perdere ovaie ed utero. Aveva un braccio gonfio perché
portava da tre giorni la farfallina al braccio e le infermiere si
rifiutavano di levarglielo per paura che, poi, servisse di urgenza.
La serata si concluse con la triste cena dell'ospedale, una minestrina
molto scotta, un purè incollato.
Mia sorella, mi portò oltre al sapone, all'asciugamano, al dentifricio…delle
cose che si rilevarono utilissime il giorno dopo. Assorbenti, una camicia
da notte ed un pigiama. Mi domando… una persona, che vive da sola in una
città, come fa in questi casi? Il singolo, da solo, non ce la può fare,
la famiglia è fondamentale.
Durante la notte, portarono una ragazza ricoverata anche lei per un aborto
interno. Mentre io ero di quattro mesi e mezzo, lei era solo di due mesi.
La poverina ha vomitato tutta la notte.
Più tardi sentimmo delle grida provenire dalla stanza attigua. Il giorno
successivo scoprimmo che una giovane partoriente, dando alla luce due
gemelli, aveva avuto un'embolia. Uno dei due gemelli aveva una
malformazione al cuore per cui, successivamente, sarebbe stato ricoverato
al Bambin Gesù.
La situazione era singolare perché la madre di mio fratello morì di
parto dando alla luce due gemelli. Uno dei due gemelli morì. L'altro, mio
fratello, è sopravvissuto.
Viene da domandarsi: le rassicurazioni continue che si trovano sui libri
dedicati alla gravidanza, quelle che ci fanno i ginecologi, quanto sono
veritiere? La vita è un miracolo ed è una lotta fin dal concepimento.
Ogni singolo bambino è un miracolo. Ognuno di noi lo è. Ognuno di noi è
importante nel delicato equilibrio che tiene insieme il mondo. Lo deve
essere. Nessuno se ne ricorda mai e buttiamo via le nostre preziose vite.
Sabato 17 aprile 2004. La mattina sveglia alle 6.30. Alla ragazza
ricoverata nella notte tolsero il sangue. Niente colazione. Più tardi,
verso le 9.00 passarono i medici, due ginecologi. Di nuovo un'ecografia
ostetrica. Spingevano tanto con la sonda e mi fecero male. Ma non mi
importava, avrei voluto solo che il mio bimbo fosse vivo. Chiesi ai medici
che cosa potesse essere successo, perché quel cuore si era fermato. Uno
dei due, dall'apparenza un po' rude, mi rispose che non era possibile
stabilire le cause, come accade spesso. Gli vidi il dispiacere negli occhi
e ne sentii la solidarietà. L'altro mi disse che di lì a poco mi
avrebbero somministrato delle supposte vaginali per farmi venire le
contrazioni. Dovevo partorire mio figlio morto.
Uscendo dalla stanza mi resi conto che ero nel reparto maternità, proprio
di fronte al nido. A volte, la vita si accanisce con delle sfaccettature
beffardamente dolorose.
Le contrazioni vennero, quella mattina e furono fortissime. Purtroppo i
dolori forti vennero proprio alla presenza dei visitatori, anche di quelli
delle altre due compagne di stanza. Dolore, stavolta fisico, ed imbarazzo
per il dolore, di nuovo. Vennero due ostetriche, una delle due
particolarmente dolce, e mi portarono nella sala travaglio, proprio
accanto alla stanza dove si trovava la loro scrivania. Non avevo fatto i
corsi preparto, ancora era troppo presto e non ero assolutamente preparata
all'evento. Respiravo male, per cui spesso mi si addormentavano mani e
piedi. A volte, per dare un ritmo alla respirazione, contavo. Portai con
me, in sala travaglio, mio marito che dalla mattina mi teneva la mano. La
sua presenza silenziosa e forte mi confortava.
Durante il travaglio mi hanno iniettato una serie di sostanze per
ammorbidire il collo dell'utero e dato che le vene mi si rompevano ogni
volta che mi infilavano un ago, mi hanno dovuto fare diversi buchi sulle
braccia.
A fine mattina, il parto si era aperto solo di un centimetro ed i dolori
erano finiti. Le ostetriche della mattina avevano finito il turno, e
nessuno veniva a controllare il mio stato. Fu mia madre che allertò il
ginecologo di turno del fatto che non avevo più contrazioni, perché né
io ne mio marito ne avemmo il coraggio. L'intervento di mia madre fu
fondamentale in quanto, se non mi avessero fatto partorire, mi avrebbero
dovuto praticare un taglio cesareo perché il feto era troppo grosso.
C'era proprio bisogno che fosse mia madre ad avvertirli? Un cambio di
turno può non garantire la continuità di un servizio tanto importante?
Ritengo poco probabile che stessero aspettando che le contrazioni
tornassero da sole. Dopo un po' altre due ostetriche, diverse da quelle
della mattina, mi diedero un'altra supposta vaginale e mi fecero una flebo
per farmi venire i dolori. Fu terribile passeggiare per i corridoi
dell'ospedale, in attesa che i dolori tornassero. Avevo paura di non
farcela. I visitatori, che avevano seguito la cosa dalla mattina, mi
confortavano come potevano. Verso le 16.00 tornarono le contrazioni. Il
parto avvenne in una posizione innaturale perché ero in posizione supina
con una padella che mi faceva inarcare la schiena. Mi hanno dovuto
praticare l'apertura manuale del parto. Un momento particolarmente
spiacevole fu quando mi chiesero di non urlare troppo. I dolori del parto
sono fortissimi al punto che si perde il controllo degli arti. Ti sembra
di impazzire ed, a volte, perdi il contatto con la realtà. Non sempre ti
rendi conto di quello che dici o di quanto tu stia urlando. Questa
richiesta, fatta da un'ostetrica, mi sembra tuttora assurda anche se poi
seppi il motivo. Mia madre, nell'altra stanza, stava perdendo i sensi.
Sentii il mio bambino uscire da me ed i dolori finirono. Il dolore per la
perdita, invece, si accentuò. Forse furono gli ormoni associati al parto
che mi spingevano istintivamente a cercare il bambino che avrebbe dovuto
esserci. Lo volevo tra le mie braccia che rimasero vuote. Il senso di
vuoto che provai non lo dimenticherò più ed in questo momento, è lo
stesso di allora.
Quando ormai era tutto finito, mi chiesero se fossi cattolica e se avessi
voluto conoscere il sesso per dare il nome al bambino. Mi dissero che lo
avrebbero battezzato.
"No non voglio sapere nulla" dissi loro.
"Considereremo il bambino il nostro bambino, il bambino
dell'ospedale. Gli daremo noi un nome." Mi dissero. Capii che il
bimbo era un maschio.
I miei sentimenti furono contrastanti. In realtà non era vero che non
volevo saperne nulla del bimbo. Era il mio. Io lo volevo. Ora avrebbe
avuto un nome, ma io non l'avrei mai saputo. Tacqui, comunque.
Decisero che avrei avuto bisogno anche di un raschiamento. Dentro di me
non ero certa che, in quel momento, avrei saputo sopportare il rituale
preoperatorio.
Mi spogliarono completamente, mi poggiarono sopra la veste per la sala
operatoria dove mi portarono immediatamente dopo il parto. Le sale
operatorie sono fredde, tutti quegli strumenti, l'asetticità mettono po'
di soggezione. Io ero molto provata. Nel momento in cui mi posizionarono
sul letto operatorio mi sono sentita impotente e mi sono messa nelle mani
del dottore e di Dio, se ne esiste uno. L'anestesia venne giù come una
grazia. L'ultima cosa che ricordo fu……"metti il braccio qui"…..non
sentii neanche le domande consuete che di solito fanno per vedere se
l'anestesia fa effetto, del tipo "come ti chiami?", "conta
fino a cento"….
"Sveglia è finito tutto!" Era l'anestesista, una persona
simpatica che mi diede un buffetto sulla testa. Quando tornai in stanza
era passata l'ora di cena degli ospedali, ma mia sorella mi aveva portato
della carne con le patate, profumata con il rosmarino. Il rosmarino mi
fece pensare alle colline dell'isola del Giglio che in primavera sono
piene degli odori e dei colori della macchia mediterranea fiorita. La
camicia da notte era andata persa, tra i panni bianchi del letto della
sala travaglio, ormai partiti per la lavanderia, per cui utilizzai, con
gratitudine, il pigiama di ricambio a cui mia sorella aveva pensato.
Utilizzai anche gli assorbenti che mi aveva portato. Mio marito dovette
andare a comprarmene degli altri.
La mattina successiva fui dimessa. Quando vidi la luce pensai che mio
figlio non l'avrebbe mai vista.
Non posso terminare questo paragrafo senza ringraziare la mia famiglia.
Ed ancora inferno
L'odissea, però, non era finita, ma per descrivere gli avvenimenti
occorre tornare al momento dell'aborto: mentre io stavo facendo il
raschiamento, mio marito si stava mettendo d'accordo per far analizzare la
mappa genetica del feto. Dato che era sabato, gli dissero, l'ospedale non
disponeva del galoppino che avrebbe dovuto portare il feto al laboratorio.
In ogni caso, il centro di analisi chiudeva il sabato pomeriggio. Gli
proposero, dunque, di portarsi il feto a casa, nella soluzione
fisiologica, per poterlo portare il lunedì lui stesso al laboratorio. Mio
marito rifiutò di portarlo a casa seduta stante, prendendo accordi per
tornare in ospedale il lunedì successivo.
Lunedì 18 aprile 2004. La mattina, mio marito uscì di casa per andare a
riprendersi il feto e portarlo al laboratorio di analisi genetiche. In
ospedale, non gli diedero indicazioni precise su dove tale laboratorio si
trovasse e quindi, col feto in macchina, mio marito dovette cercarlo in
giro per Roma.
Quel giorno mio marito contattò due laboratori
differenti, perché, come dicevo sopra, l'ospedale, presso cui avevo
abortito, non gli aveva dato riferimenti precisi.
Nella mattina si recò presso il primo laboratorio
il cui personale non gli disse che certe analisi non le facevano, ma
bensì che l'ospedale gli aveva dato delle informazioni sbagliate sulla
prassi e che bisognava, prima di far analizzare il feto, prendere un
appuntamento con un medico specialistico. C'erano due possibilità. Se
avessimo scelto di avvalerci di un medico convenzionato avremmo dovuto
aspettare tre settimane, altrimenti una sola. Per prendere appuntamento
avremmo dovuto chiamare nel pomeriggio.
Mio maritò tornò a casa, portandosi dietro, in macchina, il feto nella
fisiologica.
Le riflessioni che seguirono furono macabre. Non ritenevamo possibile che
il feto potesse aspettare così tanto per via della decomposizione. Dio,
pensare alla decomposizione quando dovevamo pensare ad una nascita!
Avevamo, dunque, capito di aver contattato il laboratorio sbagliato. Per
fortuna, però, mio marito si ricordò anche di altre indicazioni vaghe,
ad esempio, di una certa insegna che il laboratorio visitato non aveva.
Cercammo su internet e trovammo un altro laboratorio che poi si rivelò
quello giusto.
Nonostante la pioggia battente, mio marito prese il
motorino ed andò a cercare il laboratorio con le indicazioni trovate su
internet.
Quando lo trovò, però, le difficoltà, non erano finite in quanto il
personale del laboratorio lo riempì di domande perché ritenevano molto
strano che l'ospedale avesse dato al padre il feto da portare a far
analizzare. Telefonarono all'ospedale per fare degli accertamenti,
sospettando, forse, di un aborto clandestino o comunque di qualche
traffico illegale.
Mio marito, dunque, oltre al dolore per la perdita, dovette subire il
trattamento di un delinquente.
Dapprima parlò con un dirigente medico, che, dopo aver sentito la storia,
disse di poter eseguire una prima analisi dietro compenso di un centinaio
di euro. Se avessero dovuto fare ulteriori accertamenti, poi, il compenso
sarebbe aumentato di altri 120 euro (più o meno).
Un'addetta del laboratorio, però, subito dopo, smentì le affermazioni
del dirigente medico. Gli accertamenti, infatti, non potevano essere fatti
in quanto era passato troppo tempo dalla morte.
Gli addetti del laboratorio dissero, in oltre, che siccome loro facevano
analisi sui campioni e non sull'intero feto, non avrebbero potuto
provvedere allo smaltimento.
Insomma, fino a due giorni prima il bimbo era il nostro tesoro, una parte
di me e di mio marito, che stava crescendo dentro di me.
Ora era diventato un prodotto da smaltire. L'asettica terminologia
tecnica, a volte, può ferire di più di un insulto.
Ormai era sera e mio marito non potette riportare
il feto direttamente all'ospedale per cui lo riportò a casa. Non so
tuttora dove lo tenne ed all'epoca non mi disse neanche che il feto era
ancora nelle sue mani, anche se lo sospettai. Solo giorni dopo decise di
confidarmi l'accaduto. Non se lo poteva tenere dentro.
Martedì mattina, silenziosamente, cercando di non
farmi capire dove stava andando, mio marito riportò il feto in ospedale e
così fummo definitivamente separati dal nostro bimbo.
In caso di aborto tardivo, qualora si disponga del
feto, è molto importante, dunque, richiedere di farlo esaminare il più
celermente possibile.
Desiderio di Paradiso
So di aver passato l'inferno. Ora la vita mi richiede di superare quello
che è successo. Presto ricomincerò il lavoro. Nonostante tutto, non ho
perso la voglia di avere un figlio anzi, lo voglio disperatamente. Lo
voglio più di prima. Voglio colmare il vuoto rimasto tra le mie braccia.
Inizialmente la mia preoccupazione principale fu quella che il bambino
fosse sano e che io, con i miei comportamenti sbagliati, ne avessi causato
la morte.
Pensavo che fossero stati i fibromi a causare la morte del feto. Io ho
l'utero fibromotoso e diversi fibromi di cui uno di 5 cm di diametro. Ho
pensato che i ginecologi che mi avevano seguito, non essendo stati pagati,
non avessero preso a cuore la mia situazione e non mi avessero avvertito
del pericolo che correvo. Ho pensato che la colpa fosse mia perché non
avevo contattato un ginecologo privatamente. Senza la pretesa di
sostituirmi ad un medico, ho preso informazioni sulla natura dei fibromi
pericolosi ed ho visto che, solitamente, solo i fibromi sottomucosi
(ovvero interni all'utero) sono pericolosi in gravidanza mentre i miei
sono, per la maggior parte esterni e solo uno è nella parete dell'utero.
Anche quest'ultimo difficilmente è rischioso per il feto.
Un'altra paura, che tuttora mi assilla, è legata al fatto che un aborto
alla diciottesima settimana faccia sospettare qualche patologia e quindi
comporti un aumentato rischio di aborto ripetuto. Ci tengo a precisare che
non sono a conoscenza di pubblicazioni scientifiche attestanti il legame
tra aborto tardivo ed aborto ripetuto. Comunque, sia per accertarmi delle
cause che per scongiurare la presenza di eventuali patologie, ho
contattato un bravo ginecologo, privatamente. In oltre, io e mio marito
abbiamo capito che il primo centro contattato, in realtà, si occupa di
consulenza genetica per la coppia ovvero di valutazioni riguardo la
compatibilità genetica. Abbiamo fissato un appuntamento.
Può capitare, in questi casi, che anche la voglia
di andare avanti, di ritentare, faccia sentire in colpa. Occorre, però,
ricordare che non è l'egoismo a spingere in questi casi, ma è la vita
stessa che richiama la vita e che, a primavera, dopo l'inverno, produce
sempre nuovi boccioli sui rami privi di foglie.
Conclusioni
Pubblicando questo racconto su internet, spero che venga letto non solo da
persone che hanno avuto la stessa mia esperienza (e già sarebbe
moltissimo se fosse di consolazione a qualcuno), ma magari anche da
qualche istituzione.
Nelle mie conclusioni, dunque, ho deciso di esplicitare brevemente, in un
elenco, le mancanze che ho percepito nel sistema.
Innanzi tutto, nella mia storia, sarebbe stato utile che il laboratorio mi
avesse comunicato tempestivamente, magari chiamandomi telefonicamente, il
risultato dell'analisi o quantomeno avesse attirato la mia attenzione, il
giorno del ritiro, sulle implicazione dei risultati. Forse, se non c'è,
ci vorrebbe qualche norma che li obblighi a farlo.
Ritengo che medici ed infermieri, che sono a contatto col pubblico,
debbano anche essere dei buoni comunicatori e debbano usare più tatto
possibile in queste situazioni. Alcuni lo fanno, ma sono la minoranza.
Sarebbe utile, se già non ci sono, dei corsi specifici periodici per dare
dei modelli di comportamento a queste persone che comunque fanno un lavoro
difficile e duro. Forse certi comportamenti sono dovuti al
sottodimensionamento del personale.
Dato che gli aborti non sono così infrequenti e sono molto dolorosi in
tutti i sensi, gli ospedali dovrebbero essere dotati di uno psicologo che
supporti la persona che lo subisce.
Non ritengo sia giusto mettere una persona, che subisce un aborto, nel
reparto di maternità, dovrebbe stare in ginecologia.
Non ritengo giusto che sia il padre ad occuparsi del feto, anche se penso
che la mia storia sia dovuta ad un'anomalia nel comportamento
dell'ospedale.
Tre ecografie nell'arco della gravidanza non sono sufficienti. Se io non
avessi fatto il Tritest non mi sarei mai accorta della morte del feto e le
conseguenze sarebbero potute essere molto gravi per la mia salute.
Infine, prima dell'astensione obbligatoria dal lavoro per gravidanza,
dovrebbe essere codificato il diritto della donna a permessi, durante
l'orario di lavoro, per andare a fare i necessari controlli ostetrici e
ginecologici.
A=A=A
Sono qui seduta presso il mio vecchi scrittoio.
Davanti a me ho due foto in due annerite cornici di argento: in una ci
siamo io Alba ed Aurora bambine e nell'altra io Alba ed Aurora di tre anni
fa, quando eravamo tutte e tre vive. Io sono l'ultima rimasta e voglio
scrivere a voi, nostri nipoti, di uno strano segreto, del quale non riesco
a dare spiegazione. Non ve ne ho mai parlato prima, perché probabilmente
mi avreste preso per pazza, ma ora di ciò non mi importa più. La
rivelazione del nostro segreto, in questo momento, invece, forse, vi darà
speranza nel futuro.
Alba ed Aurora mi hanno lasciato fisicamente un
anno e due anni fa, rispettivamente. Fu proprio l'anno in cui morì Aurora
che l'ombra ricomparve dopo sessant'anni dall'ultima volta.
Poi ricomparve la mattina del giorno in cui morì Alba. Stamattina, sul
davanzale della mia finestra, è comparsa, di nuovo....Così, so che
stasera lascerò questo mondo. Per l'appunto...so che lascerò QUESTO
mondo. Guardo, intorno a me, la mia vecchia casa: il divano lì in un
angolo, sulla spalliera c'è il centrino che ha fatto all'uncinetto Alba;
il caminetto vicino al divano, con la vecchia sveglia sulla sua mensola;
al centro della stanza c'è il tavolino ovale in legno scuro, con intorno
le massicce sedie rustiche...e dall'altra parte del divano, la finestra
con gli stipiti in legno, che affaccia sul giardino invernale, pieno di
gialle foglie cadute.
Lì, sul davanzale della finestra, c'è l'ombra-simbolo che collega due
realtà. Ma forse sto correndo un po' troppo, incominciamo dal
principio....
Avevo circa 10 anni e la casa in cui vivevo era
questa stessa, in cui vivo ancora. All'epoca, però, questa era una casa
di campagna, non c'erano tutte le villette che ci sono ora. Negli ultimi
trent'anni, infatti, questa zona è diventata da agricola a residenziale.
Ma all'epoca, dalla finestra che adduce sul giardino, si potevano vedere
campi sconfinati, fino al delimitare delle boscose pendici montuose. Ora,
intorno al giardino, ci sono alti muri contornati da siepi, per cui non è
possibile far spaziare lo sguardo all'esterno e pur potendo, esso sarebbe
limitato dalla presenza delle villette confinanti.
Ho sempre pensato che, in fondo, una casa fosse un
microcosmo, un caro e confortevole microcosmo. La finestra unisce il
microcosmo domestico col mondo esterno. Forse per questo simbolismo,
l'ombra comparve, per la prima volta e nelle apparizioni successive,
proprio sul davanzale della finestra.
Questo non è tutto.
L'ombra, infatti, comparve, per la prima volta, la
mattina del giorno in cui nacque Alba.
Quel giorno la mamma ebbe le doglie a partire
all'alba e questo fu, appunto, il nome della nuova venuta.
Io ero seduta sul divano della sala, mentre mio
padre faceva avanti ed indietro, proprio davanti a me, con la stessa
cadenza del ticchettio dell'orologio sulla mensola del camino. Di fronte a
me c'era la finestra, con l'ombra. Io la stavo fissando. Nel momento in
cui Alba nasceva, non so perché, cominciai a percepire buio intorno a me.
Sentivo che il legame tra me e quelle sensazioni che invadevano il mio
corpo, era l'ombra. Poi, improvvisamente non ero più nel salotto, ma in
un luogo oscuro e caldo. In quel luogo buio e protetto rimasi pochissimo
perché una qualche forza mi catapultò fuori e fui immersa nella luce e
nel freddo. Provai un senso di soffocamento fortissimo.
Le urla della nascitura mi riportarono improvvisamente alla realtà. Alba
era nata. L'ombra era scomparsa.
Passarono quattro anni, Alba crebbe.
Il giorno in cui nacque Aurora, fu Alba ad
accorgersi per prima dell'ombra.
"Amina, cos'è quella macchia scura...sembra
l'ombra di ....di....di un bimbo!"
Io, che già sapevo cosa sarebbe successo, andai da
Alba, la presi per mano ed attesi...
Buio e caldo, poi luce e senso di soffocamento. Questa volta fu diverso,
però, perché al rientro, nella stanza da pranzo, per un attimo, fui
contemporaneamente me ed Alba. Entrambe, insieme, sentivamo i vagiti di
Aurora. Infine fummo di nuovo due entità distinte. Aurora continuava il
suo pianto da neonata.
Crescendo ne io, ne Alba, ne Aurora vedemmo più
l'ombra scura sul davanzale della finestra.
Sperimentammo, però, come ogni altra persona, il potere evocativo dei
simboli, capace di legare due realtà anche molto diverse. Forse l'ombra
scura è la proiezione di qualche simbolo ancestrale, presente
nell'inconscio capace di unire tre coscienze o forse esiste in inconscio
collettivo che per qualche motivo si è esternato proprio con noi...
Insomma, questo è un vero mistero.
Io, Alba ed Aurora, siamo vissute sempre molto
unite, ci siamo aiutate una con l'altra tutta la vita, come se fossimo una
sola persona.
Fu anche questo che ci consentì di avere una grande famiglia, figli e
nipoti.
Ora, Alba ed Aurora mi hanno lasciato.
L'ombra-simbolo, però, continua a legarmi a loro.
Quando morì Aurora, io ed Alba fummo con lei: nel
momento del trapasso, passammo tutte e tre dalla luce e dal freddo, alle
soglie di un luogo scuro e caldo, una specie di brodo primordiale....poi,
in un attimo, io ed Alba fummo di nuovo nella nostra realtà.
Venne il momento anche di Alba. La mattina vidi
l'ombra e mi sembrò di sentire la presenza di Aurora...Non sapevo se
sarebbe stato il mio turno o quello di Alba. Avrei preferito fosse il mio,
per non essere lasciata sola a questo mondo. In serata fui risucchiata
all'ingresso del confortevole brodo primordiale, sentivo che vicino a me
c'erano Alba ed Aurora. Alla fine, però, fui io a ritornare nel mondo.
Ora, finalmente, stasera, mi unirò alle mie amate
sorelle. Ho visto l'ombra-simbolo sul davanzale ed ho percepito la
presenza delle vostre nonne....
Cari nipoti, non penso che mi crediate, in ogni
caso, se non altro in nostra memoria, non vendete questa casa ed ogni
tanto venite a dare una occhiata al davanzale della finestra che dà al
giardino. Se vedrete un'ombra scura, proiettata su tale davanzale, forse,
potrebbe voler dire che le vostre nonne siano venute a farvi visita.
Pausa Pranzo
Lei camminava davanti a me, con la sua camminata
fiera, non curante e
felina, come quella di un leone maschio nella savana africana.
Alta, magra e scolpita, Renata portava i capelli castani cortissimi, che
mettevano
in risalto le sue spalle larghe.
Immaginavo il suo volto dai tratti regolari e decisi, quasi mascolini,
con la pelle asciutta, dorata dal sole, solcata da piccole rughe,
con la bocca sprezzante e lo sguardo ardente, severo, sempre alto e
proiettato in avanti.
Dietro di lei trottellavamo io, Gianpiero e Franca.
Gianpiero era alto, magrissimo ed i lunghi capelli di paglia
incorniciavano il suo giovane
volto dalla pelle chiara e lentigginosa. Anche lui mi antecedeva e stava
faticosamente dietro a Renata.
Il ragazzo, che tentava di imitare il portamento della donna, non riusciva
a camminarle al fianco, per cui le stava un passo dietro, quasi in segno
sottomissione.
Franca, col suo viso rubicondo da contadina, alta, forte ed imponente, mi
seguiva:
ne potevo sentire i passi pesanti ed un pò sgraziati, ma poderosi e
decisi.
Franca aveva la stessa età di Renata, era sua amica da anni
e condivideva con lei gran parte delle sue idee. Entrambe di sinistra,
sindacaliste attive,
iscritte a lega ambiente, animaliste. Le idee, però, assumevano toni e
colori diversi,
nelle due donne. In Renata, infatti, le idee erano graffianti, rabbiose ed
esplosive, legate saldamente alle azioni ed al mondo. La donna, non
riusciva a
concepire che i semplici e lampanti principi che le albergavano in cuore,
venissero
applicati alla realtà solo raramente.
Le idee di Franca, invece, assumevano una sfumatura meno concreta e non
sempre erano legate
alla volontà di cambiare realmente le cose. Le storture del mondo,
rispetto a quei canoni,
le provocavano sentimenti di tristezza, forse anche di pietà, ma non
quella determinazione
un po' rabbiosa di Renata, motore di azioni grandi e piccole per il
cambiamento.
La condanna di Franca verso l'indifferenza della gente, l'urbanizzazione
selvaggia, il consumismo
distruttivo, cieco e vorace, si risolveva spesso in lunghi sproloqui
accorati che raramente
si tramutavano in azioni concrete. I discorsi accorati di Franca
servivano,
però, ad aizzare Renata, che passava ai fatti, rimettendoci spesso di
persona.
Alle nostre spalle si allontanava l'edificio a
specchi dei nostri uffici, che si stagliava,
solitario, tra il verde dei prati.
L'edificio si trovava, infatti, alla periferia della città ed era
raggiungibile solo attraverso
la superstrada. La zona in cui ci trovavamo, che una volta doveva essere
completamente agricola, ora,
invece,offriva un paesaggio fatto di bei prati fioriti intervallati da
qualche
rudere di vecchi casolari contadini e da solitari edifici di vetro e
cemento adibiti ad ufficio.
In lontananza, i campi verdi venivano sfregiati dai solchi delle ruspe di
una
urbanizzazione incipiente, che presto avrebbero cancellato del tutto gli
ultimi cenni
dell'antica amenità agreste di quei luoghi.
Percorrevamo, sotto un cielo terso ed illuminato
dal sole, un sentiero sterrato, dolcemente
lambito da un praticello verde brillante, rallegrato dalla fioritura di
qualche sparuta
margherita preprimaverile.
Il sentiero, che forse anticamente portava ad un vecchio casolare, ora
finiva in un degradato
parcheggio aziendale, pietosamente nascosto allo sguardo da una lieve
pendenza.
Il parcheggio era caduto in disuso perché spesso soggetto alla razzia di
alcune bande di
zingari che si erano insediati, da qualche tempo, nella zona. I
dipendenti, intimoriti
dai continui furti di autoradio, avevano finito per parcheggiare sotto gli
uffici, in modo
da poter tenere d'occhio la propria auto e da percorrere un tragitto breve
la sera, alla fine
dell'orario di lavoro.
Il parcheggio, non più grande di 200 mq, di pianta
irregolare, era intervallato da isole
di terriccio ove, originariamente, dovevano essere piantate delle aiuole.
Nelle
isole verdi ora crescevano, invece, delle sterpaglie cespugliose, piene di
ogni sorta di immondizia,
lattine, cartacce, bottiglie di plastica e perfino qualche preservativo.
Appena entrammo nell'area di parcheggio, notammo
dei movimenti furtivi in un'automobile
parcheggiata in lontananza, la quale si allontanò in tutta fretta,
accelerando rumorosamente
a marce basse e sgommando. A quel punto nel parcheggio c'eravamo solo noi
quattro.... Solo noi
quattro?
Nel perfetto silenzio che si era creato, dopo la
partenza rumorosa della macchina, sentimmo
un movimento dietro un rovo. Qualcuno o qualcosa stava rovistando tra i
rifiuti.
Io, Franca e Gianpiero ci fermammo ad ascoltare, mentre Renata andava
avanti nella direzione
del fruscio.
"WOF, WOF!"....Era un cane!
Il cane, un bastardino di taglia media di colore
beige, abbaiava minacciosamente
verso di noi, che eravamo a 30 metri di distanza.
Renata continuava ad avanzare fino ad arrivare a
qualche metro dal cane.
Noi tre, in retroguardia, la osservavamo intimoriti
ed in silenzio, per evitare che il
cane si inferocisse ancora di più.
Renata si piegò sulle ginocchia e tese il dorso
della mano verso il cane, fissandogli negli
occhi il suo sguardo deciso e benevolo.
I latrati del cane divennero sempre più deboli e
striduli. Poi abbassò le orecchie e
si mise a scodinzolare, avvicinandosi alla mano amica di Renata.
Dopo averla brevemente annusata, il cane piegò il capo e lo pose sotto la
forte e confortante
mano, in cerca di protezione.
Amicizia era fatta.
Lentamente ci avvicinammo tutti e tre, dalla
retroguardia
"Dio mio, abbaiava per paura....guarda...è un
cucciolo! Non avrà più di cinque o sei mesi.
E' magrissimo!"
diceva Franca rivolta a Gianpiero, sgranando i suoi grandi occhi marroni,
nei quali la paura
di qualche istante prima si era rapidamente trasformata in compassione.
"Si è vero, gli si vedono le costole, deve
essere affamato...Quanto tempo può stare un cane
senza mangiare? Una settimana? Forse è stato abbandonato da
poco...." Osservava Gianpiero
"Non vedete che strano muso? Ha il muso
deformato, tutto piegato da una parte. Questo cane
deve essere stato investito sulla superstrada: ecco si vide chiaramente la
botta..." diceva
Renata, sempre accarezzandolo.
"Ohh povero cucciolo, andiamogli a prendere
qualcosa da mangiare!" Diceva Franca,
che cominciò a sua volta, ad accarezzare il cane.
Renata tirò fuori le chiavi della sua auto dalla
tasca dei jeans, le pose a Gianpiero e gli disse
"Vai a prendermi la scatoletta di Ara, dentro
il bagagliaio". Ara era il cane di Renata, un
altro trovatello, unico ricordo della precedente storia d'amore. Anche
Franca aveva preso in adozione
un cane dal canile municipale, da qualche tempo, prendendo esempio dalla
sua amica.
Gianpiero un po' contrariato, mi chiese di
accompagnarlo.
"Non credo che Renata ce la possa fare...già
adesso con Ara, si deve alzare prestissimo la mattina
per accompagnare il cane nella sua passeggiatina, poi deve pianificare i
suoi orari di ufficio,
sempre in funzione del cane...a volte se lo porta e lo lascia in macchina,
facendolo uscire di
tanto in tanto....per non parlare delle vacanze!"
"Gianpiero, non capisco...ma se lei se la
sente.....Sai questi sono gli esatti motivi che hanno
fatto scaricare quel cane sulla superstrada. Ma te lo immagini? Un
cucciolo....le macchine a tutta
velocità, lui magari si è lanciato all'inseguimento dell'automobile del
padrone ed è stato investito.
Chissà come è sopravvissuto, col setto nasale rotto e chissà quale
altro trauma...chissà come ha fatto
a mangiare......e poi, Gianpiero, non capisco, a te, cosa importa?"
" No...Non ce la può fare, io lo so...Quella
si raccatterebbe tutti i randagi che trova per strada,
se qualcuno non la fermasse...E poi, gli esseri umani non le fanno pena!
Di quelli lei ha scarsa cura...
Quelli le fanno senso, quelli li condanna..."
"Gianpiero, forse vorresti essere TU al posto
di quel cane a prendere carezze...?"
Questa ultima domanda, freddò definitivamente la
conversazione, Gianpiero prese a camminare molto
velocemente, davanti a me, per evitare altre imbarazzanti domande.
Tornammo da Renata e da Franca, un po' accaldati
sotto il sole primaverile nelle ore centrali della
giornata.
Le due donne erano intente a giocare col cane...
" Renata, non è
dolcissimo?....Guarda....Guarda che occhi teneri e guarda come è
magro...Non ti
fa tenerezza?"
Renata, che aveva il volto un po' teso e serio, non
rispondeva....
La donna, si avvicinò a noi, prese la scatoletta
dalle mani di Gianpiero, con un fare un po' brusco,
la aprì e la rovesciò in terra, per evitare che il cane si ferisse con
le lamiere.
All'inizio la povera bestiola non capiva, ci
guardava...
Franca si avvicinò al cibo, indicandolo con le mani:
"Guarda, è per te!"
Il cane si avvicinò e con quattro bocconi finì i
250 grammi di carne in scatola. La carne
era completamente finita, ma l'affamato animale continuava a leccare il
terreno.
Gianpiero stava eretto, rigido e fissava Renata.
La donna, anche lei in piedi, sembrava attratta dal
cane, ma nello stesso tempo evitava il contatto,
forse per mantenere una imparzialità nella decisione che stava prendendo.
Franca, accarezzava il cucciolo
dicendo..."Piccino, forse hai trovato una casa..."
La pausa pranzo era finita, dovevamo tornare tutti
in ufficio.
Franca si staccò con riluttanza dal cane fissando
i suoi occhioni marroni delusi su Renata, la quale
già si era incamminata sulla strada sterrata insieme a Gianiero.
Anche io cominciai a camminare e Franca ci seguiva
svogliatamente.
Il cane sembrava aver capito che ce ne stavamo
andando e che lui non sarebbe potuto venire con noi.
Ci guardava, seduto, con le orecchie tese e lo sguardo attento, come se
stesse aspettando qualcosa,
un cenno.
Renata camminava dritta davanti a me, a qualche
metro di distanza mentre Gianpiero le are al fianco,
quando ad un certo punto disse, con voce ferma e severa, senza voltarsi:
"Dai muso da virgola, Dai Virgola! Che aspetti? Forza! Andiamo!"
Il cane, si alzò di scatto, trotterellando
sorpassò me e Franca, che sorrideva soddisfatta, e prese
a camminare in mezzo a Gianpiero ed a Renata.
Gianpiero, senza guardarlo, diede a Virgola un
buffetto affettuoso tra le orecchie ritte.
IL TRENO
Finalmente Vacanza!
Avrei accettato scioperi, ritardo del treno, caldo soffocante, tutto di
buon animo, felice...
con la calma indolente di chi ha tanti giorni di libertà davanti a se.
Mi trovavo alla stazione di Poggio Mirteto, in
provincia di Roma, era Ferragosto,
faceva un caldo atroce ed era il mio primo giorno di ferie.
La stazione, completamente deserta a parte me, si trovava infossata tra le
boscose colline
della Sabina ed era assediata da un caldo soffocante ed appiccicaticcio
nonché dalle zanzare.
Le 9.00 del mattino. A quest'ora il giorno
precedente...mi trovavo...
davanti a quel maledetto PC, ero appena entrato in ufficio, col sole fuori
delle finestre
e l'unica consolazione delle prossime ferie.
Questo pensiero mi provocava una subdola felicità, anche se nello stesso
tempo,
mi proiettava nel futuro, al rientro: la malefica tastiera bianco-ospedale
stava lì ad aspettarmi, sulla scrivania bianco sporco, nella stanzetta di
un colore crema affumicato,
nel freddo artificiale dell'aria condizionata.
Ma ora ero alla fermata del treno, aspettando il mezzo che mi avrebbe
portato al sud,
verso il blu del limpido mare, verso l'azzurro del cielo assolato, verso
le spiagge dorate,
temperate dalla profumata brezza marina.
Il treno ritardava, le 10.00....le 11.00....
Fissavo le rotaie, seguendole fino dietro la curva che girava intorno al
verde fianco
della collina, con la speranza di vedere l'agognato treno.
A mezzogiorno, finalmente sentii il suono più dolce del mondo...'TUUUU
TUUUU'...
e vidi comparire il miraggio, che brillava sulle rotaie.
L'aria che saliva dal terreno, reso caldo dal sole di Agosto, sfocava
l'immagine del treno,
facendola apparire quasi diafana.
Man mano che il treno si avvicinava, notai che era nuovissimo, di un
lucido argento
e molto lungo, tanto che non potevo vederne la fine perché qualche vagone
spariva dietro la curva.
Devo dire che quell'immagine mi inquietò un poco, non avevo mai visto un
treno tanto bello, tanto lucido, così silenzioso nel muoversi...ed ero
completamente solo in stazione.
Ad aumentare la mia preoccupazione ci fu l'annuncio della voce al
megafono, una voce di donna calma, dolce, chiarissima come se provenisse
da una persona a pochi passi da me:
"è in arrivo il diretto 2188 da NORD diretto a SUD".
Un treno da NORD diretto a SUD? Ma che stava annunciando quella voce così
seducente?
Ero tentato di non prendere quel treno, ma era proprio il treno 2188 che
aspettavo,
faceva un caldo impressionante ed il prossimo treno per Catanzaro ci
sarebbe stato solo
l'indomani mattina.
Mi dissi allora:
"Ma dai!!! Lo sai...a ferragosto il personale scarseggia, forse hanno
messo una ragazza poco esperta agli annunci..."
Eh si, mi stavo facendo condizionare dalla stazione deserta e dai giochi
di rifrazione della luce creati dal caldo.
Salii sul treno.
All'interno il treno era ancora più bello che
fuori. L'ambiente doveva essere climatizzato,
perché c'era una temperatura confortevole di circa 25 gradi, anche se
l'aria era gradevolmente profumata e non aveva il sapore metallico che di
solito assume quando esce dai condizionatori.
Il vagone nel quale entrai, completamente deserto, era situato all'incirca
al centro del treno, non aveva scompartimenti, ed era dotato di otto
sedili, quattro da un lato del vagone e quattro dell'altro, ben
distanziati gli uni dagli altri, di colore azzurro.
Accanto a ciascuno di essi erano posizionate da un lato delle felci
rigogliose e
dall'altro i grandi finestrini del vagone, talmente puliti che il vetro
sembrava quasi
non ci fosse. Le felci, così posizionate, formavano una navata centrale
all'interno del vagone la cui pavimentazione era coperta da una soffice
moquette verde, talmente bella da sembrare un praticello.
L'ambiente mi sembrava troppo strano, troppo confortevole per essere un
treno di linea.
Di nuovo, ebbi l'impulso di scendere ma quando mi voltai e raggiunsi
l'ingresso,
vidi le porte del treno chiudersi davanti a me.
Ero partito.
Mi sistemai sull'ultimo sedile della fila di
sinistra,
sia perché mi è sempre piaciuto avere le pareti alle spalle ma anche
perché
da quella posizione avevo davanti a me una visuale più ampia, attraverso
la sequenza di
tutti i finestrini.
Ero un po' inquieto, vedendo il paesaggio che scorreva dinnanzi a me
velocemente,
così vivo, attraverso di essi. L'inquietudine presto si trasformò in
spavento quando passai
dinnanzi alla prima stazione ove il treno avrebbe dovuto sostare: il treno
non si fermò.
Mi alzai di scatto dalla poltrona e colpii ripetutamente col pugno i
finestrini gridando aiuto.
I pochi astanti alla stazione sembravano non vedermi, anche quelli che
guardavano nella mia direzione.
Cominciai a correre verso la motrice del treno, vagone dopo vagone. Tutti
i vagoni erano identici e totalmente vuoti. Nessuno! Corsi fino a non
poterne più ma non riuscii a raggiungere la motrice.
Disperato e pieno di terrore, ma sfinito, mi sedetti dove mi trovavo
ed incredibilmente ritrovai lo zaino accanto a me.
Guardai fuori dal finestrino, ancora un po' accaldato, la ferrovia in quel
punto stava
per inoltrarsi in un centro abitato. Man mano che mi avvicinavo alle
abitazioni, le immagini del paesaggio si facevano sempre più chiare e
stranamente…dilazionate nel tempo, come se non vedessi solo quel
momento, ma degli attimi prima sparpagliati nella storia precedente a
quell'istante. Cercherò di spiegarmi meglio.
Quando si viaggia capita di vedere delle scene sul proprio percorso.
Ad esempio un contadino che ara il suo campo, una famiglia che pranza
intorno ad un tavolo, la donna delle pulizie che fa il letto in una stanza
di albergo...
Di solito si viene affascinati dalla scena, forse perché, durante il
viaggio, la nostra vita è 'sospesa' mentre quella dei protagonisti della
scena prosegue oppure perché la nostra mente ci catapulta in un
fotogramma di una storia, di una vita che sta seguendo il suo corso.
Quando la scena si allontana, si prova, poi, una specie malinconica
nostalgia,
per quelle storie, di cui abbiamo visto solo un fotogramma, che sfuggono
dallo sguardo perdendosi lentamente nella dimenticanza.
Ed anche in questo caso le storie vennero alla mia
mente ma in un modo talmente concreto e vivo da sembrare spezzoni di vita,
nati dal fotogramma che vedevo
attraverso i finestrini del treno.
ROSANNA
Quando passai davanti al primo edificio, quel
giorno, vidi una ragazza che dipingeva una stanza.
Era una ragazza giovane, avrà avuto 20 anni, con i capelli castani
spruzzati d'oro, molto esile, dalla carnagione bianchissima.
"Uhm vediamo", mi dissi, cominciando a fare ipotesi sulla sua
vita "la ragazza è andata a vivere da sola, da poco...ha preso un
piccolo appartamento in affitto, molto mal ridotto, è per questo che lo
sta ridipingendo."
"Probabilmente è una ragazza del sud, siciliana, con del sangue
normanno nelle vene.
Come moltissimi ragazzi meridionali, prima o poi avrebbe dovuto lasciare
la sua terra natia per lavorare, ma lei lo ha fatto anche prima del
necessario."
"Si chiama....Rosanna."
In quel momento, non mi avvidi che non avevo
supposto il nome, ma lo avevo pensato. Continuai a seguire il flusso dei
miei pensieri…..
"Rosanna è abituata a lavorare, si vede
dall'abilità con cui passa il pennello
con le mani sottili. Fin da piccola ha dovuto darsi da fare perché, nella
sua numerosa famiglia di contadini meridionali, non poteva certo essere
mantenuta…. "
La scena, invece di sparire in un attimo, mi
continuava a stare davanti, si trasformava, senza che io me ne avvedessi.
" La ragazza passa e ripassa il pennello,
scende dalla scaletta, rimirava il suo lavoro, e ritocca meticolosamente,
dove vede qualche imperfezione nella tinta, dipingendo con una precisione
quasi maniacale, come se ci fosse un occhio vigile a guardarla."
Questi dettagli, facevano nascere in me ancora
supposizioni/affermazioni…..
"L'occhio che la spia è nella sua mente ed e
si trova nell'immagine del volto di suo padre, severo e intransigente,
attento ad ogni imperfezione."
Dal finestrino del treno riuscivo a vedere
chiaramente gli enormi occhi azzurri di Rosanna, coronati da ciglia
lunghissime, occhi da sognatrice. Vidi la forma del viso di Rosanna
regredire, fino a che mi accorsi che gli stessi occhi azzurri erano su un
volto di bambina.
Ancora vedo quegli occhi, imbambolati davanti a dei
bellissimi non ti scordar di me, fioriti sul prato dietro casa. Chissà
quale mondo quegli occhi sognavano tra le radici delle piante, tra il
fogliame umido degli alberi, un mondo, animato da spiritelli del bosco, da
elfi e folletti.
Poi non vidi più il volto di Rosanna, e capii che
i miei occhi erano i suoi.
Vedevo una figura d'uomo, una nera sagoma
controluce, stagliata nel cielo chiaro di mezzogiorno, non riuscivo a
distinguere il volto e questo aumentava il terrore. L'uomo aveva una mano
alzata, pronta a colpire.
"Quest'uomo è suo padre", pensai
"che si rode il fegato per una figlia che non solo è donna, ma che
è un'imbecille, una cretina imbambolata davanti ad un fiore di campo. Ma
del resto che ti vuoi aspettare da una donna, sentimentalismi ed assurde
fantasie…" "Quella figlia, che peso!" pensava il padre
"Non è forte come i fratelli, nel lavoro nei campi ed è stupida,
che ne farò?"
Stizza e fastidio pesavano sulla ruvida mano che
colpiva il volto di Rosanna. Ma altri personaggi, a questo punto,
entrarono nella storia.
Seppi che Rosanna aveva fratelli e più
precisamente tre fratelli maschi più grandi.
Già da bambini, i tre mostravano un'indolenza
arrogante, imparando fin dalla nascita che era l'uomo a comandare e che la
donna doveva stare al suo posto. Era Rosanna che doveva fare i servizi
domestici, era lei che doveva servirli a tavola e toglier loro il piatto
quando avevano finito, era sempre lei che doveva rifare i letti per tutti.
A forza di essere serviti dalla sorella, i tre
maschietti avevano imparato a considerare
Rosanna, come una cosa loro che potevano usare a piacimento. Rosanna era
la stupidina di casa e quindi non si sarebbe mai lamentata e anche se lo
avesse fatto, nessuno le avrebbe mai dato credito. In effetti Rosanna era
stata educata a servire
i maschi della famiglia e lo faceva perché considerava un dovere far star
bene gli onorati fratelli. Del resto, neanche lei non aveva una grande
considerazione di sé, non solo in quanto femmina, ma anche considerando
quasi una menomazione, la sua vivace fantasia.
Rosanna, il padre, i fratelli, popolarono la mia
mente di episodi:
"La vedo, piccolissima, parlare con una sua
compagna di scuola, la quale tutta orgogliosa le mostra le bambole di
carta pesta fatte insieme al padre. Rosanna non può fare a meno di
immaginare la scena della sua compagna seduta accanto al padre,
concentrata sulla sua bambola mentre il papà la riempie di complimenti
per il lavoro fatto. Questa immagine si mescola con i scontrosi mutismi
del padre, che ignora completamente anche come lei va a scuola.
La bimba non ha ricevuto mai una carezza, mai un bacio, mai un
complimento. Di fatto per suo padre lei non è mai esistita…"
"Vedo….una piccola Rosanna china sui libri a
studiare, per dimostrare, in qualche modo, di non essere stupida non solo
a se stessa ma soprattutto a suo padre… E mentre studia, scaccia
ostinatamente le fantasie ed i sogni che non abbandonano i suoi pensieri.
Il padre, però, continua ad ignorare i successi scolastici della ragazza,
i quali, del resto, non possono competere con le trovate furbe dei suoi
fratelli, col loro senso pratico, con la loro spericolatezza."
"Ora…Rosanna è cresciuta, ha dieci anni ed
è già un bocciolo con un accenno delle prime curve acerbe. Le sue curve
suscitano l'attenzione di molti maschi nel paese, ragazzi e uomini. A
Rosanna non pare vero, finalmente, di godere dell'attenzione di qualcuno,
specialmente quella dei fratelli maggiori che, da qualche tempo, se la
portano dietro nelle loro misteriose scorribande.
La vedo circondata da un gruppo di ragazzi adolescenti, tra cui i suoi
stessi fratelli, che la prendono in giro. Le dicono che non è coraggiosa,
perché lei si rifiuta di fare una cosa per loro.
La giovane Rosanna vuole disperatamente conquistarsi l'appellativo di
coraggiosa, come primo passo per essere accettata e finalmente apprezzata,
ma la cosa che le chiedono la fa avvampare di vergogna. E' la vergogna che
sento mentre vedo la bimba sfilarsi le mutandine da sotto la gonna…."
A dieci anni Rosanna non si rendeva certo conto di
ciò che le stava accadendo, del gioco a cui si stava prestando, per il
momento pensava solo di essere apprezzata per il suo coraggio, nonostante
la vergogna. Eppure, mentre si sdraiava a gambe divaricate sul prato, una
strana sensazione le chiudeva lo stomaco e le dava la nausea.
Le scene di una Rosanna, di qualche anno dopo,
china sui testi di elettronica e matematica delle superiori, si
accompagnavano alla percezione del suo desidero di fuga ed del senso di
colpa, per il gioco sporco a cui si era prestata.
E questo senso di colpevolezza l'ha accompagnata
per tutta la vita, anche adesso, mentre dipinge le pareti della sua casa…..
"Colpevole, colpevole e stupida, avevano
ragione i miei fratelli e mio padre, stupida si! "
Pensava Rosanna, colpevole di essersi lasciata usare, di essersi
sottomessa…"Ma Dove ero mentre giocavano con me?" pensava
"in uno dei miei sogni idioti? Ma ora me ne sono andata e sono libera
dalla schiavitù, mi sono diplomata, ho un lavoro, ho una casa e non sogno
più!"
Fu più o meno a questo punto che mi resi conto
avevo visto una scena dettagliatissima, che avevo notato più dettagli di
quanti non fosse possibile da una normale osservazione da un finestrino di
un treno , che non stavo solo facendo supposizioni sulla dolce ragazza
bionda, ma che 'sapevo' molte cose su di lei.
Che mi stava succedendo? Stavo forse impazzendo?
Quelle sensazioni che avevo di solito durante i viaggi, sulle persone e
sui luoghi,
si stavano acuendo e rafforzando. Le sensazioni stavano diventando vere e
proprie percezioni.
E su Rosanna continuavo a percepire.....
"Rosanna non aveva mai avuto una vita
sentimentale. Non furono solo i piccoli sporchi spettacoli di cui la
rendevano protagonista i fratelli, ad indurirle il cuore. Essi furono solo
il culmine di tanti soprusi e violenze che Rosanna aveva subito, anche
senza rendersene proprio conto. E così, sulla terra fertile dell'odio,
misero radici profonde la tenacia, la grinta, lo spirito d'indipendenza ma
anche la durezza e l'aggressività. Rosanna aveva imparato, a suon di urla
e scapaccioni ben coadiuvati dai bei giochi con i fratellini, che i
sentimenti sono una debolezza, che l'amore è frivolo e rende vulnerabili.
Per questo motivo lei aveva sempre, con cura, respinto i tentativi di
approccio dei coetanei. Ed ora si ergeva come una fortezza medievale,
severa ed inespugnabile, indipendente."
Nuove scene, ancora, intervennero a completare il
quadro:
"Ohh si eccola lì alle prese con il suo primo
spasimante!
Lei all'epoca non era certo bella come adesso...
A quattordici anni aveva la faccia coperta di brufoli ed era ancora più
magra di ora,
ma aveva quei magnifici occhi blu, che distribuivano sogni muti ai giovani
maschietti intorno a lei.
Lo spasimante la fissava fin dal primo giorno di scuola, dall'ultimo
banco.
Pur essendogli seduta davanti, lei si sentiva addosso i suoi occhi
penetranti e vi leggeva la stessa voglia dei suoi fratelli e dei loro
amici, la voglia di giocare sporco con lei.
Il ragazzino non era brutto, tutt'altro, e forse le piaceva anche un po'.
Nonostante ciò,
non lasciava trapelare nulla del suo interesse, a malapena lo salutava.
Questo faceva
impazzire lui e forse godere un po' lei, perché in quel momento lui era
debole e lei, per contrasto, si sentiva forte, come mai prima in vita sua.
Finalmente si stava vendicando dei suoi carnefici…
La sera a casa, però, la sua fantasia vagava e le disegnava dinnanzi il
bel volto del giovane, provocandole una struggente malinconia. Immaginava
la mano di lui
avvicinarsi tremante alla sua, la bocca di lui appassionata sulle sue
labbra, le dolci carezze...
Le sue carezze, sì, in cerca del suo corpo…Ma il sogno si trasformava
in un incubo perché le mani diventavano tante, nella sua fantasia, e
erano quelle dei fratelli e dei loro amici."
"L'ultimo giorno di scuola del primo anno, il
bel giovane finalmente prese coraggio
e le chiese di uscire con lui.
Rosanna sentì il 'sì' venirle su dallo stomaco, raggiungerle le labbra
ed invece la sua voce aspra e beffarda diceva: 'Ahahahah povero fesso
innamorato, io e te insieme, mi vien da ridere...'.
Contemporaneamente Rosanna vedeva lo sguardo fiero di suo padre su di se e
pensava
'stasera racconterò tutto a mio padre ed ai miei fratelli ed essi mi
ammireranno per la mia forza e mi temeranno, mi considereranno…finalmente'"
Invece quella sera Rosanna pianse, come pianse
tante volte, durante gli anni di istituto
professionale, quando le sue compagne di classe uscivano con il loro
ragazzetto, mentre
lei era chiusa in casa perché 'doveva farsi una posizione'. Così diceva
convinta e sicura a suo padre ed a se stessa, costruendo per se e per gli
altri l'immagine di una Rosanna forte, determinata e soprattutto
asessuata. Infatti avere vicino un ragazzo, un uomo, avrebbe evidenziato
il suo essere donna.
" Rosanna, Rosanna, si può essere sognatori e
forti" mi e le dicevo, senza potermi far sentire " Esiste un
modo far fiorire i sogni radicati nello scrigno pietrificato del tuo
cuore?"
La squisita dolcezza e la fantasia chiusa nel
riccio spinoso e nello stesso tempo la forza e la determinazione temprate
dalle sofferenze, mi fecero innamorare…
Mi resi conto che mi stavo innamorando di lei, che volevo essere io la
persona, l'uomo a cui lei avrebbe voluto raccontare i suoi sogni. Ci si
può innamorare contemplando qualcuno dal finestrino di un treno? Di
Un'immagine fuggevole, di una persona, fotografata in un istante di
vita?...
A questo punto però mi balzò in testa un interrogativo ancor più
angosciante per un cuore, ormai, irrimediabilmente innamorato: come avrei
fatto a ritrovarla, se mai fossi riuscito a scendere da quello strano
treno? In verità non sapevo dove mi trovavo a passare, non sapevo perché
ero su quel treno, non sapevo, sì, ormai non sapevo più se ero vivo
oppure morto.
Ma i morti possono amare?
FLAVIA
Le immagini di Rosanna si fecero sempre più
confuse, mentre passavo davanti ad
un secondo edificio. Quando mi resi conto che stavo perdendo Rosanna, mi
misi a correre
a ritroso nel treno, vagone dopo vagone, cercando di non perdere di vista
la mia amata,
ma la sua immagine si affievoliva e si allontanava, fin quando non riuscii
più a vederla.
Quando Rosanna scomparve dalla mia vista, prese il suo posto una donna sui
quarant'anni, che stirava le camicie del marito. Lottai contro quella
immagine con tutte le mie forze, cercando dentro di me quella di Rosanna,
ma trovai solo i miei recenti ricordi. Lo sguardo triste della donna mi
attraversò l'anima, occupando il mio campo visivo e la mia mente e tutta
la sua malinconia mi pesò sul cuore. Non potevo ignorarla.
"Ancora una bella donna" pensai "con
i capelli castani raccolti sulla nuca, leggermente
abbronzata e vestita sobriamente. Ha in dosso una gonna grigia lunga fino
alle ginocchia, ed una camicia nera, sblusata. Molto fine. Probabilmente
ha una cultura universitaria, ma
le sue belle mani sono piene di segni e cicatrici. E' una casalinga,
abituata a sgobbare...
ai suoi piedi, a carponi, un bambino di circa 3 anni. Sulla mensola, alle
sue spalle, la
fotografia di una ragazzina, di una quindicina di anni, su una bicicletta.
Flavia proviene da una famiglia ricca del Veneto. Ha avuto una giovinezza
agiata, si era
potuta permettere di sognare, al contrario di Rosanna. Suo padre era un
importante scrittore e filosofo, sua madre, di origine francese,
bellissima, forse più di lei, era venerata dal marito e non aveva mai
dovuto lavorare. La casa dei genitori di Flavia era piena di libri
e lei si era formata sulle letture romantiche di Foscolo e Ghoethe.
Eccola li, alta, diafana e bella, leggere avidamente, davanti al maestoso
camino della sua casa, le lettere di Jacopo Ortis, i Dolori del Giovane
Werter, le affinità elettive…
....E mentre leggeva sognava....
A volte immaginava di parlare con i suoi autori preferiti, con i quali
sentiva di avere un
feeling diretto. Bella, sensibile e colta, tra se e se, a volte, si
chiamava 'la fanciulla eletta'
perché la sua anima era piena di pensieri elevati, che ritrovava nei
grandi maestri del passato ed il suo volto rifletteva la bellezza della
sua anima.
Fin da piccola era stata vezzeggiata dal padre, perché lei aveva
ereditato il volto di sua
madre, perché era sempre stata bella ed elegante e più tardi perché
amava intrattenersi con lui a discutere di filosofia. La madre, che era
bella ma anche poco colta, ammirava la figlia per i suoi interessi
culturali e faceva di tutto per assecondarla nei suoi studi, in modo che
lei non si dovesse sentire una vuota bambola di porcellana, ben vestita e
pettinata.
L'adolescenza di Flavia, passò dolcemente, tra i
vezzi e le lodi di mamma e papà.
A scuola Flavia studiava solo le materie
letterarie, ed i suoi 4 in matematica erano un trionfo per la famiglia. La
fama ed i soldi di suo padre, le insistenze di sua madre ai ricevimenti
dei professori, l'influenza delle insegnanti di italiano, di latino e
greco, di storia e filosofia nel collegio docenti, non le fecero mai
perdere un anno e le consentirono di conseguire la maturità classica con
un più che dignitoso 56/60.
A lei non interessava affatto un voto alto, purchè le fosse lasciato lo
spazio di leggere e studiare quello che più le piaceva. In quegli anni,
trascorsi al classico, Flavia
sognava giorno e notte di innamorarsi e di vivere un amore romantico,
sublime, al di là di ogni convenzione, di ogni logica, assoluto, sorretto
da un'attrazione inarrestabile ed inopponibile.
Al suo amore lei avrebbe donato tutto, senza chiedere nulla, gli avrebbe
donato, ogni giorno, le cose più belle dell'universo. Avrebbero
passeggiato insieme per i sentieri di campagna in primavera, beandosi
della bellezza dei fiori e del dolce canto degli uccelli, avrebbero letto
insieme versi durante le serate d'inverno davanti al camino.
Durante il liceo, Flavia si innamorò spesso, di ragazzi degli ultimi
anni, che osservava con
sguardo sognante ed ammirato da lontano: alti, orgogliosi, con l'aspetto
di uomini fatti, ed irraggiungibili, così, almeno, pensava lei...
I raggazzotti, invece, non solo erano perfettamente raggiungibili ma
prendevano per un invito all'amore fisico, le sue attenzioni ed i suoi
sguardi arditi."
A questo punto mi si presentò qualche scena sui
primi amori di Flavia, e le immagini che avevo dinnanzi, mi sembravano
piuttosto lontane dall'ideale di bellezza e perfezione che la ragazza si
illudeva di emulare.
"…Flavia, al primo anno di liceo, è sul
tetto della scuola, ispeziona possibili falle sulla copertura, ridipinge
le pareti della sua classe, pulisce e disinfetta i banchi. Sono gli anni
delle manifestazioni studentesche e delle autogestioni. Durante le
autogestioni, si respira un'aria di libertà, di festa, le classi si
mescolano tra loro e ci si incontra. In particolare le studentesse dei
primi anni, hanno i primi contatti con i ragazzi del quarto e del quinto
anno. La differenza tra una quattordicenne e dei diciannovenni è grande,
questi ultimi sono, ormai, quasi degli uomini. Flavia è una splendida ed
ingenua quattordicenne, che sgrana gli occhini davanti ad i semidei degli
ultimi anni e non passa di certo inosservata. Le attenzioni da parte loro
sono, per la ragazza, motivo di orgoglio e le suscitano, quasi un senso di
gratitudine. D'altra parte 'i ragazzi grandi', così definiti da Flavia i
ragazzi del quarto e del quinto anno, sono consapevoli di questo tipo di
sentimenti e se ne approfittano. Si avvicinano con aria noncurante, magari
dandole dei consigli sui lavori che la ragazza sta svolgendo, la sfiorano
'casualmente' e…dopo aver giocato con lei a palesare e nascondere il
loro interesse, la invitano a fare un giro nella macchina, presa in
prestito da papà, ed a fine serata, invece di leggerle una poesia, le
infilano una mano nelle mutandine.
Lei, che non ha la forza di sottrarsi, un po' per gratitudine, un po'
illudendosi che, dopo, tenerezza e poesia sarebbero arrivati, finisce per
starci e la faccenda si conclude in una serata…."
Flavia, vittima inconsapevole delle sudditanze
psicologiche verso i ragazzi più grandi, non si avvedeva del fatto che
queste sue continue accondiscendenze, in realtà non erano altro che
sottomissioni. Lei, invece, pensava che fossero solo tappe sulla strada
che l'avrebbe portata a realizzare quel quadro di perfetto amore che aveva
nella sua immaginazione. Lei, la ragazza eletta, non poteva non trovare
quel complemento che avrebbe reso la sua vita 'un'opera d'arte', perfetta,
come il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne.
Nel frattempo, però, la poetica fanciulla, si era
fatta una cattiva fama e nessuno dei tanti
ragazzi del suo giro, l'avrebbe corteggiata, leggendole versi e donandole
fiori.
Ebbi nella mia testa altre immagini di Flavia:
Flavia in fila alla segreteria della facoltà di lettere per iscriversi
all'università, Flavia che supera brillantemente gli esami, suscitando,
qualche volta, stupore e spesso invidia.
Bella ed intelligente era il centro
dell'ammirazione dei pochi ragazzi che frequentavano la facoltà, un
gruppetto di sognatori e ribelli.
Fu lì che conobbe suo marito, la scena del loro incontro mi sembrò uno
spezzone di un film di amore:
"Tra la marea di studenti uscenti dalla lezione di filosofia, Flavia
spicca alta, sinuosa ed elegante. Ai piedi della scalinata dell'aula, c'è
un ragazzo alto, magro, capelli neri e pelle chiara, occhiali con
montatura a giorno sugli occhi profondi e pensierosi. Il ragazzo è
ipnotizzato, non le toglie gli occhi da dosso, non solo per la bellezza di
Flavia…Egli ha notato la studentessa fin dal primo giorno di lezione, ma
oggi, ascoltando l'intervento su Kant della ragazza, ne ha ammirato anche
l'intelligenza. Ammirandola da lontano, il ragazzo sta pensando che
proprio Kant sarebbe stato il loro punto di incontro e così prende ad
avvicinarsi ripetendosi in mente domande ed osservazioni intelligenti
sulle categorie Kantiane.
Flavia, vedendo il ragazzo avvicinarsi con la luce dell'ammirazione negli
occhi, pensa che, forse, finalmente, ha trovato il suo Apollo…"
Quell'incontro sui gradini della facoltà fu
l'inizio di una grande storia di amore. Fu così che presero a mangiare
insieme, seduti al sole sui gradini della facoltà, a studiare, insieme,
nei giardini pubblici, sdraiati sull'erba, scambiandosi opinioni...
Il ragazzo fu invitato a casa di Flavia e ricevette l'immediato consenso
del padre, per la sua intelligenza, per le sue idee, per la sua
profondità, pur essendo senza un soldo e senza una posizione. Nel giro di
un anno, i due, erano sposati, senza soldi, senza casa, senza lavoro,
ancor prima di aver finito gli studi. Flavia rimase immediatamente
incinta.
Andarono a vivere in un piccola mansarda buia,
composta di un angolo cottura, un bagnetto ed una stanza che di giorno era
un saloncino e di notte era camera da letto. Furono gli anni più felici
per Flavia, malgrado avesse dovuto lasciare l'università perché era
incinta e con scarse risorse finanziarie. A questo punto fui colpito da
un'immagine di Flavia allo specchio di qualche mese dopo:
"Le belle mani delicate segnate dalle
bruciature sui fornelli, le gambe snelle gonfie sotto il peso della
gravidanza…il ventre gonfio. Flavia allo specchio vede tutte questi
mutamenti, sente la pesantezza del suo corpo sulle gambe e sulla schiena
ed inoltre una lieve nausea la accompagna continuamente . Il suo corpo,
insomma, si sta allontanando dall'immagine che lei ha di se stessa."
Questa immagine durò solo un attimo perché, dopo
il parto, Flavia lavorò sodo per ritrovare la forma fisica. A questo
punto, la sua ispirazione non fu più la statua di Apollo e Dafne la cui
icona fu sostituita, nella mente di Flavia, da immagini della madonna col
bambino, anche se, in verità, aveva partorito una femmina.
E così la vita della donna proseguì fatata, anche
se la vita, ogni tanto, le ricordava la realtà:
"Flavia si pettina, si trucca lievemente, suo
marito sta per tornare dal piccolo giornale in cui lavora come redattore.
La bambina, dai lunghi capelli biondi, le gioca fra le belle gambe, che
hanno riacquistato la splendida forma originaria. Nel pettinarsi, però,
Flavia nota qualche capello bianco, che nasconde abilmente alla vista.
Abbassa lo sguardo sulla figlia e desidera i suoi boccoli d'oro.
Il campanello…Flavia apre la porta, è suo marito. Lui le sfiora
lievemente la guancia con un bacio frettoloso, ma quando vede sua figlia,
gli occhi gli si illuminano, la prende in braccio affascinato dai begli
occhi innocenti. E' invidia che vedo negli occhi di Flavia? Lo splendido
sorriso che ha sulle labbra, però, dissimula completamente il sentimento
che le leggo nel suo cuore….Vieni balliamo, dice al marito, prendendolo
tra le sue braccia ed accendendo lo stereo … "
" Finalmente la bambina dorme, Flavia e suo
marito sono seduti sul divano con un manoscritto in mano. I due, infatti,
la sera, quando tutto tace e la bambina dorme, scrivono trattati di
filosofia insieme. Questi momenti sono preziosi per Flavia, forse perché
esclusivamente suoi e di suo marito, la bambina non può entrarci…"
Ritornai precipitosamente a Flavia quarantenne.
Queste Nella mia mente ed in quella della donna, sentii non solo la
nostalgia verso quei momenti e ma anche l'antagonismo verso la figlia che,
quando Flavia aveva quaranta anni era quindicenne e quindi poteva
intrattenere delle lunghe conversazioni con li padre. Percepii non solo
dei pensieri ma anche delle immagini:
"Vedo due persone sedute sul di vano con in
mano un testo di storia della filosofia. Sono il marito e la figlia di
Flavia, visti dagli occhi un po' invidiosi della donna. La figlia è
bellissima, assomiglia a lei stessa alla sua età, ma non è castana…ha
dei lunghi capelli biondi. Dai discorsi, Flavia si accorge che non sta
guardando un padre che aiuta la figlia nei compiti, perché tra i due c'è
in atto una discussione alla pari…Stanno parlando….si….Stanno
parlando…di Kant!"
"Flavia è seduta nella sala d'attesa del
medico della mutua ed osserva delle vecchie
signore sedute vicino a lei, cercando di memorizzare le facce, per
ricordarsi l'ordine di ingresso dal medico. Entrano nella sala d'aspetto
altre vecchie signore. Le sale d'aspetto dei medici della mutua ne sono
piene. Nonostante si sforzi di ricordare, ad un certo punto perde
l'ordine. Non sa più chi sta prima e chi dopo di lei. Quei volti le
sembrano tutti uguali, no quei volti sono tutti uguali, tutti simili…perché?
Nel suo cuore lo sa…..è la vecchiaia. La vecchiaia aspira
l'individualità, annulla le forme e prepara all'annullamento della morte.
Anche i neonati sono tutti uguali. Dal nulla, poi, lentamente conquistano
la propria forma. Sua figlia, quindicenne, sta completando il processo di
appropriazione della forma. Il tempo la scolpisce, definendone la
fisionomia, peraltro splendida, il carattere, i pensieri avvicinandola a
quell'ideale che una volta era suo. Per lei, invece, il tempo riserva una
lima, che lentamente le cancellerà dapprima la bellezza, poi
l'intelligenza. "
C'era un'immagine, però, nella mente di Flavia,
che leniva la sofferenza di questi pensieri, il volto di un bambino. La
donna, infatti, aveva avuto, anche un figlio maschio, disperatamente
voluto proprio da lei, nel disperato tentativo di riportare su di se
l'attenzione del marito. Fu, invece, il maschietto ad attirare tutte le
attenzioni della madre su di se.
Ecco le ultime immagini di Flavia che ebbi:
"Flavia è intenta a preparare la pappa per il
bambino, il padre è passato all'asilo a prenderlo, dopo il lavoro. La
donna è ben vestita e pettinata, per abitudine ma non corre in bagno per
truccarsi prima dell'arrivo del marito. Quando va ad aprire la porta, apre
le braccia per il suo bambino, schivando il timido bacio del marito…."
" Flavia si guarda allo tristemente specchio,
con lo stesso guardo che aveva nel di quella volta che si guardò allo
specchio, incinta.
La sua bellezza sta lentamente svanendo, la pelle è sempre più rilassata
sugli zigomi, il bel taglio degli occhi scompare sotto la pesantezza delle
palpebre, i capelli stanno perdendo la loro lucentezza. Stavolta, però,
non c'è speranza di recupero.
La fanciulla eletta non esiste più o forse non è mai esistita.
Di sicuro Flavia non la vede più riflessa negli occhi di suo marito
quando la guarda. La vede, invece, riflessa negli stessi occhi quando essi
si posano sulla figlia…"
Il cerchio si chiude.
Flavia bella ed intelligente, un'immagine di perfezione, vedeva entrare
nella sua vita immacolata, la corruzione del tempo e degli anni. Le
immagini che Flavia aveva di se, erano scolpite, ferme ed immobili, nel
suo mondo delle idee. Ma il tempo scorre e la perfezione delle idee non
esiste. Nel fluire del tempo le cose, le persone, i sentimenti ed anche
l'amore, nascono, maturano, muoiono. E così non si può pensare di
rimanere attaccati ad una idea di se stessi e di rincorrere sempre quella,
per tutta la vita. In gioventù Flavia aveva cercato di avvicinare se
stessa ad una certa idea che aveva di se, per sentirsi realizzata. In
realtà, forse, non l'aveva mai raggiunta, ma ci si era comunque
avvicinata ed aveva la speranza di avvicinarcisi ancora. La parabola del
tempo, però, spietatamente ed inesorabilmente aveva spinto la realtà
sempre più lontano dalle immagini che Flavia aveva di se.
IOLE
Il treno continuava ad andare ed io non facevo in
tempo ad affezionarmi ad una persona che ne vedevo un'altra dal
finestrino. Ad un tratto ebbi dentro di me un cuore giovane e sentii una
voce cantare una vecchia melodia: 'Il valser dell'organino, il valser del
buon umor...ciao lilly ciao lilly ci rivedrem, ciao lilly, ciao lilly
tesor....' Eppure, nonostante la melodia fosse allegra, provai
un'indicibile malinconia nell'ascoltare quella voce e nel percepire quel
giovane cuore. Pian piano arrivarono le immagini. Vidi una vecchia
signora, di una settantina di anni, che, nonostante i rigori dell'inverno,
indossava un paio di
zoccoli ed una gonna leggera dalla quale spuntavano due robuste gambe
abbronzate.
La vecchia aveva una bella faccia rubiconda, che ancora recava le tracce
di una antica bellezza, ed una folta chioma corvina, dei capelli forti
rigogliosamente abboccolati. La donna stava raccogliendo delle cipolle
dall'orticello vicino casa ed ogni tanto staccava una foglia di cipolla,
la metteva su un pezzo di pane, addentandolo con gusto.
"Questa è una donna forte" pensai "che nella sua vita deve
averne viste di cotte e di crude, abituata alla sofferenza. Si chiama
Iole."
E…così lasciai la mente sgombra, per far entrare
quelle immagini, ricercando tra di esse quel cuore giovane che,
galoppandomi in petto, aveva fatto a pezzi la tristezza di Flavia.
Eccola bambina, avrà avuto cinque anni, all'inizio
della seconda guerra mondiale. La fame, la sento nel mio stomaco, le
attanaglia le viscere in una dolorosa morsa, la spinge a buttarsi a terra
gridando e chiedendo disperatamente del cibo.
La stessa fame la spinge ad annusare i panini dei compagni di classe,
figli di contadini,
panini ripieni col lardo, di cui lei non aveva mai assaggiato il sapore.
Ed eccola ancora con i piedi immersi nello sterco di vacca... che i
fascisti quest'anno non
le hanno passato le scarpe perché il papà vota socialista,
…… ed ancora la vedo che urla disperata piccolissima e magra davanti
al camion dei cadaveri per la bomba che i tedeschi hanno sganciato, a
qualche centinaio di metri da casa sua, ed il terrore mentre corre alla
grotta, sotto i bombardamenti. Ma non sono le sofferenze fisiche e la
paura, i ricordi più neri di quel cuore.
Il dopogurerra, tempo di ricostruzioni. L'orticello vicino casa, che aveva
sfamato la sua
famiglia negli anni durissimi della guerra, sta per essere soppiantato da
un palazzo.
Sua madre è in ginocchio e si strappa i capelli mentre le ruspe spazzano
via l'orticello.
Il cimitero! Gridava...Il cimitero! Nooo!!! Nooo!!! I miei tulipani!!!
Iole non si spiega, in quel momento, la disperazione della madre, ma il
suo animo allegro è velato da un'inconsapevole timore. Un sospetto."
Iole, un altra storia...complessa, ricca, ero
consapevole di vedere solo alcuni spezzoni di una vita lunga e difficile.
Nella mente di Iole non vedevo sogni, neanche in gioventù. Troppo dura
era la sua vita, in essa c'era posto solo per pensieri semplici, concreti.
Non solo ricordi neri però c'erano nella vita di Iole.
"….Vedo una bambina che attraversa il bosco
in bicicletta, un bosco immenso, incontaminato. Quando ha sete la bimba si
disseta al torrente, l'acqua è fredda, limpida e sa leggermente di terra.
…...Vedo una ragazza sui quindici anni, robusta e florida, dal volto con
profilo greco e dai boccoli neri lunghissimi raccolti da un fiocco rosso,
ammirata da tutto il vicinato specialmente da un misterioso cavaliere di
cui riceve le lettere appassionate e poetiche.
….La vedo ballare tra le braccia del bel fratello, sotto gli occhi
ammirati di donne e di uomini.
…...E poi Iole canta, ama la musica e conosce a memoria tutti i testi
delle canzoni, anche se sa leggere poco e far di conto ancora meno."
Quanti eventi in una vita sola, alcuni mi passavano
davanti ed io non facevo in tempo
a percepirne il contenuto, altri si svolgevano davanti ai miei occhi...
"Iole ha 23 anni, è sola con una figlia. E'
seduta su una vecchia sedia davanti a sua zia, è vestita con un taullier
bianco, i capelli raccolti in una cipolla, il bel viso statuario sempre
sorridente, ed una bambinetta bionda che le gioca tra le gambe robuste,
ben piantate a terra. Sua zia le sta raccomandando qualcosa...'Mi
raccomando Iole, lo sai che una donna nelle tue condizioni può ritenersi
fortunata ad incontrare un uomo come lui'….
Io so che Iole, ora, a 23 anni, è una giovanissima
divorziata, con una figlia. Ha dovuto sposarsi giovane, appena
diciassettenne, con un italiano immigrato all'estero, molto più grande di
lei. Fu la madre che decise del suo matrimonio, dicendole che sarebbe
andata a fare la signora.
Fu così che Iole emigrò, ma in terra straniera trovò un uomo orribile
ed adultero, che già aveva due figli con un'altra donna e che la
disprezzava.
Alla scena di Iole 23enne si sovrappone la scena di Iole seduta su una
panchina di un parco mentre piangeva, diciottenne ed incinta. Piangeva
perché suo marito non amava ne lei, ne la figlia che portava in grembo,
piangeva perché erano settimane che non si lavava perché la suocera, con
cui viveva, le chiudeva l'acqua del bagno, piangeva perché era sola,
senza amici ne parenti e con l'ostacolo della lingua da dover affrontare,
ogni giorno.
E così la bella e sfortunata Iole, a venti anni,
tornò a casa, in Italia, affrontando, da sola, il lungo viaggio di
ritorno…
A casa, in Italia, andò a vivere con il fratello e la cognata, sentendosi
un'intrusa e cucendo giorno e notte per mantenere se stessa e la figlia.
Di nuovo Iole 23enne è davanti ai miei occhi, un
fiore sbocciato, prospera, nonostante la povertà e con la bocca incline
al sorriso, pur avendo già accumulato più sofferenza di quelle che di
solito si accumulano in una sola vita. Iole non sogna. Ha bisogno di
sostentare se stessa e la figlia piccola che le gioca, in questo momento,
tra le gambe…e per quello che riguarda l'amore, in oltre, quale speranza
poteva avere una 'svergognata' che aveva abbandonato il tetto coniugale?
Di corteggiatori Iole ne aveva avuti molti, da
quando era rientrata in Italia, ma quasi tutti non volevano altro che
approfittarsi di lei.
L'uomo che sua zia le sta raccomandando, innamorato del suo sorriso,
sembrava serio, invece.
Gran lavoratore, aveva conosciuto la sofferenza perché aveva perso la
moglie dopo pochi anni di matrimonio. Era conosciuto, stimato e nello
stesso tempo temuto da tutti nella zona, per il suo carattere
intransigente ed autoritario.
E poi....in fondo, le piaceva, anche se non era bello e colto come il
cavaliere che le scriveva poesie, perché era un uomo forte e lei aveva
bisogno di protezione..."
"…Ora vedo Iole sui quaranta anni e non vedo
più una bambina bionda ai suoi piedi ma una bambina bruna. I primi segni
del tempo si vedono sul bel volto florido ed un velo di tristezza che la
donna tenta di cancellare cantando a voce alta una canzone di tanti anni
fa. Le note allegre le invadono lentamente i pensieri, cancellando la
tristezza e le rughe…
Le rughe di dolore a Iole erano venute non solo per la vita che aveva
condotto prima del divorzio, ma anche per gli eventi che seguirono.
Si era risposata, ed aveva avuto una seconda figlia ma nessuno della
famiglia del marito l'aveva mai accettata in quanto divorziata, e Iole
aveva sempre interpretato i comportamenti burberi di lui come una
conseguenza dell'influenza negativa della sua famiglia.
Iole tira avanti, stavolta non avrebbe divorziato, anche perché, in
fondo, ama il suo burbero marito.
Si, sofferenze grandi e piccole costellano l'universo di Iole ma ancora
non c'era quell'ombra nera che intravedo in Iole sessantenne, mentre
mangia pane e cipolle nel suo orto. "
"…Iole 55enne piange al funerale di sua
madre, e piange non solo per la perdita ma anche perché sua sorella
maggiore le racconta una storia che le sembra un incubo…
…Una tinozza di rame piena di acqua calda, i
ferri per la calzetta su un vecchio
comodino di legno scheggiato. La madre di Iole entra nella tinozza ed
ordina alla figlia maggiore ,circa dodicenne, di gettarle addosso
dell'acqua bollente, sulla pancia gonfia.
La sorella di Iole piange ed urla alla madre di non
volerlo fare, ma lo fa….."
Non posso descrivere nei dettagli tutto ciò che
Iole sentì dalle labbra della sorella maggiore di Iole, è troppo
orribile, è una realtà che rifiuto di accettare per vera.
Dirò solo che sotto le aiuole di tulipani del
vecchio orto, davanti alle quali la mamma di Iole piangeva disperata,
mentre le ruspe dissodavano la terra, nel dopoguerra, c'erano delle
scatole di scarpe, delle piccole bare con dei corpicini, non ancora
completamente formati.
Non fu solo il racconto della sorella di Iole a
riempirmi di orrore, perché nei pensieri della donna leggevo qualcosa di
peggio del singolo caso di sua madre. Iole sapeva dell'esistenza di una
fossa comune, dove la gente andava a buttare i figli non nati, frutto di
aborti provocati in casa, durante la seconda guerra mondiale…..
La realtà pazzesca ed assurda, pesante come un
macigno, mi stava davanti, con la drammaticità di chi l'ha vissuta, così
come le note del valzer cantato da Iole ed il suo sguardo soddisfatto per
la bella insalata cresciuta nell'orto.
RIFLETTO.
Tre donne di età diversa.
La prima, giovane, piena di sogni veri ed indottiche, ancora, sono una
potenzialità.
La seconda di quarant'anni, i cui sogni morenti, sfiorati appena nella sua
vita, si allontanano seguendo la curva del tempo.
La terza donna anziana, con le robuste gambe piantate a terra, che innalza
il suo canto sulle sofferenze di una vita.
Avrei voluto parlare con Rosanna, che per
estirparle i condizionamenti e le false aspettative che già infestano il
suo giovane cuore, aiutandola a ritrovare se stessa.
Avrei voluto dire a Flavia era ancora in tempo, che poteva essere felice,
felice anche se non era la fanciulla eletta, anche se le rughe avrebbero
segnato il suo bel viso.
Infine avrei voluto ballare con Iole, per vedere la
luce allegra nei suoi occhi e per farla
brillare anche nei miei.
FINE DEL VIAGGIO
Il treno ad un certo punto prese a rallentare e mi accorsi che il
paesaggio si faceva sempre
più familiare. Riconobbi le belle colline di Poggio Mirteto, vellutate
dal verde intenso
degli alberi, riconobbi i vecchi paesotti medievali arroccati in alto
sulle vette.
Il treno rallentava e dentro di me si faceva sempre più presente il senso
della distanza
tra me e le tre donne che avevo conosciuto. Distanza si, perfino da
Rosanna, che per qualche istante avevo amato.
Così come Iole era passata attraverso le difficoltà ed i dolori della
vita, conservando il senso della leggerezza dei suoi eventi, della loro
transitorietà e quindi, in fondo, della loro scarsa importanza, io ero
passato attraverso tre storie, le avevo vissute ed ora andavo avanti, nel
mio percorso di vita. Solo il senso della leggerezza avevo permanentemente
acquisito e messo tra i bagagli, insieme...con lo sguardo brillante di
Iole.
Quando il treno si fermò presi il mio zainetto e
scesi, come il più normale dei passeggeri.
Immediatamente fuori dal treno fui di nuovo circondato dall'aria afosa ed
umida della stazione.
Il treno ripartì.
Buttai l'occhio sull'orologio analogico della stazione, era
esattamente....mezzogiorno!
Non fui troppo stupito di essere di nuovo catapultato nella mia realtà
esattamente nel punto e nell'ora in cui ero stato prelevato ed a dire la
verità avevo smesso di farmi domande.
Dal megafono, una rude voce d'uomo informava che il
treno 2188 non sarebbe mai arrivato. Il treno era deragliato.
Un attimo fa"Mi
sento in dovere di lasciare una spiegazione ai miei genitori ed a mio
marito, perché questa sera intraprenderò un viaggio dal quale non so se
ritornerò.
Io vi amo, amo la vita e voglio che sappiate che non mi sto suicidando.
Forse è proprio perché amo la vita che voglio fare questo esperimento.
Vi prometto che, se potrò, tornerò in dietro e vi farò partecipi di
quel mondo sconosciuto che sto per esplorare. Non posso nascondervi che ho
paura e che temo di non rivedervi più, ma non posso astenermi dal fare
questo passo perché è in gioco la conoscenza suprema: forse potrò
svelare il mistero della vita e della morte.
Temo, però, che da queste parole mi prendiate per una pazza visionaria,
magari vittima di qualche setta religiosa oppure sotto l'effetto di
qualche droga. E' per questo motivo che proverò a raccontarvi tutto
dall'inizio, sperando mi possiate capire e soprattutto credere.
Lo strano fenomeno di cui sono oggetto e che mi sta
capitando da qualche tempo a questa parte, trae origine da una strana
sensazione che mi capita di vivere quando ad un diffuso senso di stanchezza
si unisce qualche malessere fisico, di una qualsiasi natura, come ad esempio
mal di testa, mal di pancia.
Beh insomma, proprio quando il corpo si fa prepotentemente sentire, forse
per contrasto, comincio a subire una separazione, come dire, della
coscienza. Mi sembra, in questi casi, di vedermi, di vedere il mio corpo e
di vedere il confine tra esso e la mia coscienza. E così vedo me stessa
muoversi, parlare e magari soffrire.
Questa esperienza a volte è stata imbarazzante…mi
è capitato di provarla, un giorno, davanti al mio capoufficio mentre gli
stavo facendo un resoconto delle attività svolte. Dopo tanti giorni di
lavoro stressante era venuto il momento di fare il punto della situazione e
mi sono sentita assalire da un violento mal di testa. Andai dal mio capo
spossata, dolorante e proprio nel bel mezzo del mio rapporto improvvisamente
vidi me stessa che parlava, sentii me stessa che pensava a ciò che doveva
dire. Non ci sono parole per esprimere le sensazioni che provai, posso solo
dire, a posteriori, che la mia Coscienza mi sembrava esser separata da tutto
il resto…..ma non solo, ed è questa la cosa più sorprendente, la mia
coscienza vedeva me UN ATTIMO FA.
Un'altra volta ero alla guida della mia automobile per andare in ufficio. La
sera prima avevo fatto molto tardi con gli amici, avevo dormito solo tre
ore, e quindi la mattina mi sentivo assonnatissima. Mi sono messa in
macchina, nonostante le palpebre mi si chiudessero da sole, e mi sono
avviata sulla strada che ogni mattina mi conduce all'ufficio. Ebbene ad un
certo punto il mio corpo guidava pilotato dalla mia parte razionale e la mia
coscienza osservava entrambe. Essendo in tale situazione sbagliai strada e
dovetti allungare notevolmente il percorso per andare in ufficio.
Dopo molti di questi episodi cominciai a capire che
la coscienza va oltre il tempo, anche se non riuscivo a controllare questi
processi di estraniazione, dei quali ero a malapena consapevole ed in
qualche modo anche vittima.
A volte ho anche avuto la sensazione di essere pazza ed è stata forte la
tentazione di consultare un medico che mi aiutasse a venir fuori da queste
situazioni che cominciavano a farsi sempre più frequenti. Ci fu un giorno
in cui toccai l'apice della disperazione, perché l'esperienza che stavo
vivendo prese dei connotati davvero inquietanti.
Era una delle tante sere che passo da sola, proprio
come questa sera in cui sto scrivendo, a causa del tuo lavoro, marito mio,
che ti porta lontano da me. Erano circa le 11.00, ora in cui di solito mi
corico, e mi trovavo sdraiata nel mio letto, da sola. Il sonno cominciava ad
invadermi, le membra si facevano sempre più pesanti e la mente vagava tra i
pensieri senza nessuno scopo preciso. Le gambe, le braccia mi sembravano
piombi sprofondati nel materasso del mio letto, le labbra erano leggermente
gonfie per la stanchezza, sentivo la pressione del contatto tra labbro
inferiore e superiore e la testa mi sembrava ingigantita. Tutto ciò mi
procurava un vago senso di vertigine. Ancora una volta la coscienza del mio
corpo mi diede, per contrasto, la coscienza di me. Mi accadde, però,
qualcosa di diverso dal solito: non vidi solo me stessa in quel momento o me
stessa appena un attimo prima. Quello che vidi e che mi strabiliò, fu una
serie infinita di me stessa corporee e di miei pensieri, tutti
contemporaneamente. Ebbene, quelle me stesse con i loro pensieri erano come
tanti fotogrammi, uno dietro all'altro, di me stessa negli ultimi dieci
minuti.
Che cosa stava succedendo alla mia mente? Che fine aveva fatto l'asse del
tempo? Era forse sparito dalla mia coscienza?
La giornata successiva fu assolutamente terribile.
Pensavo sempre di più che stavo impazzendo. Non mi sentivo di parlare con
nessuno delle mie strane esperienza, ero consapevole del fatto che non sarei
stata capita. Stava accadendo qualcosa alla mia mente, ne ero certa, ma non
sapevo che cosa. Forse è qualcosa che tutti hanno dentro e che si manifesta
solo rarissime volte. Forse è qualcosa di cui la gente non parla per paura
di esser presa per matta. Di sicuro è qualcosa che io cercai di fuggire.
Nei giorni seguenti cercai in tutti i modi di stancarmi il meno possibile.
Andavo a letto presto, cercavo di uscire dal lavoro in un ora decente,
prendevo tutte le cose con calma. Speravo fortemente che un periodo di
riposo avrebbe fatto miracoli, così finii per prendermi qualche giorno di
vacanza dall'ufficio…ti ricordi, tesoro? Fu quando andai in quella beauty
farm perché, ti dissi, volevo dimagrire….
La cura parve funzionare perché nei mesi successivi non ebbi più quelle
strane esperienze di estraniazione. La vita procedeva tranquilla e tutto
sembrava ritornato finalmente alla normalità, ma si sa non è pensabile di
non essere mai stanca.
Dopo un paio di mesi il lavoro in ufficio cominciò a
farsi, di nuovo, caotico. La notte non riuscivo più a dormire al pensiero
di quello che avrei dovuto fare la mattina successiva. Devo dire che forse
sentivo così tanto lo stress perché tu, ancora una volta, in quel periodo
ti assentasti per lavoro. Insomma, i fenomeni di estraniazione
ricominciarono. Dopo un primo momento di panico, però, cominciai a
riflettere. Infinite me stesse davanti a me, ognuna appartenente ad un
determinato istante della mia vita. Alla fine di ogni processo di
estraniazione la coscienza si riuniva al flusso del tempo, ad una
particolare me stessa, quella di adesso. E se avessi potuto, in qualche
modo, pilotare la coscienza? Scegliere l'attimo del passato in cui
'atterrare', oppure avrei potuto, forse, 'atterrare' nella me stessa di
qualche attimo dopo? Cominciai, dunque, a considerare quelle esperienze dei
viaggi nel tempo.
Il primo esperimento lo feci una settimana fa, in
corrispondenza con quel viaggio di lavoro, marito mio, che, ancora oggi, ti
tiene lontano da me. Domenica notte mi sdraiai sul mio letto e cominciai a
pensare intensamente al mio corpo, a sentire ogni sua parte, ogni suo
centimetro. Cominciai dall'alto, dalla testa per poi percepire fortemente il
collo, le braccia….ed a seguire in giù fino alla punta dei piedi. Quando
ebbi il mio corpo tutto nella mia testa, cominciò il processo di
estraniazione, questa volta, però, l'avevo indotto io.
Dapprima vidi me stessa sdraiata, poi cominciò il processo di
moltiplicazione. In questo processo, però, non riuscivo a vedere il futuro,
per quanto mi sforzassi e mi concentrassi, riuscivo a vedere solo il passato
immediato. Mi concentrai fortemente su una particolare me stessa, in piedi
vicino al letto ed improvvisamente mi trovai con la mia coscienza proprio
lì, in piedi vicino al letto, prima di iniziare il processo di
estraniazione. Mio Dio, avevo viaggiato nel tempo e ne ero cosciente! Ora
penso sinceramente che questo tipo di esperienza la fanno tutti,
nell'inconscio…Quante volte capita di dire ma io qui ci sono stata, questa
cosa io l'ho già fatta….
Durante questa settimana mi sono spinta sempre più
in dietro, perché il futuro non lo riesco ancora a vedere. Ho visto me
adolescente e sono 'atterrata' su quella me stessa riprovando le sensazioni
di un tempo. Ho rivissuto tantissimi eventi della mia vita rigodendo gli
attimi più belli più di una volta. Ho rivisto i miei genitori giovani, gli
amici di infanzia, ho capito quali sono stati gli attimi più formativi, che
mi hanno reso quello che sono, ho rivisto persone ormai morte, ma che non lo
sono nel flusso della coscienza.
Mamma, papà, marito mio stasera ho deciso di
spingermi un po' più in là con gli esperimenti. Ho deciso di rivivere la
mia nascita, la mia gestazione e di tentare il gran salto, voglio saltare
ancora prima. Non so se ci riuscirò, non so che troverò o che succederà.
Ho tanta paura, ma stasera tenterò."
Quando il marito tornò a casa non trovò nessuno ad
aspettarlo, ma solo questa lettera. Vane furono le ricerche della polizia,
dei carabinieri, di lei non se ne seppe più nulla. Estremamente triste e
deprimente fu il rapporto sulla sua scomparsa, condiviso dalle forze
dell'ordine e pubblicato sui giornali, incuriositi dalla strana storia:
"…..La scomparsa della donna si presume sia stata causata da un suo
stato di ansia maniaco depressiva accentuata dalla continua assenza del
marito e dallo stress da lavoro. Ecco una vittima della frenetica vita
moderna….."
Nonostante ciò nei familiari ed in molti altri che lessero la lettera si
insinuò un dubbio: e se fosse tutto vero?
fanucci@mix.it
Belle come farfalle!
'Mamma, mamma! Fammi entrare, ho paura! Voglio
entrare, ti prego!'
'No, stai calma, voglio continuare a vedere cosa succede……'
Purtroppo quella sera vinse il mio terrore e mai più in tutta la mia vita
potei assistere ad uno spettacolo del genere.
In un preciso punto del cielo, basso sull'orizzonte, nasceva intensissima
una luce rossa che andava a morire divenendo dapprima purpurea, poi viola,
degradando sempre di più nel nero cielo della notte. L'insolita colorazione
del cielo, prendeva un quinto della volta celeste nel suo punto di maggiore
intensità, andando poi a coinvolgere più o meno metà dell'orizzonte
visibile.
Se non fosse per il fatto che erano le tre di notte, il fenomeno poteva
essere preso per un tramonto che illuminava il paesaggio cittadino con tinte
dal rosso al viola scuro, dove pochi istanti prima c'era solo buio, mentre
tra i palazzi dormienti e mezzi vuoti di Agosto giravano sfere di luce
bluastra che percorrevano le vie e le strade come sonde, muovendosi in linea
retta a grande velocità.
Non so come finì o se successe qualcosa oltre ciò che ho descritto.
Quella sera rientrai in casa spaventatissima e piangente, obbligai mia
madre, col pianto e con le urla disperate, a serrare tutte le tapparelle,
passando il resto della nottata tra le sue braccia, tremando ad occhi
chiusi.
In seguito, molte volte mi pentii di non essere
rimasta a guardare e da quel giorno per me il mondo non fu più lo stesso.
Capii l'esatto e sconvolgente significato di 'sfera sensoriale' ovvero
che dietro la superficie delle cose da noi percepita c'è il mistero, che
siamo immersi nell'ignoto come in una bolla di sapone di cui vediamo solo le
pareti interne.
Crescendo guardavo ogni cosa come se la volessi penetrare, ogni superficie
con la consapevolezza dell'aldilà e così ogni suono ogni sensazione, ogni
odore, ogni sapore. Avrei voluto perforare la sfera sensoriale e così
intrapresi una carriera scolastica di tipo scientifico anche se i miei studi
non mi aiutarono a capire visto che la scienza parte dall'osservazione del
fenomeno e teorizza modelli che ne spiegano il funzionamento non penetrando,
quindi, l'intima conoscenza delle cose.
Le domande che mi assillavano la mente erano: che succederà mai alle mie
spalle mentre io non guardo? Il mondo cessa forse di esistere? Esiste
qualcosa altro oltre quello che noi percepiamo?
Quante notti passai a guardare il cielo, in attesa di qualcosa……sdraiata
sul dorso, con gli occhi costantemente fissi verso l'alto….non accadde
nulla fino al mese scorso.
Nella due settimane che precedono Ferragosto le
città si svuotano ed acquistano un non so che di misterioso, di maestoso….perdendo
la loro funzione di abitazioni e divenendo puro paesaggio composto da
milioni e milioni di grandi parallelepipedi vuoti, immersi nel più assoluto
silenzio ed in un atmosfera in qualche modo più schietta, liberata dai gas
di scarico dei tubi di scappamento dei mezzi motorizzati. In questo contesto
ho sempre la sensazione di essere l'unica abitante del mondo. I tramonti
sono meravigliosi e così pure le calde serate stellate. Il cielo è
nerissimo ed esalta il bagliore delle stelle.
In una di queste serate sono iniziati gli avvistamenti, manifestandosi
alquanto diversamente da quel primo ricordo.
L'aria quella sera era particolarmente calda ma secca…stando in casa si
soffriva moltissimo il caldo, ma uscendo sul terrazzo si poteva godere di un
bel venticello fresco. Grazie all'aria pulita, il cielo era particolarmente
terso, limpido ed essendo la notte senza luna, era un manto nero vellutato
ornato di stelle. Io ero lì, immersa in quello spettacolo meraviglioso,
scrutando la volta celeste sperando di trovare nel firmamento le spiegazioni
che sempre avevo cercato.
All'improvviso cominciai a notare qualcosa di strano tra le stelle…. No
anzi nelle stelle!….Si stavano muovendo! Su in alto nel cielo, in mezzo
agli astri, c'erano luci bianchissime, poco più grandi di una stella, che
volteggiavano e danzavano in alto. Non ebbi paura di quello che vedevo
perché quelle luci erano meravigliose, belle come farfalle, come le stesse
stelle e quello spettacolo era per me, per NOI. No, non potevano essere
aerei o sonde: erano troppe luci insieme, una trentina nell'emisfero celeste
visibile, e volavano con schemi precisi, a volte disegnando sfere, a volte
ellissi, a volte raggere ed ancora altre mille infinite figure geomeriche.
Eh si! Decisamente quelle luci stavano parlando…dicevano CI SIAMO! Siamo
qui in qualche remota e lontana parte dello spazio-tempo. Già! Chissà
quanti secoli avevano quelle luci….appartenevano forse ad una antica
civiltà che ci parlava attraverso forme geometriche…..forse mentre la
luce arrivava sulla terra, come uno splendido biglietto da visita, loro
avevano intrapreso un viaggio per venire a trovare i lontani cugini….Probabilmente
questo era solo l'inizio.
Dapprima ero sola, o almeno così mi pareva, ad
osservare il fenomeno….
Non ne parlai con nessuno, osservavo quegli splendidi giochi di luce come se
fossero uno spettacolo della natura, come se stessi guardando il blu del
mare o i picchi innevati delle Alpi. Sera dopo sera mi accorsi che il numero
degli spettatori aumentava. All'inizio eravamo due o tre, ognuno sul suo
balcone, con gli occhi puntati al cielo e la bocca leggermente dischiusa.
Qualche volta ci lanciavamo sguardi meravigliati, mai nessuno parlava. Poi
aumentammo, qualcuno aveva paura e correva a chiudersi dentro casa a
finestre e tapparelle serrate, probabilmente perché si sentiva in balia
degli eventi, esposto a quella pioggia spettacolosa di luce senza avere un
ombrello per ripararsi. Fin quando eravamo in pochi a bearci dello splendido
regalo che qualcuno ci stava facendo, l'osservazione delle luci era rimasto
un fatto individuale, nessuno ne parlava in giro…semplicemente sapevamo
che la notte successiva avremmo assistito di nuovo, come ogni sera
assistevamo al tramonto. |