Monia Procopio

ho 31 anni, lavoro nel campo informatico anche se sono laureata in ingegneria nucleare ed ho due miei racconti ad ammuffire sul mio hard disk....

Storia di un aborto

Ci sono tantissimi libri e pubblicazioni divulgative sulla gravidanza, su internet ci sono moltissimi siti ad essa dedicati. In queste fonti di informazione, di solito, solo dei piccoli spazi sono dedicati all'aborto. Sull'aborto, si trovano diversi trattati scientifici, ma pochissime pubblicazioni divulgative.
Io ho avuto una esperienza di aborto. In ospedale mi hanno detto che è un evento molto frequente e che la frequenza degli aborti è aumentata negli ultimi anni. Forse è colpa dello stile di vita che ormai si è imposto nella società, del modello stressante di superdonna intelligente, affermata e bella che viene posto a riferimento delle giovani donne. Forse è colpa dei fattori ambientali, dell'inquinamento, della qualità del cibo, dei pesticidi. O forse, più semplicemente, molti aborti, in passato, avvenivano in casa e non erano registrati o soggetti a statistiche.

Proprio perché mi sembra che non si parli abbastanza di aborto, ho deciso di raccontare la mia esperienza. L'aborto è una brutta parola e nessuno la pronuncia volentieri. Di solito, le donne lo vivono come una vergogna e con senso di colpa.
Le coppie che aspettano un figlio o ne hanno uno piccolo, inoltre, quando intravedono uno sguardo triste nella donna che ha subito l'aborto, a volte, scambiano i sentimenti di tristezza e di dolore per invidia. Per questi motivi la donna tende ad isolarsi piuttosto che a parlare.

Un altro motivo che mi spinge a scrivere, è quello di mettere in evidenza la negatività dell'attuale comune supposizione che una donna debba necessariamente farsi seguire da un ginecologo privato. In base a questa supposizione, parte delle strutture pubbliche si deresponsabilizzano nel seguire la gravidanza e danno delle indicazioni superficiali ed approssimative, sempre che si prendano la briga di dare informazioni o indicazioni.

Raccontando la mia storia spero di dare un senso a quello che mi è capitato, nell'aiuto che questa esperienza potrà, forse, fornire a qualcuno.

Sicuramente scrivere ha dato aiuto a me, che ho buttato fuori il mio dolore esteriorizzandolo nelle parole.
Messaggio ad un bambino nato morto
"Tu sei nato come un pensiero.
Arriva un momento nella vita di una persona in cui alzarsi alla mattina, vestirsi, andare a lavorare, tornare a casa la sera stanchi e privi di energia non ha più senso.
Arriva il momento in cui ci si domanda: perché lo faccio?
Perché alla mattina devo lasciare le coperte calde del letto? Perché mi devo tuffare in quella lotta che è la vita? Prendere l'autobus, essere strattonata e spintonata, andare in ufficio dalla mattina alla sera, tornare a casa sui mezzi pubblici sempre in ritardo e puzzolenti, nella massa egoista della folla. Mangiare. Dormire. La mattina ricominciare. Fare la fila negli ospedali quando stai male, litigando per mantenere la posizione, per poi parlare agli sportelli con qualche operatore spesso sbrigativo, sgarbato e disinformato. Tutto ciò e molto altro ancora fino alla fine della vita. Perché?
L'inconscio ha incominciato a dare risposta a queste domande più o meno silenti, attraverso dei sogni.

Nell'ultimo anno ho sognato spesso di essere incinta.
Una volta ho sognato una bambina ricciuta seduta su un gradino del mio terrazzo, pallida sotto il luminoso sole primaverile. La luce ed il bianco erano le tinte di quel sogno. Nel candore si stagliava la massa scura dei ricci della mia bimba. Sotto la coltre ricciuta, però, il viso ed i suoi lineamenti diventavano diafani ed impalpabili tanto da dissolversi nella bianca luminosità del terrazzo.

Sei stato concepito probabilmente nella settimana successiva al 24 dicembre del 2003. I giorni successivi al presunto concepimento, io e tuo padre eravamo pervasi da sensazioni di attesa, desiderio e paura. Basta un attimo per cambiare completamente la vita di una persona. Anche se la scelta di avere un bambino era stata attentamente ponderata e presa coscientemente da me e da papà, la consapevolezza che da quel momento in poi la vita non sarebbe stata più la stessa, senza poter prevedere tutti i risvolti della nuova situazione, ci spaventava un po'. Sapevamo anche, però, che continuare a vivere solo per noi stessi non ci bastava più.

Nei giorni scorsi, per cerare di capire se fossi incinta prima di fare il test, ho cercato di prendere informazioni su come ci si sente in gravidanza, dato che ancora era presto per il test.
Su molte fonti ho trovato la seguente affermazione "una donna è incinta quando ha la profonda consapevolezza di esserlo". A dire la verità, io non avevo nessuna sensazione particolare…non sentivo nulla di cambiato in me, eppure tu c'eri già. Silenziosamente le tue cellule, a partire dalle mie e da quelle di papà, si stavano moltiplicando in me e miracolosamente ti davano una forma ben precisa.
Neanche dopo aver fatto il test di gravidanza ero certa di aspettarti, anche se sapevo che i falsi positivi sono molto rari.
Addirittura, dopo aver fatto gli esami del sangue, a stento credevo di essere incinta, non riuscivo proprio a credere che un miracolo così grande potesse essere anche tanto silenzioso, al suo inizio.

Mentre la consapevolezza cresceva, non mi vergogno a dirti, che crescevano anche le paure ed il senso di incertezza verso il futuro.
Paura dei mutamenti fisici che mi avrebbero trasformata, paura dei dolori del parto, paura di un eventuale taglio cesareo, paura delle veglie notturne, paura di non saper gestire lavoro, casa e figlio, paura addirittura di non saperti tenere in braccio nel modo corretto…

Ora, invece, col passare delle settimane, però, queste paure stanno diventando sempre più esigue perché nella mia mente si fanno sempre più frequenti le immagini di te e me in diverse situazioni, come ad esempio mentre facciamo i primi bagni al mare o mentre giochiamo insieme sul lettone. Non vedo l'ora di sentire le tue piccole braccine stingersi intorno a me o di poter godere dei tuoi sorrisi.

E' bellissimo andare in giro con la consapevolezza di non essere sola. Dentro di me, da me stessa e da tuo padre, ti stai generando tu. Penso al mio utero, alla mia placenta, tutte cellule mie, a partire dalle quali si stanno generando le tue cellule, ti stai formando tu.

Io continuo la mia vita, mi alzo la mattina per andare a lavorare, rientravo stanca la sera, e tu cresci dentro di me."

Questo scrivevo su un quaderno all'inizio della mia gravidanza. Volevo dire a mio figlio il motivo per cui lo stavo mettendo al mondo, volevo dargli il messaggio positivo della vita che trova senso in se stessa.

Ricordo che un momento incredibilmente bello fu quando feci la mia prima ecografia alla decima settimana. Ho sentito il cuore di mio figlio battere! Era la prima volta che sentivo qualcosa di lui! Uscii dall'ospedale piena di gioia ma anche profondamente turbata. Quella nuova vita, di cui avevo sentito il cuore, piccola, indifesa dipendeva totalmente da me. Quello che io facevo, influiva anche su di lui. Correvo, provavo ansia, mangiavo male, ogni mio comportamento avrebbe coinvolto anche quella piccola vita.
Nei miei ricordi fu questo il momento in cui percepii maggiormente la sua presenza ed il momento più felice della mia gravidanza se non uno dei più felici della mia vita. Il più felice. Non avrei mai pensato quello che sarebbe successo di lì a poco. Il pensiero di un aborto non mi aveva neanche sfiorato.

Ora, desidererei tanto sentire dentro di me il suo cuore che batte, i suoi movimenti, vorrei che ancora il mio utero lo costudisse amorevolmente nel suo umido calore, ma non so neanche dove sia.
Che ne fanno gli ospedali del frutto di un aborto a quattro mesi e mezzo? Forse è meglio non saperlo.
Purgatorio
Venerdì 16 aprile 2004 ero in ufficio. Da un paio di giorni, avevo ritirato il Tritest, un test per lo screening della sindrome di Down. Devo precisare, che avevo deciso autonomamente di fare il Tritest, dato che i ginecologi della struttura ospedaliera presso la quale stavo facendo seguire la gravidanza, non avevano ritenuto che fosse necessario. Parlo del team di ginecologi perché, non avevo contattato privatamente un ginecologo, decidendo di usufruire del servizio sanitario nazionale.
Il Tritest aveva avuto esito negativo (bassissima probabilità di sindrome di Down) ma riportava nella sezione dei commenti delle frasi che non riuscivo a capire:
***Rischio aumentato di trisomia 18 (5/6 alla nascita)***
***Aumento del rischio di sindrome di Smith-Lemli-Opitz (maggiore di 9/10)***
Sul principio avevo interpretato questi commenti come una valutazione della bontà del test ovvero avevo dato alla frase il seguente significato "la probabilità che il test rilevi un rischio aumentato di trisomia 18 è di 5/6 alla nascita". Tale interpretazione era avvalorata dal fatto che lo screening era risultato negativo e dalla posizione del commento citato, che veniva dopo aver dato delle statistiche sulla probabilità di sindrome di Down in base alla sola età materna. Il dubbio, però, mi assillava, nonostante le rassicurazioni, a volte anche un po' beffarde, di amici, colleghi e famiglia. Mi sentivo, dunque, molto sola. Spesso, infatti, alle donne incinte viene attaccata l'etichetta di instabilità ed isteria. In ufficio, la gravidanza viene quasi sempre considerata come il seccante preambolo del futuro comportamento assenteista della neomamma. Una gravidanza ed una nascita sono generalmente una seccatura per l'azienda e la donna gravida deve fare i salti mortali per continuare la sua attività lavorativa senza essere discriminata, sopportando i disagi fisici e psicologici della gravidanza, incastrando nella sua vita i numerosi controlli medici senza farsi scoraggiare dalla burocrazia degli ospedali. Forse è anche più facile, dunque, "non preoccuparsi" come da suggerimento comune. Nonostante ciò, io non mi davo pace. Di lì ad una quindicina di giorni avevo prenotato l'appuntamento per una visita ginecologica all'ospedale, ma non potevo aspettare. Dapprima mi recai presso un medico generico che tentò, in vano, di contattare una sua amica ginecologa per interpretare il test. Il medico generico mi disse, comunque, di stare tranquilla.
La risposta rassicurante non mi soddisfaceva e quindi quel venerdì, dall'ufficio, decisi di contattare il laboratorio di analisi per farmi dare una spiegazione dei commenti. Lo avrei dovuto fare prima. Una voce femminile seccamente mi disse che avevano riportato quei commenti perché avevo le beta HCG ( è una glicoproteina prodotta solo dalla placenta che accerta e controlla la gravidanza in una donna) molto basse (1.7 iu/mL) tanto che sospettavano una probabile interruzione di gravidanza.
Perché quando ritirai il test, il laboratorio non mi ha avvertito immediatamente della situazione? Perché il medico generico mi ha liquidato così in fretta?
La risposta è questa: si fa sempre conto che una donna incinta si faccia seguire da un ginecologo privato, che sia lui, chiaramente a pagamento, ad interpretare il test in tempi rapidi. Faccia vedere il test al suo ginecologo, ma come non ha fatto vedere il test al suo ginecologo? Sono le frasi che accompagnano, di solito, questi eventi.
Avevo fatto il Tritest una decina di giorni prima. C'era Pasqua di mezzo. Probabilmente erano dieci giorni che avevo in grembo un figlio morto. La disperazione fu profonda e totalizzante. A Pasqua ero stata a Venezia per una breve vacanza. Il sole che brillava sui canali, le nere gondole silenziose sibilavano sotto i suoi ponti, l'ampio orizzonte movimentato dalla presenza delle isole…come avevo potuto godere spensieratamente della bellezza quando la morte silenziosamente si insinuava nel mio utero?
Quella mattina, prima di entrare in ufficio, ero passata a comprare l'acido folico, le vitamine che si prendono in gravidanza. Mi ero fermata anche ad una bancarella per comprare i pantaloni di taglia large con i lacci in vita, accennando al venditore che ero in crescita in quanto aspettavo un bimbo.
Nel mio ufficio, la busta con gli acquisti era buttata lì, su una sedia ed io la guardavo mentre il laboratorio al telefono mi diceva che mio figlio probabilmente era morto.
In stanza con me c'erano altri due colleghi, giovani padri anche loro. Piangevo. Dolore ed imbarazzo per il mio dolore.
Chiamai mio marito dandogli, tra le lacrime, delle istruzioni telegrafiche. Esci dall'ufficio. Vai a casa. Prendi la cartellina degli esami. Vieni a prendermi. Andiamo insieme al pronto soccorso. Forse il bambino è morto.
Un tempo infinito passò tra la telefonata ed il momento in cui mio marito mi venne a prendere. Passò l'ora di pranzo. I colleghi entravano ed uscivano dalla stanza. Alcuni a conoscenza della mia situazione, alcuni ignari, con uno sguardo interrogativo negli occhi.
Finalmente, mio marito arrivò.
Inferno
In macchina, oltre a mio marito, c'era mia madre, che faceva di tutto per mostrarsi forte.
Decidemmo di andare in un famoso ospedale romano per il reparto di maternità.
Pioveva a dirotto. Il paesaggio sembrava venuto fuori da un dipinto espressionista. Il cielo era plumbeo, le acque del Tevere nere come il petrolio, le foglie degli alberi erano tristi ed appesantite, battute dalla pioggia.
"L'ho dovuto scoprire da sola" dicevo "perché non mi sono fatta seguire da un ginecologo, perché ho voluto usufruire del servizio sanitario nazionale. In fondo, se quelli del laboratorio non si sono presi la briga di chiamarmi pur sospettando una interruzione di gravidanza, forse dovevo stare a riposo e nessuno me lo ha detto: ho dei fibromi, forse sono stati i fibromi."
"Ma l'ultima visita è andata bene" diceva mio marito "nessuno ci ha detto niente"
"Ai miei tempi non si facevano tutte queste analisi" diceva mia madre "nessuno della nostra famiglia si è fatto seguire mai da un ginecologo, perché avresti dovuto farlo tu?"
"Perché a tutti gli altri è andata bene, per fortuna, ma può anche andare male e ci vuole qualcuno che ti segua, in questi casi…" risposi.
La discussione tra me, mio marito e mia madre andò avanti così.
Io da una parte incolpavo me stessa, perché non mi ero fatta seguire da un ginecologo, dall'altra mia madre perché mi aveva sempre suggerito di non andare in privato, mio marito perché aveva sottovalutato la situazione ed infine il lavoro, perché negli uffici c'è poca attenzione per una donna incinta, che comunque deve cercare di essere sempre al 100%. Non è facile seguire i buoni consigli di rallentare, di prendersela un po' più comoda. Gravidanza e lavoro sono conciliabili con molta difficoltà.
Siamo arrivati all'ospedale, al pronto soccorso ginecologico.
Ho spiegato la situazione. Anche lì mi hanno chiesto se avevo fatto vedere il Tritest al mio ginecologo. Mentre spiegavo che mi stavo facendo seguire dall'ospedale e che l'appuntamento che avevo preso era troppo in là, leggevo negli occhi degli operatori ospedalieri la disapprovazione.
Abbastanza velocemente, devo dire, sono entrata in ambulatorio dove c'era la ginecologa di turno. Questa ha guardato il Tritest e mentre io le spiegavo la situazione. Lei mi chiese perché fossi andata lì e non all'ospedale dove mi stavano seguendo, dicendomi che era normale, nel secondo trimestre, che le beta scendessero.
"Questo è un intervento ambulatoriale non da pronto soccorso" mi diceva.
Io insistetti per farmi fare una ecografia. Non è possibile, nel dolore fisico e morale, che sia la persona sofferente a farsi forza ed a chiedere, con insistenza, attenzione. Forse, una persona meno forte o meno apprensiva sarebbe tornata a casa aspettando la visita ambulatoriale prenotata. Io non l'ho fatto, per fortuna.
Mentre la ginecologa mi faceva un'ecografia ostetrica, diceva alla sua assistente: "vedi, questo è il torace…" riferendosi al feto. Ma, dal torace, nessun battito cardiaco.
"Purtroppo la diagnosi del laboratorio è confermata, comunque la mandiamo in ambulatorio per fare un'altra ecografia"
Mi sono rivestita, con un senso di estraneità, non sono io.
Sono andata in sala di attesa, dove una donna indiana stava avendo le contrazioni. Non so quanto tempo ho aspettato. Non so quanto ho sofferto. Non conosco il dolore di mio marito, di cui sentivo le lacrime piovermi sui capelli, mentre mi abbracciava. Non conosco il dolore di mia madre che piangeva in disparte.
Inutile dirlo. Anche l'altra ecografia dell'ambulatorio confermò la morte del feto.
"Non c'è quasi più liquido amniotico" diceva il medico, "deve essere successo da un po'".
Il medico dell'ambulatorio fu un po' più pietoso, mi fece andare in bagno a lavarmi il viso, mi diede dei clinex, mi consolava dicendomi che ci avrei potuto riprovare.
"Ma io voglio questo!" pensavo…"Non posso pensare ad un altro, ora!"
Dall'ambulatorio sono ripassata al pronto soccorso, è terribile camminare tra la gente con le lacrime che ti scendono sul volto, senza controllo. Alcuni ti guardano imbarazzati, ma i peggiori sono quelli che fanno finta di niente.
Al pronto soccorso ricevetti la seguente proposta dalla giovane ginecologa di guardia:
"Io la dovrei ricoverare, signora. Ma non ho posti. Neanche al suo ospedale ci sono posti. Ho telefonato. Io le consiglio di tornare a casa e di tentare il ricovero domani, presso il suo ospedale. Però ci dovrebbe firmare una liberatoria, perché io sarei obbligata a ricoverarla o a mandare i fax in tutti gli ospedali di Roma per trovarle un posto…"
Fui indignata dalla proposta ricevuta, ma il dolore era troppo grande e non mi andava di reagire. Dissi, con calma, che avrei preferito essere ricoverata la sera stessa.
Mi accorsi del fastidio provato dalla ginecologa quando si accinse a mandare i fax. Mi invitò ad accomodarmi di fuori, in attesa dell'autoambulanza.
Con me c'era la donna indiana, che non parlava una parola di Italiano, accompagnata dal marito, mia madre e mio marito. Il cellulare sembrava impazzito. I miei colleghi, mia sorella volevano notizie. Mio marito si occupava di rispondere.
Dopo un po' venne mia sorella, alla quale le notizie telefoniche non bastavano più, che ebbe la presenza di spirito di occuparsi della logistica.
Non so dopo quanto tempo, arrivò l'autoambulanza. Vi salimmo io e la donna indiana con le doglie che si fece attendere perché il marito era andato a prendere un caffè. Il personale dell'ambulanza mi fece gentilmente accomodare. Purtroppo non ricordo il nome di colui che guidava l'automezzo, che è stato molto gentile ed umano.
La donna indiana, che salì in ambulanza con me, aveva delle contrazioni molto forti, soffriva tantissimo. Lei soffriva fuori. Io soffrivo dentro. Non poteva parlarmi, non conosceva la lingua, si doveva sentire molto sola. Era giovanissima.
Con l'autoambulanza, ripiombammo nella pioggia. Nessuno parlava, si sentivano la sirena, gli scrosci d'acqua, ed i lamenti della donna indiana.
Fummo condotte in un ospedale un po' periferico di Roma, circondato da molto verde. I prati erano rigogliosi, con tutta quella pioggia, un richiamo alla vita, unica nota stonata rispetto al dolore che provavo.
Uscendo dall'autoambulanza, la donna indiana mi guardò con occhi sofferenti e si appoggiò al mio braccio. Questo mi diede forza. La sostenni, accarezzandola un po'. Arrivati nella sala d'attesa una donna alta ed attempata, con i capelli sale e pepe e col camice bianco ed il mento all'insù mi chiese rabbiosamente perché io, che ero una paziente, stavo sostenendo la signora con le doglie quando l'avrebbero dovuto fare quelli dell'ambulanza. Rabbia inutile, perché i poveretti erano stati trattenuti all'accettazione. La donna attempata ci fece qualche domanda. Io le dissi che l'indiana non parlava italiano e lei stizzita disse "ah, andiamo bene!", come se fosse colpa della giovane donna di non conoscere la lingua. La dottoressa era il classico tipo che ce l'ha col mondo, per qualsiasi cosa. Forse ne aveva viste troppe.
Nella sala, c'era una donna che soffriva di asma ed un signore alto ed attempato di cui non so nulla.
La donna indiana, ormai, aveva le contrazioni quasi in maniera continua. Le tenevo la mano scura e sottile. Nessuno si faceva vedere, allora chiesi all'alto signore di andare a chiamare qualcuno. Chi soffre di meno si prende cura degli altri. Lì ebbi anche il coraggio di chiedere alla signora con l'asma come stava. Occuparmi degli altri mi faceva bene. All'uomo alto non chiesi nulla. Se ne stava sulle sue, austero e riservato.
Vennero a prendere la ragazza, la visitarono. Poi visitarono me. Ancora una ecografia ostetrica. Mi visitò la signora ginecologa alta, con i capelli bianchi ed il mento all'insù. Le chiesi di risparmiarmi l'ennesima visione del feto e così la donna ebbe l'accortezza di girare il monitor.
Fui accompagnata al reparto e persi di vista l'indiana.
Lì trovai mio marito e mia madre che mi aspettavano. C'era anche la dottoressa col mento puntuto.
Mi estrassero subito il sangue. Io chiesi cosa mi sarebbe successo. Un raschiamento, mi disse. Mio marito ne fu sollevato perché la ginecologa giovane all'altro ospedale mi aveva prospettato un parto indotto. A me non importava.
La ginecologa mi descrisse la possibilità di far analizzare il feto per ottenere una mappa genetica in un laboratorio di analisi a pagamento. Mi disse che avrebbero provveduto loro, col galoppino dell'ospedale, a portare il feto. Io subito accettai, qualunque fosse stata la cifra. Poi le chiesi, indotta da mia madre, se nel raschiamento avrebbero asportato anche i fibromi.
"Lei fa troppe domande adesso, non le sembra presto? Fra un mese, con calma, si domanderà cosa le abbiamo fatto"
Accidenti… la gente si rende conto quanto può ferire con una frase? Mi fece sentire meschina perché facevo delle domande in un momento in cui dovevo solo sentirmi disperata. Se avessi dato acolto solamente alla disperazione, magari non sarei stata ricoverata, avrei aspettato la visita ambulatoriale che avevo prenotato ed avrei rischiato forse la setticemia con l'asportazione dell'utero. Troppo egoista? Avrei dovuto farmi trascinare dal dolore, dagli eventi e subire l'approssimazione del trattamento di parte delle strutture?
Per quel giorno, per fortuna, avevo finito. Un venerdì lunghissimo e triste. Mi portarono in stanza dove ebbi come compagna una simpatica signora di 38 anni che era stata ricoverata a causa di un versamento interno dovuto a delle cisti ovariche.
Aveva già avuto dei problemi, in passato, per questo motivo ed ora rischiava di perdere ovaie ed utero. Aveva un braccio gonfio perché portava da tre giorni la farfallina al braccio e le infermiere si rifiutavano di levarglielo per paura che, poi, servisse di urgenza.
La serata si concluse con la triste cena dell'ospedale, una minestrina molto scotta, un purè incollato.
Mia sorella, mi portò oltre al sapone, all'asciugamano, al dentifricio…delle cose che si rilevarono utilissime il giorno dopo. Assorbenti, una camicia da notte ed un pigiama. Mi domando… una persona, che vive da sola in una città, come fa in questi casi? Il singolo, da solo, non ce la può fare, la famiglia è fondamentale.
Durante la notte, portarono una ragazza ricoverata anche lei per un aborto interno. Mentre io ero di quattro mesi e mezzo, lei era solo di due mesi. La poverina ha vomitato tutta la notte.
Più tardi sentimmo delle grida provenire dalla stanza attigua. Il giorno successivo scoprimmo che una giovane partoriente, dando alla luce due gemelli, aveva avuto un'embolia. Uno dei due gemelli aveva una malformazione al cuore per cui, successivamente, sarebbe stato ricoverato al Bambin Gesù.
La situazione era singolare perché la madre di mio fratello morì di parto dando alla luce due gemelli. Uno dei due gemelli morì. L'altro, mio fratello, è sopravvissuto.
Viene da domandarsi: le rassicurazioni continue che si trovano sui libri dedicati alla gravidanza, quelle che ci fanno i ginecologi, quanto sono veritiere? La vita è un miracolo ed è una lotta fin dal concepimento. Ogni singolo bambino è un miracolo. Ognuno di noi lo è. Ognuno di noi è importante nel delicato equilibrio che tiene insieme il mondo. Lo deve essere. Nessuno se ne ricorda mai e buttiamo via le nostre preziose vite.
Sabato 17 aprile 2004. La mattina sveglia alle 6.30. Alla ragazza ricoverata nella notte tolsero il sangue. Niente colazione. Più tardi, verso le 9.00 passarono i medici, due ginecologi. Di nuovo un'ecografia ostetrica. Spingevano tanto con la sonda e mi fecero male. Ma non mi importava, avrei voluto solo che il mio bimbo fosse vivo. Chiesi ai medici che cosa potesse essere successo, perché quel cuore si era fermato. Uno dei due, dall'apparenza un po' rude, mi rispose che non era possibile stabilire le cause, come accade spesso. Gli vidi il dispiacere negli occhi e ne sentii la solidarietà. L'altro mi disse che di lì a poco mi avrebbero somministrato delle supposte vaginali per farmi venire le contrazioni. Dovevo partorire mio figlio morto.
Uscendo dalla stanza mi resi conto che ero nel reparto maternità, proprio di fronte al nido. A volte, la vita si accanisce con delle sfaccettature beffardamente dolorose.
Le contrazioni vennero, quella mattina e furono fortissime. Purtroppo i dolori forti vennero proprio alla presenza dei visitatori, anche di quelli delle altre due compagne di stanza. Dolore, stavolta fisico, ed imbarazzo per il dolore, di nuovo. Vennero due ostetriche, una delle due particolarmente dolce, e mi portarono nella sala travaglio, proprio accanto alla stanza dove si trovava la loro scrivania. Non avevo fatto i corsi preparto, ancora era troppo presto e non ero assolutamente preparata all'evento. Respiravo male, per cui spesso mi si addormentavano mani e piedi. A volte, per dare un ritmo alla respirazione, contavo. Portai con me, in sala travaglio, mio marito che dalla mattina mi teneva la mano. La sua presenza silenziosa e forte mi confortava.
Durante il travaglio mi hanno iniettato una serie di sostanze per ammorbidire il collo dell'utero e dato che le vene mi si rompevano ogni volta che mi infilavano un ago, mi hanno dovuto fare diversi buchi sulle braccia.
A fine mattina, il parto si era aperto solo di un centimetro ed i dolori erano finiti. Le ostetriche della mattina avevano finito il turno, e nessuno veniva a controllare il mio stato. Fu mia madre che allertò il ginecologo di turno del fatto che non avevo più contrazioni, perché né io ne mio marito ne avemmo il coraggio. L'intervento di mia madre fu fondamentale in quanto, se non mi avessero fatto partorire, mi avrebbero dovuto praticare un taglio cesareo perché il feto era troppo grosso. C'era proprio bisogno che fosse mia madre ad avvertirli? Un cambio di turno può non garantire la continuità di un servizio tanto importante? Ritengo poco probabile che stessero aspettando che le contrazioni tornassero da sole. Dopo un po' altre due ostetriche, diverse da quelle della mattina, mi diedero un'altra supposta vaginale e mi fecero una flebo per farmi venire i dolori. Fu terribile passeggiare per i corridoi dell'ospedale, in attesa che i dolori tornassero. Avevo paura di non farcela. I visitatori, che avevano seguito la cosa dalla mattina, mi confortavano come potevano. Verso le 16.00 tornarono le contrazioni. Il parto avvenne in una posizione innaturale perché ero in posizione supina con una padella che mi faceva inarcare la schiena. Mi hanno dovuto praticare l'apertura manuale del parto. Un momento particolarmente spiacevole fu quando mi chiesero di non urlare troppo. I dolori del parto sono fortissimi al punto che si perde il controllo degli arti. Ti sembra di impazzire ed, a volte, perdi il contatto con la realtà. Non sempre ti rendi conto di quello che dici o di quanto tu stia urlando. Questa richiesta, fatta da un'ostetrica, mi sembra tuttora assurda anche se poi seppi il motivo. Mia madre, nell'altra stanza, stava perdendo i sensi.
Sentii il mio bambino uscire da me ed i dolori finirono. Il dolore per la perdita, invece, si accentuò. Forse furono gli ormoni associati al parto che mi spingevano istintivamente a cercare il bambino che avrebbe dovuto esserci. Lo volevo tra le mie braccia che rimasero vuote. Il senso di vuoto che provai non lo dimenticherò più ed in questo momento, è lo stesso di allora.
Quando ormai era tutto finito, mi chiesero se fossi cattolica e se avessi voluto conoscere il sesso per dare il nome al bambino. Mi dissero che lo avrebbero battezzato.
"No non voglio sapere nulla" dissi loro.
"Considereremo il bambino il nostro bambino, il bambino dell'ospedale. Gli daremo noi un nome." Mi dissero. Capii che il bimbo era un maschio.
I miei sentimenti furono contrastanti. In realtà non era vero che non volevo saperne nulla del bimbo. Era il mio. Io lo volevo. Ora avrebbe avuto un nome, ma io non l'avrei mai saputo. Tacqui, comunque.
Decisero che avrei avuto bisogno anche di un raschiamento. Dentro di me non ero certa che, in quel momento, avrei saputo sopportare il rituale preoperatorio.
Mi spogliarono completamente, mi poggiarono sopra la veste per la sala operatoria dove mi portarono immediatamente dopo il parto. Le sale operatorie sono fredde, tutti quegli strumenti, l'asetticità mettono po' di soggezione. Io ero molto provata. Nel momento in cui mi posizionarono sul letto operatorio mi sono sentita impotente e mi sono messa nelle mani del dottore e di Dio, se ne esiste uno. L'anestesia venne giù come una grazia. L'ultima cosa che ricordo fu……"metti il braccio qui"…..non sentii neanche le domande consuete che di solito fanno per vedere se l'anestesia fa effetto, del tipo "come ti chiami?", "conta fino a cento"….
"Sveglia è finito tutto!" Era l'anestesista, una persona simpatica che mi diede un buffetto sulla testa. Quando tornai in stanza era passata l'ora di cena degli ospedali, ma mia sorella mi aveva portato della carne con le patate, profumata con il rosmarino. Il rosmarino mi fece pensare alle colline dell'isola del Giglio che in primavera sono piene degli odori e dei colori della macchia mediterranea fiorita. La camicia da notte era andata persa, tra i panni bianchi del letto della sala travaglio, ormai partiti per la lavanderia, per cui utilizzai, con gratitudine, il pigiama di ricambio a cui mia sorella aveva pensato. Utilizzai anche gli assorbenti che mi aveva portato. Mio marito dovette andare a comprarmene degli altri.
La mattina successiva fui dimessa. Quando vidi la luce pensai che mio figlio non l'avrebbe mai vista.
Non posso terminare questo paragrafo senza ringraziare la mia famiglia.
Ed ancora inferno
L'odissea, però, non era finita, ma per descrivere gli avvenimenti occorre tornare al momento dell'aborto: mentre io stavo facendo il raschiamento, mio marito si stava mettendo d'accordo per far analizzare la mappa genetica del feto. Dato che era sabato, gli dissero, l'ospedale non disponeva del galoppino che avrebbe dovuto portare il feto al laboratorio. In ogni caso, il centro di analisi chiudeva il sabato pomeriggio. Gli proposero, dunque, di portarsi il feto a casa, nella soluzione fisiologica, per poterlo portare il lunedì lui stesso al laboratorio. Mio marito rifiutò di portarlo a casa seduta stante, prendendo accordi per tornare in ospedale il lunedì successivo.
Lunedì 18 aprile 2004. La mattina, mio marito uscì di casa per andare a riprendersi il feto e portarlo al laboratorio di analisi genetiche. In ospedale, non gli diedero indicazioni precise su dove tale laboratorio si trovasse e quindi, col feto in macchina, mio marito dovette cercarlo in giro per Roma.

Quel giorno mio marito contattò due laboratori differenti, perché, come dicevo sopra, l'ospedale, presso cui avevo abortito, non gli aveva dato riferimenti precisi.

Nella mattina si recò presso il primo laboratorio il cui personale non gli disse che certe analisi non le facevano, ma bensì che l'ospedale gli aveva dato delle informazioni sbagliate sulla prassi e che bisognava, prima di far analizzare il feto, prendere un appuntamento con un medico specialistico. C'erano due possibilità. Se avessimo scelto di avvalerci di un medico convenzionato avremmo dovuto aspettare tre settimane, altrimenti una sola. Per prendere appuntamento avremmo dovuto chiamare nel pomeriggio.
Mio maritò tornò a casa, portandosi dietro, in macchina, il feto nella fisiologica.
Le riflessioni che seguirono furono macabre. Non ritenevamo possibile che il feto potesse aspettare così tanto per via della decomposizione. Dio, pensare alla decomposizione quando dovevamo pensare ad una nascita!
Avevamo, dunque, capito di aver contattato il laboratorio sbagliato. Per fortuna, però, mio marito si ricordò anche di altre indicazioni vaghe, ad esempio, di una certa insegna che il laboratorio visitato non aveva.
Cercammo su internet e trovammo un altro laboratorio che poi si rivelò quello giusto.

Nonostante la pioggia battente, mio marito prese il motorino ed andò a cercare il laboratorio con le indicazioni trovate su internet.
Quando lo trovò, però, le difficoltà, non erano finite in quanto il personale del laboratorio lo riempì di domande perché ritenevano molto strano che l'ospedale avesse dato al padre il feto da portare a far analizzare. Telefonarono all'ospedale per fare degli accertamenti, sospettando, forse, di un aborto clandestino o comunque di qualche traffico illegale.
Mio marito, dunque, oltre al dolore per la perdita, dovette subire il trattamento di un delinquente.
Dapprima parlò con un dirigente medico, che, dopo aver sentito la storia, disse di poter eseguire una prima analisi dietro compenso di un centinaio di euro. Se avessero dovuto fare ulteriori accertamenti, poi, il compenso sarebbe aumentato di altri 120 euro (più o meno).
Un'addetta del laboratorio, però, subito dopo, smentì le affermazioni del dirigente medico. Gli accertamenti, infatti, non potevano essere fatti in quanto era passato troppo tempo dalla morte.
Gli addetti del laboratorio dissero, in oltre, che siccome loro facevano analisi sui campioni e non sull'intero feto, non avrebbero potuto provvedere allo smaltimento.
Insomma, fino a due giorni prima il bimbo era il nostro tesoro, una parte di me e di mio marito, che stava crescendo dentro di me.
Ora era diventato un prodotto da smaltire. L'asettica terminologia tecnica, a volte, può ferire di più di un insulto.

Ormai era sera e mio marito non potette riportare il feto direttamente all'ospedale per cui lo riportò a casa. Non so tuttora dove lo tenne ed all'epoca non mi disse neanche che il feto era ancora nelle sue mani, anche se lo sospettai. Solo giorni dopo decise di confidarmi l'accaduto. Non se lo poteva tenere dentro.

Martedì mattina, silenziosamente, cercando di non farmi capire dove stava andando, mio marito riportò il feto in ospedale e così fummo definitivamente separati dal nostro bimbo.

In caso di aborto tardivo, qualora si disponga del feto, è molto importante, dunque, richiedere di farlo esaminare il più celermente possibile.
Desiderio di Paradiso
So di aver passato l'inferno. Ora la vita mi richiede di superare quello che è successo. Presto ricomincerò il lavoro. Nonostante tutto, non ho perso la voglia di avere un figlio anzi, lo voglio disperatamente. Lo voglio più di prima. Voglio colmare il vuoto rimasto tra le mie braccia.
Inizialmente la mia preoccupazione principale fu quella che il bambino fosse sano e che io, con i miei comportamenti sbagliati, ne avessi causato la morte.
Pensavo che fossero stati i fibromi a causare la morte del feto. Io ho l'utero fibromotoso e diversi fibromi di cui uno di 5 cm di diametro. Ho pensato che i ginecologi che mi avevano seguito, non essendo stati pagati, non avessero preso a cuore la mia situazione e non mi avessero avvertito del pericolo che correvo. Ho pensato che la colpa fosse mia perché non avevo contattato un ginecologo privatamente. Senza la pretesa di sostituirmi ad un medico, ho preso informazioni sulla natura dei fibromi pericolosi ed ho visto che, solitamente, solo i fibromi sottomucosi (ovvero interni all'utero) sono pericolosi in gravidanza mentre i miei sono, per la maggior parte esterni e solo uno è nella parete dell'utero. Anche quest'ultimo difficilmente è rischioso per il feto.
Un'altra paura, che tuttora mi assilla, è legata al fatto che un aborto alla diciottesima settimana faccia sospettare qualche patologia e quindi comporti un aumentato rischio di aborto ripetuto. Ci tengo a precisare che non sono a conoscenza di pubblicazioni scientifiche attestanti il legame tra aborto tardivo ed aborto ripetuto. Comunque, sia per accertarmi delle cause che per scongiurare la presenza di eventuali patologie, ho contattato un bravo ginecologo, privatamente. In oltre, io e mio marito abbiamo capito che il primo centro contattato, in realtà, si occupa di consulenza genetica per la coppia ovvero di valutazioni riguardo la compatibilità genetica. Abbiamo fissato un appuntamento.

Può capitare, in questi casi, che anche la voglia di andare avanti, di ritentare, faccia sentire in colpa. Occorre, però, ricordare che non è l'egoismo a spingere in questi casi, ma è la vita stessa che richiama la vita e che, a primavera, dopo l'inverno, produce sempre nuovi boccioli sui rami privi di foglie.
Conclusioni
Pubblicando questo racconto su internet, spero che venga letto non solo da persone che hanno avuto la stessa mia esperienza (e già sarebbe moltissimo se fosse di consolazione a qualcuno), ma magari anche da qualche istituzione.
Nelle mie conclusioni, dunque, ho deciso di esplicitare brevemente, in un elenco, le mancanze che ho percepito nel sistema.
Innanzi tutto, nella mia storia, sarebbe stato utile che il laboratorio mi avesse comunicato tempestivamente, magari chiamandomi telefonicamente, il risultato dell'analisi o quantomeno avesse attirato la mia attenzione, il giorno del ritiro, sulle implicazione dei risultati. Forse, se non c'è, ci vorrebbe qualche norma che li obblighi a farlo.
Ritengo che medici ed infermieri, che sono a contatto col pubblico, debbano anche essere dei buoni comunicatori e debbano usare più tatto possibile in queste situazioni. Alcuni lo fanno, ma sono la minoranza. Sarebbe utile, se già non ci sono, dei corsi specifici periodici per dare dei modelli di comportamento a queste persone che comunque fanno un lavoro difficile e duro. Forse certi comportamenti sono dovuti al sottodimensionamento del personale.
Dato che gli aborti non sono così infrequenti e sono molto dolorosi in tutti i sensi, gli ospedali dovrebbero essere dotati di uno psicologo che supporti la persona che lo subisce.
Non ritengo sia giusto mettere una persona, che subisce un aborto, nel reparto di maternità, dovrebbe stare in ginecologia.
Non ritengo giusto che sia il padre ad occuparsi del feto, anche se penso che la mia storia sia dovuta ad un'anomalia nel comportamento dell'ospedale.
Tre ecografie nell'arco della gravidanza non sono sufficienti. Se io non avessi fatto il Tritest non mi sarei mai accorta della morte del feto e le conseguenze sarebbero potute essere molto gravi per la mia salute.
Infine, prima dell'astensione obbligatoria dal lavoro per gravidanza, dovrebbe essere codificato il diritto della donna a permessi, durante l'orario di lavoro, per andare a fare i necessari controlli ostetrici e ginecologici.

 

A=A=A

Sono qui seduta presso il mio vecchi scrittoio. Davanti a me ho due foto in due annerite cornici di argento: in una ci siamo io Alba ed Aurora bambine e nell'altra io Alba ed Aurora di tre anni fa, quando eravamo tutte e tre vive. Io sono l'ultima rimasta e voglio scrivere a voi, nostri nipoti, di uno strano segreto, del quale non riesco a dare spiegazione. Non ve ne ho mai parlato prima, perché probabilmente mi avreste preso per pazza, ma ora di ciò non mi importa più. La rivelazione del nostro segreto, in questo momento, invece, forse, vi darà speranza nel futuro.

Alba ed Aurora mi hanno lasciato fisicamente un anno e due anni fa, rispettivamente. Fu proprio l'anno in cui morì Aurora che l'ombra ricomparve dopo sessant'anni dall'ultima volta.
Poi ricomparve la mattina del giorno in cui morì Alba. Stamattina, sul davanzale della mia finestra, è comparsa, di nuovo....Così, so che stasera lascerò questo mondo. Per l'appunto...so che lascerò QUESTO mondo. Guardo, intorno a me, la mia vecchia casa: il divano lì in un angolo, sulla spalliera c'è il centrino che ha fatto all'uncinetto Alba; il caminetto vicino al divano, con la vecchia sveglia sulla sua mensola; al centro della stanza c'è il tavolino ovale in legno scuro, con intorno le massicce sedie rustiche...e dall'altra parte del divano, la finestra con gli stipiti in legno, che affaccia sul giardino invernale, pieno di gialle foglie cadute.
Lì, sul davanzale della finestra, c'è l'ombra-simbolo che collega due realtà. Ma forse sto correndo un po' troppo, incominciamo dal principio....

Avevo circa 10 anni e la casa in cui vivevo era questa stessa, in cui vivo ancora. All'epoca, però, questa era una casa di campagna, non c'erano tutte le villette che ci sono ora. Negli ultimi trent'anni, infatti, questa zona è diventata da agricola a residenziale. Ma all'epoca, dalla finestra che adduce sul giardino, si potevano vedere campi sconfinati, fino al delimitare delle boscose pendici montuose. Ora, intorno al giardino, ci sono alti muri contornati da siepi, per cui non è possibile far spaziare lo sguardo all'esterno e pur potendo, esso sarebbe limitato dalla presenza delle villette confinanti.

Ho sempre pensato che, in fondo, una casa fosse un microcosmo, un caro e confortevole microcosmo. La finestra unisce il microcosmo domestico col mondo esterno. Forse per questo simbolismo, l'ombra comparve, per la prima volta e nelle apparizioni successive, proprio sul davanzale della finestra.

Questo non è tutto.

L'ombra, infatti, comparve, per la prima volta, la mattina del giorno in cui nacque Alba.

Quel giorno la mamma ebbe le doglie a partire all'alba e questo fu, appunto, il nome della nuova venuta.

Io ero seduta sul divano della sala, mentre mio padre faceva avanti ed indietro, proprio davanti a me, con la stessa cadenza del ticchettio dell'orologio sulla mensola del camino. Di fronte a me c'era la finestra, con l'ombra. Io la stavo fissando. Nel momento in cui Alba nasceva, non so perché, cominciai a percepire buio intorno a me. Sentivo che il legame tra me e quelle sensazioni che invadevano il mio corpo, era l'ombra. Poi, improvvisamente non ero più nel salotto, ma in un luogo oscuro e caldo. In quel luogo buio e protetto rimasi pochissimo perché una qualche forza mi catapultò fuori e fui immersa nella luce e nel freddo. Provai un senso di soffocamento fortissimo.
Le urla della nascitura mi riportarono improvvisamente alla realtà. Alba era nata. L'ombra era scomparsa.

Passarono quattro anni, Alba crebbe.

Il giorno in cui nacque Aurora, fu Alba ad accorgersi per prima dell'ombra.

"Amina, cos'è quella macchia scura...sembra l'ombra di ....di....di un bimbo!"

Io, che già sapevo cosa sarebbe successo, andai da Alba, la presi per mano ed attesi...
Buio e caldo, poi luce e senso di soffocamento. Questa volta fu diverso, però, perché al rientro, nella stanza da pranzo, per un attimo, fui contemporaneamente me ed Alba. Entrambe, insieme, sentivamo i vagiti di Aurora. Infine fummo di nuovo due entità distinte. Aurora continuava il suo pianto da neonata.

Crescendo ne io, ne Alba, ne Aurora vedemmo più l'ombra scura sul davanzale della finestra.
Sperimentammo, però, come ogni altra persona, il potere evocativo dei simboli, capace di legare due realtà anche molto diverse. Forse l'ombra scura è la proiezione di qualche simbolo ancestrale, presente nell'inconscio capace di unire tre coscienze o forse esiste in inconscio collettivo che per qualche motivo si è esternato proprio con noi...

Insomma, questo è un vero mistero.

Io, Alba ed Aurora, siamo vissute sempre molto unite, ci siamo aiutate una con l'altra tutta la vita, come se fossimo una sola persona.
Fu anche questo che ci consentì di avere una grande famiglia, figli e nipoti.

Ora, Alba ed Aurora mi hanno lasciato.
L'ombra-simbolo, però, continua a legarmi a loro.

Quando morì Aurora, io ed Alba fummo con lei: nel momento del trapasso, passammo tutte e tre dalla luce e dal freddo, alle soglie di un luogo scuro e caldo, una specie di brodo primordiale....poi, in un attimo, io ed Alba fummo di nuovo nella nostra realtà.

Venne il momento anche di Alba. La mattina vidi l'ombra e mi sembrò di sentire la presenza di Aurora...Non sapevo se sarebbe stato il mio turno o quello di Alba. Avrei preferito fosse il mio, per non essere lasciata sola a questo mondo. In serata fui risucchiata all'ingresso del confortevole brodo primordiale, sentivo che vicino a me c'erano Alba ed Aurora. Alla fine, però, fui io a ritornare nel mondo.

Ora, finalmente, stasera, mi unirò alle mie amate sorelle. Ho visto l'ombra-simbolo sul davanzale ed ho percepito la presenza delle vostre nonne....

Cari nipoti, non penso che mi crediate, in ogni caso, se non altro in nostra memoria, non vendete questa casa ed ogni tanto venite a dare una occhiata al davanzale della finestra che dà al giardino. Se vedrete un'ombra scura, proiettata su tale davanzale, forse, potrebbe voler dire che le vostre nonne siano venute a farvi visita.

 

Pausa Pranzo

Lei camminava davanti a me, con la sua camminata fiera, non curante e
felina, come quella di un leone maschio nella savana africana.
Alta, magra e scolpita, Renata portava i capelli castani cortissimi, che mettevano
in risalto le sue spalle larghe.
Immaginavo il suo volto dai tratti regolari e decisi, quasi mascolini,
con la pelle asciutta, dorata dal sole, solcata da piccole rughe,
con la bocca sprezzante e lo sguardo ardente, severo, sempre alto e proiettato in avanti.
Dietro di lei trottellavamo io, Gianpiero e Franca.
Gianpiero era alto, magrissimo ed i lunghi capelli di paglia incorniciavano il suo giovane
volto dalla pelle chiara e lentigginosa. Anche lui mi antecedeva e stava faticosamente dietro a Renata.
Il ragazzo, che tentava di imitare il portamento della donna, non riusciva
a camminarle al fianco, per cui le stava un passo dietro, quasi in segno sottomissione.
Franca, col suo viso rubicondo da contadina, alta, forte ed imponente, mi seguiva:
ne potevo sentire i passi pesanti ed un pò sgraziati, ma poderosi e decisi.
Franca aveva la stessa età di Renata, era sua amica da anni
e condivideva con lei gran parte delle sue idee. Entrambe di sinistra, sindacaliste attive,
iscritte a lega ambiente, animaliste. Le idee, però, assumevano toni e colori diversi,
nelle due donne. In Renata, infatti, le idee erano graffianti, rabbiose ed
esplosive, legate saldamente alle azioni ed al mondo. La donna, non riusciva a
concepire che i semplici e lampanti principi che le albergavano in cuore, venissero
applicati alla realtà solo raramente.
Le idee di Franca, invece, assumevano una sfumatura meno concreta e non sempre erano legate
alla volontà di cambiare realmente le cose. Le storture del mondo, rispetto a quei canoni,
le provocavano sentimenti di tristezza, forse anche di pietà, ma non quella determinazione
un po' rabbiosa di Renata, motore di azioni grandi e piccole per il cambiamento.
La condanna di Franca verso l'indifferenza della gente, l'urbanizzazione selvaggia, il consumismo
distruttivo, cieco e vorace, si risolveva spesso in lunghi sproloqui accorati che raramente
si tramutavano in azioni concrete. I discorsi accorati di Franca servivano,
però, ad aizzare Renata, che passava ai fatti, rimettendoci spesso di persona.

Alle nostre spalle si allontanava l'edificio a specchi dei nostri uffici, che si stagliava,
solitario, tra il verde dei prati.
L'edificio si trovava, infatti, alla periferia della città ed era raggiungibile solo attraverso
la superstrada. La zona in cui ci trovavamo, che una volta doveva essere completamente agricola, ora,
invece,offriva un paesaggio fatto di bei prati fioriti intervallati da qualche
rudere di vecchi casolari contadini e da solitari edifici di vetro e cemento adibiti ad ufficio.
In lontananza, i campi verdi venivano sfregiati dai solchi delle ruspe di una
urbanizzazione incipiente, che presto avrebbero cancellato del tutto gli ultimi cenni
dell'antica amenità agreste di quei luoghi.

Percorrevamo, sotto un cielo terso ed illuminato dal sole, un sentiero sterrato, dolcemente
lambito da un praticello verde brillante, rallegrato dalla fioritura di qualche sparuta
margherita preprimaverile.
Il sentiero, che forse anticamente portava ad un vecchio casolare, ora finiva in un degradato
parcheggio aziendale, pietosamente nascosto allo sguardo da una lieve pendenza.
Il parcheggio era caduto in disuso perché spesso soggetto alla razzia di alcune bande di
zingari che si erano insediati, da qualche tempo, nella zona. I dipendenti, intimoriti
dai continui furti di autoradio, avevano finito per parcheggiare sotto gli uffici, in modo
da poter tenere d'occhio la propria auto e da percorrere un tragitto breve la sera, alla fine
dell'orario di lavoro.

Il parcheggio, non più grande di 200 mq, di pianta irregolare, era intervallato da isole
di terriccio ove, originariamente, dovevano essere piantate delle aiuole. Nelle
isole verdi ora crescevano, invece, delle sterpaglie cespugliose, piene di ogni sorta di immondizia,
lattine, cartacce, bottiglie di plastica e perfino qualche preservativo.

Appena entrammo nell'area di parcheggio, notammo dei movimenti furtivi in un'automobile
parcheggiata in lontananza, la quale si allontanò in tutta fretta, accelerando rumorosamente
a marce basse e sgommando. A quel punto nel parcheggio c'eravamo solo noi quattro.... Solo noi
quattro?

Nel perfetto silenzio che si era creato, dopo la partenza rumorosa della macchina, sentimmo
un movimento dietro un rovo. Qualcuno o qualcosa stava rovistando tra i rifiuti.
Io, Franca e Gianpiero ci fermammo ad ascoltare, mentre Renata andava avanti nella direzione
del fruscio.

"WOF, WOF!"....Era un cane!

Il cane, un bastardino di taglia media di colore beige, abbaiava minacciosamente
verso di noi, che eravamo a 30 metri di distanza.

Renata continuava ad avanzare fino ad arrivare a qualche metro dal cane.

Noi tre, in retroguardia, la osservavamo intimoriti ed in silenzio, per evitare che il
cane si inferocisse ancora di più.

Renata si piegò sulle ginocchia e tese il dorso della mano verso il cane, fissandogli negli
occhi il suo sguardo deciso e benevolo.

I latrati del cane divennero sempre più deboli e striduli. Poi abbassò le orecchie e
si mise a scodinzolare, avvicinandosi alla mano amica di Renata.
Dopo averla brevemente annusata, il cane piegò il capo e lo pose sotto la forte e confortante
mano, in cerca di protezione.

Amicizia era fatta.

Lentamente ci avvicinammo tutti e tre, dalla retroguardia

"Dio mio, abbaiava per paura....guarda...è un cucciolo! Non avrà più di cinque o sei mesi.
E' magrissimo!"
diceva Franca rivolta a Gianpiero, sgranando i suoi grandi occhi marroni, nei quali la paura
di qualche istante prima si era rapidamente trasformata in compassione.

"Si è vero, gli si vedono le costole, deve essere affamato...Quanto tempo può stare un cane
senza mangiare? Una settimana? Forse è stato abbandonato da poco...." Osservava Gianpiero

"Non vedete che strano muso? Ha il muso deformato, tutto piegato da una parte. Questo cane
deve essere stato investito sulla superstrada: ecco si vide chiaramente la botta..." diceva
Renata, sempre accarezzandolo.

"Ohh povero cucciolo, andiamogli a prendere qualcosa da mangiare!" Diceva Franca,
che cominciò a sua volta, ad accarezzare il cane.

Renata tirò fuori le chiavi della sua auto dalla tasca dei jeans, le pose a Gianpiero e gli disse

"Vai a prendermi la scatoletta di Ara, dentro il bagagliaio". Ara era il cane di Renata, un
altro trovatello, unico ricordo della precedente storia d'amore. Anche Franca aveva preso in adozione
un cane dal canile municipale, da qualche tempo, prendendo esempio dalla sua amica.

Gianpiero un po' contrariato, mi chiese di accompagnarlo.

"Non credo che Renata ce la possa fare...già adesso con Ara, si deve alzare prestissimo la mattina
per accompagnare il cane nella sua passeggiatina, poi deve pianificare i suoi orari di ufficio,
sempre in funzione del cane...a volte se lo porta e lo lascia in macchina, facendolo uscire di
tanto in tanto....per non parlare delle vacanze!"

"Gianpiero, non capisco...ma se lei se la sente.....Sai questi sono gli esatti motivi che hanno
fatto scaricare quel cane sulla superstrada. Ma te lo immagini? Un cucciolo....le macchine a tutta
velocità, lui magari si è lanciato all'inseguimento dell'automobile del padrone ed è stato investito.
Chissà come è sopravvissuto, col setto nasale rotto e chissà quale altro trauma...chissà come ha fatto
a mangiare......e poi, Gianpiero, non capisco, a te, cosa importa?"

" No...Non ce la può fare, io lo so...Quella si raccatterebbe tutti i randagi che trova per strada,
se qualcuno non la fermasse...E poi, gli esseri umani non le fanno pena! Di quelli lei ha scarsa cura...
Quelli le fanno senso, quelli li condanna..."

"Gianpiero, forse vorresti essere TU al posto di quel cane a prendere carezze...?"

Questa ultima domanda, freddò definitivamente la conversazione, Gianpiero prese a camminare molto
velocemente, davanti a me, per evitare altre imbarazzanti domande.

Tornammo da Renata e da Franca, un po' accaldati sotto il sole primaverile nelle ore centrali della
giornata.

Le due donne erano intente a giocare col cane...

" Renata, non è dolcissimo?....Guarda....Guarda che occhi teneri e guarda come è magro...Non ti
fa tenerezza?"

Renata, che aveva il volto un po' teso e serio, non rispondeva....

La donna, si avvicinò a noi, prese la scatoletta dalle mani di Gianpiero, con un fare un po' brusco,
la aprì e la rovesciò in terra, per evitare che il cane si ferisse con le lamiere.

All'inizio la povera bestiola non capiva, ci guardava...
Franca si avvicinò al cibo, indicandolo con le mani:
"Guarda, è per te!"

Il cane si avvicinò e con quattro bocconi finì i 250 grammi di carne in scatola. La carne
era completamente finita, ma l'affamato animale continuava a leccare il terreno.

Gianpiero stava eretto, rigido e fissava Renata.

La donna, anche lei in piedi, sembrava attratta dal cane, ma nello stesso tempo evitava il contatto,
forse per mantenere una imparzialità nella decisione che stava prendendo.

Franca, accarezzava il cucciolo dicendo..."Piccino, forse hai trovato una casa..."

La pausa pranzo era finita, dovevamo tornare tutti in ufficio.

Franca si staccò con riluttanza dal cane fissando i suoi occhioni marroni delusi su Renata, la quale
già si era incamminata sulla strada sterrata insieme a Gianiero.

Anche io cominciai a camminare e Franca ci seguiva svogliatamente.

Il cane sembrava aver capito che ce ne stavamo andando e che lui non sarebbe potuto venire con noi.
Ci guardava, seduto, con le orecchie tese e lo sguardo attento, come se stesse aspettando qualcosa,
un cenno.

Renata camminava dritta davanti a me, a qualche metro di distanza mentre Gianpiero le are al fianco,
quando ad un certo punto disse, con voce ferma e severa, senza voltarsi:
"Dai muso da virgola, Dai Virgola! Che aspetti? Forza! Andiamo!"

Il cane, si alzò di scatto, trotterellando sorpassò me e Franca, che sorrideva soddisfatta, e prese
a camminare in mezzo a Gianpiero ed a Renata.

Gianpiero, senza guardarlo, diede a Virgola un buffetto affettuoso tra le orecchie ritte.

 

IL TRENO

Finalmente Vacanza!
Avrei accettato scioperi, ritardo del treno, caldo soffocante, tutto di buon animo, felice...
con la calma indolente di chi ha tanti giorni di libertà davanti a se.

Mi trovavo alla stazione di Poggio Mirteto, in provincia di Roma, era Ferragosto,
faceva un caldo atroce ed era il mio primo giorno di ferie.
La stazione, completamente deserta a parte me, si trovava infossata tra le boscose colline
della Sabina ed era assediata da un caldo soffocante ed appiccicaticcio nonché dalle zanzare.

Le 9.00 del mattino. A quest'ora il giorno precedente...mi trovavo...
davanti a quel maledetto PC, ero appena entrato in ufficio, col sole fuori delle finestre
e l'unica consolazione delle prossime ferie.
Questo pensiero mi provocava una subdola felicità, anche se nello stesso tempo,
mi proiettava nel futuro, al rientro: la malefica tastiera bianco-ospedale stava lì ad aspettarmi, sulla scrivania bianco sporco, nella stanzetta di un colore crema affumicato,
nel freddo artificiale dell'aria condizionata.
Ma ora ero alla fermata del treno, aspettando il mezzo che mi avrebbe portato al sud,
verso il blu del limpido mare, verso l'azzurro del cielo assolato, verso le spiagge dorate,
temperate dalla profumata brezza marina.

Il treno ritardava, le 10.00....le 11.00....
Fissavo le rotaie, seguendole fino dietro la curva che girava intorno al verde fianco
della collina, con la speranza di vedere l'agognato treno.
A mezzogiorno, finalmente sentii il suono più dolce del mondo...'TUUUU TUUUU'...
e vidi comparire il miraggio, che brillava sulle rotaie.
L'aria che saliva dal terreno, reso caldo dal sole di Agosto, sfocava l'immagine del treno,
facendola apparire quasi diafana.
Man mano che il treno si avvicinava, notai che era nuovissimo, di un lucido argento
e molto lungo, tanto che non potevo vederne la fine perché qualche vagone spariva dietro la curva.
Devo dire che quell'immagine mi inquietò un poco, non avevo mai visto un treno tanto bello, tanto lucido, così silenzioso nel muoversi...ed ero completamente solo in stazione.
Ad aumentare la mia preoccupazione ci fu l'annuncio della voce al megafono, una voce di donna calma, dolce, chiarissima come se provenisse da una persona a pochi passi da me:
"è in arrivo il diretto 2188 da NORD diretto a SUD".
Un treno da NORD diretto a SUD? Ma che stava annunciando quella voce così seducente?
Ero tentato di non prendere quel treno, ma era proprio il treno 2188 che aspettavo,
faceva un caldo impressionante ed il prossimo treno per Catanzaro ci sarebbe stato solo
l'indomani mattina.
Mi dissi allora:
"Ma dai!!! Lo sai...a ferragosto il personale scarseggia, forse hanno messo una ragazza poco esperta agli annunci..."
Eh si, mi stavo facendo condizionare dalla stazione deserta e dai giochi
di rifrazione della luce creati dal caldo.
Salii sul treno.

All'interno il treno era ancora più bello che fuori. L'ambiente doveva essere climatizzato,
perché c'era una temperatura confortevole di circa 25 gradi, anche se l'aria era gradevolmente profumata e non aveva il sapore metallico che di solito assume quando esce dai condizionatori.
Il vagone nel quale entrai, completamente deserto, era situato all'incirca al centro del treno, non aveva scompartimenti, ed era dotato di otto sedili, quattro da un lato del vagone e quattro dell'altro, ben distanziati gli uni dagli altri, di colore azzurro.
Accanto a ciascuno di essi erano posizionate da un lato delle felci rigogliose e
dall'altro i grandi finestrini del vagone, talmente puliti che il vetro sembrava quasi
non ci fosse. Le felci, così posizionate, formavano una navata centrale all'interno del vagone la cui pavimentazione era coperta da una soffice moquette verde, talmente bella da sembrare un praticello.
L'ambiente mi sembrava troppo strano, troppo confortevole per essere un treno di linea.
Di nuovo, ebbi l'impulso di scendere ma quando mi voltai e raggiunsi l'ingresso,
vidi le porte del treno chiudersi davanti a me.
Ero partito.

Mi sistemai sull'ultimo sedile della fila di sinistra,
sia perché mi è sempre piaciuto avere le pareti alle spalle ma anche perché
da quella posizione avevo davanti a me una visuale più ampia, attraverso la sequenza di
tutti i finestrini.
Ero un po' inquieto, vedendo il paesaggio che scorreva dinnanzi a me velocemente,
così vivo, attraverso di essi. L'inquietudine presto si trasformò in spavento quando passai
dinnanzi alla prima stazione ove il treno avrebbe dovuto sostare: il treno non si fermò.
Mi alzai di scatto dalla poltrona e colpii ripetutamente col pugno i finestrini gridando aiuto.
I pochi astanti alla stazione sembravano non vedermi, anche quelli che guardavano nella mia direzione.
Cominciai a correre verso la motrice del treno, vagone dopo vagone. Tutti i vagoni erano identici e totalmente vuoti. Nessuno! Corsi fino a non poterne più ma non riuscii a raggiungere la motrice.
Disperato e pieno di terrore, ma sfinito, mi sedetti dove mi trovavo
ed incredibilmente ritrovai lo zaino accanto a me.
Guardai fuori dal finestrino, ancora un po' accaldato, la ferrovia in quel punto stava
per inoltrarsi in un centro abitato. Man mano che mi avvicinavo alle abitazioni, le immagini del paesaggio si facevano sempre più chiare e stranamente…dilazionate nel tempo, come se non vedessi solo quel momento, ma degli attimi prima sparpagliati nella storia precedente a quell'istante. Cercherò di spiegarmi meglio.
Quando si viaggia capita di vedere delle scene sul proprio percorso.
Ad esempio un contadino che ara il suo campo, una famiglia che pranza intorno ad un tavolo, la donna delle pulizie che fa il letto in una stanza di albergo...
Di solito si viene affascinati dalla scena, forse perché, durante il viaggio, la nostra vita è 'sospesa' mentre quella dei protagonisti della scena prosegue oppure perché la nostra mente ci catapulta in un fotogramma di una storia, di una vita che sta seguendo il suo corso.
Quando la scena si allontana, si prova, poi, una specie malinconica nostalgia,
per quelle storie, di cui abbiamo visto solo un fotogramma, che sfuggono dallo sguardo perdendosi lentamente nella dimenticanza.

Ed anche in questo caso le storie vennero alla mia mente ma in un modo talmente concreto e vivo da sembrare spezzoni di vita, nati dal fotogramma che vedevo
attraverso i finestrini del treno.

ROSANNA

Quando passai davanti al primo edificio, quel giorno, vidi una ragazza che dipingeva una stanza.
Era una ragazza giovane, avrà avuto 20 anni, con i capelli castani spruzzati d'oro, molto esile, dalla carnagione bianchissima.
"Uhm vediamo", mi dissi, cominciando a fare ipotesi sulla sua vita "la ragazza è andata a vivere da sola, da poco...ha preso un piccolo appartamento in affitto, molto mal ridotto, è per questo che lo sta ridipingendo."
"Probabilmente è una ragazza del sud, siciliana, con del sangue normanno nelle vene.
Come moltissimi ragazzi meridionali, prima o poi avrebbe dovuto lasciare la sua terra natia per lavorare, ma lei lo ha fatto anche prima del necessario."
"Si chiama....Rosanna."

In quel momento, non mi avvidi che non avevo supposto il nome, ma lo avevo pensato. Continuai a seguire il flusso dei miei pensieri…..

"Rosanna è abituata a lavorare, si vede dall'abilità con cui passa il pennello
con le mani sottili. Fin da piccola ha dovuto darsi da fare perché, nella sua numerosa famiglia di contadini meridionali, non poteva certo essere mantenuta…. "

La scena, invece di sparire in un attimo, mi continuava a stare davanti, si trasformava, senza che io me ne avvedessi.

" La ragazza passa e ripassa il pennello, scende dalla scaletta, rimirava il suo lavoro, e ritocca meticolosamente, dove vede qualche imperfezione nella tinta, dipingendo con una precisione quasi maniacale, come se ci fosse un occhio vigile a guardarla."

Questi dettagli, facevano nascere in me ancora supposizioni/affermazioni…..

"L'occhio che la spia è nella sua mente ed e si trova nell'immagine del volto di suo padre, severo e intransigente, attento ad ogni imperfezione."

Dal finestrino del treno riuscivo a vedere chiaramente gli enormi occhi azzurri di Rosanna, coronati da ciglia lunghissime, occhi da sognatrice. Vidi la forma del viso di Rosanna regredire, fino a che mi accorsi che gli stessi occhi azzurri erano su un volto di bambina.

Ancora vedo quegli occhi, imbambolati davanti a dei bellissimi non ti scordar di me, fioriti sul prato dietro casa. Chissà quale mondo quegli occhi sognavano tra le radici delle piante, tra il fogliame umido degli alberi, un mondo, animato da spiritelli del bosco, da elfi e folletti.

Poi non vidi più il volto di Rosanna, e capii che i miei occhi erano i suoi.

Vedevo una figura d'uomo, una nera sagoma controluce, stagliata nel cielo chiaro di mezzogiorno, non riuscivo a distinguere il volto e questo aumentava il terrore. L'uomo aveva una mano alzata, pronta a colpire.

"Quest'uomo è suo padre", pensai "che si rode il fegato per una figlia che non solo è donna, ma che è un'imbecille, una cretina imbambolata davanti ad un fiore di campo. Ma del resto che ti vuoi aspettare da una donna, sentimentalismi ed assurde fantasie…" "Quella figlia, che peso!" pensava il padre "Non è forte come i fratelli, nel lavoro nei campi ed è stupida, che ne farò?"

Stizza e fastidio pesavano sulla ruvida mano che colpiva il volto di Rosanna. Ma altri personaggi, a questo punto, entrarono nella storia.

Seppi che Rosanna aveva fratelli e più precisamente tre fratelli maschi più grandi.

Già da bambini, i tre mostravano un'indolenza arrogante, imparando fin dalla nascita che era l'uomo a comandare e che la donna doveva stare al suo posto. Era Rosanna che doveva fare i servizi domestici, era lei che doveva servirli a tavola e toglier loro il piatto quando avevano finito, era sempre lei che doveva rifare i letti per tutti.

A forza di essere serviti dalla sorella, i tre maschietti avevano imparato a considerare
Rosanna, come una cosa loro che potevano usare a piacimento. Rosanna era la stupidina di casa e quindi non si sarebbe mai lamentata e anche se lo avesse fatto, nessuno le avrebbe mai dato credito. In effetti Rosanna era stata educata a servire
i maschi della famiglia e lo faceva perché considerava un dovere far star bene gli onorati fratelli. Del resto, neanche lei non aveva una grande considerazione di sé, non solo in quanto femmina, ma anche considerando quasi una menomazione, la sua vivace fantasia.

Rosanna, il padre, i fratelli, popolarono la mia mente di episodi:

"La vedo, piccolissima, parlare con una sua compagna di scuola, la quale tutta orgogliosa le mostra le bambole di carta pesta fatte insieme al padre. Rosanna non può fare a meno di immaginare la scena della sua compagna seduta accanto al padre, concentrata sulla sua bambola mentre il papà la riempie di complimenti per il lavoro fatto. Questa immagine si mescola con i scontrosi mutismi del padre, che ignora completamente anche come lei va a scuola.
La bimba non ha ricevuto mai una carezza, mai un bacio, mai un complimento. Di fatto per suo padre lei non è mai esistita…"

"Vedo….una piccola Rosanna china sui libri a studiare, per dimostrare, in qualche modo, di non essere stupida non solo a se stessa ma soprattutto a suo padre… E mentre studia, scaccia ostinatamente le fantasie ed i sogni che non abbandonano i suoi pensieri. Il padre, però, continua ad ignorare i successi scolastici della ragazza, i quali, del resto, non possono competere con le trovate furbe dei suoi fratelli, col loro senso pratico, con la loro spericolatezza."

"Ora…Rosanna è cresciuta, ha dieci anni ed è già un bocciolo con un accenno delle prime curve acerbe. Le sue curve suscitano l'attenzione di molti maschi nel paese, ragazzi e uomini. A Rosanna non pare vero, finalmente, di godere dell'attenzione di qualcuno, specialmente quella dei fratelli maggiori che, da qualche tempo, se la portano dietro nelle loro misteriose scorribande.
La vedo circondata da un gruppo di ragazzi adolescenti, tra cui i suoi stessi fratelli, che la prendono in giro. Le dicono che non è coraggiosa, perché lei si rifiuta di fare una cosa per loro.
La giovane Rosanna vuole disperatamente conquistarsi l'appellativo di coraggiosa, come primo passo per essere accettata e finalmente apprezzata, ma la cosa che le chiedono la fa avvampare di vergogna. E' la vergogna che sento mentre vedo la bimba sfilarsi le mutandine da sotto la gonna…."

A dieci anni Rosanna non si rendeva certo conto di ciò che le stava accadendo, del gioco a cui si stava prestando, per il momento pensava solo di essere apprezzata per il suo coraggio, nonostante la vergogna. Eppure, mentre si sdraiava a gambe divaricate sul prato, una strana sensazione le chiudeva lo stomaco e le dava la nausea.

Le scene di una Rosanna, di qualche anno dopo, china sui testi di elettronica e matematica delle superiori, si accompagnavano alla percezione del suo desidero di fuga ed del senso di colpa, per il gioco sporco a cui si era prestata.

E questo senso di colpevolezza l'ha accompagnata per tutta la vita, anche adesso, mentre dipinge le pareti della sua casa…..

"Colpevole, colpevole e stupida, avevano ragione i miei fratelli e mio padre, stupida si! "
Pensava Rosanna, colpevole di essersi lasciata usare, di essersi sottomessa…"Ma Dove ero mentre giocavano con me?" pensava "in uno dei miei sogni idioti? Ma ora me ne sono andata e sono libera dalla schiavitù, mi sono diplomata, ho un lavoro, ho una casa e non sogno più!"

Fu più o meno a questo punto che mi resi conto avevo visto una scena dettagliatissima, che avevo notato più dettagli di quanti non fosse possibile da una normale osservazione da un finestrino di un treno , che non stavo solo facendo supposizioni sulla dolce ragazza bionda, ma che 'sapevo' molte cose su di lei.
Che mi stava succedendo? Stavo forse impazzendo?
Quelle sensazioni che avevo di solito durante i viaggi, sulle persone e sui luoghi,
si stavano acuendo e rafforzando. Le sensazioni stavano diventando vere e proprie percezioni.
E su Rosanna continuavo a percepire.....

"Rosanna non aveva mai avuto una vita sentimentale. Non furono solo i piccoli sporchi spettacoli di cui la rendevano protagonista i fratelli, ad indurirle il cuore. Essi furono solo il culmine di tanti soprusi e violenze che Rosanna aveva subito, anche senza rendersene proprio conto. E così, sulla terra fertile dell'odio, misero radici profonde la tenacia, la grinta, lo spirito d'indipendenza ma anche la durezza e l'aggressività. Rosanna aveva imparato, a suon di urla e scapaccioni ben coadiuvati dai bei giochi con i fratellini, che i sentimenti sono una debolezza, che l'amore è frivolo e rende vulnerabili.
Per questo motivo lei aveva sempre, con cura, respinto i tentativi di approccio dei coetanei. Ed ora si ergeva come una fortezza medievale, severa ed inespugnabile, indipendente."

Nuove scene, ancora, intervennero a completare il quadro:

"Ohh si eccola lì alle prese con il suo primo spasimante!
Lei all'epoca non era certo bella come adesso...
A quattordici anni aveva la faccia coperta di brufoli ed era ancora più magra di ora,
ma aveva quei magnifici occhi blu, che distribuivano sogni muti ai giovani maschietti intorno a lei.
Lo spasimante la fissava fin dal primo giorno di scuola, dall'ultimo banco.
Pur essendogli seduta davanti, lei si sentiva addosso i suoi occhi penetranti e vi leggeva la stessa voglia dei suoi fratelli e dei loro amici, la voglia di giocare sporco con lei.
Il ragazzino non era brutto, tutt'altro, e forse le piaceva anche un po'. Nonostante ciò,
non lasciava trapelare nulla del suo interesse, a malapena lo salutava. Questo faceva
impazzire lui e forse godere un po' lei, perché in quel momento lui era debole e lei, per contrasto, si sentiva forte, come mai prima in vita sua. Finalmente si stava vendicando dei suoi carnefici…
La sera a casa, però, la sua fantasia vagava e le disegnava dinnanzi il bel volto del giovane, provocandole una struggente malinconia. Immaginava la mano di lui
avvicinarsi tremante alla sua, la bocca di lui appassionata sulle sue labbra, le dolci carezze...
Le sue carezze, sì, in cerca del suo corpo…Ma il sogno si trasformava in un incubo perché le mani diventavano tante, nella sua fantasia, e erano quelle dei fratelli e dei loro amici."

"L'ultimo giorno di scuola del primo anno, il bel giovane finalmente prese coraggio
e le chiese di uscire con lui.
Rosanna sentì il 'sì' venirle su dallo stomaco, raggiungerle le labbra ed invece la sua voce aspra e beffarda diceva: 'Ahahahah povero fesso innamorato, io e te insieme, mi vien da ridere...'.
Contemporaneamente Rosanna vedeva lo sguardo fiero di suo padre su di se e pensava
'stasera racconterò tutto a mio padre ed ai miei fratelli ed essi mi ammireranno per la mia forza e mi temeranno, mi considereranno…finalmente'"

Invece quella sera Rosanna pianse, come pianse tante volte, durante gli anni di istituto
professionale, quando le sue compagne di classe uscivano con il loro ragazzetto, mentre
lei era chiusa in casa perché 'doveva farsi una posizione'. Così diceva convinta e sicura a suo padre ed a se stessa, costruendo per se e per gli altri l'immagine di una Rosanna forte, determinata e soprattutto asessuata. Infatti avere vicino un ragazzo, un uomo, avrebbe evidenziato il suo essere donna.

" Rosanna, Rosanna, si può essere sognatori e forti" mi e le dicevo, senza potermi far sentire " Esiste un modo far fiorire i sogni radicati nello scrigno pietrificato del tuo cuore?"

La squisita dolcezza e la fantasia chiusa nel riccio spinoso e nello stesso tempo la forza e la determinazione temprate dalle sofferenze, mi fecero innamorare…
Mi resi conto che mi stavo innamorando di lei, che volevo essere io la persona, l'uomo a cui lei avrebbe voluto raccontare i suoi sogni. Ci si può innamorare contemplando qualcuno dal finestrino di un treno? Di Un'immagine fuggevole, di una persona, fotografata in un istante di vita?...
A questo punto però mi balzò in testa un interrogativo ancor più angosciante per un cuore, ormai, irrimediabilmente innamorato: come avrei fatto a ritrovarla, se mai fossi riuscito a scendere da quello strano treno? In verità non sapevo dove mi trovavo a passare, non sapevo perché ero su quel treno, non sapevo, sì, ormai non sapevo più se ero vivo oppure morto.
Ma i morti possono amare?

FLAVIA

Le immagini di Rosanna si fecero sempre più confuse, mentre passavo davanti ad
un secondo edificio. Quando mi resi conto che stavo perdendo Rosanna, mi misi a correre
a ritroso nel treno, vagone dopo vagone, cercando di non perdere di vista la mia amata,
ma la sua immagine si affievoliva e si allontanava, fin quando non riuscii più a vederla.
Quando Rosanna scomparve dalla mia vista, prese il suo posto una donna sui quarant'anni, che stirava le camicie del marito. Lottai contro quella immagine con tutte le mie forze, cercando dentro di me quella di Rosanna, ma trovai solo i miei recenti ricordi. Lo sguardo triste della donna mi attraversò l'anima, occupando il mio campo visivo e la mia mente e tutta la sua malinconia mi pesò sul cuore. Non potevo ignorarla.

"Ancora una bella donna" pensai "con i capelli castani raccolti sulla nuca, leggermente
abbronzata e vestita sobriamente. Ha in dosso una gonna grigia lunga fino alle ginocchia, ed una camicia nera, sblusata. Molto fine. Probabilmente ha una cultura universitaria, ma
le sue belle mani sono piene di segni e cicatrici. E' una casalinga, abituata a sgobbare...
ai suoi piedi, a carponi, un bambino di circa 3 anni. Sulla mensola, alle sue spalle, la
fotografia di una ragazzina, di una quindicina di anni, su una bicicletta.
Flavia proviene da una famiglia ricca del Veneto. Ha avuto una giovinezza agiata, si era
potuta permettere di sognare, al contrario di Rosanna. Suo padre era un importante scrittore e filosofo, sua madre, di origine francese, bellissima, forse più di lei, era venerata dal marito e non aveva mai dovuto lavorare. La casa dei genitori di Flavia era piena di libri
e lei si era formata sulle letture romantiche di Foscolo e Ghoethe.
Eccola li, alta, diafana e bella, leggere avidamente, davanti al maestoso camino della sua casa, le lettere di Jacopo Ortis, i Dolori del Giovane Werter, le affinità elettive…
....E mentre leggeva sognava....
A volte immaginava di parlare con i suoi autori preferiti, con i quali sentiva di avere un
feeling diretto. Bella, sensibile e colta, tra se e se, a volte, si chiamava 'la fanciulla eletta'
perché la sua anima era piena di pensieri elevati, che ritrovava nei grandi maestri del passato ed il suo volto rifletteva la bellezza della sua anima.
Fin da piccola era stata vezzeggiata dal padre, perché lei aveva ereditato il volto di sua
madre, perché era sempre stata bella ed elegante e più tardi perché amava intrattenersi con lui a discutere di filosofia. La madre, che era bella ma anche poco colta, ammirava la figlia per i suoi interessi culturali e faceva di tutto per assecondarla nei suoi studi, in modo che lei non si dovesse sentire una vuota bambola di porcellana, ben vestita e pettinata.

L'adolescenza di Flavia, passò dolcemente, tra i vezzi e le lodi di mamma e papà.

A scuola Flavia studiava solo le materie letterarie, ed i suoi 4 in matematica erano un trionfo per la famiglia. La fama ed i soldi di suo padre, le insistenze di sua madre ai ricevimenti dei professori, l'influenza delle insegnanti di italiano, di latino e greco, di storia e filosofia nel collegio docenti, non le fecero mai perdere un anno e le consentirono di conseguire la maturità classica con un più che dignitoso 56/60.
A lei non interessava affatto un voto alto, purchè le fosse lasciato lo spazio di leggere e studiare quello che più le piaceva. In quegli anni, trascorsi al classico, Flavia
sognava giorno e notte di innamorarsi e di vivere un amore romantico, sublime, al di là di ogni convenzione, di ogni logica, assoluto, sorretto da un'attrazione inarrestabile ed inopponibile.
Al suo amore lei avrebbe donato tutto, senza chiedere nulla, gli avrebbe donato, ogni giorno, le cose più belle dell'universo. Avrebbero passeggiato insieme per i sentieri di campagna in primavera, beandosi della bellezza dei fiori e del dolce canto degli uccelli, avrebbero letto insieme versi durante le serate d'inverno davanti al camino.
Durante il liceo, Flavia si innamorò spesso, di ragazzi degli ultimi anni, che osservava con
sguardo sognante ed ammirato da lontano: alti, orgogliosi, con l'aspetto di uomini fatti, ed irraggiungibili, così, almeno, pensava lei...
I raggazzotti, invece, non solo erano perfettamente raggiungibili ma prendevano per un invito all'amore fisico, le sue attenzioni ed i suoi sguardi arditi."

A questo punto mi si presentò qualche scena sui primi amori di Flavia, e le immagini che avevo dinnanzi, mi sembravano piuttosto lontane dall'ideale di bellezza e perfezione che la ragazza si illudeva di emulare.

"…Flavia, al primo anno di liceo, è sul tetto della scuola, ispeziona possibili falle sulla copertura, ridipinge le pareti della sua classe, pulisce e disinfetta i banchi. Sono gli anni delle manifestazioni studentesche e delle autogestioni. Durante le autogestioni, si respira un'aria di libertà, di festa, le classi si mescolano tra loro e ci si incontra. In particolare le studentesse dei primi anni, hanno i primi contatti con i ragazzi del quarto e del quinto anno. La differenza tra una quattordicenne e dei diciannovenni è grande, questi ultimi sono, ormai, quasi degli uomini. Flavia è una splendida ed ingenua quattordicenne, che sgrana gli occhini davanti ad i semidei degli ultimi anni e non passa di certo inosservata. Le attenzioni da parte loro sono, per la ragazza, motivo di orgoglio e le suscitano, quasi un senso di gratitudine. D'altra parte 'i ragazzi grandi', così definiti da Flavia i ragazzi del quarto e del quinto anno, sono consapevoli di questo tipo di sentimenti e se ne approfittano. Si avvicinano con aria noncurante, magari dandole dei consigli sui lavori che la ragazza sta svolgendo, la sfiorano 'casualmente' e…dopo aver giocato con lei a palesare e nascondere il loro interesse, la invitano a fare un giro nella macchina, presa in prestito da papà, ed a fine serata, invece di leggerle una poesia, le infilano una mano nelle mutandine.
Lei, che non ha la forza di sottrarsi, un po' per gratitudine, un po' illudendosi che, dopo, tenerezza e poesia sarebbero arrivati, finisce per starci e la faccenda si conclude in una serata…."

Flavia, vittima inconsapevole delle sudditanze psicologiche verso i ragazzi più grandi, non si avvedeva del fatto che queste sue continue accondiscendenze, in realtà non erano altro che sottomissioni. Lei, invece, pensava che fossero solo tappe sulla strada che l'avrebbe portata a realizzare quel quadro di perfetto amore che aveva nella sua immaginazione. Lei, la ragazza eletta, non poteva non trovare quel complemento che avrebbe reso la sua vita 'un'opera d'arte', perfetta, come il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne.

Nel frattempo, però, la poetica fanciulla, si era fatta una cattiva fama e nessuno dei tanti
ragazzi del suo giro, l'avrebbe corteggiata, leggendole versi e donandole fiori.

Ebbi nella mia testa altre immagini di Flavia: Flavia in fila alla segreteria della facoltà di lettere per iscriversi all'università, Flavia che supera brillantemente gli esami, suscitando, qualche volta, stupore e spesso invidia.

Bella ed intelligente era il centro dell'ammirazione dei pochi ragazzi che frequentavano la facoltà, un gruppetto di sognatori e ribelli.
Fu lì che conobbe suo marito, la scena del loro incontro mi sembrò uno spezzone di un film di amore:
"Tra la marea di studenti uscenti dalla lezione di filosofia, Flavia spicca alta, sinuosa ed elegante. Ai piedi della scalinata dell'aula, c'è un ragazzo alto, magro, capelli neri e pelle chiara, occhiali con montatura a giorno sugli occhi profondi e pensierosi. Il ragazzo è ipnotizzato, non le toglie gli occhi da dosso, non solo per la bellezza di Flavia…Egli ha notato la studentessa fin dal primo giorno di lezione, ma oggi, ascoltando l'intervento su Kant della ragazza, ne ha ammirato anche l'intelligenza. Ammirandola da lontano, il ragazzo sta pensando che proprio Kant sarebbe stato il loro punto di incontro e così prende ad avvicinarsi ripetendosi in mente domande ed osservazioni intelligenti sulle categorie Kantiane.
Flavia, vedendo il ragazzo avvicinarsi con la luce dell'ammirazione negli occhi, pensa che, forse, finalmente, ha trovato il suo Apollo…"

Quell'incontro sui gradini della facoltà fu l'inizio di una grande storia di amore. Fu così che presero a mangiare insieme, seduti al sole sui gradini della facoltà, a studiare, insieme, nei giardini pubblici, sdraiati sull'erba, scambiandosi opinioni...
Il ragazzo fu invitato a casa di Flavia e ricevette l'immediato consenso del padre, per la sua intelligenza, per le sue idee, per la sua profondità, pur essendo senza un soldo e senza una posizione. Nel giro di un anno, i due, erano sposati, senza soldi, senza casa, senza lavoro, ancor prima di aver finito gli studi. Flavia rimase immediatamente incinta.

Andarono a vivere in un piccola mansarda buia, composta di un angolo cottura, un bagnetto ed una stanza che di giorno era un saloncino e di notte era camera da letto. Furono gli anni più felici per Flavia, malgrado avesse dovuto lasciare l'università perché era incinta e con scarse risorse finanziarie. A questo punto fui colpito da un'immagine di Flavia allo specchio di qualche mese dopo:

"Le belle mani delicate segnate dalle bruciature sui fornelli, le gambe snelle gonfie sotto il peso della gravidanza…il ventre gonfio. Flavia allo specchio vede tutte questi mutamenti, sente la pesantezza del suo corpo sulle gambe e sulla schiena ed inoltre una lieve nausea la accompagna continuamente . Il suo corpo, insomma, si sta allontanando dall'immagine che lei ha di se stessa."

Questa immagine durò solo un attimo perché, dopo il parto, Flavia lavorò sodo per ritrovare la forma fisica. A questo punto, la sua ispirazione non fu più la statua di Apollo e Dafne la cui icona fu sostituita, nella mente di Flavia, da immagini della madonna col bambino, anche se, in verità, aveva partorito una femmina.

E così la vita della donna proseguì fatata, anche se la vita, ogni tanto, le ricordava la realtà:

"Flavia si pettina, si trucca lievemente, suo marito sta per tornare dal piccolo giornale in cui lavora come redattore. La bambina, dai lunghi capelli biondi, le gioca fra le belle gambe, che hanno riacquistato la splendida forma originaria. Nel pettinarsi, però, Flavia nota qualche capello bianco, che nasconde abilmente alla vista. Abbassa lo sguardo sulla figlia e desidera i suoi boccoli d'oro.
Il campanello…Flavia apre la porta, è suo marito. Lui le sfiora lievemente la guancia con un bacio frettoloso, ma quando vede sua figlia, gli occhi gli si illuminano, la prende in braccio affascinato dai begli occhi innocenti. E' invidia che vedo negli occhi di Flavia? Lo splendido sorriso che ha sulle labbra, però, dissimula completamente il sentimento che le leggo nel suo cuore….Vieni balliamo, dice al marito, prendendolo tra le sue braccia ed accendendo lo stereo … "

" Finalmente la bambina dorme, Flavia e suo marito sono seduti sul divano con un manoscritto in mano. I due, infatti, la sera, quando tutto tace e la bambina dorme, scrivono trattati di filosofia insieme. Questi momenti sono preziosi per Flavia, forse perché esclusivamente suoi e di suo marito, la bambina non può entrarci…"

Ritornai precipitosamente a Flavia quarantenne. Queste Nella mia mente ed in quella della donna, sentii non solo la nostalgia verso quei momenti e ma anche l'antagonismo verso la figlia che, quando Flavia aveva quaranta anni era quindicenne e quindi poteva intrattenere delle lunghe conversazioni con li padre. Percepii non solo dei pensieri ma anche delle immagini:

"Vedo due persone sedute sul di vano con in mano un testo di storia della filosofia. Sono il marito e la figlia di Flavia, visti dagli occhi un po' invidiosi della donna. La figlia è bellissima, assomiglia a lei stessa alla sua età, ma non è castana…ha dei lunghi capelli biondi. Dai discorsi, Flavia si accorge che non sta guardando un padre che aiuta la figlia nei compiti, perché tra i due c'è in atto una discussione alla pari…Stanno parlando….si….Stanno parlando…di Kant!"

"Flavia è seduta nella sala d'attesa del medico della mutua ed osserva delle vecchie
signore sedute vicino a lei, cercando di memorizzare le facce, per ricordarsi l'ordine di ingresso dal medico. Entrano nella sala d'aspetto altre vecchie signore. Le sale d'aspetto dei medici della mutua ne sono piene. Nonostante si sforzi di ricordare, ad un certo punto perde l'ordine. Non sa più chi sta prima e chi dopo di lei. Quei volti le sembrano tutti uguali, no quei volti sono tutti uguali, tutti simili…perché? Nel suo cuore lo sa…..è la vecchiaia. La vecchiaia aspira l'individualità, annulla le forme e prepara all'annullamento della morte. Anche i neonati sono tutti uguali. Dal nulla, poi, lentamente conquistano la propria forma. Sua figlia, quindicenne, sta completando il processo di appropriazione della forma. Il tempo la scolpisce, definendone la fisionomia, peraltro splendida, il carattere, i pensieri avvicinandola a quell'ideale che una volta era suo. Per lei, invece, il tempo riserva una lima, che lentamente le cancellerà dapprima la bellezza, poi l'intelligenza. "

C'era un'immagine, però, nella mente di Flavia, che leniva la sofferenza di questi pensieri, il volto di un bambino. La donna, infatti, aveva avuto, anche un figlio maschio, disperatamente voluto proprio da lei, nel disperato tentativo di riportare su di se l'attenzione del marito. Fu, invece, il maschietto ad attirare tutte le attenzioni della madre su di se.
Ecco le ultime immagini di Flavia che ebbi:

"Flavia è intenta a preparare la pappa per il bambino, il padre è passato all'asilo a prenderlo, dopo il lavoro. La donna è ben vestita e pettinata, per abitudine ma non corre in bagno per truccarsi prima dell'arrivo del marito. Quando va ad aprire la porta, apre le braccia per il suo bambino, schivando il timido bacio del marito…."

" Flavia si guarda allo tristemente specchio, con lo stesso guardo che aveva nel di quella volta che si guardò allo specchio, incinta.
La sua bellezza sta lentamente svanendo, la pelle è sempre più rilassata sugli zigomi, il bel taglio degli occhi scompare sotto la pesantezza delle palpebre, i capelli stanno perdendo la loro lucentezza. Stavolta, però, non c'è speranza di recupero.
La fanciulla eletta non esiste più o forse non è mai esistita.
Di sicuro Flavia non la vede più riflessa negli occhi di suo marito quando la guarda. La vede, invece, riflessa negli stessi occhi quando essi si posano sulla figlia…"

Il cerchio si chiude.
Flavia bella ed intelligente, un'immagine di perfezione, vedeva entrare nella sua vita immacolata, la corruzione del tempo e degli anni. Le immagini che Flavia aveva di se, erano scolpite, ferme ed immobili, nel suo mondo delle idee. Ma il tempo scorre e la perfezione delle idee non esiste. Nel fluire del tempo le cose, le persone, i sentimenti ed anche l'amore, nascono, maturano, muoiono. E così non si può pensare di rimanere attaccati ad una idea di se stessi e di rincorrere sempre quella, per tutta la vita. In gioventù Flavia aveva cercato di avvicinare se stessa ad una certa idea che aveva di se, per sentirsi realizzata. In realtà, forse, non l'aveva mai raggiunta, ma ci si era comunque avvicinata ed aveva la speranza di avvicinarcisi ancora. La parabola del tempo, però, spietatamente ed inesorabilmente aveva spinto la realtà sempre più lontano dalle immagini che Flavia aveva di se.


IOLE

Il treno continuava ad andare ed io non facevo in tempo ad affezionarmi ad una persona che ne vedevo un'altra dal finestrino. Ad un tratto ebbi dentro di me un cuore giovane e sentii una voce cantare una vecchia melodia: 'Il valser dell'organino, il valser del buon umor...ciao lilly ciao lilly ci rivedrem, ciao lilly, ciao lilly tesor....' Eppure, nonostante la melodia fosse allegra, provai un'indicibile malinconia nell'ascoltare quella voce e nel percepire quel giovane cuore. Pian piano arrivarono le immagini. Vidi una vecchia signora, di una settantina di anni, che, nonostante i rigori dell'inverno, indossava un paio di
zoccoli ed una gonna leggera dalla quale spuntavano due robuste gambe abbronzate.
La vecchia aveva una bella faccia rubiconda, che ancora recava le tracce di una antica bellezza, ed una folta chioma corvina, dei capelli forti rigogliosamente abboccolati. La donna stava raccogliendo delle cipolle dall'orticello vicino casa ed ogni tanto staccava una foglia di cipolla, la metteva su un pezzo di pane, addentandolo con gusto.
"Questa è una donna forte" pensai "che nella sua vita deve averne viste di cotte e di crude, abituata alla sofferenza. Si chiama Iole."

E…così lasciai la mente sgombra, per far entrare quelle immagini, ricercando tra di esse quel cuore giovane che, galoppandomi in petto, aveva fatto a pezzi la tristezza di Flavia.

Eccola bambina, avrà avuto cinque anni, all'inizio della seconda guerra mondiale. La fame, la sento nel mio stomaco, le attanaglia le viscere in una dolorosa morsa, la spinge a buttarsi a terra gridando e chiedendo disperatamente del cibo.
La stessa fame la spinge ad annusare i panini dei compagni di classe, figli di contadini,
panini ripieni col lardo, di cui lei non aveva mai assaggiato il sapore.
Ed eccola ancora con i piedi immersi nello sterco di vacca... che i fascisti quest'anno non
le hanno passato le scarpe perché il papà vota socialista,
…… ed ancora la vedo che urla disperata piccolissima e magra davanti al camion dei cadaveri per la bomba che i tedeschi hanno sganciato, a qualche centinaio di metri da casa sua, ed il terrore mentre corre alla grotta, sotto i bombardamenti. Ma non sono le sofferenze fisiche e la paura, i ricordi più neri di quel cuore.
Il dopogurerra, tempo di ricostruzioni. L'orticello vicino casa, che aveva sfamato la sua
famiglia negli anni durissimi della guerra, sta per essere soppiantato da un palazzo.
Sua madre è in ginocchio e si strappa i capelli mentre le ruspe spazzano via l'orticello.
Il cimitero! Gridava...Il cimitero! Nooo!!! Nooo!!! I miei tulipani!!!
Iole non si spiega, in quel momento, la disperazione della madre, ma il suo animo allegro è velato da un'inconsapevole timore. Un sospetto."

Iole, un altra storia...complessa, ricca, ero consapevole di vedere solo alcuni spezzoni di una vita lunga e difficile. Nella mente di Iole non vedevo sogni, neanche in gioventù. Troppo dura era la sua vita, in essa c'era posto solo per pensieri semplici, concreti. Non solo ricordi neri però c'erano nella vita di Iole.

"….Vedo una bambina che attraversa il bosco in bicicletta, un bosco immenso, incontaminato. Quando ha sete la bimba si disseta al torrente, l'acqua è fredda, limpida e sa leggermente di terra.
…...Vedo una ragazza sui quindici anni, robusta e florida, dal volto con profilo greco e dai boccoli neri lunghissimi raccolti da un fiocco rosso, ammirata da tutto il vicinato specialmente da un misterioso cavaliere di cui riceve le lettere appassionate e poetiche.
….La vedo ballare tra le braccia del bel fratello, sotto gli occhi ammirati di donne e di uomini.
…...E poi Iole canta, ama la musica e conosce a memoria tutti i testi delle canzoni, anche se sa leggere poco e far di conto ancora meno."

Quanti eventi in una vita sola, alcuni mi passavano davanti ed io non facevo in tempo
a percepirne il contenuto, altri si svolgevano davanti ai miei occhi...

"Iole ha 23 anni, è sola con una figlia. E' seduta su una vecchia sedia davanti a sua zia, è vestita con un taullier bianco, i capelli raccolti in una cipolla, il bel viso statuario sempre sorridente, ed una bambinetta bionda che le gioca tra le gambe robuste, ben piantate a terra. Sua zia le sta raccomandando qualcosa...'Mi raccomando Iole, lo sai che una donna nelle tue condizioni può ritenersi fortunata ad incontrare un uomo come lui'….

Io so che Iole, ora, a 23 anni, è una giovanissima divorziata, con una figlia. Ha dovuto sposarsi giovane, appena diciassettenne, con un italiano immigrato all'estero, molto più grande di lei. Fu la madre che decise del suo matrimonio, dicendole che sarebbe andata a fare la signora.
Fu così che Iole emigrò, ma in terra straniera trovò un uomo orribile ed adultero, che già aveva due figli con un'altra donna e che la disprezzava.
Alla scena di Iole 23enne si sovrappone la scena di Iole seduta su una panchina di un parco mentre piangeva, diciottenne ed incinta. Piangeva perché suo marito non amava ne lei, ne la figlia che portava in grembo, piangeva perché erano settimane che non si lavava perché la suocera, con cui viveva, le chiudeva l'acqua del bagno, piangeva perché era sola, senza amici ne parenti e con l'ostacolo della lingua da dover affrontare, ogni giorno.

E così la bella e sfortunata Iole, a venti anni, tornò a casa, in Italia, affrontando, da sola, il lungo viaggio di ritorno…
A casa, in Italia, andò a vivere con il fratello e la cognata, sentendosi un'intrusa e cucendo giorno e notte per mantenere se stessa e la figlia.

Di nuovo Iole 23enne è davanti ai miei occhi, un fiore sbocciato, prospera, nonostante la povertà e con la bocca incline al sorriso, pur avendo già accumulato più sofferenza di quelle che di solito si accumulano in una sola vita. Iole non sogna. Ha bisogno di sostentare se stessa e la figlia piccola che le gioca, in questo momento, tra le gambe…e per quello che riguarda l'amore, in oltre, quale speranza poteva avere una 'svergognata' che aveva abbandonato il tetto coniugale?

Di corteggiatori Iole ne aveva avuti molti, da quando era rientrata in Italia, ma quasi tutti non volevano altro che approfittarsi di lei.
L'uomo che sua zia le sta raccomandando, innamorato del suo sorriso, sembrava serio, invece.
Gran lavoratore, aveva conosciuto la sofferenza perché aveva perso la moglie dopo pochi anni di matrimonio. Era conosciuto, stimato e nello stesso tempo temuto da tutti nella zona, per il suo carattere intransigente ed autoritario.
E poi....in fondo, le piaceva, anche se non era bello e colto come il cavaliere che le scriveva poesie, perché era un uomo forte e lei aveva bisogno di protezione..."

"…Ora vedo Iole sui quaranta anni e non vedo più una bambina bionda ai suoi piedi ma una bambina bruna. I primi segni del tempo si vedono sul bel volto florido ed un velo di tristezza che la donna tenta di cancellare cantando a voce alta una canzone di tanti anni fa. Le note allegre le invadono lentamente i pensieri, cancellando la tristezza e le rughe…
Le rughe di dolore a Iole erano venute non solo per la vita che aveva condotto prima del divorzio, ma anche per gli eventi che seguirono.
Si era risposata, ed aveva avuto una seconda figlia ma nessuno della famiglia del marito l'aveva mai accettata in quanto divorziata, e Iole aveva sempre interpretato i comportamenti burberi di lui come una conseguenza dell'influenza negativa della sua famiglia.
Iole tira avanti, stavolta non avrebbe divorziato, anche perché, in fondo, ama il suo burbero marito.
Si, sofferenze grandi e piccole costellano l'universo di Iole ma ancora non c'era quell'ombra nera che intravedo in Iole sessantenne, mentre mangia pane e cipolle nel suo orto. "

"…Iole 55enne piange al funerale di sua madre, e piange non solo per la perdita ma anche perché sua sorella maggiore le racconta una storia che le sembra un incubo…

…Una tinozza di rame piena di acqua calda, i ferri per la calzetta su un vecchio
comodino di legno scheggiato. La madre di Iole entra nella tinozza ed ordina alla figlia maggiore ,circa dodicenne, di gettarle addosso dell'acqua bollente, sulla pancia gonfia.

La sorella di Iole piange ed urla alla madre di non volerlo fare, ma lo fa….."

Non posso descrivere nei dettagli tutto ciò che Iole sentì dalle labbra della sorella maggiore di Iole, è troppo orribile, è una realtà che rifiuto di accettare per vera.

Dirò solo che sotto le aiuole di tulipani del vecchio orto, davanti alle quali la mamma di Iole piangeva disperata, mentre le ruspe dissodavano la terra, nel dopoguerra, c'erano delle scatole di scarpe, delle piccole bare con dei corpicini, non ancora completamente formati.

Non fu solo il racconto della sorella di Iole a riempirmi di orrore, perché nei pensieri della donna leggevo qualcosa di peggio del singolo caso di sua madre. Iole sapeva dell'esistenza di una fossa comune, dove la gente andava a buttare i figli non nati, frutto di aborti provocati in casa, durante la seconda guerra mondiale…..

La realtà pazzesca ed assurda, pesante come un macigno, mi stava davanti, con la drammaticità di chi l'ha vissuta, così come le note del valzer cantato da Iole ed il suo sguardo soddisfatto per la bella insalata cresciuta nell'orto.



RIFLETTO.

Tre donne di età diversa.
La prima, giovane, piena di sogni veri ed indottiche, ancora, sono una potenzialità.
La seconda di quarant'anni, i cui sogni morenti, sfiorati appena nella sua vita, si allontanano seguendo la curva del tempo.
La terza donna anziana, con le robuste gambe piantate a terra, che innalza il suo canto sulle sofferenze di una vita.

Avrei voluto parlare con Rosanna, che per estirparle i condizionamenti e le false aspettative che già infestano il suo giovane cuore, aiutandola a ritrovare se stessa.
Avrei voluto dire a Flavia era ancora in tempo, che poteva essere felice, felice anche se non era la fanciulla eletta, anche se le rughe avrebbero segnato il suo bel viso.

Infine avrei voluto ballare con Iole, per vedere la luce allegra nei suoi occhi e per farla
brillare anche nei miei.

FINE DEL VIAGGIO
Il treno ad un certo punto prese a rallentare e mi accorsi che il paesaggio si faceva sempre
più familiare. Riconobbi le belle colline di Poggio Mirteto, vellutate dal verde intenso
degli alberi, riconobbi i vecchi paesotti medievali arroccati in alto sulle vette.
Il treno rallentava e dentro di me si faceva sempre più presente il senso della distanza
tra me e le tre donne che avevo conosciuto. Distanza si, perfino da Rosanna, che per qualche istante avevo amato.
Così come Iole era passata attraverso le difficoltà ed i dolori della vita, conservando il senso della leggerezza dei suoi eventi, della loro transitorietà e quindi, in fondo, della loro scarsa importanza, io ero passato attraverso tre storie, le avevo vissute ed ora andavo avanti, nel mio percorso di vita. Solo il senso della leggerezza avevo permanentemente acquisito e messo tra i bagagli, insieme...con lo sguardo brillante di Iole.

Quando il treno si fermò presi il mio zainetto e scesi, come il più normale dei passeggeri.
Immediatamente fuori dal treno fui di nuovo circondato dall'aria afosa ed umida della stazione.
Il treno ripartì.
Buttai l'occhio sull'orologio analogico della stazione, era esattamente....mezzogiorno!
Non fui troppo stupito di essere di nuovo catapultato nella mia realtà esattamente nel punto e nell'ora in cui ero stato prelevato ed a dire la verità avevo smesso di farmi domande.

Dal megafono, una rude voce d'uomo informava che il treno 2188 non sarebbe mai arrivato. Il treno era deragliato.

 

Un attimo fa

"Mi sento in dovere di lasciare una spiegazione ai miei genitori ed a mio marito, perché questa sera intraprenderò un viaggio dal quale non so se ritornerò.
Io vi amo, amo la vita e voglio che sappiate che non mi sto suicidando. Forse è proprio perché amo la vita che voglio fare questo esperimento. Vi prometto che, se potrò, tornerò in dietro e vi farò partecipi di quel mondo sconosciuto che sto per esplorare. Non posso nascondervi che ho paura e che temo di non rivedervi più, ma non posso astenermi dal fare questo passo perché è in gioco la conoscenza suprema: forse potrò svelare il mistero della vita e della morte.
Temo, però, che da queste parole mi prendiate per una pazza visionaria, magari vittima di qualche setta religiosa oppure sotto l'effetto di qualche droga. E' per questo motivo che proverò a raccontarvi tutto dall'inizio, sperando mi possiate capire e soprattutto credere.

Lo strano fenomeno di cui sono oggetto e che mi sta capitando da qualche tempo a questa parte, trae origine da una strana sensazione che mi capita di vivere quando ad un diffuso senso di stanchezza si unisce qualche malessere fisico, di una qualsiasi natura, come ad esempio mal di testa, mal di pancia.
Beh insomma, proprio quando il corpo si fa prepotentemente sentire, forse per contrasto, comincio a subire una separazione, come dire, della coscienza. Mi sembra, in questi casi, di vedermi, di vedere il mio corpo e di vedere il confine tra esso e la mia coscienza. E così vedo me stessa muoversi, parlare e magari soffrire.

Questa esperienza a volte è stata imbarazzante…mi è capitato di provarla, un giorno, davanti al mio capoufficio mentre gli stavo facendo un resoconto delle attività svolte. Dopo tanti giorni di lavoro stressante era venuto il momento di fare il punto della situazione e mi sono sentita assalire da un violento mal di testa. Andai dal mio capo spossata, dolorante e proprio nel bel mezzo del mio rapporto improvvisamente vidi me stessa che parlava, sentii me stessa che pensava a ciò che doveva dire. Non ci sono parole per esprimere le sensazioni che provai, posso solo dire, a posteriori, che la mia Coscienza mi sembrava esser separata da tutto il resto…..ma non solo, ed è questa la cosa più sorprendente, la mia coscienza vedeva me UN ATTIMO FA.
Un'altra volta ero alla guida della mia automobile per andare in ufficio. La sera prima avevo fatto molto tardi con gli amici, avevo dormito solo tre ore, e quindi la mattina mi sentivo assonnatissima. Mi sono messa in macchina, nonostante le palpebre mi si chiudessero da sole, e mi sono avviata sulla strada che ogni mattina mi conduce all'ufficio. Ebbene ad un certo punto il mio corpo guidava pilotato dalla mia parte razionale e la mia coscienza osservava entrambe. Essendo in tale situazione sbagliai strada e dovetti allungare notevolmente il percorso per andare in ufficio.

Dopo molti di questi episodi cominciai a capire che la coscienza va oltre il tempo, anche se non riuscivo a controllare questi processi di estraniazione, dei quali ero a malapena consapevole ed in qualche modo anche vittima.
A volte ho anche avuto la sensazione di essere pazza ed è stata forte la tentazione di consultare un medico che mi aiutasse a venir fuori da queste situazioni che cominciavano a farsi sempre più frequenti. Ci fu un giorno in cui toccai l'apice della disperazione, perché l'esperienza che stavo vivendo prese dei connotati davvero inquietanti.

Era una delle tante sere che passo da sola, proprio come questa sera in cui sto scrivendo, a causa del tuo lavoro, marito mio, che ti porta lontano da me. Erano circa le 11.00, ora in cui di solito mi corico, e mi trovavo sdraiata nel mio letto, da sola. Il sonno cominciava ad invadermi, le membra si facevano sempre più pesanti e la mente vagava tra i pensieri senza nessuno scopo preciso. Le gambe, le braccia mi sembravano piombi sprofondati nel materasso del mio letto, le labbra erano leggermente gonfie per la stanchezza, sentivo la pressione del contatto tra labbro inferiore e superiore e la testa mi sembrava ingigantita. Tutto ciò mi procurava un vago senso di vertigine. Ancora una volta la coscienza del mio corpo mi diede, per contrasto, la coscienza di me. Mi accadde, però, qualcosa di diverso dal solito: non vidi solo me stessa in quel momento o me stessa appena un attimo prima. Quello che vidi e che mi strabiliò, fu una serie infinita di me stessa corporee e di miei pensieri, tutti contemporaneamente. Ebbene, quelle me stesse con i loro pensieri erano come tanti fotogrammi, uno dietro all'altro, di me stessa negli ultimi dieci minuti.
Che cosa stava succedendo alla mia mente? Che fine aveva fatto l'asse del tempo? Era forse sparito dalla mia coscienza?

La giornata successiva fu assolutamente terribile. Pensavo sempre di più che stavo impazzendo. Non mi sentivo di parlare con nessuno delle mie strane esperienza, ero consapevole del fatto che non sarei stata capita. Stava accadendo qualcosa alla mia mente, ne ero certa, ma non sapevo che cosa. Forse è qualcosa che tutti hanno dentro e che si manifesta solo rarissime volte. Forse è qualcosa di cui la gente non parla per paura di esser presa per matta. Di sicuro è qualcosa che io cercai di fuggire.
Nei giorni seguenti cercai in tutti i modi di stancarmi il meno possibile. Andavo a letto presto, cercavo di uscire dal lavoro in un ora decente, prendevo tutte le cose con calma. Speravo fortemente che un periodo di riposo avrebbe fatto miracoli, così finii per prendermi qualche giorno di vacanza dall'ufficio…ti ricordi, tesoro? Fu quando andai in quella beauty farm perché, ti dissi, volevo dimagrire….
La cura parve funzionare perché nei mesi successivi non ebbi più quelle strane esperienze di estraniazione. La vita procedeva tranquilla e tutto sembrava ritornato finalmente alla normalità, ma si sa non è pensabile di non essere mai stanca.

Dopo un paio di mesi il lavoro in ufficio cominciò a farsi, di nuovo, caotico. La notte non riuscivo più a dormire al pensiero di quello che avrei dovuto fare la mattina successiva. Devo dire che forse sentivo così tanto lo stress perché tu, ancora una volta, in quel periodo ti assentasti per lavoro. Insomma, i fenomeni di estraniazione ricominciarono. Dopo un primo momento di panico, però, cominciai a riflettere. Infinite me stesse davanti a me, ognuna appartenente ad un determinato istante della mia vita. Alla fine di ogni processo di estraniazione la coscienza si riuniva al flusso del tempo, ad una particolare me stessa, quella di adesso. E se avessi potuto, in qualche modo, pilotare la coscienza? Scegliere l'attimo del passato in cui 'atterrare', oppure avrei potuto, forse, 'atterrare' nella me stessa di qualche attimo dopo? Cominciai, dunque, a considerare quelle esperienze dei viaggi nel tempo.

Il primo esperimento lo feci una settimana fa, in corrispondenza con quel viaggio di lavoro, marito mio, che, ancora oggi, ti tiene lontano da me. Domenica notte mi sdraiai sul mio letto e cominciai a pensare intensamente al mio corpo, a sentire ogni sua parte, ogni suo centimetro. Cominciai dall'alto, dalla testa per poi percepire fortemente il collo, le braccia….ed a seguire in giù fino alla punta dei piedi. Quando ebbi il mio corpo tutto nella mia testa, cominciò il processo di estraniazione, questa volta, però, l'avevo indotto io.
Dapprima vidi me stessa sdraiata, poi cominciò il processo di moltiplicazione. In questo processo, però, non riuscivo a vedere il futuro, per quanto mi sforzassi e mi concentrassi, riuscivo a vedere solo il passato immediato. Mi concentrai fortemente su una particolare me stessa, in piedi vicino al letto ed improvvisamente mi trovai con la mia coscienza proprio lì, in piedi vicino al letto, prima di iniziare il processo di estraniazione. Mio Dio, avevo viaggiato nel tempo e ne ero cosciente! Ora penso sinceramente che questo tipo di esperienza la fanno tutti, nell'inconscio…Quante volte capita di dire ma io qui ci sono stata, questa cosa io l'ho già fatta….

Durante questa settimana mi sono spinta sempre più in dietro, perché il futuro non lo riesco ancora a vedere. Ho visto me adolescente e sono 'atterrata' su quella me stessa riprovando le sensazioni di un tempo. Ho rivissuto tantissimi eventi della mia vita rigodendo gli attimi più belli più di una volta. Ho rivisto i miei genitori giovani, gli amici di infanzia, ho capito quali sono stati gli attimi più formativi, che mi hanno reso quello che sono, ho rivisto persone ormai morte, ma che non lo sono nel flusso della coscienza.

Mamma, papà, marito mio stasera ho deciso di spingermi un po' più in là con gli esperimenti. Ho deciso di rivivere la mia nascita, la mia gestazione e di tentare il gran salto, voglio saltare ancora prima. Non so se ci riuscirò, non so che troverò o che succederà. Ho tanta paura, ma stasera tenterò."

Quando il marito tornò a casa non trovò nessuno ad aspettarlo, ma solo questa lettera. Vane furono le ricerche della polizia, dei carabinieri, di lei non se ne seppe più nulla. Estremamente triste e deprimente fu il rapporto sulla sua scomparsa, condiviso dalle forze dell'ordine e pubblicato sui giornali, incuriositi dalla strana storia:
"…..La scomparsa della donna si presume sia stata causata da un suo stato di ansia maniaco depressiva accentuata dalla continua assenza del marito e dallo stress da lavoro. Ecco una vittima della frenetica vita moderna….."
Nonostante ciò nei familiari ed in molti altri che lessero la lettera si insinuò un dubbio: e se fosse tutto vero?
fanucci@mix.it

 

Belle come farfalle!

'Mamma, mamma! Fammi entrare, ho paura! Voglio entrare, ti prego!'
'No, stai calma, voglio continuare a vedere cosa succede……'
Purtroppo quella sera vinse il mio terrore e mai più in tutta la mia vita potei assistere ad uno spettacolo del genere.
In un preciso punto del cielo, basso sull'orizzonte, nasceva intensissima una luce rossa che andava a morire divenendo dapprima purpurea, poi viola, degradando sempre di più nel nero cielo della notte. L'insolita colorazione del cielo, prendeva un quinto della volta celeste nel suo punto di maggiore intensità, andando poi a coinvolgere più o meno metà dell'orizzonte visibile.
Se non fosse per il fatto che erano le tre di notte, il fenomeno poteva essere preso per un tramonto che illuminava il paesaggio cittadino con tinte dal rosso al viola scuro, dove pochi istanti prima c'era solo buio, mentre tra i palazzi dormienti e mezzi vuoti di Agosto giravano sfere di luce bluastra che percorrevano le vie e le strade come sonde, muovendosi in linea retta a grande velocità.
Non so come finì o se successe qualcosa oltre ciò che ho descritto.
Quella sera rientrai in casa spaventatissima e piangente, obbligai mia madre, col pianto e con le urla disperate, a serrare tutte le tapparelle, passando il resto della nottata tra le sue braccia, tremando ad occhi chiusi.

In seguito, molte volte mi pentii di non essere rimasta a guardare e da quel giorno per me il mondo non fu più lo stesso.
Capii l'esatto e sconvolgente significato di 'sfera sensoriale' ovvero
che dietro la superficie delle cose da noi percepita c'è il mistero, che siamo immersi nell'ignoto come in una bolla di sapone di cui vediamo solo le pareti interne.
Crescendo guardavo ogni cosa come se la volessi penetrare, ogni superficie con la consapevolezza dell'aldilà e così ogni suono ogni sensazione, ogni odore, ogni sapore. Avrei voluto perforare la sfera sensoriale e così intrapresi una carriera scolastica di tipo scientifico anche se i miei studi non mi aiutarono a capire visto che la scienza parte dall'osservazione del fenomeno e teorizza modelli che ne spiegano il funzionamento non penetrando, quindi, l'intima conoscenza delle cose.
Le domande che mi assillavano la mente erano: che succederà mai alle mie spalle mentre io non guardo? Il mondo cessa forse di esistere? Esiste qualcosa altro oltre quello che noi percepiamo?
Quante notti passai a guardare il cielo, in attesa di qualcosa……sdraiata sul dorso, con gli occhi costantemente fissi verso l'alto….non accadde nulla fino al mese scorso.

Nella due settimane che precedono Ferragosto le città si svuotano ed acquistano un non so che di misterioso, di maestoso….perdendo la loro funzione di abitazioni e divenendo puro paesaggio composto da milioni e milioni di grandi parallelepipedi vuoti, immersi nel più assoluto silenzio ed in un atmosfera in qualche modo più schietta, liberata dai gas di scarico dei tubi di scappamento dei mezzi motorizzati. In questo contesto ho sempre la sensazione di essere l'unica abitante del mondo. I tramonti sono meravigliosi e così pure le calde serate stellate. Il cielo è nerissimo ed esalta il bagliore delle stelle.
In una di queste serate sono iniziati gli avvistamenti, manifestandosi alquanto diversamente da quel primo ricordo.
L'aria quella sera era particolarmente calda ma secca…stando in casa si soffriva moltissimo il caldo, ma uscendo sul terrazzo si poteva godere di un bel venticello fresco. Grazie all'aria pulita, il cielo era particolarmente terso, limpido ed essendo la notte senza luna, era un manto nero vellutato ornato di stelle. Io ero lì, immersa in quello spettacolo meraviglioso, scrutando la volta celeste sperando di trovare nel firmamento le spiegazioni che sempre avevo cercato.
All'improvviso cominciai a notare qualcosa di strano tra le stelle…. No anzi nelle stelle!….Si stavano muovendo! Su in alto nel cielo, in mezzo agli astri, c'erano luci bianchissime, poco più grandi di una stella, che volteggiavano e danzavano in alto. Non ebbi paura di quello che vedevo perché quelle luci erano meravigliose, belle come farfalle, come le stesse stelle e quello spettacolo era per me, per NOI. No, non potevano essere aerei o sonde: erano troppe luci insieme, una trentina nell'emisfero celeste visibile, e volavano con schemi precisi, a volte disegnando sfere, a volte ellissi, a volte raggere ed ancora altre mille infinite figure geomeriche. Eh si! Decisamente quelle luci stavano parlando…dicevano CI SIAMO! Siamo qui in qualche remota e lontana parte dello spazio-tempo. Già! Chissà quanti secoli avevano quelle luci….appartenevano forse ad una antica civiltà che ci parlava attraverso forme geometriche…..forse mentre la luce arrivava sulla terra, come uno splendido biglietto da visita, loro avevano intrapreso un viaggio per venire a trovare i lontani cugini….Probabilmente questo era solo l'inizio.

Dapprima ero sola, o almeno così mi pareva, ad osservare il fenomeno….
Non ne parlai con nessuno, osservavo quegli splendidi giochi di luce come se fossero uno spettacolo della natura, come se stessi guardando il blu del mare o i picchi innevati delle Alpi. Sera dopo sera mi accorsi che il numero degli spettatori aumentava. All'inizio eravamo due o tre, ognuno sul suo balcone, con gli occhi puntati al cielo e la bocca leggermente dischiusa. Qualche volta ci lanciavamo sguardi meravigliati, mai nessuno parlava. Poi aumentammo, qualcuno aveva paura e correva a chiudersi dentro casa a finestre e tapparelle serrate, probabilmente perché si sentiva in balia degli eventi, esposto a quella pioggia spettacolosa di luce senza avere un ombrello per ripararsi. Fin quando eravamo in pochi a bearci dello splendido regalo che qualcuno ci stava facendo, l'osservazione delle luci era rimasto un fatto individuale, nessuno ne parlava in giro…semplicemente sapevamo che la notte successiva avremmo assistito di nuovo, come ogni sera assistevamo al tramonto.