Dai Vernon Età:26
Professione: Studente laureando in Scienze della Comunicazione
Hobby:Prestigiazione e Scrittura |
Epilogo
di un Augusto La mia razza esiste
da millenni. Non so di preciso quando sia comparsa, ma all'alba dei tempi il suo destino
era ormai segnato.
La mia razza ha creato l'uomo, vivace focolaio di pensieri estrosi e imponente raccolta di
graniti-che illusioni coltivate dallo spesso nocciolo della speranza.
La mia razza ha evoluto l'uomo, fonte eterna di amore e di saggezza, nume inconsunto,
albergato-re parsimonioso di istinti nobili e regali, di novità goliarde dipinte sulla
tavolozza dell'ingegno.
La mia razza ha assistito l'uomo, sorgente avvelenata di melliflue adulazioni, di stimoli
convulsi, di desideri recalcitranti scatenati dall'abile gorgheggio dell'alterigia.
La mia razza annienterà l'uomo, dannata macchina di morte e di dolore, violento
propulsore di ri-sentimento e tacito compromesso che avanza, funambolo, tra il baratro del
potere e l'abisso della guerra.
Fui fatto prigioniero circa tre anni fa. Prima d'allora non esistevo neppure,
l'equivalente di una massa ferrosa deforme altrimenti modellabile tra le mani nodose di un
artista discinto. Mi resi immediatamente conto che avrei trascorso il resto della mia
sciocca esistenza tra le ruvide mura di una scura prigione, incatenato con gli altri
dall'ambizione di un padrone avaro, reietto modello di opulenza occidentale.
Preso, trasportato e gettato in una cella, povero corpo, alla mercé di chiunque avesse
voluto com-prarlo. Non fui solo, consolazione, e condivisi le disgrazie della
"razza" raccolto intorno a un bla-sone cinereo, lucido specchio di cupide menti.
Di tanto in tanto i miei amici venivano presi, afferrati brutalmente dalle dita callose
del ricco pa-drone, commerciante girovago di vesti scostumate, e sballottati tra le
potenti braccia partivano via senza dire né salutare. Non li avrei visti mai più.
Qualche volta agguantato di sorpresa, venivo trascinato per la testa e poi riposto,
inutile corpo, nella medesima stanza gonfia di odori stomachevoli, profonde esalazioni
come zaffate di vapore bollente.
In certe occasioni il nostro corpo risplendeva della luce diafana filtrata attraverso
feritoie consun-te, donandoci la piacevole sensazione di un riverbero arioso troppo presto
smorzato dall'ombra cupa dell'uomo cerchiato.
Altre volte la cella veniva aperta e uno sguardo inquisitore mirava, deciso, la prossima
vittima dell'ignota destinazione. Fu il mio turno.
Mi accorsi ben presto che la mia vita, la vita della mia razza, era indissolubilmente
legata a quella degli uomini anche se non riuscivo a capire in che maniera; la mia
funzione, lo scopo per cui ve-nivo adoprato mi era del tutto ignoto. Fui assalito
dall'atroce sospetto di essere lo strumento ludico delle loro perversioni: più di una
volta ero stato percosso per il semplice e spasmodico diverti-mento che gli procuravo; e
ricordo un episodio in cui capitombolai dalle scale, volteggiando più volte su me stesso
e finendo a testa in giù contro il muro, una spinta vigorosa provocata dalla rab-bia
inconsulta di un bimbo, gentile progenie del mio non meno affettuoso padrone.
E fui comprato di volta in volta, servo fedele, ricevendo il medesimo trattamento da
chiunque mi avesse in possesso: fui lo schiavo di mercanti e imprenditori, di artigiani e
liberi professionisti, di mentecatti e audaci prostitute; una di queste mi barattò con un
laido e fraudolento omuncolo dopo avermi adagiato la testa fra i suoi seni turgidi,
amalgama carnoso di passione e lascivia, quasi a suggellare col dolore in petto (e che
petto!), un abbandono estatico alle voglie lubriche del ve-gliardo facoltoso.
Sentii raccontare che la mia razza aveva organizzato una rivoluzione, che aveva tenuto il
mondo col fiato sospeso, che aveva governato e preso possesso di una cultura troppo vasta
e onnivora da essere espiantata alle radici.
Sentii raccontare che un imponente schieramento di nostre forze aveva creato un sistema
politico che accorpava a sé ogni funzione e che aveva scisso due organi sociali
evidentemente congiunti e interdipendenti.
Sentii raccontare che una transazione in atto avrebbe consentito di esprimere le nostre
potenzialità al mondo intero, liberandoci da un vincolo territoriale di nota memoria.
Ma la mia, di memoria, non arrivava a tutto questo. Mi trovavo nel vortice di un assurdo
parados-so che contemplava, nella magniloquenza, la misera condizione di uno schiavo
rifiutato, sintesi grossolana di una razionalità irrazionale.
E girovagavo, girovagavo lungo l'ecumene chiedendomi di volta in volta dove sarei
approdato: tra le piaghe immonde di una bestia inferocita, lucida fattura di maialino
novello; tra le gambe mature di una giovane adolescente, abbracciata all'immagine di un
amore faceto; nelle spire nodose di una stringa gagliarda, strumento torbido di
riprovevole concupiscenza.
Finché venne il giorno in cui mi regalarono la magra consolazione di non essere l'unico
servo fe-dele alle voglie ottuse dei padroni. Trovandomi nel bel mezzo di un litigio tra
innamorati, quale piacere, non feci niente per impedire alla violenta espressione
femminile di surclassare la gracile reazione del mio timido padroncino.
E forse fu un bene, perché da allora finì il mio tumultuoso peregrinare.
Ebbra la mente di insani pensieri, gonfio d'orgoglio e pieno di rancore, egli mi prese in
petto sca-raventandomi sul sedile posteriore di una nuova berlina, verde illusione di
facili conquiste.
Viaggiammo molto, ricordo, e speravo in cuor mio che una mano celeste calasse a placare lo
spi-rito iroso del giovane amante.
Futile speranza.
Mentre precipitavo nel pozzo profondo e l'aria lambiva gentile le
membra, trattenevo sul capo la corona d'alloro, onesto compenso di gesta cantate, e ridevo
di avere capito, di avere afferrato il mio fine precipuo: innocente immolato per in
desiderio.
La mia razza ha aggiogato l'uomo, fertile terreno di livide
superstizioni, gemma sfaccettata di ri-flessi mentitori, bussola maliarda di oscure
direzioni e campo da gioco di labili passioni che guar-dano, dal fondo buio di una fossa,
l'effigie splendente di un desiderio: l'abbaglio luminoso di cento lire. |