Anna Maria Bonfiglio

é nata a Siculiana(AG) e risiede a Palermo dove svolge attività culturale nell¹ambito letterario e giornalistico. Giornalista pubblicista, ha collaborato per diversi anni ad un settimanale del gruppo Rizzoli , al mensile SiciliaTempo, alla rivista letteraria Silarus. Ha curato un corso di analisi ed interpretazione del testo poetico presso l Œ Istituto Professionale CEP di Palermo ed un laboratorio di scrittura creativa presso la sede regionale ENDAS Sicilia. Ha pubblicato poesie e racconti e inoltre saggi e recensioni su riviste letterarie

SENZA LIMITI

E questa da dove arriva, con la sua borsetta griffata, i pantaloni incollati al sedere, il seno mi-vedo-mi-nascondo e gli occhi celati dagli occhiali Dior? Fra le dieci persone che ci sono qui dentro proprio lei doveva puntarmi? Perché non un bel maschio, uno di quelli che ti prendono al volo e ti trascinano non sai dove, in Africa o oltre le colonne d'Ercole, e poi ti lasciano lì con il tuo zaino ad arrangiarti per tornare. Ma perché tornare? Non è forse meglio andare, sempre, oltre, fino al limite. Quale il limite? Manuela non conosce il limite, non lo vuole conoscere. Il limite è morire. Forse l'altra Manuela, quella che riusciva a vedere oltre lo specchio del suo corpo, voleva un limite. Voleva tenersi i suoi legami, voleva farsi stringere ancora e ancora i polsi per non dovere più andare oltre.
Mi guarda. Anche se porta gli occhiali, capisco che mi sta guardando. Sta guardando le mie cosce che emergono dagli shorts. Adesso si passa la lingua sulle labbra. Si avvicina con una sigaretta fra le dita: "Mi fai accendere?"
E toglie gli occhiali. Ora il suo sguardo è diretto, mi esplora, mi fruga.
Tiro fuori l'accendino, sfrego ed avvicino la fiammella alla sigaretta che lei ha portato alle labbra. Aspira e manda fuori il fumo, una, due, tre volte. Poi:
"Seguimi" mi dice. Mi alzo con indolenza senza chiedere né dove andiamo né perché mi abbia invitato a seguirla.
Camminiamo in silenzio per il lungolago, lei elegante e sicura, io con la maglietta stropicciata, reduce da una notte in treno, e lo zaino dietro le spalle. Senza saperlo mi assale la curiosità. No, non è solo curiosità, è il mio desiderio di oltrepassare il limite, di spingermi verso l'ignoto, il segreto, il proibito, l'impossibile. E quasi spero che da lei mi venga una proposta estrema, che mi porti nel suo albergo o nella sua casa, che mi chieda di spogliarmi, che mi accarezzi, che m' inchiodi nel suo letto…
"Dove andiamo?" chiedo. Lei posa l'indice sulle labbra chiuse. Continuiamo a camminare. Il sole ci scotta la pelle, sulle panchine del lungolago signore attempate sfogliano giornali e riviste. Mi fermo, poggiando le spalle alla ringhiera. Vediamo se mi schiodi, penso, sfidandola con la protervia del mio sguardo. Lei mi affianca. "Dove vorresti che ti portassi?" Il suo tono è quasi provocatorio.
Alzo le spalle. "Sei stata tu ad invitarmi a seguirti"
"Sapevo che era quello che volevi"
"Ah sì? Sei una veggente?"
"No, ti ho semplicemente osservato. Sul treno. Tu non mi hai visto"
"Ma se ero sola! Non raccontarmi balle e dimmi piuttosto cosa vuoi da me"
"Solo quello che vuoi tu"
"Io non voglio fermarmi, voglio continuare il mio viaggio"
"Verso dove?"
"Non lo so. Adesso ritorno alla stazione e prendo il primo treno in partenza"
"Non vuoi fermarti mai?"
"Talvolta me lo chiedo. E quando mi soffermo a riflettere penso che dovrei sostare e mettere dei punti saldi attorno alla mia esistenza: una casa, possibilmente in ordine, non il caos in cui vivo, libri e fogli dovunque, cd sparsi in ogni angolo, sigarette lasciate a spegnersi sul posacenere, o posate per terra, con il filtro sul pavimento, come minuscole candele che aspettano di consumarsi; il letto il più delle volte sfatto, la spazzatura che fermenta nell'attesa di essere portata via. E allora scappo. Riempio il mio zaino e via. Odio lasciarmi vivere nella desolante misura del mio caos e tuttavia non voglio restare imprigionata in uno schema, non voglio mettere radici. E non voglio coltivare affetti, non sono disposta a mettere in gioco il mio squilibrato equilibrio per qualcuno che approfitterebbe della mia debolezza per infliggermi sofferenza. Scelgo le emozioni. Gli incontri effimeri, le sensazioni forti, il percorso dei sensi"
Ha tolto di nuovo gli occhiali e il suo sguardo nudo scruta il mio volto. Chissà, forse cerca un punto nel quale poter cogliere le mie defaillances.
"Dai, seguimi"
Riprendiamo a camminare. Non ho voglia di chiederle di lei, dopotutto non me ne frega nulla, è solo un'occasionale compagna. Non posso fare a meno però di considerare quanto siamo diverse, almeno nell'aspetto esteriore. E' chiaro che lei deve possedere un forte senso estetico, è curata, elegante, raffinata, quanto io sono inelegante, trascurata, menefreghista. Certo siamo male assortite e sicuramente daremo a chi ci guarda una sensazione di sgradevolezza, di disagio. Osservo le facciate dei raffinati alberghi che si affacciano sul lago, mi lasciano indifferente, quasi mi irritano con la loro ostentata ricercatezza, con il loro ammiccare discreto e invitante. Sono belli, non c'è che dire, immagino le camere, le suites, intravedo le halls ornate di piante ed arredate con una finezza che denota il buongusto e l'appartenenza alla categoria cinque stelle. Un genere che ho anche frequentato quando mi è capitato di accompagnarmi con uomini danarosi, senza comunque rimpiangere di averne perso i comforts, ma anzi guadagnandone in libertà: niente etichetta, niente servitù che ti mette soggezione, niente sfoggio di abiti e accessori vari.
All'altezza del Cafè du lac lei si ferma.
"Sediamoci"
Scostiamo le sedie per sederci. Siamo quasi sospesi sul lago. Nell'acqua leggermente torbida nuotano piccole anatre dal piumaggio screziato. Un ragazzetto lancia verso di esse delle molliche e le anatre si avvicinano al parapetto per beccarle. Al largo sfilano barche a vela e fuoribordo.
"Voglio fare un viaggio in catamarano" Dico. Non ci avevo ancora pensato, l'idea mi è venuta adesso, finora è stata la terraferma ad accogliere i miei vagabondaggi.
"Hai viaggiato molto?"
"Un po',sì. Da quando mio padre è morto lasciandomi una piccola rendita ho mandato a puttane il mio lavoro di merda"
"Non sembri ricca"
"Non lo sono infatti. Ma non ho grandi esigenze e quando viaggio non cerco lussi"
"E quali mete ti prefiggi?"
"Nessuna, cerco sempre di oltrepassare un limite"
Sorride stirando le labbra contornate dalla matita scura.
"Ehi, hai intenzione di farmi un terzo grado?"
Sento che la tensione si sta allentando. Aspetto le sue mosse senza pregiudizi.
"E il tuo uomo? Lo lasci a casa?"
Rido. "Un uomo non è un accessorio! Comunque, da qualche anno ho deciso di non avere rapporti vincolanti"
Si è avvicinata la cameriera, ha lasciato sul tavolino la lista delle bevande e dei gelati e si è allontanata destreggiandosi abilmente fra la fitta rete delle poltroncine. Ordiniamo due Ceres. Bevo il liquido rosso con ingordigia, lei invece lo sorseggia come fosse un aperitivo. Poi lascia il denaro sul tavolo e si alza. I suoi pantaloni bianchi lasciano trasparire il filo che le passa fra le natiche. Si indovina un bel sedere, il movimento delle anche fa ondeggiare i glutei. Un culo che parla, l'avrebbe definito Omar, oltremodo sensibile al posteriore delle donne.
"Andiamo" è quasi un ordine ed io ubbidisco. Non perché abbia in grande considerazione la sua volontà, ma perché sono sempre più curiosa, sempre più decisa a conoscere le sue intenzioni. Lasciamo il lungolago e ci addentriamo in un viale del centro. Una strada costeggiata da negozi di ogni genere: gioielli, ceramiche, porcellane ed anche piccoli souvenirs di dubbio gusto. E' stagione di turisti, giovani ed attempati, le facce arrossate dal sole seppure ombreggiate da ridicoli cappelli di paglia.
Ci fermiamo davanti ad un portone di dimensioni contenute dal quale si intravede una lunga e stretta scala che ad un certo punto forma un gomito oltre il quale gli occhi incontrano il buio.
"Saliamo" E' sempre lei che conduce.
Saliamo l'una dietro l'altra. Alla fine della scala ci troviamo in un'elegante hall.
"Aspettami" mi dice. Si avvicina al concierge con il quale la vedo scambiare poche battute. Poi ritorna verso di me, che sono rimasta nel mezzo della grande sala rigida come un cetriolo, e mi fa segno di andarle dietro. Percorriamo un largo corridoio con porte a destra e a sinistra. Giunti a metà si ferma davanti al numero 311 e passa la tessera magnetica dentro l'apposito alloggiamento.
Ci troviamo in una stanza ben arredata: un sommier coperto di raso, un grande armadio a muro con le ante decorate da esili fregi, un secretaire ed una poltrona. Dall'ampia vetrata ci vengono incontro le alture verdi e fiorite. Ma lei tira le pesanti tende di raso e subito la stanza s'immerge in una rasserenante penombra. Mi prende un raro senso di benessere, di più, un rilassamento di tutte le terminazioni nervose, un lieve intorpidimento dei sensi che mi suggerisce di buttarmi subito su quell'invitante letto. Non avverto più stanchezza né fastidio, ogni pensiero abbandona la mia mente. E mentre il mio torpore mi culla in uno stato di anodina quiete, lei mi prende per le spalle e lentamente tira su la mia maglietta sfilandomela dalla testa. Realizzo di essere in sua balìa, nuda per metà, ma sono troppo debole per reagire. E all'improvviso avverto il desiderio di una carezza che mi blandisca e mi accompagni in questo viaggio verso un sonno di cui sconosco l'origine.

L'oscurità è quasi totale ma poco per volta gli occhi, adattandosi al buio, riescono a mettere debolmente a fuoco qualcosa: l'avorio delle tende, la massa dell'armadio, la sagoma della poltrona. Provo a sollevare la testa dal cuscino ma devo desistere, tutt' attorno è un vorticare di pareti. Non ricordo di avere bevuto eppure mi sento come se avessi trangugiato litri di alcol di cattiva qualità. La lingua s' impastoia nella bocca arida, anche se volessi dire qualcosa non potrei parlare. Non ricordo dove mi trovo e non so perché mi trovo in quella stanza semibuia. Che ci faccio da sola in questo letto? E come sono arrivata fin qui? Le tempie mi pulsano, mi assale la nausea. Cerco con lo sguardo di appigliarmi a qualcosa che possa riportarmi indietro di qualche ora. Già, ma che ore saranno? Alzo il polso per controllare sul mio swatch ma il quadrante colorato ha solo una serie di numeri indecifrabili. Lascio ricadere il braccio e chiudo gli occhi per tentare di ritrovare nella mente qualche elemento che mi conduca a riappropriarmi della mia realtà. Un portone, una scala, una donna. Due mani che mi percorrono la pelle con delicatezza. Poi, nulla. Improvvisamente il mio cervello si snebbia e lentamente comincio a ricordare: il bar, una donna elegante che mi chiede di seguirla, il lungolago, il Café du lac, l'albergo, la camera… Mi giro sulla mia destra ma accanto a me non c'è nessuno. Immagino che lei sia scesa nella hall, mi alzo faticosamente e vado in bagno, metto il viso e i polsi sotto il getto dell'acqua, a lungo, fino a quando il mio corpo ritrova il tono muscolare necessario a farmi muovere senza barcollare e la mia mente la lucidità che mi serve a ricostruire le ultime ore.
Il mio zaino è a terra, proprio vicino al tavolino da notte. Mi chino per raccoglierlo e noto un foglio giallo fermato da un bicchiere.
"Buon viaggio, Manuela… ma non dimenticare che troverai sempre un limite"
Accartoccio il foglio nervosamente. Ma chi si crede di essere questa? Ha rovistato fra le mie cose, ha guardato i miei documenti…Sono furiosa, dove sarà andata adesso?
Afferro il mio zaino e mi dirigo alla hall. Cosa è successo che io non ricordo? E perché mi ha abbandonata senza una spiegazione?
La fuga di porte che sfilano lungo il corridoio mi dà un senso d'oppressione.
Arrivo alla conciergerie come un proiettile. Un giovane biondo in divisa azzurra come i suoi occhi mi guarda stranito.
"In cosa posso esserle utile?" dice.
"Ecco…io vorrei sapere…" Cosa gli chiedo? Non so come spiegargli ciò che desidero sapere, forse non è chiaro neanche a me stessa.
"Mi sa dire se la signora della camera 311 ha lasciato l'albergo?"
"Controllo subito"
Smanetta un poco con il computer. "La camera 311 è libera da quattro giorni"
"Non è possibile, sono scesa adesso da quella camera, ero ospite della signora"
"Spiacente, non credo di poterla aiutare. Magari si è confusa con le cifre…"
"No, sono sicura, camera 311"
"Guardi da sé- mi fa cenno d'avvicinarmi al computer -vede?"
Che mi sta succedendo? Ho le allucinazioni?
"Per piacere, vuole controllare chi alloggiava in quella camera quattro giorni fa'?"
"Subito"
Pigia velocemente sui tasti. "Ecco… la camera era stata prenotata dal professor Egidio Ingardi. Ricordo benissimo, era qui per un convegno"
"Va bene, grazie" mormoro. Non so cos'altro potrei dire. Mi sembra di trovarmi in una pellicola di Hitchcock. All'improvviso avverto una grande stanchezza. E la voglia urgente di ritornare a casa.