Alessandra Bruni

Il mio nome è Alessandra Bruni e scrivo molto poco. La mia scrittura è un
distillato, un poco come una grappa. L'Isola è veramente un posto dove
andrei...ma non è fuga: casomai è una non-condivisione di ciò che sembra
bastare a molta gente. L'Isola è anche il centro, il luogo dove ognuno di
noi è intero e posso dire che oggi, che sono stata tutto il giorno a fare le
mie cose, sono stata su quest'isola dov'era estate e c'era il sole.

L'ISOLA

In un certo senso prendevo dunque congedo
Dal mio secolo e dai miei contemporanei e
Facevo gli addii al mondo confinandomi in
Quell’isola per il resto dei miei giorni.

J.J.ROUSSEAU

Era una grande casa la mia casa d’infanzia.

In talune domeniche ne percorro ancora le stanze.

Una lontana, specchiata pulizia di stanze in talune domeniche della mia vita.

Si attendeva in piedi io e il babbo. Dinanzi al vetro grande del salotto, guardando fuori gli abeti alti e le siepi che orlavano il viale. Si attendeva a lungo quasi da subito dopo pranzo. Sentivo chiudere alle mie spalle fragili di bambino seduto la porta della cucina.

Calava un silenzio di due ore rotto dal cadere dell’acqua sulle stoviglie e da qualche confuso cantilenare della mamma.

Io al centro di quel silenzio. Come ora. E mi pareva di dover avere piú occhi che due, piú cuore che uno.

Se ci penso bene ero qui anche allora.

Se ci penso bene non mi pento di esserci. Gente come me non ha terra. Ha una sua idea di mondo chiusa forte nel cuore. Gente come me è zingara tutta la vita.

L’ultima volta che vidi la mamma sedeva in cucina. Il rumore del coltello sul tagliere di legno mentre preparava le verdure per il pranzo.

Passava un lungo tempo prima che parlassimo e, se lo facevamo, era con fatica e a malincuore. Perché ora c’era davvero una colpa da ripagare vivendo.

Si era sparato un colpo alla tempia con il fucile da caccia mentre la radio era accesa e tutti si preparavano alla mia festa. Avevo il gelato in mano e salii sul verone e il babbo era là, steso sul terrazzo dove aiutavo la mamma a stendere i panni, la bocca aperta su una rosa di sangue.

Si sentiva che era primavera dall’assalto stretto del cuore dove stava pronta una qualche burrasca. Avevo calzoni corti, azzurri, di una stoffa rigida con la piega piccola appena sopra il ginocchio. Dopo quella volta del babbo non parlammo mai piú.

In certi pomeriggi ombrosi di pioggia mi rintanavo tra le pagine dei miei libri. Vi tuffavo dentro la testa e mi sentivo in salvo. Anche ora è la medesima cosa come se sempre fuori piovesse una pioggia densa e dolorosa.

Mia sorella era magra e non ho mai capito bene in quale parte della casa abitasse. Appariva alle ore canoniche dei pasti, poi si rintanava in qualche suo angolo.

Aveva lo stesso sguardo del babbo, gli occhi appena socchiusi come chi pensi forte, la riga perfetta dei capelli.

- Non scrivi mai e quando mi chiedono di te non so che dire – mi disse l’ultima volta che la vidi voltandosi verso di me a rimproverarmi.

- Ora te ne vai di nuovo in codesto posto e chissà quando ti rivedo–

Mi avvicinai alla porta e feci per andare.

—Ti ho amato tanto, sai? E’ che non riesco a dirlo. Questo è tutto il deserto–.

 

Mentre scrivo furiose ondate si abbattono sugli scogli dalla parte della mia casa, all’estrema punta di una frontiera desertica. Poca spiaggia tra me e l’acqua.

Quest’isola è piú che sufficiente per me. Non vivo qui solo. Una famiglia: tre animaletti scontrosi e salcigni per solitudine, sono gli unici, altri abitanti. Il padre alleva pecore irlandesi, piú grosse del consueto, dalla carne salata per quest’erba sulla quale, per tutto l’inverno, s’infrangono alte le onde.

Talvolta corro.

Lungo queste brevi strabelle di breccia con ai lati muschi e cespugli. Fitti.

Una siepe divide la mia casa, una baracca maldestra di assi di pino tagliate alla meglio e unite tra loro con un impasto di fango e sabbia, da un prato minimo. Un tempo vi atterravano gli aerei, piccoli aerei da ricognizione o da controllo. È un pezzo che non ne vengono piú.

Tutti i lunedí, puntuale, arriva il postale dal disadorno nome di Frengie che gli ho visto dipinto a vernice nera su un fianco.

Tutti i lunedí, puntuale, arriva il dottore. Puntuale da anni, ormai.

Scende dal Frengie e cammina lento verso il pontile. Penso ad una predisposizione familiare per quel tipo di andatura non consueta. Un nonno alto e docile nei giorni di festa o un padre diviso tra sé e le cose della sua vita. Un padre piccolo con i braccini ancora tesi al collo della madre e la lacrima di un pianto pronta dietro la piega perfetta dei pantaloni.

Perché sono qui?

D’improvviso mi alzo, mi manca il respiro.

Perché sono qui?

E ripercorro la mia vita a partire dalle illusioni che vi avevo messe dentro. Andate, una ad una.

Già da liceale, già quel liceale incorrotto aveva in sé un’infezione (mi prende un tremito rapido alle mani) un’infezione che ha diretto la mia vita sino ai termini di una sconfitta voluta e pretesa come vittoria. Una vita cosí contraria alla vita da essere, per buona parte, già morte. Tanto che, morto davvero, quale stupore?

Le moèt carnivore gridano forte dagli scogli. Questi grandi animali simili a gabbiani preistorici, enormi e sanguinosi, avevano fatto il nido dietro la mia casa.

L’ ho distrutto con un colpo di piccone.

Ormai è guerra aperta.

 

Prima di me il mio Illustre Predecessore è stato qui nove anni.

Ha abitato questa stessa baracca e dietro la porta pende ancora la sua cartella di cuoio: su una lavagna gli orari di arrivo del postale in bella calligrafia.

Mi è parso d’acqua appena l’ho visto. Come piegato alla linea fragile e incerta, muta e essenziale dell’orizzonte.

Andava di lato strisciando la gamba destra a semicerchio sulla sabbia.

Lo vidi cosí, una gamba piú corta dell’altra mentre ero fermo sulla porta, le mie cose in mano.

— Cosa vuoi tu? – e mi sciacquò due occhi azzurri in pieno volto.

- Prendo il suo posto Signor Guardiano – dissi improvviso e quasi cattivo nel tono aspro della voce.

- Non sentí, credo. Gli occhi si erano richiusi e gli udii dire, mentre se ne andava, che era meglio andar per bestie che per uomini e che era solo e affamato come il piú turpe degli assassini.

 

- Mi vuoi bene? – e scappava via di fretta nella gioia rapida del pomeriggio estivo.

- Aspetta! Non mi dai mai tempo per risponderti! – e rimanevo fermo ad aspettare che tornasse e mi si accoccolasse in petto come un animaletto acceso d’imbarazzo di sé.

- Ecco, vedi, è che quando sono con te mi prende la paura di non vederti piú. Perché lo sento. Tu sei di quelli che partono e non tornano piú.

Era vero. La baciavo sempre di fretta senza guardarla negli occhi o carezzarle le guance.

Mi mandarono a chiamare che era affogata nel canale, orlato, ai lati, da un folto di sambuchi e gaggie.

Ne vidi affiorare i capelli neri dall’acqua e corsi via a mezzo fiato maledicendola tutta, l’acqua del mondo.

- Mi vuole bene qualcuno? Qualcuno mi vuole bene ora? –.

Le parole mi uscirono da un groppo di pianto infittito nella gola. La tristezza piú profonda della mia vita.

L’ ho amata tanto, sai? Mentre siedo e guardo fuori so bene che non ne sarò piú capace.

La conobbi davanti alle vasche, al chiosco grande, con le amiche. Parlavano piano ma di lei udivo ogni parola.

Era morbida e scontrosa come chi poi sappia amare davvero e certi suoi sguardi buttati e poi ripresi di lato mi piacquero al punto che volli conoscere ogni angolo di pelle che intravedevo nascosta nervosa e come imbruttita sotto il camoscio del giubbetto.

Non le ho mai detto che l’amavo. L’avrei messa in pensiero, urtata forse. Avrei ricondotto il nostro amore nei binari perfidi di un amore regolare mentre cosí, clandestini a noi stessi, ogni bizzarria era tutto quanto ci aspettassimo l’uno dall’altra.

- Io sono piú forte di te – e mi prendeva i polsi stringendoli forte a farmi male.

- Figurati! Io sono un uomo! E gli torcevo i bracci dietro la schiena. Affondavo il viso nel fresco dei suoi capelli, il naso esatto nella curva della nuca.

La vidi, per l’ultima volta, dritta lungo la strada, bianca sotto un sole piú bianco, con uno sguardo severo mentre stringeva nelle mani un mazzetto di fiori di tiglio dal profumo remoto di morte.

 

Oggi, per la prima volta da quando sono qui, il padre di quella famiglia è sceso dall’ufficio.

Sono stato molto sorpreso nel vederlo. Non l’avevo mai visto cosí da vicino. Mi sono accorto che ha un occhio di vetro, profondo e lucente, vivo nel volto, incorniciato da una barba magra, disossata.

- C’ è assoluto bisogno del dottore – mi ha detto – il piccolo s’è ammalato e il corpo si è coperto di piaghe biancastre e umide–.

Lui crede sia a causa delle pecore che devono avere chissà che malattia. Non è impresa facile chiamare il dottore. Una piccola telescrivente di fortuna è tutto ciò che possiedo.

- Proviamo – gli dico – e speriamo facciano alla svelta a rintracciare il dottore. Credo dimentichino, a volte, che ci siamo su quest’isola –.

L’occhio dell’uomo guarda altrove. L’altro, quello di carne vera, mi fissa sgomento.

- Ha la febbre il piccolo? –.

- Alta –.

Il segnale rosso della telescrivente lampeggia, segno che il messaggio è stato ricevuto e vedo che non vuole andarsene.

- Si sieda, la prego –.

- A volte – gli dice – mi chiedo come siamo finiti in questo posto. Anche lei, a volte mi chiedo anche di lei–.

- Ha vissuto sempre su quest’isola? – dico io.

Non risponde. Un fitto velo oscura lo sguardo dell’uomo. È come se fosse riassalito da un morso crudele e assai lungo.

Il piccolo, penso.

Se ne va. La schiena curva sotto il respiro pesante del vento.

 

Non mi sono mai fatto domande circa il mio destino. Sono convinto di non averne uno, di destino, ma molteplici che si sono intersecati per certe mie pigrizie o negligenze.

Ho vissuto sempre cancellando, in realtà. Ora non sono piú quello di ieri. L’uomo che io sono è costretto alla verità, alla sua spudorata bellezza. Tutta questa solitudine che mi circonda per gli altri suppongo sia fine. Per me la maggiore delle mie gioie.

Tutto ciò che ero si è infranto di schianto come fulmine nell’aperta campagna. Suppongo tu comprenda quelle buone mattine condivise con i vicini al suono delle televisioni accese, mattine perse in piccole cose quotidiane che tanto impegnano alla vita e impauriscono di questa e della morte. Ebbene non mi appartengono piú.