Andrea Di Genova anni 25, sagittario ascendente pesci, laureando in medicina e appassionato
di psichiatria e psicopatici, nonchè di psicofarmaci. Senza presunzione, propongo ciò
che dovrebbe definirsi uno stile alternativo, per molti, ma non sicuramente per me, per
cui sarebbe più calzante la definizione di stile onirico, ma le definizioni mi stanno
strette e allora vale la regola che mi guida :" ...il caso mi riempie più della
volontà.." . é la mia regola luce, il mio percorso karmico. Ma ho perso di vista lo
scopo della presentazione, preso come sono da me. Bene! "NERO" che propongo è
un racconto inedito sulla più genuina fiacchezza esistenziale, se per esistenza
intendiamo quella dei più...e sulla più fiera auto-coscienza della diversità, se per
esistenza intendiamo quella dei meno. |
NERO
-Basta che io prenda un giornale, e mi
metta a leggere, e mi sembra di vedere degli spettri, che scivolano e sgusciano fra le
righe...ah, devono essere tanti, innumerevoli come i granelli di sabbia nel mare...e noi
tutti viviamo nell'ombra, timorosi della luce, della chiarezza, della verità...-
Henrik Ibsen
Erano giorni pieni di De Andrè, giorni in solitudine, ché non
ricordo anima viva che abbia posato il culo sulle mie sedie. A dire il vero le anime
c'erano, quelle salve di De Andrè e quelle irrimediabilmente defunte, ovvero :i miei
sogni. E vi presento i miei sogni: amore, libertà e passione. Nient'altro che fumo e
nebbia. Di domenica, poi, diventano fiamme. E domenica c'è ogni volta che lo stomaco è a
festa e la testa in trionfo. Domenica come primavera o come quando è sole per tutti
tranne che per te. Luce che annienta e non c'è sagoma che tenga. E allora diventiamo
spettri che complicano l'aria ai molti che ci riconoscono ma con il pudore di chi può
concedersi un'occasione al giorno. Dispensiamo follia, ma la follia non piace...è come la
bistecca di soia: troppo moderna per divenire cliché alimentare del carnivoro e troppo
paracula per il macrobiotico convinto. E allora strappiamo sorrisi, a metà tra la
compassione e l'incomprensione. E siamo neri di cenere perché non c'è più materia che
arde. E allora una flebo di sangue, please! una flebo di cellule per materializzare
l'ologramma, una flebo di creta per credere ancora nel miracolo della vita, ma, dio, fa
che la creta non si crepi. Sorrisi inopportuni e riflessioni deliranti: denti bianchi e
cervello nero. Ogni domenica ha denti bianchi e cervello nero. Cammino distrattamente
strattonando cumuli d'aria, condensa dei vapori del mondo, unico contatto sulla mia pelle.
Gli occhi, i nostri occhi, sono più di tre. C'è un occhio per ogni brivido. Son occhi
che seducono. La nostra luce, luce nera, mangia i cuori dei deboli...e siamo i figli di
medusa. E rubiamo i desideri di milioni di occhi di bambola, certi di offrire alla
normalità il giusto contributo di follia. E viaggiamo di notte, con l'energia lunare
complice, complici i lupi mannari dell'infanzia e i sogni dei milioni di occhi di bambola.
E dai rituali di auto-compiacimento uno di noi fugge, come un salmone che non risale la
corrente. E fugge, fiero e orgoglioso, senza contenzione, in un'estasi neoplastica. Ed è
lì...Mario, il protagonista non protagonista. E' lì che asseconda la noia con la pretesa
svogliata di un orgasmo artificiale...è lì che si fa ombra e luce tra i fari delle
macchine. Ed è lì, solitario e coraggioso. Jeans attillati e pelle nera sul
dorso...particolare di viso illuminato da una cicca accesa. E cerca la vita
la via
smarrita. E la trova la strada, proprio sulla strada. Fuma marlboro rosse
che
spuntano dal taschino della nera pelle con la pretesa del fiore all'occhiello. E'
l'arcangelo incazzato, nero di notte e di giorno. Fermo sulla sua postazione, scoglio di
mare su cui s'infrange l'ondata di desiderio degli occhi di bambola, protetti dalle loro
case di bambola, illuminate, certamente illuminate, per evidenziare in controluce gli
abbozzi del sesso di Mario. E Mario fuma. Ingoia e sputa. Ingoia fumo e fiele e sputa
sogni e speranze.
"ti va di fare un giro?" chiede la faccia di finestrino semi-aperto.
"perché no!" risponde Mario.
"hai paura della morte?" Mario, una volta dentro.
"cosa?!" risponde la faccia di culo affondata sul sedile.
"chiedo se hai paura della morte".
"certo, si!!"
"ah, ok!...che vuoi fare?" Mario, svogliato...
continua: "voglio avvertirti che ho la farfalla d'amore".
"meglio...mi piace anche se non so cosa sia".
La farfalla d'amore è un ectoparassita obbligato ematofago, volgarmente detto piattola,
ma il suo nome scientifico è phtirus pubis. Si trasmette per via sessuale. Mario è morto
tante volte e cerimonie funebri furono celebrate. E fu portato a braccio dalla vergine,
per il paese, tra gigli bianchi e braccia ceree coperte di nero. E fu sepolto molte volte
e incatenato a quella terra che non gli offriva alternativa, se non l'illusione di un mare
lontano. Mare e morte, M. come Mario: è l'adolescenza di Mario. Son le due. Mario apre lo
sportello. Fa freddo. Ha la tosse. Un pò per il fumo. Un pò per il freddo. Il giro in
barca è terminato. Si tuffa e riemerge alla deriva dove, fermo e fiero, come il dio
nettuno, si scalda ai raggi lunari. Navi da crociera, splendidi mercedes e bmw, solcano la
sua rotta...son qui per lui. Grassi capitani borghesi che fuggono dalle mogli. Venti anni,
dei pesci. Ha lasciato l'università. Studiava lettere ma non gliene fregava un cazzo del
latino e di Dante. Ama dormire di giorno. E sognare di notte. Sopraffatto dall'indolenza,
tipica dei pesci, si è perso nei teatri della volontà. Caro, dolce Mario. E la sua
volontà diventa quella altrui in atti di concessione generosi come il pane. Mario sfila
il piacere dai portafogli dei grassi borghesi che trovano nei suoi abbozzi la misera
perversione della trasgressione senza misura. E, contenti, loro, i grassi borghesi dagli
occhi di bambola, tornano a casa e si lavano con i profumi delle camicie inamidate e la
lavanda delle bianche lenzuola di cotone. E l'odore del sesso, quello cattivo, sparisce
all'odore di cipria delle mogliettine. Ma Mario rimane depositario degli umori, quella
volontà frustrata di puro godimento. E il fumo impasta gli odori all'essenza mentolo dei
cleenex...e il sangue, rosso come le rosse marlboro, scivola sulla pelle di daino delle
mercedes. Son le quattro...e il freddo è più intenso. Mario decide se aspettare sveglio
l'albeggiare o accompagnare la discesa della luna col suo sonno. Torna a casa, son le
quattro e mezza. Sfila dalla tasca rotoli accartocciati di banconote; le getta sul tavolo
senza il minimo riguardo. Accende lo stereo e inserisce un cd. Va in camera da letto, si
spoglia e si mette a dormire con la musica in sottofondo. E quando la musica finisce lui
diventa il compositore delle sue melodie. La mattina è sempre rabbiosa e severa con lui.
Lo accoglie con il frastuono delle macchine, macchine d'ogni genere, dagli uomini alle
automobili...ai respiri affannati degli occhi di bambola che fanno un casino tremendo.
Sorseggia un caffellatte scuro e bollente, amaro. Mentre osserva, a mattina inoltrata, i
rituali di una veloce preparazione al pranzo. E riconosce, dalla finestra, i privilegiati
a pagamento; i suoi uomini, il capofamiglia, il buon padre di famiglia, che, se non fosse
reato si farebbe pure il figlio, potandolo alla prima tempesta ormonale. E Mario osserva
il groviglio di bambole attraverso il suo vetro, su cui si posa la condensa del suo fiato,
di marlboro rosse e caffellatte. Mario abita in una cittadina di provincia: né troppo
grande, né troppo piccola. Abita solo, ha pochi amici, molti conoscenti. Spesso va al
cinema ma rigorosamente da solo. Come quella volta in cui vide "Jules e Jim" di
Truffaut. E immaginava di vivere come lei, Jeanne Moreau, l'unica donna, protagonista non
protagonista del dramma umano. E ancora l'uomo, come entità maschile, vinse. Ma lui,
Mario, incarnava quell'uomo, come entità umana, non più uomo...e allora ha perso due
volte, come donna e come uomo. E fu l'unico a ridere per la morte di Jeanne Moreau...e
spesso, in seguito, si specchiava assieme alla luna su un qualunque fiumiciattolo che
percorreva, immaginando di gettarsi...ma non avrebbe avuto nessun soccorso, lui. E durante
i lunghi itinerari notturni incontra gli altri spettri. C'è Maria. Ma gli spettri non
hanno bisogno di presentarsi per amarsi; bastano gli occhi. Maria, a venticinque anni, é
stata investita dal senso di inutilità, da un lungo e nero nichilismo. Ha compreso
l'insensatezza della vita stessa, della sua e delle altre. E non riesce ad esser felice.
Sguardo inquieto e cute pallida, diafana ed eterea, fa compagnia ai monumenti ed ai
piccioni, di tutte le piazze della città. E tutte le panchine bagna delle sue lacrime. E
Mario la scruta, incuriosito. Nei loro reciproci sguardi c'è più solidarietà di quanta
ce ne sia fra gli amanti. Ma mai ebbero la sfrontatezza di rivolgersi parole; e in quel
pudore risiede l'amore di Mario, un amore muto ma violentissimo. Un giorno le panchine
cominciarono a morir di sete: niente più lacrime, niente più Maria. E Mario lasciò
morir di sete le panchine. Ma da quel giorno, ogni giorno, un fiore a seccare sulla
panchina poggia. E si inonda di lacrime, mentre indifferente vaga per le strade, offeso
dai sorrisi del mondo. E' nell'anonimato degli esclusi, firmarsi con un linguaggio
universale, per non appartenere ai dolori e alle gioie. E Mario è abilissimo nel nutrire
di silenzio le sue emozioni. E ci si stupisce di come rimanga sempre lo stesso, graffiante
pelle nera sul dorso e gambe di jeans...ma è dentro che lui vive, è dentro che nasce
ogni brivido, ogni violenta emozione. E Mario è un condannato alla
vita...paradossalmente, vivo. E sconta le condanne del mondo per il suo privilegio. Ma
nessuno gliel'ha mai detto e lui non lo sa. Ma il sacrificio è proprio questo. E' un
Adamo post-moderno che ha la missione involontaria di ricominciare il mondo, spargendo il
suo seme nei residui uterini imperfetti ed impropri. E tutto il seme in grado di fecondare
il mondo sarà all'origine di una nuova umanità, di spettri e silenzi, ma d'amore, tanto
amore. E allora dammi la mano. E spegni quel sorriso che m'inganna...sono io,non mi
riconosci? non hai paura della morte, e ti riconosco! mangi quando hai fame e sei mio
fratello ché mi tendi la mano senza presentarti. Sei mia madre ché mi offri latte dalle
tue tette senza che io sia il tuo figliolo piccolo ed affamato. Sei il mio amore ché
d'amor solo morir sai. Siamo noi...i nuovi uomini. |