Vincenzo Andraous non mi reputo uno scrittore né un poeta, credo di avere qualcosa da
comunicare, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno, o salvare alcuno dal
proprio destino. Raccontarci la nostra storia personale può significare la nascita di una
amicizia, di un sentimento gratuito, allora anche la mia storia, la mia gran brutta storia
può diventare motivo di riflessione per tentare di intravedere il pericolo dei rischi
estremi, in quel mito della trasgressione che spesso diviene devianza
e poi risalire
dal baratro diventa difficile. Sono una persona che disegna con le parole ciò che sente,
non sono visivo, ma uditivo nel mio percepire le cose, i fatti, le persone. Ho imparato a
scrivere leggendomi e credo sia importante leggere ciò che la mente e il cuore tracciano,
perché sono orme e impronte digitali che sovente inducono ad ascoltare note nascoste ben
al di sotto del primo strato.
Vincenzo Andraous è nato a Catania il 28-10-1954, una
figlia Yelenia che definisce la sua rivincita più grande, detenuto nel carcere di Pavia,
ristretto da ventotto anni e condannato allergastolo FINE PENA MAI.
Da sette anni usufruisce di permessi premio e lavoro esterno in art.21, da un anno e mezzo
è in regime di semilibertà svolgendo attività di tutor-educatore presso la Comunità
Casa Del Giovane di Pavia.
Per dieci anni è stato uno degli animatori del Collettivo Verde del carcere di Voghera,
impegnato in attività sociali e culturali con le televisioni pubbliche e private, con
Enti, Scuole, Parrocchie, Università, Associazioni e Movimenti culturali di tutta la
penisola.
Circa venti le collaborazioni a tesi di laurea in psicologia e sociologia.
Etitolare di alcune rubriche mensili su riviste e giornali, laici e cattolici;
altresì su alcuni periodici on line di informazione e letteratura laica, e su periodici
cattolici di vescovadi italiani; ha conseguito circa 80 premi letterari; ha pubblicato
sette libri di poesia, di saggistica sul carcere e la devianza, nonché la propria
autobiografia;
Non mi inganno edito da Ibiskos di Empoli
Per una Principessa in jeans edito da Ibiskos di Empoli
Samarcanda edito da Cultura 2000 di Siracusa
Avrei voluto sedurre la luna edito da Vicolo del Pavone di Piacenza
Carcere è società edito da Vicolo del Pavone di Piacenza
Autobiografia di un assassino-dal buio alla rinascita edito da Liberal di
Firenze
Oltre il carcere edito dal Centro Stampa della Casa del Giovane di
Pavia.
I volumi possono essere richiesti allautore, che li spedirà celermente. |
Ciò in forza della fede che
ognuno professa, sia anche quella di un amore finalmente coraggioso per l'altro.
Non difendo Sofri, né cerco di fuorviare dal carico di lacerante disperazione di quella
famiglia a lutto.
Ragiono come dovrebbe ragionare una Giustizia non succube di momenti emozionali
emergenziali. Una Giustizia che è tale, perché è giusta ed equa, e non perché potente
e altisonante.
A quale scopo detenere Sofri oggi? Per quale motivo agire nei suoi confronti? Per quale
ulteriore mandato decidere di reciderne la volontà?
Non è mia intenzione comparare il messaggio cristiano con il nostro sistema giuridico,
né porre su binari convergenti le parole di Cristo con il diritto penale. Non ne sarei
capace, ma obiettare che un uomo che non confessa, devia dal primo gradino della propria
conversione, mi sembra alquanto improprio. Primo perché, se Sofri foss'anche colpevole,
quella confessione andrebbe riportata a Cristo stesso o al suo ministro.
Secondo, perché il Tribunale, lo Stato, la società reprime una condotta socialmente
dannosa, e giudica gli atti posti in essere da quella persona. Non quella persona.
Non difendo Sofri, né prendo parte al banchetto degli avvoltoi, né mi siedo a destra o a
sinistra sullo scranno più alto. Non voglio neppure tirare per il bavero Gesù e la Fede,
neanche voglio commuovere la platea irosa che chiama a raccolta.
Piuttosto mi viene spontaneo affermare che lo Stato non è capace della generosità del
perdono, se non per un puro calcolo di opportunità.
E se l'obiettivo di uno Stato è la rieducazione nella funzione della pena, mi chiedo cosa
c'è da riformare, destrutturare e ristrutturare, in un uomo, oggi detenuto, come Sofri?
Uno Stato non si spende per la conversione del reo ( figuriamoci di un innocente che muore
senza mai invocare alcuna pietà d'accatto ), ma se vogliamo, arbitrariamente, discutere
di ciò, allora è la storia personale dell'uomo Sofri, quella sbandierata dai giornali,
dalla televisione, dalle cronache a metter fine al dubbio, perché da quei lontani anni di
slogans e sangue, è proprio il Sofri di oggi a disegnare il percorso di una conversione
ove si riconosce la centralità dell'uomo.
No, non difendo Sofri, perché la mia storia ha la pancia piena di sbarre, di catene, di
scarponi chiodati, di eredità e fardelli inestricabili, conosco il male fatto e il dolore
arrecato, ancor di più quant'è impervia la strada che porta alla consapevolezza del
peccato, di cosa è giusto e di cosa è infinitamente sbagliato.
Proprio per questo motivo, penso che cucire addosso a Sofri termini quali rieducazione o
conversione, risultino spartiti che non decanteranno lodi per alcuno.
Uno Stato e quindi una collettività hanno tutto il diritto di difendersi, mai di
vendicarsi. Chi ha infranto le regole del vivere civile paghi il proprio debito, ma abbia
la possibilità di riparare al male fatto, perché una società giusta non può e non deve
volgere le spalle a chi è fin'anche ultimo, ma nel tempo è diventato un uomo nuovo.
E del resto, rimane forse la terribile domanda di Primo Levi: " chi dà a voi il
diritto di perdonare?".
DOVE MUORE LA CIVILTA'
Tante, troppe volte ho scritto, abbiamo scritto del e sul carcere,
infinite volte ai silenzi assordanti sono seguiti sofismi e editti che sono rimasti
lettera morta.
Grosse fette della Società, delle Istituzioni, dei Governi trapassati/attuali, hanno
speso parole e intenzioni, ma opere ben poche, se non quelle del redigere rapporti di
morti sopravvenute e di utopie tutte a venire: nonostante le dimensioni di una disumanità
ormai divenuta regola, di un moltiplicarsi tragico di suicidi, di autolesionismi, di
miserie umane così profondamente deliranti, che l'orda barbarica, storicamente così
definita dal carcere per i suoi abitanti, s'è tramutata in una colonna sgangherata di
esseri perduti, senza più inizio né fine, senza più una professione di fede, neppure
quella della strada.
Il popolo della galera non ha più generazioni da consegnare alla storia, quelle che in
essa si sono imbattute, sono ormai annientate e hanno portato con sé la rabbia, il
furore, la follia.
Oggi rimangono in quelle celle fila male intruppate di uomini privi di lingua, di simboli,
di segni, soprattutto di memoria da tradurre e rielaborare.
Del carcere si parla per scatti, per ripicche, per reazione, per un'Erika, per un Piatti,
per un nero o per un giallo, per un ladro e per un assassino, se ne parla per non parlarne
più, per distanziare un fastidio pressante, non per rendere giustizia a chi è stato
offeso né a chi l'offesa l'ha recata. Se ne parla per rendere nebulosa e poco chiara ogni
analisi, se ne parla per nascondere l'ingiustizia di una giustizia che tocca tutti, ma in
cui il messaggio trasmesso, potente e annichilente, impedisce di intervenire.
Il detenuto non è un numero, né un oggetto ingombrante
..lo dice il messaggio
cristiano, dapprima, e quello di umanità ritrovata poi, e invece la realtà che deborda
da una prigione è riconducibile all'umiliazione che produce il delitto, ogni delitto
nella sua inaccettabilità.
E' proprio questa irrazionalità che ingenera pericolose disattenzioni, a tal punto da
ritenere il recluso qualcosa di lontano, estraneo, pericoloso, qualcosa di non ben
definito.
Dimenticando che stiamo parlando di persone, di pezzi di noi stessi scivolati
all'indietro.
Carcere duro, carcere hotel, sottonumero di organici, corpi speciali e corpi adagiati
stancamente su piedistalli di carta.
Lamenti e grida, sostituiscono le devastazioni, i massacri e il delirio di onnipotenza di
ieri, fino a formare l'ossatura del carcere odierno, composto per lo più da una
grammatura incontabile di commiserazione, che neppure intende sottrarsi alla sepoltura di
ogni dignità calpestata.
Eppure, nonostante le fratture, le lacerazioni, le assenze eterne siano le fondamenta su
cui poggiano le ultime speranze, è palese il tentativo di una involuzione pilotata al
passato, che incoraggia al presente ideologie senza alcun Dio, se non quello della forza.
Nei decenni trascorsi tra sbarre e filo spinato, ho avuto netta l'impressione che
incapacitare fosse l'unica risposta da parte di una Società e quindi uno Stato di porsi a
mezzo al dilagare della violenza. Sebbene tremendo nel suo effetto il contenuto, non
sorprende in quegli anni di rivolte e di ribellioni, l'intendimento di spersonalizzare e
annullare l'identità del detenuto.
Ma oggi che il carcere non rappresenta più uno zoo umano, ma un contenitore di numeri e
di miserie, a che prò riproporre le armi della sola repressione.
A che prò rifiutare una realtà infarcita di membra piegate e piagate.
A che prò, proprio ora, che il lamento non è più un grido di guerra.
Forse siamo preda di una visione che ci obbliga a rifiutare la realtà che c'è.
O forse siamo addirittura dei bugiardi incalliti, e ciò ci obbliga a raccontare una
realtà che non c'è.
E' vero, il detenuto non è la vittima, infatti le vittime sono senz'altro altri, feriti,
offesi, scomparsi, ma il detenuto è persona che sconta la propria pena, che vorrebbe
riparare, se posto nella condizione di poterlo fare.
Rieducare, risocializzare, reinserire, non sono solamente termini e concetti trattamentali
da seguire e svolgere, essi purtroppo stanno a sottolineare l'inadeguatezza al dettato
Costituzionale, tanto che nell'impossibilità di rendere fattivo l'intervento rieducativo,
è assai più facile trincerarsi dietro i soliti scontati "motivi di sicurezza".
Ma non usare gli strumenti trattamentali e di contro incancrenendo la convivenza, ciò
equivale a dichiarare fallito l'ideale più nobile, quello della promozione umana.
Allora, sorprendersi se la funzione della pena è latitante, se la recidiva è galoppante,
se le menzogne superano di gran lunga la trama di un film, è pura disonestà
intellettuale.
A chi parla di privilegi, di lussi impropri, basterebbe davvero osservare volti e mani di
detenuti in qualche carcere, per rendersi conto del livello di abbruttimento raggiunto, di
quanto questa situazione di indifferenza e solitudine imposte, di mancata applicazione di
quella famosa parola a nome rieducazione, risulti deleteria per la persona ristretta.
Non so di quale carcere si parli, ma so di un carcere che non ha più al suo interno
spinta a rinnovarsi, so di un carcere popolato di uomini vestiti non tanto e solo di
rabbia o odio, ma di paura e stanchezza.
Uomini che se non aiutati a migliorare, rimangono al palo, con la sola aspettativa di
scontare in fretta la propria condanna, e ciò senza alcuna consapevolezza del presente,
senza vista prospettica, senza figura del futuro, in una sola parola senza speranza.
Chi conosce poco del carcere, di questa condizione inumana, dove è vietato persino
sentirsi utili, responsabili, con delle prospettive, ebbene a costui sfugge il senso di
questo arbitrio.
Forse qualcuno pensa che inchiodare il detenuto in uno stato di inazione e alienazione,
comporti la fatica minore, perché così facendo egli sconta la propria condanna senza
rompere le scatole a nessuno.
Ma questo agire è nuovamente un inganno, perché quel detenuto non è in una situazione
di attesa, dove il tempo serve a ricostruire e rigenerare, è l'esatto contrario: quel
detenuto non attende domani, egli è fermo a ieri, a un passato riprodotto e mascherato, a
tal punto, che tutto rincula a ieri, come se fosse possibile bloccare il tempo, come se
delirare fosse identico a sperare.
Rieducare ha costi elevati, comporta cadute e inciampi, ma per evitare il proliferare
della criminalità, è la sola strada maestra da seguire, il resto è per davvero
illusione.
Inoltre, a ben pensarci, se io riconosco il diritto alle regole da rispettare, quel
diritto a sua volta disciplina i rapporti con l'altro, e implica il riconoscimento di
tutte le persone, fin'anche del detenuto
Ma forse è proprio questo che si vuole
cancellare.
Un carcere ridondante di criminali irrecuperabili?
Ho l'impressione che il carcere italiano possa essere definito un involucro chiuso agli
uomini, alle idee, ai cambiamenti, così premeditatamente chiuso e imbullonato al
pregiudizio, che persino la pietà è divenuta un sentimento buonista. Tutto è buonista
nei riguardi del carcere, a tal punto che l'inumanità oramai è un effetto meccanico di
un contesto standardizzato, e allora perché scandalizzarsi, rischiando anche di essere
annoverati nel movimento dei caritatevoli, o peggio dei sostenitori del male.
Guardare da un'altra parte, quando in carcere ci sono tasselli di vita mancanti alla
nostra?
L'esperienza mi insegna che coloro che hanno fatto del male, hanno soltanto una via da
percorrere per ritornare a essere uomini nuovi, una via che non è soltanto quella dei
venti o trent'anni di carcere da scontare, ma quella della ricerca di azioni nuove per
tentare di rimediare e quindi accorciare le distanze. Ma perché ciò possa diventare
terreno fertile per costruire insieme un carcere a misura di uomo, occorre parlare dei
problemi veri, affinché una Società e una Giustizia equa, possano davvero sperimentare
ciò che è lecito da ciò che non lo è. |