Alessandro
Altogarrese
nasce in Persia, nel dodicesimo secolo. Subito dopo il parto, a
causa di un errore della balia, viene scambiato nella culla con 'Omar Khayyâm; l'equivoco
sarebbe durato per tutta la vita dei due. All'età di diciotto anni, partecipa allo sbarco
in Normandia, schierato con i Guelfi. Si racconta - ma è una voce evidentemente falsa -
che dopo pochi giorni sia rientrato negli Stati Uniti, non sopportando la cucina francese,
troppo raffazzonata.
All'età di ventiquattro anni, stanco del suo lavoro di commesso in un negozio di elefanti
a Lisbona, comincia a scrivere e lo fa soprattutto di notte. Questa attività terminerà
qualche mese dopo, con l'arresto e una grave accusa: una signora non vedente, ma tenuta in
gran conto per le sue origini aristocratiche, giurò di averlo visto comporre un sonetto
usando uno spray trasparente sui muri della città di Mostaganem. La donna precisò poi,
sotto giuramento, che avrebbe anche lasciato correre, se la metrica non fosse stata
palesemente errata.
In compagnia di un giovane albino discendente di Lightnin' Hopkins, esce dal carcere di
Kathmandu, convincendo il Tribunale della Libertà che, causa la bassa pressione
atmosferica, l'aria delle celle era diventata irrespirabile. Fonti vicine all'autore
affermano che, negli anni della prigionia, intrattenne un denso carteggio privato con
l'uomo di Neanderthal, ma per parte nostra non ci sentiamo di confermare la notizia,
poiché da un lato l'Altogarrese sostiene che la carta da fax sbiadì e, dall'altro, il
preistorico, intervistato in punto di morte, negò con un sorriso.
Dopo la liberazione, sbarca a Otranto, dove fonda un complesso jazz che suona solo cover
di Domenico Scarlatti. Vende quasi cinque milioni di CD riscrivibili e poi si ritira a
vita privata con sua moglie - che tuttora lo cerca - in un appartamento all'incrocio fra
la quinta avenue e la sessantaquattresima, a N.Y.. E' stato visto in buona salute, per
l'ultima volta, in un fotomontaggio. |
Pausa
pranzo Pausa pranzo in un ristorante
invaso da bancari in apnea; mangio insalata di tutto, assieme ad un intero cestino di pane
casereccio. Cosa beve signore? Acqua minerale, non gasata. Non vuole assaggiare un calice
di tocai? No, grazie, solo acqua, il vino mi fa venire sonno. Chiudo il mio libro (sto
leggendo L'educazione sentimentale, ma solo perché Woody Allen afferma che è uno dei
motivi per cui è felice di vivere) e conquisto un quotidiano che un mangiatore di
prosciutto ha abbandonato sulle briciole. Per molte buone ragioni apro a caso, non
comincio mai dalla prima pagina. Gli sbarchi dei Curdi non hanno più il loro fascino: i
Carabinieri arrivano sempre prima dei clandestini e i giornalisti prima dei Carabinieri; i
candidati fascisti mi rovinano la digestione: le loro idee sono sempre così prive di
gusto; le code sull'autostrada mi fanno sbadigliare, sono ogni anno uguali a quelle
dell'anno prima; i delitti mi annoiano: a distanza di dieci anni, sono sempre imperfetti;
delle guerre non ne parliamo: come disse Pessoa, "Ce n'è sempre qualcuna in corso,
che ormai non provocano più orrore ma tedio." Allora, vado alla pagina della
cultura, c'è un articolo in cui Ermanno Olmi dice che non c'è più speranza, perché i
giovani hanno tutto e non sanno più fare la rivolta come la facevano trent'anni fa e,
quando tirano fuori le gonadi per farla, subito TV e giornali cominciano a macinarla e a
farla così palesemente bere a tutti, con telecamere e interviste, servizi speciali e
aggiornamenti ogni trenta minuti, che, dopo un paio di giorni, già si ricomincia a
preferire la polizia agli antiglobal e il partito di maggioranza ai ribelli e si torna con
mestizia alle solite occupazioni, cioè mandare sms, provare top estivi e leggere Dylan
Dog.
Ha talmente ragione, che mi passa la voglia di leggere. Mi pulisco le labbra e vado a
pagare. La cassiera, mentre ritira uno dei miei buoni ticket restaurant, comincia a
parlarmi; le ho rivolto più di venti parole durante l'ordinazione e ora si sente in
dovere di srotolarmi i fatti suoi, non sapendo che sono perfino meno interessanti dei
miei. Divincolatomi, me ne esco e mi è già passata la fretta e la voglia di tornare a
lavorare.
Mi restano ventisei minuti (i secondi li lascio come immeritata mancia al meccanismo della
storia), così decido di andare a prendere il sole ai giardini. Il cielo è come lo vide
Paolo Conte quando compose Azzurro: "Di un blu così intenso che, per contrasto,
moltiplicava la solitudine". Tolgo la giacca e ne faccio cuscino, il camoscio tocca
terra e s'impolvera (ma che importa, non lo fece anche da vivo?); mi stendo nell'erba (mi
viene in mente una pubblicità di Leanordo di Caprio, ma per fortuna io non somiglio ad un
pelo di figa come lui), una delle mie scarpe si graffia su un sasso e il cuoio lucido si
riga; se c'è una cosa a cui tengo è avere le scarpe lucide (ma che importa, non fu già
marchiato il bue?). Il sole è forte, l'ho sulla faccia, il cielo è del colore del mare
quando è lontano o sognato e le foglie delle grandi querce s'inchinano. Che giorno è? E
chi lo sa, io non ho nome, sesso, origine e bisogno di niente.
A qualche metro da me, due ragazze di chissà che età sono sedute educatamente su una
panchina; suppongo siano ventenni e fatte in serie: questa stagione, gli effetti di Donna
moderna, Amica e MTV sono le gonnelline anni cinquanta, i corpetti innocenti ma fatali e
le borsette col manico corto. Appena arrivo io, smettono di parlare, forse dicevano cose
tutte loro e dovrei sentirmi un intruso. Sì, in questi casi, mi sento un intruso e sono
capace di andare a scegliere un altro posto lontano, per non imporre la mia presenza o
perché non si parli di me; ma oggi no, si spostino loro. Mi sento in me, in un luogo
immenso e privato, come allo specchio del mio bagno mentre mi rado.
Una delle due ragazze ride, dà un calcio all'altra e dice: "Scema!" e continua
a ridere. In un giorno qualsiasi, mi chiederei se stiano ridendo per me, ma oggi sono
innocente come un bimbo con leccalecca in mano persosi alle giostre, neutro come una crema
dopobagno per signora, invisibile come il sogno di un altro.
Un quarto d'ora dopo, mi alzo e me ne vado; il tornare in ufficio, adesso, è cosa da
nulla, come la traversata di un cammello che ha bevuto per la vita intera. Gli avambracci
che scottano, riprendo l'auto e guido che le ruote non toccano l'asfalto, né io il
sedile; il volante si muove da solo e la radio dà un pezzo di Hendrix di cui non conosco
il titolo, ma a un certo punto la musica si ferma e lui canta: "Scusatemi, vado a
baciare il cielo
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