SOTTO UNA
LUNA PUTTANA C'è una deviazione al
chilometro 31 della Statale, appena fuori dal confine cittadino.
L'indicazione stradale, una freccia nera su campo bianco, arrugginita e sgangherata,
recita : "Zona industriale".
Il traffico che staziona da quelle parti è una processione di auto-articolati, furgoni
commerciali e grosse auto metallizzate.
Si capisce che da quelle parti si lavora davvero. Il lavoro lascia dietro di sé l'aura
polverosa e grigia dei materiali e della fatica. Lo sporco del ferro e della vergella si
mescola con l'olio dei motori e con i mulinelli di polvere bianca che i veicoli sollevano
ad ogni passaggio.
Il colore ufficiale è il grigio.
Tollerato il blu delle tute da lavoro.
Non sono veramente strade quelle che si aprono ai lati della principale. Ognuna conduce in
modo deciso ad un piccolo piazzale sul quale si affacciano due o tre fabbriche. Lì , una
rotonda permette la circolazione del traffico.
Si viene e si va, da queste parti.
Si ha l'impressione che qualcosa di radioattivo pulsi segretamente da qualche parte sotto
di noi.
Ci si muove come in una centrale atomica.
Le persone hanno cartellette sotto il braccio o chiavi inglesi nel taschino.
Ciascuno si affanna e si annoia a suo modo.
Qui, se sorridi ti guardano male. Pensano che è in arrivo la fregatura.
Qui chi sorride ti frega. Quelli costretti a sorridere per contratto, i venditori, i
promotori, se la vedono brutta. Sono sempre nervosi e c'è da capirli. Sono quelli che
vanno più di fretta e che parlano a voce troppo alta.
Per far capire a chi gli sta intorno che sono sinceri nel loro sorriso, ridono forte alle
loro battute.
Poi si accorgono dell'equivoco e diventano ancora più nervosi.
Ma il momento peggiore è quando tutto finisce e tornano a casa.
Il viaggio di ritorno macina fegati come chilometri.
L'astuto spegne la testa e accende la radio.
Tutti si muovono.
Ora è notte e la zona è deserta.
La famosa città fantasma è questa.
Una di loro.
Io sono diretto all'altra estremità. Quella più antica, una volta occupata dalle grosse
fabbriche del ricco passato di questi territori industriali.
Certo, quelle smantellate.
Stanno lì nella caricaturale opulenza dei cancelli in ferro battuto a mano.
Ci volevano tre persone solo per aprire il cancello che, del resto, si apriva due sole
volte al giorno, per permettere agli operai di entrare e di uscire.
Tre quando arrivava il carico del materiale da lavoro.
Qui la tecnologia agli infrarossi ha mietuto vittime ignare.
Guardo le riproduzioni di falchi in marmo sulla cima dei torrioni
della fabbrica.
I loro occhi sono vuoti.
Dal becco aperto e dalle intenzioni bellicose si intuisce invece una lenta agonia.
Vegliano erbacce e preservativi. Nascondono il capo sotto le ali quando sentono urlare in
lontananza la città.
Presentano tremori agli arti e alzano troppo il gomito la sera del sabato, provando tuffi
al cuore al pensiero di quando la vita sarà solo una lunga serie di sabati.
Distolgo lo sguardo.
Qui la strada asfaltata finisce. Comincia una teoria di viottolo, sventrato dalle buche e
semi alluvionato a causa di lunghe ferite parallele scavate da pneumatici chiodati.
La vegetazione è selvaggia e ostile. Grigia e malata, sputacchia e scatarra come un
vecchio col suo enfisema. Certi ramoscelli hanno pure la baldanza di protendersi fino
quasi alla metà del viottolo, brandendo spine, spigolature e asperità.
Ne spezzo qualcuno con soddisfazione badando a non ferirmi.
Odio la natura, la sua voracità, il suo tutto o niente. Mi infastidisce quel pigolare
incessante di becchi smaniosi, quel "io o te" definitivo, quella sensazione
perenne di doversi guardare alle spalle.
Quando mangi, quando scopi, quando dormi.
Li ascolto, quando alla radio parlano di ritorno alla natura.
La natura qui, la natura là.
Madre Natura. Scritto con la maiuscola.
L'unico scopo della natura è ucciderti.
Dai alla natura una possibilità e sarà un balzo improvviso a toglierti di torno, oppure
un guizzo nell'erba una notte di luglio, un virus retromutante che inali mentre le baci il
collo sul divano di casa.
Hai solo una possibilità per sfuggire agli agguati della natura.
Uccidere a tua volta.
O di qui o di là.
Tutto o niente.
Non esiste il ruolo dello spettatore, in natura.
Scordatelo.
E' per questo che mi trovo a disagio a contatto con la natura.
Pretende un ruolo da me. Mi invita a schierarmi con gesto scocciato. Si porta il
fischietto alle labbra. Mi reclama come suo figlio.
Esercita dei diritti.
E' con questi pensieri che arrivo in prossimità della vecchia
fabbrica di cascami.
E' persino bello a suo modo, qui.
Il fitto bosco si interrompe di netto e lascia spazio ad una visione onirica. Una radura
coraggiosa, che annovera tra le sue file sterpaglie e gramigne, si è fatta largo
sgomitando il bosco e costringendolo a fermarsi.
Poi sono venuti i mezzi pesanti della fabbrica a supporto della radura e la battaglia è
stata vinta.
Per il momento.
A lato del viottolo c' è uno steccato diroccato, tenuto insieme
con del filo di ferro attorcigliato. Un cancelletto sghembo che pencola da un cardine è
ciò che mi separa da Sandro.
Una baracca sconclusionata si staglia in mezzo alla radura.
C'è un piccolo patio di legno dipinto di verde bottiglia.
Una luce fioca illumina una sedia a dondolo sulla quale c'è Sandro.
Un piccolo registratore sta suonando la musica di Captain Beefheart.
Come sia riuscito a portare qui la luce elettrica rimane per me un
mistero. Ma è tipico di lui sapersi arrangiare nelle situazioni più disparate. Penso che
abbia effettuato una derivazione, collegando fili e tagliandone altri , visitando
nottetempo una fabbrica della zona.
Spalanco il cancelletto scardinato.
Sono sporco di fango fino alle caviglie.
Altro regalo di Madre Natura.
Ora che sono vicino alla meta, sento il bisogno di guardarla ancora
una volta da solo prima di raggiungere Sandro sul patio.
La guardo.
E' bellissima.
Devo frenare la commozione perché mi causa brutti scherzi.
Sono debole in presenza della bellezza.
Mi turba.
Mi fa male dentro.
Però la guardo.
Dio com'è bella.
Lei ricambia il mio sguardo in silenzio, da vera signora.
Lei è la luna più bella che abbia mai solcato il cielo la notte.
Lei è tutto.
Lei è mia.
Respiro.
Una, due volte.
Riprendo i miei passi.
Il patio. La sedia a dondolo. Sandro.
Alza un braccio a metà.
E' un saluto.
Sembra un capo indiano, ma è ben lungi dall'esserlo.
Siede immobile. La barba incolta sottolinea e rimarca le occhiaie nere. Lo sguardo è
cattivo, puntato dritto verso il buio davanti.
Una minaccia. O una sfida.
Rabbia repressa.
Indossa logori pantaloni da lavoro e una maglietta degli Alarm che
è un intero campionario di macchie e strappi. Gli occhiali gli cadono sbilenchi sulla
destra.
A me la cosa darebbe un fastidio insostenibile, fisico.
Lui non ci fa caso.
In mano tiene una bottiglia di birra di marca , dalla quale ogni
tanto prende sorsi feroci, senza mai staccare gli occhi cattivi dal buio oltre lo steccato
diroccato.
Poco più in là intravedo quella che sembra la parodia di un orto.
Viticoli e piantine spuntano esili e fragili dal terreno. L'aspetto è quello di un
esperimento fallito che ha causato la rabbia distruttiva degli sperimentatori.
Un senso di sconforto mi prende alle spalle.
Non sono stato invitato a sedermi, nè del resto vi sono altre
sedie lì in giro.
Resto in piedi a sentirmi a disagio.
Lui è imperturbabile.
Dondolo il peso da un piede all'altro.
Niente.
"Vieni al dunque.", mi dice freddo.
Mi accorgo che non trovo le parole.
Ciò che fino a un attimo prima mi appariva chiaro, disegnato a caratteri cubitali sulla
lavagna della mia mente, è stato cancellato con un unico singolo gesto.
Annuso la polvere della confusione.
Mi ascolto biascicare qualcosa.
"Non si capisce un cazzo di quel che dici."
Per la prima volta sposta lo sguardo su di me.
Non è più cattiveria quella che il suo sguardo mi rimanda.
E' sdegno, il che per me è peggio.
Ritrovo un attimo di dignità.
"Sono venuto per lei.
Per chiarire."
Sandro piega il labbro inferiore in un angolo distorto.
"E' tardi.", succhia l'ultimo goccio dalla bottiglia e la
scaglia lontano in un ammasso di rovi. Ne afferra un'altra e la stappa con il manico di
una forchetta.
Beve.
Tardi per cosa? Perché ? Vorrei chiederglielo, ma sento che la
confusione scombina tutte le mie parole.
"Ieri me la sono fatta.", dice senza espressione.
Si volta piano verso di me per vedere che effetto mi ha fatto.
E' solo curiosità, non premura.
"Mugolava e ne chiedeva ancora.".
Silenzio.
" Sfondava una porta aperta
.."
Sento il sangue diventare ghiaccio nelle vene.
Una parte di me urla che non è vero, bastardo, un'altra è muta e sgomenta perché ha
capito che è vero.
"Era quello che volevi, no?".
Non capisco.
"Sta scritto. Lei ti sdegna.".
La sua freddezza, la mia realtà.
"Conosco il tuo segreto. E ora lo conosce anche lei."
Abbasso il capo e mi muovo nervosamente per il patio.
Sento nel cervello una caldaia a pressione che sbuffa e sfiata.
Afferro una bottiglia vuota e mi precipito giù dagli scalini.
Corro nel prato tendendo il braccio all'indietro. La furia, il dolore e la realtà sono
una cosa sola. L'urlo nasce dalle viscere, sale vorticoso dalla gola e sfonda la fragile
membrana delle labbra.
"Puttanaaaaa!", urlo e lancio la bottiglia contro il suo
volto impassibile.
Seguo il percorso del lancio e vedo il proiettile sfiorarle il profilo e perdersi lontano
nel buio.
Mi accascio sulle ginocchia.
Passa un certo lasso di tempo durante il quale non succede niente, non penso a niente, non
provo niente.
Il ritorno al patio è mesto.
Sento in bocca l'acido del mio stomaco.
Ma non credo di aver vomitato.
Sandro è ancora lì.
"L'hai mancata.", constata impassibile.
"L'hai fatto apposta. Nemmeno questo sai fare.", sputa per terra quello che
sembra un grumo di sangue.
O un dente.
Penso dentro di me "Che ti sta succedendo, Sandro?" ma
quello che lui vede è il torcersi delle mie mani.
Ha un gesto nervoso e scocciato al contempo.
"Fai quello che devi fare e levati dai coglioni. In
fretta."
"Si
subito
", rispondo sorprendendomi del tono
di premura nella mia voce.
"Adesso ?"
"Sei anche sordo ? Fà quello che devi fare. Ma fallo, Cristo,
fallo."
Abbassa lo sguardo per un istante.
Darei la vita per cogliere quel pensiero.
Poi capisco che non sarei in grado di sopportarlo.
Sandro risolleva lo sguardo e la luce è ancora nera, cattiva.
Entro nella baracca.
Un giaciglio in un angolo. Un tavolaccio scrostato in mezzo alla
stanza. Una cucina da campo, o così mi sembra, pare sfiancata dal tempo assassino.
Un piccolo frigorifero nel lato più buio del locale soffre in silenzio. Il cavo elettrico
che lo congiunge ad un impianto improvvisato è consunto e lacero.
Apro lo sportello.
Un tubetto di maionese, venti bottiglie di birra di marche diverse,
un gambo di sedano.
Il sedano mi stupisce.
Nell'incavo dello sportello una bottiglia di latte.
Controllo la scadenza. Scade domani.
Cerco un bicchiere e ne trovo uno sul piano della cucina. Lo pulisco con il lembo della
camicia e lo riempio con una generosa dose di latte intero. Bianco. Schiumoso.
Osservo in controluce il biancore del latte. Ma non è così bianco. Mi appare grigiasto e
la cosa mi disturba.
Sul tavolo un attrezzo che funge da apriscatole, cavatappi e
chissà cos'altro.
Non ho familiarità con questi arnesi. Lo prendo e ne apro le protuberanze. Ce n'è una
che assomiglia ad una lama, ricurva in punta e scanalata ai lati. Credo serva per le
scatole di latta.
Credo.
Torno sul patio.
S'è levato un vento leggero.
Forse tra qualche ora pioverà.
Se non qui, da qualche parte vicino.
Respiro senza particolare piacere quest'aria mossa e, a suo modo, viva.
Sorrido mesto.
Mi avvicino a Sandro da dietro.
Depongo il bicchiere di latte sulle sue mani tenute in grembo. Va a
fare compagnia alla bottiglia di birra.
Gli sollevo la testa prendendolo per il mento.
Delicatamente. Senza fretta.
So che dovrei dire qualcosa, ma ogni parola sembra stupida persino a me.
Gli squarcio la gola dovendo esercitare più sforzo di quanto immaginassi.
Però funziona.
Sandro cade in avanti.
La bottiglia fa crash e il suono mi indispettisce per un attimo.
Il bicchiere fa clonk e rovescia il suo contenuto sulla birra.
Il sangue arriva per ultimo.
Si unisce al latte e alla birra dando vita ad un quadro deforme in
perenne cambiamento.
No. E' più una bandiera che garrisce al vento.
I colori sono il giallo, il bianco e il rosso.
Nella pozza che circonda le mie scarpe vedo riflessa lei.
Ha visto tutto.
Distante. Lontana.
Lei.
Piccole onde in questo minimo oceano di fluidi deformano il suo
volto e poi lo ricompongono.
La cosa ha un suo fascino, è innegabile.
Getto il cavatappi-apriscatole e mi pulisco le mani contro i
pantaloni.
Così facendo creo un disastro.
Non mi importa.
Spengo il registratore con un tlack secco. Un miracolo che quel
residuato funzioni ancora.
Un Grundig degli anni settanta. Monofonico.
Ne avevo anch'io uno così quando...quando...
Un clacson discreto e puntuale segnala la presenza di un auto fuori
dal cancelletto scardinato.
Guardo in quella direzione.
Mi riassetto.
Sono combattuto all'idea di voltarmi indietro e di guardare un
ultima volta la baracca, Sandro, il Grundig.
Non so se lo faccio.
Arrivo al cancelletto.
La mia Limousine aspetta col motore acceso
Mi piace guardare il pennacchio di fumo colore grigio immacolato che esce dalla coppia di
tubi di scarico.
E' bello. E' allegro.
Battista mi attende in posizione rigorosa accanto alla portiera che
tiene aperta con gesto cerimonioso.
Guardo sempre il suo berretto quando ne incrocio lo sguardo.
Ma lui non lo sa.
"Il signore ha passato una buona serata ?", mi chiede
impeccabile.
"Così-così,", rispondo esibendo un involontario fare
annoiato, "ho vissuto di meglio.".
Mi faccio schifo da solo quando rispondo così.
Mi butto sul confortevole sedile di pelle e ne apprezzo il fresco
ristoro.
In qualunque stagione ti dà un senso di...di...appartenenza. Ecco, si. Di appartenenza.
Battista mette in moto e l'auto procede a leggeri sobbalzi sul
sentiero sconnesso.
Sospensioni D.O.C., nulla da dire.
"Dove vuole andare, signore ?". Il tono è untuoso e
tradisce il disprezzo.
"A casa, a casa. Sono molto stanco.".
Mi odio. Mi odio.
Vorrei aver tenuto con me quel cavatappi.
No
non ne avrei mai il coraggio.
"Come il signore desidera.", risponde Battista guardando
fisso davanti a sé la strada, più da intuire che da vedere.
Per fortuna quelle sono le sue ultime parole.
Fino a casa non avrebbe più aperto bocca e questo era un gran bel sollievo.
Per sottolineare il mio distacco alzo il vetro divisorio tra me e
l'autista.
Che pensasse quel che volesse.
Mi sento baldanzoso.
Poi mi volto verso la radura e il mio stato d'animo cambia.
Battista mi osserva di sottecchi dallo specchietto retrovisore e mi sento a disagio.
Sprofondo sul sedile con fare tragico a appoggio la testa al freddo
finestrino.
Da lì la osservavo ferito e confuso con un buco nel cuore.
L'amavo come non mai. |