Antonio Voceri 1999 - Finalista al primo Concorso Letterario "Storie di
Provincia" organizzato dal Comune di Sarzana (La Spezia) in collaborazione con la
rivista "Inchiostro". Titolo del racconto: "Gli stonati e il
sottomarino".
2000 - Secondo classificato al XXIX° concorso nazionale per
il racconto sportivo del CONI. Titolo del racconto: "Dagli di pugno". (segue
l'agenzia del 29 maggio 2000). CONI / I VINCITORI DEL XXIX CONCORSO NAZIONALE PER IL
RACCONTO SPORTIVO (agc) - La Commissione Giudicatrice del XXIX Concorso Nazionale per il
Racconto Sportivo composta da Gianni Letta (Presidente), Novella Calligaris, Nino Petrone,
Folco Portinari, Gianfranco Teotino, riunita oggi presso la sede del CONI al Foro Italico,
dopo una lunga e approfondita discussione sulle numerose opere presentate ha unanimemente
deciso di assegnare il 1° Premio di L. 5.000.000 al racconto di Giovanni Francesio
"Il calcio". Il 2° Premio di L. 2.500.000 ex aequo ai racconti di Stefano
Ferrio "Il numero 47" e Antonio Voceri "Dagli di pugno". Segnalazione
con Targa d'Onore ai racconti di Federico Gaudimundo "Catarinussi René" e Lilli
Maria Trizio "Il tifo".
2001 - Terzo classificato alla prima edizione del premio
letterario "Orienthia - Diamo voce ai giovani" (Padova), nella sezione brevi
testi teatrali. Titolo del lavoro: "Colleghi a sonagli". |
In viaggio
con Edvar Mohamed aveva circa vent'anni,
nemmeno pochi in Senegal. L'occhio guizzante e l'espressione sveglia indicavano,
nonostante la giovane età, l'esperienza accumulata nell'arte d'arrangiarsi. Lo conoscemmo
poco fuori il nostro villaggio turistico, dove tutto filava per il verso giusto, al
contrario di ciò che avveniva nella realtà circostante. Ci stavamo guardando attorno
incuriositi, poco oltre la recinzione, quando ci diede il suo biglietto da visita. A suo
modo era un imprenditore e quel cartoncino sbilenco ne era la conferma più evidente. La
scritta, altrettanto obliqua, recitava: Mohammed Tour - vicino alla spiaggia. Niente male
come indirizzo.
Decisi di affrontare la vacanza africana con un paio d'amici di vecchia data. Io avevo
qualche noia al lavoro, Paolo e Umberto erano in un periodo di sfolgorante successo. In
entrambe i casi valeva la pena staccare la spina, in un luogo che nulla avesse a che
vedere con i nostri rispettivi habitat. S'avvertiva la necessità di spezzare una
quotidianità sempre più pressante e di sperimentare le consuetudini di un altro popolo.
Cosa difficile da fare, ci rendemmo conto, in un villaggio Alpitour, dove tutto è
ritagliato su misura per i turisti. Come noi, appunto.
Dopo aver meditato a lungo sulla proposta di Mohammed, accettammo.
Uscire dal meccanismo delle escursioni organizzate dal villaggio poteva rivelarsi
l'occasione buona per vivere qualcosa di realmente autentico. Così contrattammo il
forfait di una settimana, fissando l'appuntamento per la mattina successiva, allorquando
saremmo partiti per la prima escursione nell'Africa vera.
La tipica diffidenza dell'italiano medio - a volte anche giustificata - non ci fece
dormire sonni tranquilli. Avevamo allungato a Mohammed l'anticipo per il primo pieno di
benzina e temevamo che se la sarebbe squagliata con i soldi e con le nostre ambizioni
d'avventura. Insomma, la classica patacca. Ma Mohamed l'indomani si presentò puntuale,
con un furgoncino più che dignitoso provvisto di socio-autista. Dopo un sospiro di
sollievo, capimmo che sarebbe stato un tour in piena regola, e di buzzo buono ci avviammo.
In pochi minuti ci sentimmo a nostro agio. Superammo resistenze psicologiche e diffidenze
nel breve volgere di qualche curva. L'autista, con occhiali scuri un po' superati,
mostrava grande professionalità, mentre con Mohammed cominciammo a comunicare in un
francese approssimativo. Almeno, il nostro lo era.
Ci spiegò che era musulmano e che era il quarto di sei, tra fratelli e sorelle. Il
secondo in quel momento stava guidando, era l'autista. Il fatto che il più grande fosse
al volante e il più giovane a capo dell'impresa familiare, dimostrava lo spirito di
iniziativa di Mohammed. Superiore anche rispetto ai suoi più maturi consanguinei.
Inutile girarci attorno, Mohammed era in gamba. Con lui ci sentivamo al riparo da sgradite
sorprese. Il patetico terrorismo che precede un viaggio in un altro continente fu spazzato
via in un istante. Ci dissero che in Senegal c'erano scorpioni mortali e serpenti
velenosi; acqua inquinata, inondazioni devastanti e terremoti frequenti; guerriglie
tribali, terroristi islamici e cannibali ghiotti. Se anche fosse stato vero non c'era più
problema, eravamo con Mohammed.
La nostra giovane guida si sentiva investita di questa responsabilità. Eravamo i suoi
clienti e guai se qualcuno ci avesse torto un capello. Avvenne addirittura qualcosa di
paradossale, quando fummo noi a dover sottrarre un modesto borseggiatore dall'eccesso di
difesa di Mohammed. Il povero ladruncolo aveva provato ad infilare una mano nello zainetto
di Paolo, che per sua natura non brillava in quanto ad attenzione e scaltrezza. La dice
lunga sulla goffaggine del ladro, quindi, il fatto che se ne fosse accorto addirittura
lui. Mohammed, richiamato dalle proteste di Paolo, afferrò il borseggiatore per il bavero
dello straccio che indossava e cominciò a schiaffeggiarlo: dritto e rovescio, dritto e
rovescio
Dopo una dose di ceffoni che giudicammo sufficiente, intervenimmo in difesa
dello sventurato, ma Mohammed non voleva saperne: dritto e rovescio, dritto e
rovescio
"Su
può bastare, Mohamed
ca suffit
" Lo esortai.
Dritto e rovescio, dritto e rovescio
Mentre Mohamed incrementava la sua serie di
sberle, pur rallentando il ritmo per la fatica accumulata, ci riunimmo e decidemmo
d'intrometterci con la forza, separando finalmente il ladro dal suo aguzzino: dritto e
rovescio, dritto. Salvammo il borseggiatore da un futuro incerto. Fu qualcosa di realmente
autentico, non ci piove.
La nostra convinzione che Mohammed fosse un furbo fu corroborata da episodi altrettanto
eloquenti. Si procurava la benzina in luoghi alternativi alla distribuzione ufficiale (non
indagammo), approfittava del tour per tessere una fitta tela di contatti con ragazze di
ogni villaggio, beveva birra e mangiava come un forsennato, approfittando della nostra
ospitalità, incurante del Ramadan che era in pieno corso.
Non sono troppo osservante, disse. Alla faccia, pensammo noi.
Incongruenze a parte, ci mostrò il centro di Dakar e il mercato della frutta, le foreste
di baobab e il lago Rosa, dove arriva la Parigi-Dakar. Ci condusse alla spiaggia dei
pescatori, dove ne partono cento e ne tornano novanta ad ogni battuta di pesca. Attaccati
da un mare benevolo e maligno allo stesso tempo, ma anche dalle reti metalliche dei veloci
piroscafi belgi o italiani. Ci condusse sull'isola di Gorea, che ospitò le riprese del
film I Cannoni di Navarone, ci mostrò le tane delle formiche giganti e moltissimi
villaggi, in ognuno dei quali sembrava dimorasse il suo eterno amore.
Durante i trasferimenti da un luogo all'altro falciammo tre oche e una pecora. A Mohammed
dispiacque molto, e questo suo sentimento non fece che aumentare la stima che avevamo di
lui. Amava gli animali, sia da vivi sia da morti, quando c'era da affondare in un lauto
banchetto, Ramadan o non Ramadan. Era davvero un tipo poliedrico e pieno di controsensi,
tanto suggestivi in Africa quanto fastidiosi in Europa dove i furbi - anche a ragione -
sono guardati un po' di sghinbescio.
Mohammed non era preparatissimo: qualcosina sulla tratta degli schiavi, appena appena
sulla storia politica e culturale del suo Paese, ma non molto di più. Il suo forte era la
vita concreta: le astuzie per tirare a sera, i luoghi migliori per scattare una foto, i
posti più propizi per scorgere gli animali, le zone da evitare per non avere seccature.
Ci scarrozzava per il Senegal in una campana di vetro, mostrandoci contemporaneamente gli
aspetti più espliciti della vita reale. Noi, gli intoccabili, in un'Africa calda e
colorata come nessun altro posto al mondo. Grazie, Mohammed.
***
Edvar è cingalese e all'epoca del nostro viaggio di nozze in Sri
Lanka aveva circa quarant'anni. Oltre all'età e alla latitudine del suo mondo, Edvar non
aveva davvero nulla a che spartire con Mohammed. In aggiunta al fatto che uno è musulmano
e l'altro buddista. Di lui mi colpirono la pazienza, tipicamente orientale, e il contegno,
altrettanto asiatico.
Io e Rosanna lo mettemmo subito alla prova, giungendo al meeting point, nella hall
dell'Hotel Trans Asia a Colombo, con buoni trenta minuti di ritardo. Molti, considerando
il traffico che avremmo incontrato nell'orario di punta, in uscita dalla città verso la
prima tappa di Anuradhapura. Una delle antiche capitali del Paese.
Ci presentammo dopo un'abbondante colazione, stimolata dal ricco buffet allestito nel
ristorante dell'albergo, di cui non volemmo privarci di nulla. Era tutto compreso nel
prezzo.
Ci disse di chiamarsi Edvar. Un nome che giudicai strano, così insistetti: "Come
scusa?" "Edvar." Ripeté lui.
"I casi sono due", pensai, "o si chiama davvero Edvar, o il suo nome è
Edward. Nel qual caso è da quarant'anni e passa che sbaglia a pronunciare il suo
nome."
Una terza ipotesi, altrettanto plausibile, era che non avessi capito niente, ma non potevo
chiedergli di ripetere il nome per l'ennesima volta. Così per tutta la permanenza in Sri
Lanka per noi fu Edvar. Ma fu, soprattutto, un punto di riferimento discreto, puntuale e
affidabile. Un vero signore.
Dopo un primo scambio di battute gli dissi che parlava un eccellente italiano, confermando
la mia inguaribile inclinazione all'ottimismo. In seguito m'accorsi che in quel dialogo di
circostanza aveva spremuto, più o meno, il novanta per cento del suo lessico, nonché
tutta la grammatica di cui disponeva.
Fu per lui una fatica non indifferente spiegarci le contorte vicende dei numerosi re
cingalesi degli ultimi duemila anni. Altrettanto per noi capire qualcosa di sensato in
tutta quella epopea di omicidi, incesti ed esecuzioni. Alla fine, per fortuna, riuscimmo a
venirne fuori, ma fu quasi più impegnativo che scalare tutti i gradini del palazzo di
Sigiriya. Non pochi, ve lo assicuro.
A Polonnarua, ennesima ex-capitale dello Sri Lanka, contrattammo l'acquisto di una
statuetta di legno, in un laboratorio d'artigianato locale. La spuntammo per sole
cinquecento rupie ed Edvar ci disse che avevamo corrisposto il reale valore dell'oggetto.
"Ma come Edvar?" Lo interrogai, preoccupato. "Ce lo dici al centesimo
acquisto? Vuoi dire che per tutti gli altri ci hanno fregato?"
Fece un sorriso.
In quel momento mi domandai se Edvar fosse dalla nostra parte oppure no. Poi capii che
sulle contrattazioni tra i suoi connazionali e i turisti non si sarebbe mai intromesso. In
quei momenti faceva tre passi avanti.
Un giorno arrivò all'appuntamento e ci disse che se ne sarebbe andato per presenziare al
matrimonio di suo nipote, pertanto ci avrebbe lasciati a Kamal, che stava scarrozzando due
coppie di marchigiani lungo il nostro percorso. Nella hall dell'albergo di Kandy scattammo
una fotografia assieme e lo salutammo, scambiandoci un indirizzo che non avremmo mai
utilizzato.
Kamal era più furbacchione di Edvar, nel senso che scherzava con i turisti, anche con
doppi sensi da scaricatore. Edvar non lo avrebbe mai fatto. In più Kamal riteneva Edvar
inferiore, poiché lui aveva fatto la scuola per guide turistiche, mentre Edvar era
passato attraverso la gavetta dell'autista, compiendo solo successivamente il salto di
qualità. Il cartellino che Kamal portava sulla camicia doveva significare molto per lui.
Gli conferiva quello status al quale Edvar non avrebbe mai potuto ambire. Fu chiaro quando
ce lo mostrò dicendo: "Vedete, io ho questo." Gesto che vidi fare ad altre
guide, durante la nostra permanenza in Sri Lanka, ma ad Edvar mai.
Entrambi, però, possedevano la medesima pazienza orientale. Lo dimostrò anche Kamal,
messo alla frusta da una caterva di domande e richieste, comprese le più impensabili, da
parte dei nostri compagni di viaggio marchigiani. Per brevità ne elenco alcune.
1) Kamal, stiamo salendo? (Eravamo in piena discesa).
2) Kamal, come mai noi non mangiamo il cocco? (Eravamo appena saliti sul furgone dopo aver
incrociato centinaia di baracchini che vendevano cocco).
3) Kamal, ti spiego com'è la politica in Italia. (Cosa gliene importa?).
4) Kamal, c'è un bagno (100 volte al giorno).
Vi ho parlato di Mohamed, di Edvar e di Kamal, ma potrei aggiungere
Manoli, il pescatore greco che ci affittò la sua modesta dimora a Paros, oppure Antony,
un ragazzo cubano che si autoinvitò a cena con noi, mangiandoci addosso l'impossibile, ma
che ci insegnò alcuni passi de merenghe che ancora rammento.
A proposito di memoria, per come sono fatto io, di tutti i luoghi che ho visitato nel
mondo, posso dimenticare il santo di una cattedrale o il nome di un villaggio, ma le
persone no. Quelle che per un certo periodo hanno incrociato il mio percorso, non le
scordo mai. Chissà perché? |