Francesco Maria Buendia

riscrivo la vita che vivo e che vedo...

Grazie

Via Cavour era particolarmente attraente quella notte, nessun passante, l’ aria fresca e ruffiana sul collo, il giallo dei lampioni quello storico di sempre. Avevo appena trascorso una delle mie solite serate al Peter Pan e il Cuba Libre poco D.O.C. di Angelo era ancora in circolo (spesso usa farlo con il Pampero ‘Especial’, perciò dico che non è D.O.C.). Di tanto in tanto correggevo il passo e rallentavo, giusto perché non si notasse che barcollassi, ma non ero ubriaco. Godevo soltanto di una leggera spossatezza etilica sommata alla stanchezza cronica di sempre. Tutto sotto controllo. Guardavo sfilare gli stretti vicoli alla mia sinistra, quelli che in discesa si congiungono con la piccola Via Santa Maria dei Miracoli, e mi stupivo ancora della loro misteriosa bellezza. Mi fermai qualche secondo davanti a uno di essi finché non udii quel bisbiglio. “Scusa!” La ragazza stava dietro una macchina, con le spalle al muro e una buffa espressione in faccia, mi fece cenno di avvicinarmi e io smisi di barcollare. “Che succede?” “C’è un ragazzo che mi segue…” “Chi?” chiesi allarmandomi un po’. “Ti prego aiutami…” “Sei a piedi?” “No, ho la macchina posteggiata vicino al tempio.” “Andiamo…”. Mi prese a braccetto e continuava a voltarsi preoccupata. Per un po’ non dissi niente ma poi non seppi resistere e le domandai se era qualcuno di sua conoscenza. “Sì…” “Un ex?” “…no, lasciamo stare.”. Era bella, molto. Portava dei jeans a vita bassa, lisi, e una camicetta sbottonata quel po’ che bastava perché ci si potesse beare di quel gonfiore pallido. “Posso fidarmi di te, vero?” mi chiese dopo qualche metro, “Certo…” le risposi alzando di scatto lo sguardo verso il suo. Aveva gli occhi castani, come i capelli che le cadevano leggermente ondulati sulle spalle. Non credo fosse granché truccata, mi accorsi solo di quel mascara così maledettamente azzeccato. Splendide ciglia e splendide mani, almeno stando alla sinistra, cioè l’unica, che appesa al mio braccio, ebbi modo di osservare più da vicino. E niente anelli. Notai soltanto lo smalto trasparente, forse leggermente rosa, che ingentiliva ancor di più le sue dita, in special modo il mignolo. Quel ruffiano del suo mignolo. Mi chiese il nome e io glielo dissi, lo stesso fece lei poco prima di raggiungere lo sportello della sua auto. Mi fece salire e m’accompagnò alla mia che distava un centinaio di metri oltre il ponte principale di Ortigia. “Che fai nella vita?” “…mi piace il cinema e mi piacerebbe farlo. Tutto qui.” “Scrivi?” “Sì, a volte…” “Solo copioni o anche racconti?” “Racconti, sceneggiature…”. Giunti accanto alla mia auto mi chiese se potessi seguirla fino a casa. Risposi di sì. Scesi dall’auto e salii sulla mia, accesi la radio e trovai qualcosa di lento e jazzato. Le feci cenno di precedermi e allora lei sorrise aprendo una voragine nella mia mente. Dentro quella voragine tutta la storia del cinema. Cambiavo le marce e canticchiavo, facevo le curve e canticchiavo, frenavo ai semafori e tentavo l’espressione più decente che potevo giacché continuava a fissarmi dal suo retrovisore. Posteggiò accanto a un portone, la zona sembrava disabitata. Lasciai acceso il motore e abbassai il finestrino, scese, mi venne incontro sorridendo, quindi mi ringraziò con un bacio sulla guancia. Mi chiese il numero del cellulare perché secondo lei, presto o tardi, m’avrebbe telefonato. Glielo diedi. Lo stesso fece lei su un pezzo di carta che ancora conservo. Poi si voltò e se n’andò.

Passarono tre giorni, il mio cellulare non squillò mai e per ripicca lo tenni spento una settimana intera. Continuavo in ogni caso a frequentare il Peter Pan, parlavo ancora delle solite cose con le solite facce e puntualmente tornavo in macchina rifacendo la stessa strada di quella notte fatidica. Non la incontrai più. Guardavo sempre quell’angolo vuoto di via Cavour e più di una volta mi sforzai di ricordare bene l’inflessione timida di quel bisbiglio. Stavo male. Dovevo smetterla prima possibile.

Il colpo di scena avvenne di pomeriggio. Scorrazzavo con lo scooter per Ortigia, certo di trovare, alla fine, il posto più adatto per concedermi la lettura della mia rivista cinematografica preferita così il tabacco di uno dei miei sigari vanigliati. Mi fermai tra le panchine della marina e, guardandomi intorno, decisi che il mio pomeriggio sarebbe morto lì. Di lei, di quel minuscolo sogno castano, avevo perso ogni traccia perciò (sebbene un quarto d’ora prima fossi passato sotto casa sua nell’ingenua speranza di sorprenderla per strada…) decisi che era meglio dimenticare l’accaduto. Come? Tornando alla mia croce per antonomasia, al dolore con il quale ho più dimestichezza: Angela. Il mare nel frattempo rimase lì, fiero di sé e rispettoso della mia presenza, come il viavai dei ragazzini sulle loro biciclette e l’ondeggiare degli alberi delle barche, metronomi giganti di quel mio romantico morire. “Ciao!”. Mi girai e avrei voluto essere su un deltaplano, sopra l’Isola di Pasqua. “Ciao! Come va?” “Bene. Ti ho visto arrivare ma non ero sicura che fossi tu.” “Sono io invece. Tutto bene?” “Sì, tutto bene… E tu?” “Così.” “Che leggi?” “Cinema.” “Ah già! Domanda inutile.” “Come mai in giro?” “Prendevo un po’ d’aria. Dovrei studiare ma con questa bella giornata non mi va…” e si sedette. Fissò per un attimo il mare e poi tornò a me. “Ti va un caffè?” “Un caffè? Dove?” “Metti in moto…”. Sorrise proprio come quella sera, ed io provai a stipare l’imbarazzo nel porta-casco, sotto il sedile dello scooter. Lasciai lì anche la rivista, quindi misi in moto. Dopo nemmeno un quarto d’ora ci ritrovammo sotto casa sua. “Ho l’impressione di conoscerlo questo posto.” “Forse l’hai sognato…”. Dentro l’ascensore cademmo in un silenzio brusco e impacciato, fingevo indifferenza e contai una decina di volta i pulsanti numerati dei piani: ne ricordo cinque. Le porte dell’ascensore si aprirono e così anche quelle di casa sua, ci spostammo in cucina e io mi sedetti vicino alla finestra mentre lei s’affaccendava con la caffettiera. Accese la televisione, commentammo qualcosa e poi mi raccontò meglio di quella sera. Disse che era uscita con un suo amico perché questi aveva qualcosa di particolarmente urgente da confidarle. Lo passò a prendere dopo cena e insieme decisero di andare a bere qualcosa da qualche parte a Ortigia. Finita la serata lui tentò di baciarla: era questo che voleva dirle, che l’amava. Lei però no, lo considerava solo un amico. Lui allora si finse mortificato per l’accaduto e le chiese di perdonarlo. Lei gli disse di non preoccuparsi, che in fondo non era successo nulla, ma proprio in quell’attimo, nel buio di un vicolo, lui le s’aggrappò al collo piangendo. Ovviamente lei cercò di consolarlo, ma poi si accorse che lui stava provando ancora a baciarla e allora lo respinse d’ istinto, solo che lui non voleva saperne e, infatti, continuò a stringerla sempre più forte, di più, che non gliene fregava se adesso lei gridava aiuto, così cominciò a palparla e a schiacciarla contro il muro e una mano finì su una coscia, e l’altra sulla bocca, e poi la sollevò per meglio toccarla dietro e lei provò a scalciare e quando finalmente lo colpì bene da qualche parte, forse in uno stinco, non sapeva, quasi stentava a credere di essersi strappata di dosso quel pazzo rimasto appeso fino alla fine alla sua bella camicetta, regalo di mamma, nel vano tentativo di frenare quella sua disperata corsa verso il riparo più vicino. “Quella sera non ti sei accorto che mi erano saltati due bottoni dalla camicetta?” “No, non ci ho fatto caso…”. Mi sorrise come un gatto, poi riprese… “Meno male che ti ho incontrato!” “Meno male che smise di seguirti…”. Finimmo il caffè, quindi s’avvicinò alla mia sedia, s’accomodò sulle mie gambe e poggiò le braccia sulle mie spalle incrociando le mani dietro (so di non avere gli occhi sulla nuca, ma mi piace immaginare che stesse incrociando quelle dita sottili…) e allora io iniziai a sudare, a non capire cosa dovevo fare benché le scelte non fossero poi tante. Stava a un palmo dal mio naso, sentivo il suo sottile respiro al caffè, gradevole, e speravo tanto che anche lei pensasse la stessa cosa del mio quando un attimo dopo, spiccicando le mie labbra dalle sue, le chiesi… “Come mai?” “Perché sì.”. Mi trascinò in camera sua e mi mostrò una foto, vecchia di qualche anno, fatta assieme a due ragazzi. “Quello a destra è lui.” “Lui chi? Il tuo amico del cuore?” Sorrise. “Sì…” “Vi conoscete da molto?” e osservai con attenzione la foto: non sembrava per niente un violento. “Quattro anni. Per questo non ho sporto denuncia…” Magari è una bugiarda, mi dissi. “…ma tu vivi sola?” “No. I miei sono a Palermo per una visita a mia zia…” “Sei di Palermo?” “Mia madre. Perché?” “Così… Niente contro Palermo…” “Dici tutto tu!” e ricominciammo a baciarci, lentamente, finché non sentii la sua mano indovinare la pelle della mia schiena sotto la felpa e io quella dei suoi fianchi sotto la maglietta. Finimmo a letto arrostiti di passione, passò dalle mie labbra al mio ventre con naturalezza, come se fosse andata per un attimo a rispondere al telefono, mentre io non vedevo l’ora di sfilarle quella dannata maglietta incastratasi tra noi. Le diedi così uno strattone verso su, riuscendo finalmente a liberarla da quel dannato cencio di cotone che mi separava dal reggiseno, tra l’altro fatto fuori in due mosse. Poi però giunse il momento di dare ascolto a quel ronzio fastidioso. “Senti…” “Sì…”, disse senza fermare per questo la sua lingua. Ed io… “Aspetta…” “Che c’è?”. Sorrise un attimo, poi si fece seria. “Mi dispiace ma… Non ho precauzioni.” “Le ho io…” e ricominciò a ripassare il mio collo. “No, veramente… Mi dispiace, ma…” “Tranquillo…” e scese per recarsi verso la propria borsa, appesa dietro la porta. La sua schiena nuda sul fondo di quella camera in penombra faceva facilmente presagire di quale portata sarebbe stato il suo ritorno a letto. Rovistò solo qualche secondo, poi domandò… “Uno basterà?” “Non so…” e si decise a rifare quel percorso, ora più morbida e dondolante, verso di me. Giunta ai piedi del letto, fermò tra i denti l’involucro del profilattico e iniziò a sfilarsi i jeans. Infilò i pollici tra la sua carne e gli elastici dello slip, fece per abbassare ma poi si bloccò per guardarmi. Me lo chiese con l’involucro d’alluminio ancora in bocca, con i pollici ancora fermi sugli elastici: “Vuoi togliermele tu?” “Sì…”. Si sbarazzò dei miei jeans in un istante, tirandoli giù dalle caviglie, lo stesso fece con i boxer un nanosecondo dopo (durante il quale ebbe anche il tempo di graffiarmi sulle cosce), poi con calma e leggerezza si sedette su di me, strappò un angolo d’alluminio come se avesse tolto la spoletta ad una granata, si distese perché io potessi sfilare dall’involucro il profilattico, quindi lo afferrò con le labbra, prese le mie mani e le poggiò sui suoi fianchi, con un piede mi costrinse ad aprire le gambe in modo che lei potesse chiudere le sue tra loro, agganciò gli elastici alle mie mani e, strisciando su di me, si spinse oltre la mia testa per meglio permettermi di toglierle lo slip e per meglio offrirmi il suo seno in pasto, dopodiché si sistemò meglio il profilattico in bocca e, chinandosi, me lo calzò come non pensavo si potesse. Aggiunse… “Prima io sotto, poi tu…”. Non dissi nulla.

Due cose. Prima cosa: quella foto lì in bella mostra sulla scrivania, all’inizio, m’ infastidì non poco. Quel suo amico sembrava assistere, con un sorriso poco consono alla situazione creatasi, a quello che forse da mesi sperava di fare al mio posto (…ma poi pensai al lato eccitante della cosa e allora…) Seconda cosa: sul momento non ci pensai, ma dopo sì. Il fatto che lei tenesse dei profilattici in borsa mi fece un po’ riflettere sull’ emancipazione della donna oggi, almeno finché non le chiesi… “Sei la prima che conosco con dei preservativi a portata di mano.” “Sono del mio ragazzo…” “Tu hai un ragazzo?” “Sì ma… Tranquillo è fuori.” “Che cazzo sei, non mi dici niente?” “Tranquillo! Rimane fra me e te.” “Metti che li ha contati! Come lo spieghi?” “Gli dico che ne ho prestato uno ad un amico…” “Quale amico?” “Tu.” “Vaffanculo, io nemmeno ti conosco e tu mi presti un preservativo?” “Tranquillo, nemmeno li conta.” “Io li contavo quando ero…” “Non ti fidavi?” “Che c’entra, li contavo per non rimanere senza…” “Tanto lui ha i suoi… Questi li lascia qui perché non si sa mai.” “Infatti, non si sa mai… Magari lo conosco!” “Non lo conosci.” “E tu che ne sai?” “E’ l’altro ragazzo…” “Quale ragazzo?” “Hai presente la foto? L’altro. ”. A quel punto la foto divenne insopportabile, mi sforzai di pensare nuovamente al lato eccitante della cosa ma avevo già dato. Mi alzai, girai la foto verso il muro e lei rise. Mi voltai e vidi che mi guardava senza macchia alcuna nello sguardo, così la raggiunsi, la baciai e la strinsi. Provavo una strana commozione, abbracciavo Angela e lei non lo sapeva. “Mi hai fatto venire i sensi di colpa…” disse d’un fiato. Sulla porta salutammo la nostra pericolosa e pericolante amicizia con un bacio: sarebbe divenuta già qualcos’altro una volta messo piede nell’ ascensore. Mi fece giurare di non raccontare mai a nessuno quello che ci accadde. Lo giurai a lei e a me stesso. “Potrei farci un film… Ma non funzionerebbe.” “Perché?” “Troppe minchiate…” e sorrise. “Non scriverci nemmeno un racconto.” “Se dovesse succedere saprei come camuffarti…” “Sì, ma promettimi che la cosa muore qui.” “Qui o su qualche pagina che differenza fa?” “Mi hai fatto sentire una merda…” “Perché?” “Lo so io…” L’ascensore attendeva impaziente. “Va bene, non lo voglio sapere.” “…perché tanto lo sai.” “Forse. Ciao…” “Ciao. ”. La rivedo di tanto in tanto, sempre di sera e sempre ad Ortigia ma non più in Via Cavour. Una volta i nostri sguardi si sono pure incrociati. Nessun saluto.

Tra gli sgabelli del Peter Pan, quella sera, annegavo Anna dentro a un bicchierino di rum, con lei una piccola parte di rancori. Non c’era tanta gente, poche facce conosciute e la noia appesa alle lancette dell’orologio all’ingresso. Decisi allora di prendere un po’ d’aria. “Faccio un giro. Vado e torno…” “Vai, vai dalla concorrenza. Vai al Doctor Sam, pezzo di merda!” mi disse Angelo, scherzando come di consueto da dietro al bancone. Un cliente, suo amico, rise. “Qui fuori c’è il mio scooter” dissi, “devo passare per forza di qua se voglio tornare a casa. Quindi torno, stronzo!” e si mise a ridere, poi aggiunse… “Ci vediamo dopo fratello!”. Piazzetta San Rocco era gremita. Troppo. Davanti al Doctor Sam le solite stelle di Hollywood brillavano a volte di luce propria e spesso di luce altrui, tutte fiere del proprio chiasso e di quella confusione. Speravo di trovare una faccia amica con la quale scambiare due chiacchiere e invece mi ritrovai a rimpiangere il mio sgabello al Peter. M’incamminai comunque verso il lato più democratico della piazza e, mentre cercavo di convincermi che Angela non sarebbe mai e poi mai passata di lì, un ragazzo s’avvicinò per chiedermi se per caso avessi da accendere. Era lui, l’amico del sogno castano. Trovai l’accendino e accesi la sua sigaretta. “Grazie” mi disse andandosene. Avrei dovuto dirglielo io.