Silvio Aparo 30 anni, nel 1994/94 ha collaborato al quotidiano "La Voce" di
Indro Montanelli, attualmente corrispondente del il Giornale di Sicilia, e direttore
editoriale della rivista scientifica trimestrale "Promuovere". Pubblicazioni
all'attivo: "Nietzsche", edizioni nuovi autori, 1997; "Giallo in Blu",
edizioni Montedit, in uscita. |
RICORDATI
SEMPRE CHE
Che xxxxxxxxx avesse
proprio un gran gusto, non si può mettere in dubbio, come non si può mettere in dubbio
la sua grande carica erotica e l'odore delle labbra appena baciate; un secco e immediato
sentore di sesso, già, odore di sesso, caldo, intenso e pronunciato. Quando trovo quel
tipico aroma nelle labbra di una donna, vengo tirato per i capelli dal profondo limbo dei
letterati e capibanda; e come per magia comincio a suonare il mio violino che, emettendo
note stridule e sapienti, va dritto a toccare le corde del desiderio; quello ironico e
narcisistico, quello dotto e menefreghista, quello assetato e foriero! Non ricordo con
esattezza quanto tempo stetti a percepire nell'aria ravvicinata, di due labbra umide,
quell'odore infinitesimale, ricordo soltanto che ebbi la viva e febbrile certezza che non
avrei potuto più dimenticarlo e allora il tempo cominciò a scivolare via portando seco
attimi, momenti e istanti; quasi lo vidi in viso, girarsi e con aria affranta, lasciarmi
solamente la sua eternità. Ma l'eternità di un tempo è come una lunga lama affilata su
cui ti è permesso correre a piedi nudi. Sarei certamente pazzo ad asserire che esiste un
solo tempo, come sarei pazzo a dire che esiste una sola verità. Qualcuno lo troverà
anche condivisibile questo pensiero; che non è il solo. Ma il solo tempo e la sola
verità di cui chiedo venia, sono banditi dalla contemporaneità. Essi vivono come unità
solamente nei ricordi degli uomini frammentati e disgregati; di quelli che la prospettiva
ha creato l'esserci, di loro, e di loro solamente. Esserci o non esserci, dunque, non è
il dilemma; ma il lemma, nel senso che, se è lecito, prima di scegliere, voglio capire.
Nel senso che nessuna questione si pone senza l'assenso della mancanza di comprensione.
Decidere è pendere, è lasciare che il corpo abbia una pesantezza e una direzione, un
prima e un poi. Scelgo e decido. Scelgo e non decido. Non scelgo e decido. Non scelgo e
non decido. Qual è dunque la direzione nell'unità dello sfero? Fabbricanti di direzione
cercasi, consorzi di traiettorie della contemporaneità con buona pace di Aristotele. Mi
sforzavo maledettamente di capire in quale punto del corpo mi toccasse la sua
istantaneità, ma lei amava raccontare e il rischio era notevole. Fabbricava parole, sfere
su sfere, da cui passare come bolle di sapone ed esserne pienamente avvolto. Mi redimeva
il sorriso, il mio, che non era stato diretto per specchiarsi dentro una sfera, se pur di
sapone, che ne avrebbe inesorabilmente imbuffito le fattezze. Ma col fare degli uomini si
sa, prima o poi, tutti, come la più pura delle puttane, ci vanno a letto. E così mi
ritrovai a solcare le possibilità che avrei avuto del non essere felice per tutta la vita
con lei; e di come, scoprendo che erano poche, cercai di mettere a ferro e fuoco la mia
capacità di non voler appesantire ulteriormente quello che di più pesante gli uomini
stessi avevano creato; convinto peraltro, per buona parte della mia vita giovanile e come
lo sono tuttora, che l'amore passasse per la critica e viceversa. Volevo dare a tutti i
costi un fondamento fenomenico alle immagini, che la sua assenza, di lì a poco avrebbe
ascritto alla mia capacità di essere già morto in un mondo di vivi.
Giovedì è un giorno a se come lo possono essere tutti gli altri della settimana. E
potrebbe anche essere il giorno giusto per passare una dolce e delicata mano sulla
coscienza; immagino sempre il gesto di un capo indiano che traccia a mezzo busto un
semicerchio col braccio leggermente inclinato e la mano parallela al terreno come per
saldare lo stretto legame tra la negazione dello spirito e l'appartenenza ad una scelta
terrena. Questo è il mio angolo visivo, sembra dire: un semicerchio, e se un fratello
accosta le sue spalle alle mie e traccia l'altra metà di cerchio allora la mia visione
può essere condivisa e aspersa con gesto di benedizione, anche religiosa (se preferite).
Sarebbe infatti sano avvicinare il prete che entra in casa per la tradizionale benedizione
Natalizia e dirgli: "Prete, non preoccuparti, l'altra parte di cerchio la benedirò
io". Le malsane abitudini di noi bipedi inducono pensieri che si scostano di poco
dalla realtà mantenendo la pretese di abbracciarla. Quel corpo che la notte avevo stretto
al petto, entrò di diritto nella cerchia di quei pensieri, suddetti, di poco più avanti.
Riuscire a portare qualcosa di diverso al mio cospetto senza umiliarlo con i vaneggiamenti
tipici dell'eclettismo culturale restava la parte migliore della mia prestazione:
"restammo senza ossigeno liquido nei meandri del cosmo!". Il colore del sole è
il suo, niente gli somiglia, ne giallo, ne rosso; gli aderisce perfettamente solo il
bagliore della superstizione di cui lo ricopriamo ad ogni levata; che domani si alzi resta
pur sempre una semplice ipotesi, più o meno probabile che, per un ingenuo contratto
stipulato col fato, potremmo appiccicare ad ogni alito di realtà. Ma nel (caso) del
"non", cioè di quelle realtà che non ci è data la sensazione di possedere,
possiamo solo condensare, come il respiro in una notte d'inverno, l'ipotesi più
auspicabile per non deformarci al calore del suo specchio. In quanto a Lei, mi fissava
quando ero distratto e questo essere svago ci portava a giocare con lo sguardo che non si
incrociava mai volontariamente. I suoi occhi mi stavano accanto e mettevano in luce ora il
braccio che prendeva sul lenzuolo, ora il cespo mal pettinato, ora il corpo intero o il
ciglio dell'occhio e senza mai invadere l'equilibrio dei fuochi, danzava con me nel giogo
degli spazi e dei piani, cospirando ludicamente. L'infelicità entrava così tra noi,
stando comodamente seduti davanti ad un caffè. L'inarrestabile malattia dello spirito,
l'insana abitudine, si avvicinava quieta lungo la schiena, aderiva perfettamente alla
spalla, solcava avidamente il collo e si spingeva fino all'orecchio, quasi volesse
entrarci; esattamente come l'ombra del suo profilo tra le linde pareti della cucina. Solo
il ricordo riusciva a bilanciare l'archetipica infelice sensazione. Proprio il ricordo
comincia a viaggiare tra la parete occipitale e frontale del cervello, s'insinua tra le
scissure e riecheggia prepotente all'orecchio, quasi volesse uscirne. Essere curioso è
ancora la (cosa) animale che coltivo meno pigramente, "cosa" come qualsiasi
entità concreta o astratta che può essere determinata dal contesto del discorso, curioso
di quanto un gesto, una parola o uno scompenso d'ossigeno intorno a Lei potesse generare
istanti. Il mio scopo è quello di erigere monumenti, non commemorarli. La commemorazione
la lascio ai fragili, esseri meravigliosi che non possono fare a meno della felicità.
Invece noi, nella nostra infelicità, costruivamo tenere curiosità che andavano e
venivano dal desiderio portando sussurri, sguardi furbi e segreti, carezze nascoste nel
cuore della notte, sospiri odorosi che spandevano aromi nei piccolissimi gesti della
quotidianità, e lunghe ore di permanenza dìscrona dalla coscienza. Miliardi di
chiacchiericci e azioni, dentro all'umano imbuto - esempio mirabile di forzatura
paradigmatica della realtà - producevano una sola massa sonora che cominciava a spostarsi
e intraprendere interi viaggi verso gli spazi sconfinati dei nostri sottofondi ansiosi.
Stati di estasi venerea che formavano piccole isole, da esplorare, a cui approdare al
primo sentore di bacche selvatiche: aneto, malva, ginepro, alloro, finocchietto; così
profondamente sospirate e radicate nelle narici, allontanavano ogni forma di mera
felicità, perché, così doveva essere.
Cominciavo a capire dove toccava la sua pupilla; nella parte più ragionevolmente
impossibile da accettare: la finitezza. Per quanto margine c'è concesso, l'occhio non
riesce ad assimilare l'idea di dover rinunciare ad una parte di se per vedere l'altro, o
una parte di noi nell'altro. La costante minaccia del mondo, contenente se ed altro, purga
la più dignitosa delle condizioni umane: l'umiltà. La nostra mancanza di povertà, non
è frutto dell'avarizia ma della superbia del non accettarci per quello che siamo voluti
diventare: organismi pluricellulari, votati alla ricerca di una forma di felicità
concettualmente inaccettabile, e inattaccabile poiché esclude a priori l'immobilità.
Proviamo a pensare alla cosa più perfetta che per assurdo, possa esistere. Tutto potremmo
pensare, tranne che al nulla, anche perché oltre ad essere impossibile pensarlo, sarebbe
laicamente pericoloso. Ma pensiamo allora, per assurdo, al nulla. Quali caratteristiche
dovrebbe avere, questo benedetto nulla, per avvicinarsi al concetto che, solitamente; vuoi
per cultura o per educazione dei modi, abbiamo di esso? Vuoto. Infinito. Immobile.
Identico in ogni punto. Contemporaneo. Ma allora perché non possiamo pensarlo? Perché
nel momento in cui pensiamo questa ipotetica contemporaneità alteriamo l'unità delle
istantaneità, generando successioni. Ora però pongo la questione sotto il riflesso di
un'altra domanda: cosa è più logico capire: la morte, che ancora deve venire o il
momento della nascita, che abbiamo già sperimentato? Non credo ci sia il men che minimo
dubbio sulla giusta risposta. Ma attenzione, colpo di scena! Ci hanno insegnato a non
guardare il "principium"!. Ci hanno detto che quello che ci rende forti e saggi
è "l'escatòs", la direzione e il senso di tutto è chiarito solo dalla morte!
Ci hanno imboccato la favola della morte inevitabile e dunque tragica, inconoscibile e
dunque misteriosa! Come si può essere così tanto stupidi nel volgere lo sguardo dove non
è possibile guardare?
"In Principio" e solamente lì sta il segreto della conoscenza. E prima e dopo
di esso "il nulla": assurdo, illogico, improponibile, non politicizzato, non
speculato, non raccomandato e non mazzettato abbastanza; ma "Perfetto" in ogni
sua forma; che perde l'equilibrio trasformandosi in determinazione ovvero nascita e lo
riacquista ritrattando la sua posizione per una nuova origine in indeterminazione ovvero
morte, ma di cui per ironia della "sorte" non c'è concesso di raccontarne agli
amici! Rieduchiamoci alla filologia dell'esistenza. Ricostruiamo una filosofia
dell'origine che rivendichi il primato della vita e non della morte. Ed avevo rischiato
molte volte di perdere l'umiltà che stava placidamente contenuta nel vuoto della sua
occasionale pupilla che mi toccava. Ho rischiato assai, ma alla fine mi ci sono perso con
tutta l'esistenza di cui avevo goduto. Grazie mia infelice sposa di una notte, riflesso
del mio nulla. E, se e quando ti sarebbe capitato nuovamente di perderti nello sguardo di
un altro essere femmineo, niente, fino al giorno del delirio, ti avrebbe fatto tornare il
senno.
Dovevo pettinarmi. Quella mattina mi dovevo pettinare, nessun imperativo mi avrebbe
distolto dal farlo; se non altro per avere ancora un'ultima opportunità di guardarmi allo
specchio e, attraverso esso vedere Lei che, pur assente, non mancava di lasciare sulle
rughe contratte del mio volto, sensuali tracce della sua permanenza. Era l'unico modo, da
vivo, che mi ero concesso di guardare: attraverso lo specchio senza i rispettivi corpi, e
come le migliori favole attraverso lo specchio, mi divertivo a vedere, anche, la
surrealtà dei simboli e delle icone che gestivano la nostra fantasia, dolce e sensuale,
tenera e traboccante. Toccare continuamente i capelli color cachi del coniglietto
selvatico, truccare esageratamente la margheritina parlante, chiedere, ossessivamente, ad
ogni singolo soldato dell'esercito di carte da gioco se si era ricordato di chiudere il
gas prima di scendere in battaglia; questo rappresentava un serioso antitodo per sfuggire
la meteropatia, alla felicità dei vinti e ad un'altra storia che dolorosamente stavo
chiudendo.
Lo sguardo ha un peso, e solo l'oggetto su cui si posa può determinarlo. La accompagnai
alla porta e si premurò di rincuorarmi e baciarmi. "Non preoccuparti, vedrai, non
sarà poi così difficile fare a meno di me" mi desse. Ciò che chiarì quelle parole
fu solamente il tempo, delle scale o dell'ascensore o di chicchessia. Ogni parola, ha
bisogno di un suo tempo, anche brevissimo, ma pur sempre staccato dall'immediato
simbolismo da cui non riusciremmo coscenziosamente a perturbarne l'influsso; quando ciò
si verifica, piuttosto spesso direi, ne recuperiamo la direzione. Riuscii, altresì, a
dare il giusto tempo a quelle parole e recuperandone il pieno senso, affrettando il passo,
incolonnandomi, dietro ai miei sporchi pensieri, nuovamente verso il lavabo del bagno. La
persistenza della sua totale assenza, oramai, dalla mia vita aveva ridato vigore al peso
d'ogni singolo e minuzioso gesto fisico e spirituale che stava passando fuori e dentro la
casa; come la persistente ebbrezza di un buon vino dal rubinio aroma.
Il sole, quel mattino, cinguettava tra i cespugli luminosi di frettolose signore dalle
chiome multicolore, stando a quanto avevo capito del mondo, si trattava di non-sense,
scintillio, luccichio, frivolezza; tutto, fuorché eternità. Ma nel dubbio che altresì,
del mondo, pochissimo avevo avuto ancora modo di annotare, data la mia giovane età,
poteva anche trattarsi proprio di eternità sotto mentite spoglie. L'analogia di un
sorriso, di una mano alle prese coi suoi piccoli, numerosi e disordinati gesti di
precisione, chi mai avrebbe potuto smascherarli? Chi ne avrebbe potuto svelare la vera
natura caotica? L'esperienza restava, pur sempre, ermetica nella sua esigente
capricciosità, tanto quanto era potuto apparire enigmatico, al genio di Leonardo, il
sorriso della Sua, meravigliosa, Monna Lisa.
Arrivai puntuale in ufficio, depositai la borsa, di cuoio, regalo di laurea, che portavo a
spasso per le vie della città, e trovai, senza sorpresa oramai, lo stesso biglietto che
da due anni la mia fedele segretaria lasciava puntuale sulla scrivania. "Un buon
giorno a te Dottore". Avevo cercato, invano, di far cessare questo nevrotico rituale,
ma per Sonia si trattava d'amore. L'affetto e la stima che ci legavano reciprocamente
dovevano essere quotidianamente sugellati da una rete di piccoli gesti seriali: caffè,
fiori freschi, pranzo in tavoli separati ma vicini, tè pomeridiano e aperitivo
settimanale. Sarà che la mia condizione da single incallito, con frequenti storie
occasionali, risvegliava il suo senso pietoso materno da donna di sei anni più adulta di
me. Sarà che la sua avvenente figura, la cura di un corpo ancora appetibile e la mia
acerba bellezza scuotevano il suo sistema limbico. Sarà per tutta una serie di ragioni
che mi ero reso volontariamente oscure, che l'abisso dell'autocompiacimento senza limiti,
non aveva reso possibile alcun prelievo di liquidi reciproco. Tra me e lei solo un
ossimoro: "Tutto il Niente".
Avere ventinove anni, disporre in tutti i sensi, di una segretaria, trentacinquenne -
bella, sedotta, abbandonata, madre di una tenerissima bambina di nove anni - e scorrazzare
per le vie della città con un bolide sportivo, depositando a notte fonda le proprie
chiappe su un divano di pelle blu accanto al terrazzo dell'ultimo piano di un confortevole
trilocale nel centro della città più tecnologica d'Italia, rappresentava il problema
più difficile per l'accesso alla "scala spirituale di San Bonaventura" verso la
conoscenza di Dio, e il problema più semplice per uno psicanalista di basso profilo.
Tutto quello che c'era da sapere per costruirsi una solida infelicità, lo stavo imparando
molto bene alla scuola del giovane Werther. E non passava giorno in cui, anche per un solo
attimo, non dessi una duplice occhiata alla, suprema e maledetta, condizione in cui
versava la specie di cui ero un valido rappresentante. Un colpo alla supremazia. Un colpo
alla maledizione...e via così fino al sìnolo della miseria.
Alle undici in punto Sonia entrò per invitarmi, sollecita, alla riunione che i capoccia
avevano convocato, d'urgenza, in sala consulti. Niente poteva essere più funesto, quel
giorno, che una riunione "urgente" degli imbecilli numero uno della piccola
galera aziendale che mi circondava. Sigaro, doppiopetto, sfoggio e cazzate. Un itinerario
patetico e surreale studiato alla perfezione che si ripeteva a cicli circadiani, prima
dell'incontro hobbistico pomeridiano o domenicale al circolo Golf "Cess" Club o
al Country "Azz" Club!
Chi avrebbero trombato stavolta?
§
- Buongiorno signori! - dissi sereno. Qualcuno sbofonchiò,
qualcun'altro accennò un timido saluto col capo, i più si fecero i cazzi loro. La
riunione era già cominciata da cinque minuti, e questo non giocava a mio favore. Quei
cinque minuti, potevano essere il movente per decidere di strambare sulle mie spiaggie. Il
Dottor Marco Patitucci, responsabile del gruppo, stava scandendo a voce alta i resoconti
mensili, e con una vena di sarcasmo, tutto suo, sottolineava i trend negativi assciandoli
a precisi nomi di persone. Il vincitore sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi,
segato. La cosa più assurda di questo macabro rituale della classifica del giovedì
mattina, era rappresentato dal fatto che al vincitore, non veniva comunicato il
licenziamento immediato, ma se il gran consiglio, in una successiva riunione privata,
avesse deciso per il licenziamento, il mattino seguente, il nostro sfortunato avrebbe
trovato sulla scrivania una patetica rosa rossa: mi piazzai fortunatamente al terzo posto:
questa volta il mio culo era ancora salvo!
- Così non va...non va proprio...caro Alex - quello che mi stava parlando era il bastardo
numero uno: Gianfranco. Questione di pelle. Già dal primo giorno di lavoro capii quanto
poteva essere stronzo. Uno che dopo averti salutato si pulisce la mano sui pantaloni ne ha
da vendere!
Alzai le spalle, e girai i tacchi senza cagarlo di striscio. I nostri rapporti si
limitavano ad una sola parte intelocutoria, al massimo ad un scambio di solidi, reciproci
e sommessi insulti. Quando Sonia mi vide col ghigno alla porta dell'ufficio, capì
immediatamente che non era stato il mio turno.
- E se mi licenziassi? - dissi guardando Sonia.
- Tse! - esclamò ironica.
- Pensi che non ne sia capace - risposi.
- No al contrario - incalzò - sono sicura che ne saresti più che capace. Il problema
semmai sarebbe dopo. Perché tu non pensi quasi mai al dopo
-
- Cosa intendi dire? - risposi secco.
- Ricordi quella volta che hai mandato al diavolo il direttore di reparto?
- Si
- Ebbene, chi credi che ti abbia parato il culo?
- Tu?
- Non dire sciocchezze! - esclamò prontamente Sonia.
- Allora chi? - chiesi curioso.
- Gianfranco - sentenziò Sonia.
Fu come un colpo al cuore. Possibile che lo stronzo numero uno mi aveva salvato la pelle?
Non riuscivo a crederci. Ed io che avevo sempre pensato di avere di fronte un vero
bastardo. Rimasi in silenzio.
- Adesso capisci? Sei talmente arrogante e pieno di te, che non ti accorgi mai di quello
che ti succede realmente davanti agli occhi - Sonia mi fece venire un forte mal di testa.
Ritornai fuori in corridoio, e mi diressi verso i servizi. |