Diego
Fornero
Ho 17 anni e abito in un paesino sotto
Torino, di quelli che ti costringono ogni volta ad adoperare mille
pullmann per arrivare in qualsiasi posto. Amo gli incontri casuali, le
persone che condividono con me anche soltanto dieci minuti di esistenza,
quelli che mi si siedono affianco e quelli che vedo davanti a me. Ne sento
gli odori, mi piace immaginarmi cosa possano avere negli occhi, perchè in
comune so che non abbiamo soltanto la strada che ci scorre sotto i piedi.
Ho scritto pensando a loro, a quel che avevano da dirmi, e a quel che
potevo dirmi io anche soltanto guardandoli. |
Un
treno.
(Olio su carta)
1. Sondrio
Parla al cellulare. Glielo stanno giusto dicendo,
per oggi non verranno ad installargli il caminetto. Ma è felice di avere
almeno qualcosa da fare. Ha sempre amato parlare al telefono, vorrebbe
ricevere 3 o 4 chiamate all'ora. Ma col lavoro che fa di telefonate gliene
arrivano una, forse due, ogni mesetto.
Traduce libri. Libri dal russo. Nuovi scrittori. Qualcuno la chiama
avanguardia. Ancora non capisce perché abbia voluto studiare proprio
questo. Ogni tanto se lo chiede, ma vorrebbe chiederlo a sua moglie. L'ha
conosciuta là. 50 chilometri a sud di Pietroburgo, in un paesino di
cinquanta anime.
Adesso è un mese che non la sente, da quando lei è scappata così, con
due valigie ed un gatto. In casa gli ha lasciato quasi tutto, anche i suoi
quadri. Lei dipinge, dipinge animali in mezzo agli uomini. Cani in
ufficio, scimmie su un banco di scuola o giraffe in un campo da calcio. Da
ragazzina lavorava in un albergo, ma adorava leggere in mezzo alla neve.
Ha sempre amato il freddo.
Lui in Italia per la prima volta l'ha portata a Venezia. Ma c'era l'acqua
alta e aveva giusto un paio di mocassini. Hanno passato 10 giorni a fare
l'amore. Ma ora sarà almeno un anno che non le vede neanche un braccio.
Qualche giorno fa è uscito che era notte, ed è andato con una
prostituta. Le ha chiesto come si chiamasse. Lei gli ha risposto che era
tenuta a dargli soltanto ciò per cui era pagata. Soldi ne ha sempre spesi
pochissimi, usa ancora la macchina che gli ha comprato suo padre dopo la
laurea. Una ritmo blu.
Adesso sta molto male, il padre. Potrebbe campare altri mille anni ma non
lo riconosce più. Ogni tanto capita anche a lui, di non riconoscersi, e
si chiede se non sia una cosa ereditaria. Allora si guarda allo specchio,
e pensa all'unica volta che guardandosi si è sentito davvero bello.
Il giorno del suo matrimonio. Portava la cravatta che già aveva portato
il padre. Si era svegliato così presto che per trovare la sveglia ha
ribaltato la foto della madre sul comodino. Quel giorno è arrivato in
chiesa un'ora prima, alla radio ancora si parlava dei mondiali ma lui
guardava un bambino, seduto su un marciapiede. Era sporco, e sorrideva. Si
è sistemato il colletto, ha controllato di non avere nulla in tasca ed è
sceso. Proprio come adesso. Aspetta che si apra, poi scende. Si guarda in
giro e scompare sulle scale mobili.
2. Centrale
Non era bella, ma sapeva sempre come sembrarlo. Si
era fatta crescere i capelli quando tutti le avevano suggerito di
tagliarseli. Un po' per caso, un po' perché si divertiva da morire a fare
l'opposto di quello che le dicevano. Ha perso tre lavori in questa
maniera. Lavorava in uno studio legale, ma volevano costringerla a dare
più del dovuto. Lei se n'è andata ma ha lasciato una sua foto, forse la
più bella, sulla scrivania del capo.
Credeva di essersi innamorata, due anni fa. Ad una festa, lui era l'unico
che non le avesse rivolto uno sguardo. Aveva i capelli cortissimi e neri
come il carbone. Non l'ha mai più rivisto, se non in qualche sogno,
quando viveva ancora a Roma.
Una notte si è svegliata e credeva che lui fosse lì. Invece era tutto
come sempre. Stava in un monolocale, l'aveva riempito di blu: l'unico
colore che le piacesse davvero. Le ricordava il mare, il mare di notte. Da
piccola non ci era mai stata ma l'aveva sempre cercato. Lo amava, ma non
voleva viverci. Le cose troppo grandi che non poteva capire la
spaventavano un po'.
Ogni tanto aveva paura di non essere capitata nel posto giusto. Si stupiva
per prima di come fosse riuscita a non cambiare mai idea. Pensando giocava
ad arrotolarsi i capelli, così lisci che gli elastici cadevano quando se
li legava. Ne aveva mille a casa, ma non li usava mai. Da ragazza glieli
regalavano le amiche, o meglio, l'amica. L'unica con cui andasse davvero
d'accordo.
Ma ora sta in America, ricerca qualche cosa sul codice genetico. Vive a
Houston ed ha 3 figli. Li ha visti in foto, due biondi e uno bruno. Ha una
casa tutta di legno e una coupè rossa.
Chissà com'è pulita, pensa, guardando la parete del vagone. C'è scritto
panda. Ci fa caso raccogliendo la borsa. Poi sorride ai riflessi del
vetro, si spinge indietro i capelli e scende giù. Guarda davanti a sé e
scompare sulle scale mobili.
3. Repubblica
Leggeva Gogol', "Le anime morte" e
sembrava davvero divertito. Un po' perché davvero lo faceva sorridere, un
po' perché si chiedeva come avesse fatto a non leggere più un libro da
almeno trent'anni. Era il suo primo giorno di pensione. Amava pensare che
avrebbe avuto davanti un mondo. A casa dipingeva paesaggi ma non aveva mai
viaggiato. Aveva una casa sul lago, ma la usava quasi soltanto il nipote,
per portarci gli amici. E qualche ragazza.
Era stato in Svizzera una volta, a Locarno. Si era dimenticato la macchina
fotografica ed è tornato a casa con un centinaio di cartoline. Le ha
ancora tutte lì. Qualcuna attaccata al frigo, qualcuna alla credenza,
altre dentro una scatola di scarpe con le lettere ingiallite di sua
moglie, anche quelle del militare. Ogni tanto le legge e si risponde in
testa, pensando che lei lo ascolti da lassù.
Ha passato giornate intere ad immaginarsela, quando lavorava all'ufficio
oggetti smarriti. Si chiedeva se lei, anche lì, avesse qualche fiore da
curare. Era la sua passione. Sul balcone ha ancora gerani ovunque,
petunie, ortensie, viole e ciclamini. E un vaso di rose che le aveva
regalato il figlio. Credeva che sarebbero morte senza tutte quelle cure.
Poi si è accorto che bastava innaffiarle, lo faceva ogni giorno tornando
a casa. Accendeva la tivù e si preparava qualcosa, ogni tanto ordinava la
cena dai cinesi, ma arrivava sempre troppo calda, o troppo fredda.
Il libro che teneva in mano lo aveva letto il figlio al liceo, assieme ad
un'altra tonnellata di carta che era sempre rimasta in camera sua. Il
nipote ci ha giocato un po' ma in breve si è accorto che i russi non
facevano per lui. Preferiva le avventure, e continuano a piacergli. Fa il
medico in Africa, ogni tanto telefona. Ha comprato al nonno un computer
per potergli scrivere e-mail ma è sempre stato spento. La tastiera ha
ancora il cellophane attorno.
Vorrebbe stare ancora ore a leggere ma guarda l'orologio e segue per un
po' la lancetta dei secondi. Poi si attacca ad un paletto, fa forza e si
tira su. Infila in tasca il libro, rilegato azzurro, e si scuote un po' il
cappotto che si è appena sporcato. E' vernice nera, andrà via, si dice.
Andrà via.
La porta si apre e scende. Abbassa un po' gli occhi e scompare sulle scale
mobili.
4. Turati
Dalle spalle le pendeva un vecchio scialle, rosa e
blu. Con dei bei fiori stampati. Lo ripiegava ogni mezz'ora, sventolandolo
ad aprirlo, per riassestarselo con calma. Quasi a stirarlo con le dita,
lunghe e sottili, con la pazienza di una mamma.
Da bambina aveva un'arpa, ci giocava da sua nonna quando viveva in
campagna. Voleva che le insegnasse qualcosa ma era sempre troppo stanca.
Lei invece amava correre. Correre sotto la pioggia. Faceva chilometri.
Dicevano che sarebbe andata forte, la prima volta che l'hanno messa su un
tartan. Ma era Luglio, e sotto il sole non riusciva a fare un passo.
Un giorno ha lasciato la scuola e ha preso l'aereo. E' partita per Dublino
ed è tornata con un figlio e una medaglia. D'argento. Ma casa della nonna
non c'era più. L'ha venduta, le han detto. E' una galleria d'arte adesso.
In camera sua c'era un enorme ritratto, di un gabbiano con una zampa
ferita.
Ha vissuto un po' in città, dalla sorella del parroco. Una casa di due
piani con una ventina di letti. Poi hanno iniziato a farle un sacco di
domande, a venirla a trovare spesso. Alla fine le han detto che il bambino
avrebbe dovuto andarsene. Stare con loro. Una notte sono venuti a
prenderselo e non l'ha più visto.
Lei ha preso le sue cose ed è andata con una carovana. Erano Rom. L'uomo
che l'ha ospitata aveva un'Audi senza il sedile dietro. Lei ci ha dormito.
Hanno viaggiato per sei giorni, ogni tanto si davano il cambio al volante.
Poi la porta si è aperta. Lei ha imparato a cucinare. Comprava piselli e
fagioli, ogni tanto pure i ceci. Ogni volta ne teneva uno per se. Se lo
metteva in tasca, nella giacca nera. Diceva che un giorno li avrebbe dati
a suo figlio. Uno per ogni pianto che non aveva ascoltato.
Ora raccoglie monetine agli angoli. Quello che le danno. Le piace fermarsi
fuori dai negozi, dove mettono la musica. Si siede e aspetta. Poi si alza,
si ripiega lo scialle, sventolandolo ad aprirlo, per riassestarselo con
calma. Proprio come adesso.
Mette una mano in tasca e tintinna. Poi scende. Fa per contare e scompare
sulle scale mobili.
5. Monte Napoleone
Ha iniziato con dei semplici roller. Glieli ha
regalati la nonna ai suoi 11 anni. Giocava in una pista un po' fuori dal
centro. Usava un bastone e una pallina da tennis. Poi si è comprato la
sua prima mazza ed ha sotterrato il suo bastone là a due passi. Un suo
amico ha trovato un puck un giorno. Rosso fuoco. Passava giornate intere
in pista, anche da solo. Anche soltanto seduto a guardarlo. Per poi
alzarsi e sentire che sarebbe andato davvero dove voleva farlo andare.
Tirarlo con tutta la forza che aveva in corpo. Distruggere il plexiglass
che recinta la pista. Con un colpo. Questa era la sua sfida, e diceva a
tutti che ce l'avrebbe fatta. Quando gli altri ragazzi sognavano San Siro
o qualche set di Hollywood lui voleva soltanto il ghiaccio. Il ghiaccio di
una pista di Hockey, di quelle come si vedono nei videogiochi. Si era
disegnato una maglietta su di un cartone colorato. L'aveva appesa in
camera, sopra il letto di suo fratello che tanto a casa non ci tornava
mai.
Poi le magliette le ha viste davvero. E' entrato al palazzetto la prima
volta, pagandosi il biglietto coi soldi della cresima. La partita non l'ha
vista. Nemmeno un minuto. Voleva soltanto vedere il ghiaccio. E sentire
che cosa avesse da dirgli.
Amava cadere. Cadere e guardarsi intorno, perché gli altri vedessero che
non aveva paura. Quando ha detto al padre che voleva comprarsi dei veri
pattini voleva soltanto sentire cosa si prova a buttarsi a terra e
lasciare che sia il ghiaccio a decidere per te.
E il ghiaccio per lui ha deciso che in sette mesi di allenamenti, sarebbe
diventato il migliore. Tanto che nessuno ci avrebbe mai creduto. Giocava
con un cappellino al contrario, sotto il caschetto. Tutte le firme dei
suoi amici, glielo hanno regalato alla sua prima partita nell'under 17.
Sembrava di essere in un film.
Un giorno ha pianto. Ha tenuto il puck in mano per ore mentre lo portavano
in ospedale. Si è distorto una caviglia e credeva che il ghiaccio si
fosse stufato di lui. Invece ha ricominciato, ore di fisioterapia e
palestra. Ci ha messo un anno ma è tornato in pista. Con una firma in
più sul cappello. Suo fratello, che non vedeva da così tanto tempo che
da sotto non l'ha neanche riconosciuto.
Adesso quel cappello ce l'ha in mano. Non ha avuto il coraggio di
toglierselo neanche ieri, quando è stato chiamato in federazione. Non
capiva perché. Temeva una squalifica, un rimprovero. Qualcosa. E' uscito
con una borsa blu ed un biglietto aereo in mano. Nazionale under 21. Parte
per Oslo, la settimana prossima. Lo stringe a sé, poi se lo mette su,
sistemandosi il colletto della tuta. You're as cold as ice…
Sta tornando a quella pista un po' fuori dal centro. Quella dove cercava
il ghiaccio senza accorgersi che era il ghiaccio a cercarlo. Cercherà il
suo vecchio bastone. Vuole partire con del plexiglass in borsa. Stringerlo
e sentire che ci sono sogni di cui non si può avere paura. Il ghiaccio.
Il ghiaccio.
Chissà che effetto fa cadere adesso. Ci pensa e raccoglie quella borsa
blu. Poi scende. Guarda in alto e scompare sulle scale mobili.
6. Duomo
Quelle calze le piacciono da impazzire. Le ha
notate a Londra, in un negozietto a Poland St. e non se l'è fatte
scappare. In Italia non ne aveva mai viste di così. Nemmeno quando torna,
ogni tre mesi più o meno, e fa il tour di tutti i negozi che conosce.
Quelli che frequentava da ragazzina, con le sue amiche, se decidevano di
tagliare la scuola. Adesso per darsi un po' di vacanza deve smollare col
college, studia ad Oxford ed ha una camera soltanto per sé, da quando la
sua compagna di stanza è tornata in Giappone.
In bacheca ha appeso un sacco di foto. La più grande è quella di sua
sorella. Vive da qualche parte vicino a Napoli, con un tizio che ha
incontrato in vacanza. Lui aveva un mobilificio. Vendeva divani e sedie,
poi le cose hanno iniziato ad andar male. Adesso preferisce sedersi al
bar. Ma sono anni che non la vede. L'ultima volta si sposava lo zio.
Cantavano un sacco di canzoni quel giorno.
Ora invece è lei a cantare. Ad Oxford tutti la chiamano Cherry. Credevano
fosse inglese, con quei capelli rossi e quella coda alta che non cambia
dall'asilo, ormai. Faceva la cameriera per pagarsi un po' le spese, ma non
le è mai bastato. Ha scoperto che in Inghilterra adorano l'Italia. Adesso
canta vecchie romanze napoletane, con un gruppo jazz, tedesco per metà.
Un giorno ha deciso che si sarebbe fatta un segno sulla borsa per ogni
persona che gli avrebbero presentato. In un anno l'ha riempita di nero.
Ha frequentato un ragazzo del Congo, uno che suonava per strada ma si era
fatto un bel gruzzolo col crack. Poi ha conosciuto uno che lavora a Londra
da un po' ma che è nato a Trieste. Fa l'assicuratore e lei si è subito
fidata. Ha una specie di loft a due passi da Regent St. Il padre gestiva
un ristorante là, specialità pesce. Poi l'ha venduto e ha comprato una
grande barca a vela. Del mare conosce soltanto i gamberetti, lei. Li
adora. Trova sempre un modo nuovo per cucinarglieli. E' sempre lei a
cucinare qualcosa là.
Ma non sa se diventare una donna di casa. Lui le ha chiesto di sposarlo,
ieri. All'aeroporto. Ha scaricato i bagagli dalla Volvo e l'ha guardata
negli occhi. Lei non sapeva, non sa. Vorrebbe fuggire, andarsene. Ma in
fondo non vede l'ora di tornare in quel loft a guardare la gente che
passa. Aprire la porta e reinfilarsi i lacci degli anfibi. Dargli un bacio
e correre giù. Proprio come adesso. Solo che adesso lui non c'è.
Da un calcetto a terra, è ancora fango inglese, pensa. Passa una mano
sulla coda e la fa scorrere giù, giù. Fino alla fine.
Poi scende. Gli occhi a un cartellone. C'è ancora qualcuno che scrive
lettere al mondo? Si ma chi pensi le legga? Si chiede. Poi si mette una
mano in tasca. Riparte e scompare sulle scale mobili.
7. Massori
Comprava il Corriere ogni giorno. Dava un'occhiata
al titolo e si sedeva. Poi prendeva una vecchia biro, di quelle che
regalano ai supermercati, di uno strano nero brillante che da lontano
pareva d'oro. Si infilava il cappuccio nella tasca del cappotto, affianco
a un pacchetto di sigarette lì da chissà quanto. Fumava soltanto quando
fuori pioveva, senza l'ultimo ombrello che aveva perso due anni prima, ad
una mostra.
Tracciava i contorni della testata, poi partiva a disegnare punti. Tutti i
punti che gli venissero in mente. Punti. Da quando era un bambino, ha
sempre amato i punti. Nessuno può misurare un punto. Eppure sono così
importanti, pensava. Li incastrava e li faceva scorrere come treni attorno
alle lettere. Fra una A ed una M, un punto. Corre così in fretta che
nessuno ha mai avuto la pazienza di stargli dietro.
Ma lui di pazienza ne aveva all'infinito. Ogni giorno faceva colazione al
bar. Un caffè senza zucchero e una Brioche alla crema. Poi tornava a casa
e si sedeva per terra, nel suo studio. Un vecchio capannone tutto vetrate.
Se l'era costruito con suo padre, quando ha iniziato a lavorare. Era il
suo lavoro, costruire. Costruiva mosaici. Per grandi palazzi o per
fondazioni culturali. Aveva milioni di tessere di vetro. Le ritagliava
quando faceva sera e non poteva più lavorare. Non aveva lampade nel suo
studio. Un mosaico è come uno specchio, diceva. Ma può riflettere
soltanto la luce del sole.
E proprio il sole era la sua passione. Aveva imparato a leggere l'ora,
soltanto dall'ombra della quercia che aveva davanti alla finestra. Il suo
orologio era fermo da secoli, alle 15.25. Ogni mattina si alzava e faceva
una foto all'alba. Proprio mentre sorgeva. Poi le portava a sviluppare e
le raccoglieva in album enormi, come raccoglitori di ufficio. Ne portava
sempre uno con sé. Lo mostrava a chiunque gli dicesse che i giorni sono
tutti uguali.
Ogni anno prendeva l'aereo e accompagnava un suo mosaico da qualche parte.
Venivano con due camion, lo dividevano in due parti uguali e lo portavano
via. Non aveva mai fotografato nulla di suo, è il sole a dargli vita,
diceva. Il sole. Look up in the sky recognize it's sunshine.. Un giorno un
giornalista ha deciso di fargli un catalogo. Ma lui si è rifiutato. A chi
vuoi che interessi? Chiedeva. Ma sempre più spesso qualcuno gli
telefonava e gli proponeva un lavoro nuovo, lui sorrideva e metteva giù.
Non voleva che si parlasse di lui, ma era diventato sempre più richiesto.
Un giorno sul Corriere l'hanno messo in terza pagina, ma come sempre non
l'ha neanche aperto. Dopo averlo riempito di punti lo ripiegava e si
sistemava la sciarpa che portava anche in primavera. Poi si alzava, sempre
qualche secondo prima che il treno si fermasse. Proprio come adesso.
Scende, sta un attimo fermo e si guarda intorno. Poi va verso una
panchina, guarda i suoi punti per l'ultima volta e li lascia lì. Devono
correre, correre da soli. Si volta, riparte e scompare sulle scale mobili.
8. Crocetta
Teneva aperto un libro d'arte sul velluto dei
pantaloni, uno di quei libri tutti lucidi che aveva recuperato un po' in
giro per l'Europa, nei lunghi pomeriggi in cui non faceva che passeggiare,
passeggiare e disegnare. Kandinskij. Una coppia a cavallo, e le luci di
Mosca andavano a braccetto coi neon su cui puntava gli occhi prima di
cambiare pagina ogni volta. Aveva le scarpe allacciate in un grosso nodo e
giocava a slacciarsele, una con l'altra, solo con i piedi. Come faceva da
bambina, mentre si dava ai compiti con la testa china sul tavolo che aveva
trasformato in una scrivania.
Non si era mai sentita brutta, ma non sopportava di guardarsi allo
specchio. Diceva che gli occhi la tradivano, che gli altri ci leggevano
sempre qualcosa di diverso. O forse ogni tanto era lei a confondersi, a
pensare di essersi tradita. Si era innamorata una volta soltanto.
Una volta soltanto ma ci aveva messo degli anni a capirlo. Un po' perché
non ci credeva, un po' perché non sapeva se volesse crederci o no.
Diceva, beh, capiterà a tutti prima o poi no? Erano passati anni ormai.
Eppure ogni tanto ricominciava a pensarci e a porsi tutte quelle domande a
cui allora la risposta era sempre e soltanto una,così semplice. Ti stai
sbagliando.
Ma poi non aveva il coraggio di parlarne con nessuno. Temeva che qualcuno
le dicesse che non avrebbe avuto alcun senso. Innamorarsi di una persona
che conosci da così poco. Una persona che ha già il cuore impegnato
chissà dove. Una persona così tanto diversa da te. Ma soprattutto.
Temeva che qualcuno le dicesse, no. Non ha senso innamorarsi di una
persona, se questa persona è la tua migliore amica.
Eppure a lei sembrava che per una volta gli occhi non potessero tradirla.
Era bella, si. Aveva il sorriso di chi è in corsa e ha preso il ritmo.
Ogni tanto si fermava. Ed era proprio in quei momenti che si accorgeva di
amarla. Poi, l'ultimo giorno di scuola del terzo anno le ha scritto un
biglietto ed è scomparsa. E' partita subito. Ha finito la scuola in
Australia. Là suo padre aveva un amico d'infanzia, è stata lei a
chiederglielo. Ancora non sa se sia stata la scelta migliore, ogni volta
che ci pensa le torna in mente suo nonno. Il passato è passato, diceva.
Banale, si. Però sono le ultime parole che le ha detto, prima di morire.
Non l'ha mai più rivista. Forse sapeva dove avrebbe potuto andarla a
cercare. Sapeva dove, ma non perché. In fondo sarebbe stato soltanto
farsi del male, e perché poi? Aveva soltanto una sua foto, scattata in
gita al liceo. Erano sedute su una scalinata, sorridevano con una
bottiglia di birra in mano. Era stata male, e da quel giorno beve soltanto
succhi di frutta. Somebody told me that this planet was small…
I suoi libroni patinati li tiene tutti in una mensola, ha una bacheca
sotto. Una bacheca dove tiene le lettere a cui deve ricordarsi di
rispondere. La sera, si siede davanti al suo computer e mette un po' di
musica. Di solito Jazz, oppure qualcosina di classica. Magari qualche
pianista di quelli coi capelli sugli occhi, quelli che ogni tanto, quando
le dita vanno giù pesanti, si danno uno scossone all'indietro e riportano
le ciocche a posto.
Perché anche lei vorrebbe darsela una scossa. Vorrebbe fermarsi e
guardare tutti gli altri senza essere vista. Vorrebbe giocarsi
l'identità. Le carte dell'orgoglio contro il titolo troppo noto. Quello
di diversa. Ma diversa da chi?
Le viene da dirselo, poi chiude il libro. Beh, per oggi tocca scendere. Si
alza e si riassesta le braghe. Poi fa una corsetta alla porta, si è già
fermato. Salta giù e si infila il libro nella borsa. Poi si passa una
mano nei capelli, corti e duri come tanti piccoli spaghi. Riparte e
scompare sulle scale mobili.
9. Porta Romana
Teneva stretto in mano un piccolo berretto di lana.
Azzurro, con un grande fiore ricamato. Una margherita. Giocava facendo
scorrere il dito su ogni petalo, come accarezzandolo. Lo tastava e lo
tirava un po'. Era abbastanza resistente, si. Sorrideva e lo stringeva a
sé, alzando gli occhi a pubblicità a cui non avrebbe mai fatto caso.
L'aveva cucito lui, con le sue mani. Usava l'ago da quando era soltanto un
ragazzino, ma soltanto in carcere ha imparato ad usarlo per cucire. Un
anno. E' rimasto un anno in una cella tutta verde, di un verdino da
ospedale. Il suo compagno di cella aveva una barba lunghissima. Veniva
dall'Algeria, gli aveva raccontato tutta la sua vita. Aveva un figlio, in
Francia. Non lo vedeva da quasi sei anni. Poteva anche non esserci più.
Lui sorrideva e si sentiva fortunato. Aveva un figlio anche lui, sapeva
che c'era. Un mese prima era arrivata una lettera. Prima di aprirla se
l'è tenuta una notte sul petto. Ogni tanto la alzava e la metteva a
riflesso con la luna, trafitta dal ferro delle sbarre. Era lei, pensava.
Era lei. Poi l'ha aperta con le unghie e l'ha letta tutta di un fiato,
sputando via con gli occhi la polvere che si era lasciato cadere addosso.
Una bic rossa, comprata apposta per lui. E le sue parole che scivolavano
sulle righe di un vecchio quaderno di scuola. Con quelle "e"
lunghissime e quei puntini di sospensione che non finivano più.
Lei parlava così, con tante pause. E tanti punti di domanda, che spesso
era lui a metterle perché lei non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo.
Temeva che soffrisse, che si preoccupasse. Lei, diceva, avrebbe potuto
cavarsela da sola. Tranquillo. Per sei mesi non era andata a trovarlo,
neanche un'occhiata. Poi è riuscita a scrivergli, anche se sua madre non
è mai stata d'accordo.
Sarà da lei, pensa, dalla madre. Starà cambiando un pannolino o
scaldando un biberon.
Sarà sdraiato, pensa, sdraiato sul suo letto con un libro. O la gazzetta
che arrivava ogni giorno, del giorno dopo.
E invece lui sorride, sulle sue scarpe da calcetto che han comprato
insieme. Vuole suonare il campanello e dirle che era tutto solo un brutto
sogno. Dirle che gli hanno aperto e ha detto addio alle sue pareti verdi.
Che. Che vuole soltanto darle un bacio, e stringere la mano a quello
strano bambolotto. Ciao, io sono il tuo papà! Daddy's here, and I ain't
going nowhere baby...
Suona bene papà! Papà! Si gratta un po' il mento rasato perfetto. Poi
scende. Tira per l'ultima volta il berretto e lo infila nel tascone dei
pantaloni. Papà! Poi riprende il passo e scompare sulle scale mobili.
10. Lodi
La chiamavano cicogna. Le classiche cattiverie da
studenti, è vero, ma ogni tanto veniva proprio da chiedersi cosa
aspettasse a aprire le ali e volare via. Leggera com'era, forse, sarebbe
finita chissà dove, un isola deserta da qualche parte in qualche oceano.
O un piccolo pezzetto di terra in qualche posto del nord, dove metter su
il suo berrettone di pelo e i suoi guanti caldissimi.
E invece era come se vivesse in grecia, circondata da uomini barbuti che
passano giornate intere a parlare e parlare. Anassimene e Anassimandro.
Pitagora e Protagora. Socrate e Platone. Aristotele e Zenone. Sempre lì,
costretta da qualche caso del destino ad insegnare filosofia alla bellezza
di cinque classi, tutte e cinque del medesimo terzo anno.
Che poi, lei questi uomini barbuti scolpiti solo nella pietra, li aveva
forse amati più di quanto avesse amato un qualunque altro uomo in carne
ed ossa. Usciva con un ragazzo, ai tempi del liceo. Lui era biondo e
capellone, con una risata che si era studiato davanti alla TV. Voleva fare
Fonzie. Diceva ehi a tutti. Ma soltanto lei gli aveva risposto, lo aiutava
anche a farsi i compiti. Un giorno lui si è messo in testa che voleva
andarsene in America. Ha messo tutto ciò che aveva in un borsone da
militare del fratello ed è partito.
Lei è tornata al De Anima. Si è letta nel suo lettone praticamente tutto
ciò che ha trovato di Aristotele. Avvolta in quelle coperte enormi, che
la madre gli sistemava ogni mattina. Gli piaceva arrivare a scuola almeno
mezz'ora prima, con la bicicletta che usava il padre quando faceva il
postino. La legava sempre ad una specie di inferriata a cui i bambini
giocavano a tirare calci, perché qualcuno aveva detto che sarebbe venuta
giù. Invece era lì da almeno trent'anni, ed ogni tanto era la bici a
prendersi dei bei scossoni. Ma lei tornava e la tirava su sorridendo.
Anche adesso sorride. Ogni volta che qualche ragazzo la saluta e le chiede
qualcosa. Ogni volta che qualcuno alza la mano e le risponde. Anche quando
deve urlare sorride. Alza un po' il braccio e poi batte sul tavolo, ma
senza. Rumore. Poi si ricompone e ricomincia con i suoi uomini barbuti.
Guardando fisso nel bel mezzo della classe, perché tanto sono le parole a
dargli gli occhi. E' questo che i barbuti le hanno insegnato.
Quando l'hanno vista a scuola per la prima volta qualcuno diceva che era
come se avessero preso tanti pezzi a caso. Poi l'avessero montata. Ma con
qualche centimetro qua e là che ha preso il volo, con qualche pezzo un
po' più lungo. E qualcuno un po' più corto. Lei lo sapeva. Sapeva che da
bambini c'era sempre stato qualcuno pronto a ridere. E sapeva soprattutto
che i bambini non sono poi così diversi dai grandi.
Ma sapeva anche che in fondo i suoi uomini con la barba erano un po'
proprio come lei. Qualcuno non li capiva. Qualcuno non li poteva capire.
Qualcuno non li voleva capire. Ci pensava ogni volta che si toglieva gli
occhiali e stava un po' ferma a guardare la classe che piano piano andava
sfuocando. Ecco, diceva che tutto in fondo era un po' così. Bastava un
secondo per perderlo di vista.
Ma poi ricominciava a parlare. E a sorridere senza che nessuno le avesse
mai chiesto di farlo. Soltanto così. Prendeva la sua bici e tornava a
casa, dove la madre ancora ogni tanto le rifaceva il letto. O le sfilava
qualche libro da sotto le braccia, quando si addormentava ancora con la
luce accesa e con la serranda su. Da quel balcone al dodicesimo piano.
Torna a riprendersela ora, a riprendersi quella bici che qualcuno questa
volta a preso a calci al posto dell'inferriata. Sono bambini, pensa. Chi.
Non lo è?
Si rimette su il berrettone di pelo e i guanti caldissimi. Poi si guarda a
terra, quasi a controllare di essere davvero in piedi. La porta si apre e
lei è sotto con un passo. Sorride. Poi raccoglie un volantino a terra.
Ryanair. Riparte e scompare sulle scale mobili.
11. Brenta
Aveva ai piedi una grossa bandiera arrotolata, di
un rosso che un tempo doveva essere stato acceso. Negli anni si era un po'
lasciata andare ma ci teneva davvero tanto a quel pezzettone di tela.
Gliel'ha regalata il nonno, era la sua, quando è venuto a trovarlo alla
festa di leva. Qualcuno ha tentato di alzargli le mani quel giorno, ma lui
se l'è tenuta stretta. Con quell'orgoglio di chi fa qualcosa senza sapere
bene perché, ma sapendo che è la cosa giusta.
La teneva appesa al suo armadio, quello dove stipava i cappotti e le
vecchie camicie che piano piano sono passate di moda. Ma lei è sempre
rimasta lì. Lo ha visto crescere. Il giorno che i suoi sono partiti è
rimasto a fissarla per ore. Siamo io e te, diceva. Io e te. Lei lo ha
visto quando ha finito di scrivere il suo primo libro. Lo ha visto quando
ha fatto la prima volta l'amore. Ogni tanto la prendeva e la portava con
sé da qualche parte. Manifestazioni. Collettivi. Scioperi e qualsiasi
posto in cui quel pezzo di tela avrebbe potuto parlare per lui.
Non ha mai perso un'occasione. Qualche suo vecchio amico gli dava del
pazzo, diceva, sei grande, trovati un lavoro. Lui si è iscritto
all'università ed è andato fuori corso prima ancora che capisse cosa un
corso fosse. Passava le giornate in biblioteca, e si guadagnava da vivere
dando lezioni d'Italiano e Latino a qualche studente del liceo. Ogni
mattina prendeva la sua vecchia bici e passava a metter volantini fuori
dalle scuole. Lo conoscevano un po' tutti ormai. Johnny, così lo chiamava
qualcuno di quelli più grandi, perché somigliava a un qualche
personaggio di un qualche film. Con quei riccioli biondissimi e quegli
occhi di ghiaccio.
Lui sorrideva, sorrideva e salutava. Credevano spacciasse. Un giorno lo
hanno fermato dei carabinieri, gli hanno svuotato lo zaino e hanno trovato
soltanto libri. Documenti? 26 anni. Trovati un lavoro, coglione. Così gli
han detto. Tutti uguali, siete. Tutti uguali.
Eppure lui si sentiva diverso. Anche se non sapeva poi bene chi fossero
gli uguali e chi i diversi. Sapeva soltanto che a lui la vita piaceva
così. Con la sua bici, il suo eskimo, i suoi vecchi mocassini e quel
piccolo appartamento pieno di libri.
Aveva conosciuto una ragazza a una riunione. La più bella che avesse mai
visto. Ma non era mai riuscito a dirle nulla più di un come va. La
incontrava ogni martedì, quando prendeva la metro e andava dall'altra
parte della città. Lei. Era l'unica cosa che avesse davvero temuto di
veder sparire in tutta la sua vita. Non ha senso, diceva. No. Stringeva la
sua bandiera e le chiedeva, scusa, per te ce l'ha qualche senso?
E lei sapeva rispondergli. Perché era il simbolo di qualcosa che aveva
passato una vita intera a cercare. Senza sapere se volesse proprio
trovarlo o il bello stesse proprio lì. Cercare. Correre e cercare. Oppure
soltanto camminare, o andare in bicicletta sfidando l'inverno. Come aveva
sempre fatto. Guardava la sua bandiera e le diceva grazie.
Ma oggi ha deciso. Si è svegliato in piena notte che gli sembrava che
qualcuno lo stesse prendendo a pugni. Invece era lei. L'aveva soltanto
appoggiata. E lei era venuta giù, con tanto di asta, proprio dritta sulla
sua fronte. Lui si è alzato, si è preparato un the verde e ha tirato su'
la serranda. I can feel the city breathin'... ha acceso il vecchio
giradischi e ha messo su i Black Star. Poi si è seduto sul balcone ed ha
iniziato a ridere, ridere, ridere. Ha aspettato l'alba. Era l'ultima cosa
che aveva deciso di aspettare.
Oggi è martedì. Ha preso la sua bici fino alla stazione e l'ha legata a
un palo pieno di adesivi. Ce n'è ancora uno del suo primo libro. Era poco
più che un opuscolo, ma l'aveva fatto girare per tutta la città. Adesso
si alza e tiene stretta la sua bandiera. Qualcuno lo sta puntando. Ma lui
continua a sorridere.
Guarda negli occhi un ragazzino con uno zaino pieno da scoppiare. Poi gli
fa un cenno e scende. Oggi è il suo giorno. Oggi. Mette un piede a terra
e ride. Poi fa due passi e ricomincia. Ridere e ridere. Ehi, ehi, ma io
chi sono? Chiede alla bandiera. Ma questa volta non aspetta una risposta e
parte spedito. Si volta un'ultima volta e scompare sulle scale mobili.
12. Corvetto
Non è possibile! Capitava ormai due volte ogni
giorno che quel portatile si spegnesse così, senza nemmeno una botta, un
suono, nulla. Toccavi un tasto e andava tutto via. E lei ogni volta sapeva
di non poterci fare niente. Di solito si staccava un orecchino e ci
giocava da anello. Mi scarico un po', pensava di dire se qualcuno glielo
avesse chiesto. Ma poi nessuno ci faceva nemmeno caso e tutto ricominciava
come prima.
Il suo primo giretto in borsa l'ha fatto a 9 anni. Suo padre lavorava là,
anche se non è che fosse proprio un pezzo grosso. Faceva le pulizie.
Quando tutti se la filavano e quei grossi schermi, che non erano ancora
computer, restavano lì, immobili, a aspettare che venisse un po' di
polvere a abbracciarli e a dare loro un po' di carezze.
Forse anche loro hanno un cuore, così si diceva ogni volta che quel
dannato XP si metteva a nanna da solo. Era l'unico modo per convincersi
che scaraventarlo a terra non sarebbe stata la risposta migliore. Che poi
in fondo lei non se ne accorgeva ma sapeva farci proprio di tutto lì
sopra. Persino qualche giochetto di grafica.
Aveva iniziato a lavorare così, per caso. Perché suo padre conosceva un
po' tutti ed era quasi una mascotte. Col suo metro e quarantadue e il
basco tutti i giorni. A tutte le ore. All'inizio pensavano che avrebbe
dato di che ridere in fretta. Una ragazza coi computer, ehi, cosa vuoi che
faccia? Poi si è scoperto che, forse si, piano piano, con un ritmo tutto
suo, lo stesso di tutto ciò che aveva fatto nei suoi 29, ma non lasciava
mai una mezza virgola al caso. Non le sfuggiva nulla. Un salterello in su,
uno piccolissimo in giù, di un'azioncina. E subito sapeva come far
saltare, lei, le sue dita per non perderla di vista. Niente di enorme e
clamoroso. Si muoveva sulle mezze misure. Quelle che tutti ignorano e un
po' a tutti poi vanno addosso. Così ogni giorno. Ogni giorno col suo
profumo.
Perché cambiava sempre boccetta, più di quanto si cambiasse d'abito che,
è vero, non era certo il suo forte. Non abbinava i colori, ma non
riusciva a uscir di casa senza un profumo che non sentisse suo. Suo. Si
colorava di profumo. Qualcuno se lo creava lei, in casa, con alcool ed
essenze che le portavano le amiche, da qualche parte del mondo. Aveva due
grandi amiche, ancora delle superiori. Erano inseparabili. Quando
tagliavano scuola andavano sempre per vetrine a cercare boccette. Una
sognava di diventare modella. L'altra un medico famoso.
Lei invece ha sempre soltanto sognato di trovarsi un lavoro che la facesse
sorridere, come suo padre. Sapeva che non capita spesso di uscire alle 7
con il sorriso in fronte, ma voleva che fosse così, qualsiasi cosa le
toccasse fare. Qualcuno la chiamava quotidianità. Per lei era
semplicemente quel che aveva sempre sentito. Non un obbligo, nemmeno una
scelta. Semplicemente così, si diceva, questa è la mia vita.
Viveva ancora col papà, in un appartamento non molto più grande
dell'ufficio dove l'avevano promossa. Ogni sera tornava a casa, si
toglieva quei tristi tailleur a cui era quasi costretta, e si metteva su
una tuta fra tutte. Poi una fascia in fronte, un paio di guanti se serviva
e via, si metteva a correre per un'ora almeno, ogni sera prima di cena.
Tornava, una doccia, e si infilava sotto le coperte. Spegnendo la luce del
comodino che illuminava soltanto qualche vecchio romanzo francese e una
fotografia di un bambino biondo che sorride.
Oggi non vede l'ora. E' un giorno esattamente uguale a tutti gli altri, ma
non vede l'ora di tornare, togliersi via tutto e correre. Correre. Chiude
il computer con mano esperta. Poi il suono metallico della valigia che si
chiude. Stacca sui tacchi e fa un piccolo balzo per superare uno zaino
poggiato per terra. Poi le porte si aprono e scende. Si riassesta la
gonna. Porta un polso fin sotto il naso e inspira. Vaniglia. Si guarda
avanti soddisfatta. Poi riparte e scompare sulle scale mobili.
13. Porto di mare
Le aveva scritto una lettera. Sapeva che le lettere
non le scrive più nessuno, è vero. Ma gliel'aveva scritta lo stesso, con
quella stilografica che aveva recuperato chissà dove, a cui si era
affezionato talmente tanto da non lasciarla mai sola. In qualche tasca, o
in quel vecchio zaino blu che aveva sempre sulle spalle. Gli chiedevano
sempre che cosa ci portasse. Oggi avrebbe risposto. Niente, niente,
tranquilli. E' soltanto un cuore.
Aveva strappato un foglio da un'agenda, quella dove scriveva i testi delle
sue canzoni, incorniciati da qualche foto, appunti e numeri di telefono
dimenticati il giorno stesso. Data 2 di febbraio. Si era seduto su una
panchina appiccicosa di pioggia, col suo cappuccio su e col walkman
spento, una volta tanto. Era lei la sua musica. Il più potente dei beat
che avesse mai potuto sognare. Uno di quei beat da cui non sai mai cosa
aspettarti. Un beat che ad ogni battuta tira fuori un loop diverso. Quel
beat che ti obbliga in freestyle anche quando hai mille testi pronti.
E lui di testi pronti credeva di averne così tanti che ogni tanto si
chiedeva chi glielo facesse fare. Poi lei arrivava, una o due volte a
settimana, non di più. Con quelle scarpe rosse che avrebbe riconosciuto
dall'altra parte del mondo. E nei suoi occhi scopriva ogni volta un suono
diverso. Ogni volta qualcosa di nuovo per cui perdere la testa.
Era difficile, si. Perché non è da tutti avere sempre qualcosa da
inventarsi, avere sempre una nuova carta da giocare. Ma fino all'ultimo,
all'ultimo, sentiva che ci sarebbe riuscito. E invece il tempo passava e
quei mille suoni piano piano iniziavano a confonderlo. Quel rullante secco
che dava il ritmo ai suoi pensieri andava sempre più forte. Talmente
forte che una sera l'ha fermata e ha tirato fuori tutte quelle voci troppo
basse, quasi sussurri, di cui nessuno avrebbe potuto accorgersi.
L'orchestra si è fermata. Ha suonato un piccolo triangolo. Il piccolo
triangolo di quelle mille piccole parole che nei grandi discorsi e nelle
grandi passioni lasciamo sempre correre via, come se nulla fosse.
Ma è durato poco. Un suo sguardo, è bastato un suo sguardo, perché il
piccolo triangolo si mettesse a correre. Correre via spaventato. Sotto la
pioggia dei rimorsi che non si ferma mai. Quasi vergogna. Vergogna che un
piccolo strumento si sia permesso di fermare un'orchestra per dire la sua.
Poi. E' venuto il silenzio. Il silenzio delle domeniche d'inverno in cui
tutto sembra immobile. Quel silenzio che solo un bacio riesce a colmare.
Quello che spegne i fuochi ma gioca a soffiare sulle ceneri per tenerle
accese.
Soltanto così. Una mattina lei gli ha mandato uno di quei messaggi troppo
scottanti per essere tenuti in memoria. Ma troppo importanti per essere
cancellati. Lui. Lui ha capito. Era giunto il momento di suonare per quel
piccolo triangolo. Il momento di correre dalla sua orchestra. E
dimostrargli che tante volte le rose possono nascere pure fra le crepe
dell'asfalto.
Per questo ha lasciato camera sua. Ha lasciato il sole timido di questo
pomeriggio riflettersi su quel letto dove credeva fossero le lacrime a
risolvere tutto. Ha lasciato i suoi libri, i suoi mille dischi sparsi
sulla scrivania, neri come le notti senza stelle in cui tocca inventarsi
tutto.
E si è inventato di uscire. Uscire, prendere in mano quella penna e dirle
che qualcuno ha inventato la musica proprio per questo. Perché una nota
da sola non è nulla.
Negli occhi ha la luce di un pianto che non uscirà. Nelle mani un futuro
con cui sa che dovrà fare a pugni. In spalla uno zaino, che si sistema
per uscire e fare un passo in giù non appena la porta si apre.
Lei gli chiederà: perché mi guardi così? Lui ha sempre tirato fuori
tutte le parole del mondo. Ma questa volta le dirà. Soltanto.
Perché ti amo.
Sorride, si ferma e si rimette gli occhiali. Poi riparte e scompare sulle
scale mobili.
I woke up this morning, feeling brand new.. and I
jumped up, feeling ma highs, and ma lows in ma soul, and ma goals...
Tutto questo dedicato a tutti quei passi falsi che
mi hanno insegnato ad amare le strade, a tutti quei volti su cui ho visto
i miei stessi occhi, a tutti quelli con la testa rivolta all'insù, a chi
aspetta da una vita e a chi si illude di avere già trovato tutto; a mia
madre, la persona che più mi ha dato senza mai chiedere in cambio per
tutte quelle volte che avrei voluto dirle anche soltanto che le voglio
bene; è dedicato ai miei dubbi, alle mie paure e ai miei rimorsi, è
dedicato ai perché che non si trovano e a quelli che conosciamo come le
nostre tasche. Alle mie due scuole. A Fedor e Alberto, Franz e MDJ+.
Dedicato agli angoli che mi conoscono, alla mia città e ai suoi lampioni.
Dedicato alla mia finestra e alla linea gialla, a tutti quelli che hanno
passato metà della propria vita ad un finestrino del 30. Dedicato a chi
lascia tracce di se', al nero inferno dei marker e alle montana che non ti
abbandonano. Dedicato all'hip hop e alla sua forza, dedicato alla musica
che mi accompagna e a tutti i suoi figli. Dedicato a chi mi capisce e a
chi no, a chi sa di non riuscire a farlo eppure in fondo mi vuole bene, a
chi mi illude e delude, a chi mi ha dato forza soltanto coi suoi occhi.
Alla persona che più ho amato e a tutte le sue incertezze. Stampato un
fuoco un grosso non importa nel cuore, anche se stona con tutto. Dedicato
ai miei amici, a quelli con cui passo ore a parlare e a quelli che saluto
soltanto. Dedicato. Dedicato in fondo, in fondo dedicato soprattutto a me.
Diego.
Colonna sonora:
The Roots, Things fall apart
Rachmaninov, Piano Concerto No.2 in C Minor, op.18
Aleksandr Skrjabin, Le poeme de l'extase
Dj Krush, Zen
Falsalarma, La misiva
Mos Def & Talib Kweli, Black Star
IAM, L'ècole du micro d'argent
Common, Like water for chocolate
Frederic Chopin, Nocturnes
Supervirzi Korporation, Zonastretta
The Roots, Illadelph Halflife
Mobb deep, Hell on Hearth
Talib Kweli, Quality
Dj Krush, Milight
Chet Baker, In Paris (Barclay Sessions, 1955/56)
Common, Electric Circus
Reflection Eternal, Train of Thought
E semplicemente il rumore di una statale, gli urli dei miei, la mia vicina
al telefono con vari ragazzi, il bip bip di un telefono che ogni tanto
tintinna e i beat che saranno di Destino. |