Pietro
Paris
sono nato il 14 settembre 1955 a Grotte di
Castro in provincia di Viterbo più o meno sulle rive del lago di Bolsena.
Mi sono laureato in Ingegneria Nucleare all'Università di Bologna. Ho
lavorato all'ENEA e poi, quando da una costola di questa è stata
istituita, all'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente. Mi sono
occupato di rifiuti, di inquinamento delle falde e adesso di prodotti
fitosanitari o pesticidi, di cui studio il rischio per l'ambiente, anche
con risvolti umani.
Il racconto Natale che presento è
stato premiato in un concorso letterario al mio paese. Lo so è poca cosa,
ma mi ha tirato su il morale. Ho scritto anche un libro: "Riderà
quando sposa" l'ho chiamato così, e l'ho stampato in tipografia un
sei anni fa. Ho scritto e scrivo anche racconti e fiabe. Avrei pronto un
altro romanzo "Psicatomica" che mi piacerrebbe pubblicare. |
Natale
Da anni non vivo più al paese, i legami si sono
attenuati, lì esco poco non vado al bar ho una vita sociale ridotta al
minimo, eppure quando ci vado mi sembra sempre di tornare a casa, è come se
fossi stato via un istante e dovessi riprendere il mio posto. E così ogni
volta si rinnova il trauma, perché quel posto non c'è più, mi sento un
estraneo, non riesco ad abituarmi, ci resto male ogni volta. A parte questo
per il resto va benissimo, senza la sveglia il traffico l'ipermercato i
marciapiedi zeppi e le vetrine, senza il vicino di casa rumoroso a tutte le
ore del giorno e della notte. Mi sveglio sempre a ore disumane, però l'idea
che niente potrebbe impedirmi di dormire già mi fa stare meglio. Fare
niente tutto il giorno era il programma per Natale, è una cosa che mi
riesce benissimo. Avevo un libricino da leggere, avevo portato Pinocchio. Lo
so, c'è da vergognarsi, non l'ho letto a suo tempo, ora però avevo deciso
di riparare. La verità è che avevo fatto un sogno tempo addietro,
dev'essere tutta colpa della televisione, ero davanti a una tribuna piena di
gente biancovestita, si è alzato uno con la barba e l'aria importante:
"Così, ingegnere, non l'ha letto?" ha detto con tono pacato ma
deciso "ci dispiace, ma capirà, su certe cose non si può
transigere... è il minimo..." Mi sono svegliato di soprassalto, sono
andato a frugare nella vecchia cassapanca, ci doveva essere qualcosa, con
quel pensiero rischiavo di non riprendere sonno. L'ho trovato, è un
libricino minuscolo con la copertina sottile come un foglio, è vecchissimo,
costava trenta centesimi, chissà da dove è arrivato? Mi sono rimesso a
letto tranquillo, l'ho infilato sotto il cuscino e mi sono addormentato
subito; non ho più sognato. Incurabile accidioso dopo due mesi non l'avevo
ancora letto, lo tenevo sempre a portata per placare la coscienza e
mantenere vivo l'impegno ma non l'avevo ancora letto. Ora, durante le
vacanze, mi sarei tolto il pensiero. Per il resto poltrona, vuoto in testa,
metabolismo a livello vegetale.
Appena ha sentito la macchina Silvestro ha fatto capolino dal muretto, è
rimasto un po' a guardare col capo tra i ferri, poi è sceso miagolando e si
è strusciato addosso a tutti. Ale e Giuppy non finivano più di
strapazzarlo. Il babbo non mi ha nemmeno salutato, "ti faccio vedere
una cosa" ha detto "è arrivata!" Gli brillavano gli occhi.
"Che cosa?"
"La Bibbia, non ti ricordi?"
"La Bibbia... ah, la Bibbia, sì!" Me l'aveva detto al telefono.
"Abbiamo preso un libro" aveva detto "abbiamo comprato la
Bibbia!" Ci mette sempre la mamma di mezzo.
"Un'altra... ne avevate già due o tre per casa!"
"Questa è diversa, è la Bibbia del terzo millennio!" Sembrava un
ritrovamento archeologico del futuro.
"Secondo o terzo sempre Bibbia è, non mi pare che ci sono stati
sviluppi..."
"Costa un milione!"
"Un milione... hai detto un milione...?!"
"Novecentottantamilalire."
"Sei pazzo... neanche l'originale... ci sei cascato un altra
volta!"
"Però si paga a rate!"
"Ti hanno fregato, ci prendevi un'enciclopedia." Per lui
l'enciclopedia è il massimo, volevo mortificarlo.
"Devi vederla pesa nove chili!"
"Contento tu..." Che gli dici a uno così, non avevo più
argomenti.
Ora ero curioso di vedere questa Bibbia di nove chili. Era sulla specchiera,
dentro una teca trasparente, avvolta in un panno rosso. Ha svolto il panno
con una delicatezza che non gli conoscevo, me l'ha data: "Guarda!"
"Be', per pesare pesa!" Ho detto io.
"Che ti dicevo, non è un libro qualsiasi!" Era felice, non c'è
speranza che cambi.
Dopo pranzo, avevo appena preso in mano Pinocchio, è squillato il telefono:
"Che fai vecchio orso, non starai a dormire tutto il giorno, ti stai
aggravando, devi uscire dalla tana..."
"Francesco che vuoi?" Alla fine sono riuscito a dirgli.
"Dai, esci dall'antro che si va a vivere!"
"Che hai in mente?"
"Niente, si passa una sera con gli amici, come ai vecchi tempi, fatti
vedere in piazza dopo cena..." Era euforico. Non l'avevo previsto, da
uno scapolo velleitario come Francesco c'è da aspettarsi di tutto, non
sapevo se rimpiangere la poltrona o rallegrarmi che qualcuno si era
ricordato di me. Comunque avevo tutto il pomeriggio da passare a casa, avevo
ripreso Pinocchio, lo rigiravo lo soppesavo controllavo lo spessore. A quel
punto però mi era passata la voglia, e poi con Francesco non si sapeva mai
meglio non stancarsi, Pinocchio l'avrei cominciato domani. Oltretutto,
guarda la coincidenza, Natale era proprio il giorno giusto per riparare, per
rigenerarsi, sì, l'avrei cominciato domani. Così mi sono disposto a
passare un pomeriggio come si deve. La mamma lavorava all'uncinetto, io
sulla imbottita reclinabile i piedi allungati sulla sedia assaporavo il
calduccio della stufa, il babbo studiava l'enciclopedia, Silvestro dormiva
sulla sedia infilato sotto il tavolo, si vedeva la coda. Con un occhio solo
ascoltavo la mamma che mi aggiornava sui morti del paese. A un certo punto
siamo finiti nel Mediterraneo, la geografia è la vera passione del babbo,
ha cominciato con le cifre. Superficie con e senza il mar Nero, massima
estensione in largo e in lungo, profondità, ampiezza del Canale di
Sicilia... "Sempre 'sta solfa?" Borbottava la mamma. La corrente
principale arriva dall'Atlantico, si divide in tre, una va alle Baleari, una
entra nel Tirreno, una... non mi ricordo più che fa. Le correnti non le
avevo mai sentite, interessante, riesce a trovare ancora cose nuove nella
vecchia Tuminelli.
È arrivata l'ora di cena. La mamma ha detto: "Bisogna dar da bere al
fuoco!" Era una cosa che faceva la nonna, versava un goccio di vino
rosso nella brace e diceva: "Io te lo do quest'anno, tu daccelo l'anno
prossimo!" Senza la nonna però il gesto ha perso sapore, è servito
solo a ricordare che la nonna non c'era più. Poi la mamma ha detto:
"Bisogna dire le preghiere!" Giuppy e Ale hanno accettato senza
entusiasmo, stavano guardando i cartoni. È partita in quarta,
un-pater-ave-gloria-e-un-eterno-riposo-per-i-nostri-morti,
tatatà-tatatà-tatatà tatatà-tatatà-tatatà, arrancavamo tutti dietro. A
Giuppy e Ale veniva da ridere. La televisione muta trasmetteva il Trio
Trombo. "Buon appetito!" Ha detto la mamma senza staccare.
Automaticamente Ale e Giuppy hanno risposto: "Grazie maestra Maria!"
La mamma non ha capito, è una cosa loro di quando andavano all'asilo. La
cena era la solita della vigilia: minestra di ceci, maccheroni dolci con
noci zucchero e cannella, baccalà al forno, anguilla in umido, cavolfiori,
frutta, ciambelle al vino, tozzetti, panettone, torrone, vino e vino
carcerato. A parte che è difficile resistere, comunque non si può
rifiutare, "bisogna assaggiare tutto per devozione." E io
devotamente ho assaggiato tutto.
Dopo si è ricostituita la compagnia, non succedeva da secoli. Una cosa
tremenda: teste spelacchiate, grinze, borse sotto gli occhi, panze, sembrava
fosse passato il bombardamento, non ti puoi allontanare un attimo. Il morale
però era alto e nonostante qualche moglie insensibile eravamo un bel
gruppetto. Appena arrivato Francesco, l'occhio da supervisore, ha fatto al
Biondo: "L'hai portata?" "Sta' tranquillo!" Ha risposto
il Biondo con voce spaventosa di caverna, si massaggiava la tasca, dalle
fessure degli occhi bovini gli usciva un sorriso furbo. Tutti a
sghignazzare. Memmo ha detto: "Che sete!"
La sera di Natale bisogna andare a San Giovanni, così era e così abbiamo
fatto. Oramai mi capita di rado di passare per le stradine vecchie del
paese, mi sono disposto con tutti i sensi e con il resto. Non era freddo,
solo una nebbietta che bagnava tutto e sfocava le cose che più in là si
perdevano nel giallognolo dei lampioni. Non c'era nessuno, solo macchine
inzeppate, la Ruga era un deserto, ci sentivamo solo noi. Francesco cercava
i segni del Natale. "C'è poco da fare" ha cominciato "qui è
diverso!" Lui sente le circostanze. Un po' lo capisco, è sradicato
come me, torna al paese due o tre volte l'anno, però esagera, viene da un
altro pianeta, vede tutto in una luce diversa, vede anche quello che non
c'è, che non c'è mai stato. "Quando arrivi, fatte le curve, sembra il
presepio." Non c'era verso di fargli cambiare discorso. "Di notte
con le luci è perfetto. É come entrare in un presepe del seicento, è come
se improvvisamente si dovesse avviare il meccanismo, e il rumore dell'acqua
i fuochi le luci intermittenti e la musica..." Sembra che il paese sia
una rappresentazione allestita apposta per la sua nostalgia. "Peccato
che non c'è la neve!" Ha detto col disagio di chi soffre
un'imperdonabile svista organizzativa; è convinto di avere il senso
estetico più sviluppato degli altri. "Stai fresco" gli ha
risposto Tonino "la neve te la sogni!" A Tonino non bisogna
toccargli l'argomento, per lui la neve è un problema serio, non sa vivere
senza, d'inverno è la sua preoccupazione principale. "Non fiocca manco
quest'anno, non fiocca più" ha detto "è incredibile, se penso a
quanta ne faceva, mesi interi sotto la neve..." A novembre comincia a
lamentarsi per la neve, lo fa da sempre, da inverni perduti nella notte dei
tempi che solo lui ricorda, da quando non ci sono più le stagioni di una
volta. Ha un anno più di me e, a sentirlo, sembra sopravvissuto da piccolo
all'ultima glaciazione, non so come abbia fatto a sopravvivere in tutti
questi anni di disgelo. Il Biondo esercita l'antica e quasi perduta arte del
selciaiolo e non è sensibile minimamente all'incanto della neve, per lui la
neve impedisce solo il contatto con i selci, è un problema e basta, ci ha
pensato lui a spegnere le nostalgie da caminetto di Tonino. "Che ti
dice la testa!" - ovviamente traduco - "si vede che non hai niente
da fare!" Il Biondo quando picchia va giù con la mazza. A Tonino in un
secondo si è sciolta tutta la neve, solo lui è rimasto di gelo, pupazzo di
neve in un mondo arso e inospitale. "Biondaccio" ha trovato la
forza di dire "sei il solito somaro!"
Un motore e due fari ci sono sbucati alle spalle, una cosa assolutamente
imprevista, premevano impazienti. "Francesco" gli ho detto
"questa dove la mettiamo, c'è posto nel presepio?" Se avesse
potuto l'avrebbe gettata via come un giocattolo inutile, un modellino finito
per sbaglio tra le statuine di gesso. "Ammetterai" ha detto,
eravamo al Palazzone "questi vicoli scavati, l'odore del tufo con la
nebbia fanno sempre più Natale di un vialone di periferia coi pini e gli
oleandri in mezzo?" Non gli ho risposto, guai a dargli spago, preferivo
gustarmi le cose in silenzio. All'ospedale vecchio, improvvisa, ovattata,
proveniente dal nulla ha cominciato a suonare la campana. Francesco pareva
uno che assiste a un miracolo, non trovava le parole. Esagerato! Anche a me
piace la campana, a scuola ci feci pure un tema, però non faccio le scene
che fa lui. E poi mi sono ricordato di quello che diceva la nonna. Quando
suonava la messa di Natale la nonna diceva che chi non aveva l'ombra sarebbe
morto. Era per ridere, non ci ho mai creduto, però tutti ci giravamo a
controllare sul muro. Nella piazzetta c'era poca luce, non si capiva la
direzione, una sensazione sgradevole, finalmente l'ho vista su una porta,
fiacca sbiadita, meglio di niente.
"Vi ricordate del Torcicollo..." Ha detto Santino.
"Arieccolo questo!" Ha fatto Tonino, non s'era ancora ripreso.
Quella del Torcicollo è una storia che ricordiamo benissimo, viene fuori
ogni volta, però ci piace risentirla, anche se non sembra, anche a Tonino.
Era la sera di Natale, eravamo in sacrestia in fila per la confessione. Il
Torcicollo si muoveva per lo stanzone sbuffava, il maestro lo guardava con
due occhi aveva paura che passasse avanti. "Che hai paura..."
sbottò il Torcicollo rompendo il bisbigliare "sa' quanti li scortica
prima di mezzanotte!"
"Che faccia il maestro" diceva Santino "è rimasto
di..."
Ridiamo come se fosse una novità. Non è per il fatto in sé, è perché ci
fa rivivere il passato, basta che Santino dica: "Vi ricordate del
Torcicollo..." e subito in ognuno riemerge la sacrestia di San
Giovanni, la sera di Natale, il paese com'era, le fesserie che facevamo
allora. È una cosa che ci unisce, è il linguaggio della nostra memoria. Se
penso a Natale, anche quando sono lontano, mi viene in mente Santino e la
storia del Torcicollo. "Sa' quanti li scortica prima di
mezzanotte!" Ripeteva Santino sghignazzando.
Dentro chiesa l'aria sapeva di incenso, di legno antico, di candele, di
chiusa sotterranea adunata. Francesco ha respirato come se dovesse
purificare i polmoni, come se fosse in cima a un monte, con gli occhi mezzi
chiusi ha detto: "A San Giovanni è un'altra cosa, a San Giovanni il
Natale si respira!" Non gli ha risposto nessuno, lo conosciamo bene,
ora era capace di dire delle luci, qualcosa come: a San Giovanni il Natale
quasi s'intravede... Invece non ha detto niente. La chiesa non era ancora
piena, abbiamo trovato posto nei banchi. Un sagrestano vecchio quanto la
chiesa piegato in due ha suonato la campanella e dalla sagrestia sono usciti
i ministranti delle confraternite con le tuniche bianche e le mantelline
rosse e blu, avanzano in doppia fila lenti, erano vecchi zoppi curvi,
avevano le candele in mano, faticavano a camminare. Poi c'erano quattro o
cinque chierichetti e tre preti: uno anziano, uno più giovane, uno
vecchissimo.
"Li hai visti?" Mi fa Francesco nell'orecchio.
"Be' certo, sono gli stessi di sempre, sono un po' invecchiati, che
vuoi il tempo passa..." In effetti dall'ultima volta sembravano
malridotti, era una processione lenta e sofferente.
"Eccolo, il solito superficiale" fa lui "lo vedono pure i
ciechi che sono vecchi. Non è questo, è che non hanno slancio, sono
attaccati per terra, pesano, lottano con la gravità, hanno perso il
confronto." Francesco era in forma, si vedeva che negli ultimi anni non
aveva potuto sfogarsi, mi stavo preparando al peggio. E infatti non aveva
finito: "Guarda le facce… che spettacolo!" Ho guardato e, senza
offesa, mi sembravano brutte. Erano spigolose, ispide, avevano il colore
della terracotta e l'aria assente, erano dure, passive, di pietra. Capi
lanosi, sopracciglia folte, qualcuno più impettito con gli occhi
spalancati, come se volesse marcare la presenza e contemporaneamente si
meravigliasse di osare tanto. Sembravano i pupazzi stupefatti di Jacovitti,
però non c'erano i salami e i serpetti col cappello e l'ambiente era un
altro. Francesco però non aveva la minima intenzione di scherzare:
"Sono facce modellate dalla fatica, bruciate da secoli di sole e di
vento, indurite dalla ripetizione infinita delle solite espressioni, sono
uguali a mille anni fa, a diecimila anni fa. Non sei d'accordo?..."
Voleva che partecipassi, ma io non ci pensavo nemmeno, però lui ormai
andava da solo: "Non è cambiato niente, le condizioni sono diverse, è
arrivato il villaggio globale, ma non è cambiato niente. Caro mio... - ha
fatto un sospiro - qui c'è il passato, vai un paio di generazioni indietro
e ritrovi la matrice. Ci vuole altro che qualche decennio di omologazione
per cancellarla. Caro mio, qui stanotte si è ricomposta la matrice.
Guardati intorno!" Sembrava che stesse svelando una scoperta
dell'antropologia, aveva l'aria di chi sa di stupire e neanche si scompone.
Sono preparato alle stranezze di Francesco, però, che diamine, ora stava
esagerando. "E i chierichetti" gli ho detto "questi almeno
sono nuovi?"
"Sì fa' lo spiritoso, stiamo vivendo una singolarità dello spazio e
del tempo e tu fai lo spiritoso!"
Quest'antropologia natalizia di Francesco francamente mi sembrava eccessiva,
anche un pochino offensiva, ora volevo proprio polemizzare. "In fin dei
conti" gli ho detto "anche noi veniamo da lì, la matrice è la
stessa, perché dovremmo notare la differenza?"
"Caro mio, è che noi purtroppo abbiamo tagliato il cordone, non
beviamo più alla sorgente. Sì, qualcosa è rimasto, ma è solo forma, su
noi non alita più lo spirito del luogo." Lo diceva sospirando.
Mi sono guardato intorno, ho guardato la gente, mi sono sentito un alieno.
Ho pensato al mio posto alla mia nicchia scomparsa al buco rimarginato,
forse Francesco, con tutto che si atteggiava, aveva ragione. Nel transetto,
a destra, c'era la schola cantorum. Francesco ormai con le sue stranezze
socioantropologiche mi aveva condizionato, guardavo con l'occhio
sensibilizzato, facevo confronti. Erano perfetti, erano gli uomini della
matrice. Gente, così a occhio, incompatibile con la leggerezza, la
dolcezza, la mutevolezza delle forme musicali. Facce immobili abituate ad
ascoltare senza assorbire, a ostinarsi nelle medesime azioni automatiche di
sempre. Il corteo si era infilato nella cappella del sacro cuore, era
riapparso in fondo alla chiesa, ora risaliva in mezzo ai banchi verso
l'altare. L'organo ha cominciato a suonare e il coro ha intonato Adeste
fideles... Chi l'avrebbe mai detto! Una molteplicità un'espressività una
leggerezza una dolcezza insospettabile si è levata dalle facce di
terracotta. Saliva in alto, si mescolava all'incenso alle candele ai legni
antichi alle luci al respiro dei corpi, faceva vibrare l'aria, penetrava la
pelle, toccava nel profondo. Figurarsi se a Francesco non doveva aver
stimolato qualche sconvolgente riflessione.
"Li hai riconosciuti?" ha detto "sono loro!"
"Loro chi?..." Avevo una puntina di irritazione, con Francesco non
ti puoi rilassare un attimo, arrivi sempre tardi.
"È la gente di Luca!" Ha risposto, era serissimo.
Io devo proprio essere uno che si lascia influenzare, mannaggia a Francesco,
dove le andrà a pescare certe cose. Ora, anche quella sofferente
processione sembrava toccata dalla leggerezza, i corpi segnati dalle
fatiche, i volti induriti dai secoli parevano trasfigurati, tutto era
semplice e bello. "Se un'umanità c'era quella notte" ho pensato
"certo non doveva essere tanto diversa." Francesco ha detto:
"Manca solo l'angelo!" A quel punto non mi sarei meravigliato se
sotto le volte, sospeso a mezz'aria, a ripetere l'annuncio, fosse apparso un
celeste svolazzante, un po' tarchiato magari, col tratto duro e impassibile
del campagnolo, con la pancia.
La messa era intonata al resto, le letture cantate in Gregoriano, il
celebrante poi - il più vecchio dei tre - aveva una voce flebile e acuta
insieme, un sibilo penetrante, sembrava provenire da lontanissimo, dal
passato, sembrava venire direttamente dal tenebroso medioevo. A Francesco è
piaciuto tantissimo. Per fortuna ci ha pensato il prete all'omelia a mettere
fine a quell'estasi, altrimenti chissà Francesco dove sarebbe arrivato? Ha
parlato quello giovane, ha parlato di Leibniz, di sequoie altissime, alte
cinquecento metri, di Montale e di orologi rotti gettati per terra che mai
da soli per caso si sarebbero ricomposti. Era una filosofia troppo
inaccessibile e un po' stentata per coinvolgere.
"Che centra Leibniz col Natale?" Ha fatto Francesco a mezza bocca
"pure il prete filosofo ci doveva capitare!"
L'aria vagamente disorientata del prete e le argomentazioni strampalate
davano al discorso un tono simpatico, estemporaneo; poteva andar bene in un
altro posto, in un'altra occasione, a Pasqua forse. La notte di Natale però
- e qui ero d'accordo con Francesco - uno ha in mente Luca la mangiatoia i
buoi i pastori che vegliano l'angelo. Non riuscivo a vedere alcun legame con
quello che diceva il prete. L'essere e il non essere gli orologi rotti e le
altre cose piovevano dall'ambone, rimbalzavano sulle facce della gente,
tornate dure come mattone refrattario. Il discorso doveva pure avere una
logica, però io ero distratto, ne percepivo le singole parti, mi sfuggiva
la connessione interna. Il meriggiare pallido e assorto quello sì mi
piaceva, che belle tonalità, che senso di quiete di benessere psicomotorio
che emanavano, ero in perfetta sintonia, sono le mie tonalità naturali;
neppure la calura mi pesava e la costrizione del muro coi cocci di
bottiglia. Però a quell'ora, a Natale... che c'entravano? Anche le sequoie
intonavano poco, comunque erano troppo alte, inaccessibili.
Finita la messa, come facevamo sempre, abbiamo preso la via della cantina.
La notte di Natale finiva sempre lì, nell'atmosfera sbiadita di una
cantina, a bere a cantare a ricordare: anche quando non c'era da ricordare
niente. Abbiamo disceso il vicolo sotto la chiesa, quello che porta ai
muraglioni, l'ultimo, poi ancora giù per le vecchie mulattiere, verso il
fosso. Scendevamo in fila indiana, attenti a non inciampare, in religioso
silenzio, come congiurati diretti a un covo segreto. Seguivamo una brace (la
sigaretta del Biondo), ogni tanto si sentiva: "Che sete!" Era
Memmo che ripeteva il suo verso. Io non passavo lì da vent'anni, ero
ricettivo al massimo. Era buio pesto e un pensiero si è intrufolato in
quella mia disposizione tutta tesa alla suggestione del luogo: l'idea che se
fossimo passati lì appena un'ora prima la campana ci avrebbe sorpresi tutti
senza l'ombra. Chissà che disastro sarebbe potuto succedere? Siamo arrivati
alla cantina del Biondo, una grotta scavata nel masso sotto il paese. Un
tavolo due assi appoggiate tre mozziconi di candela smoccolati un'aria da
catacomba. Francesco era come se non avesse mai visto niente. "Adesso
ricomincia!" ho pensato. Il Biondo è riemerso come un personaggio
degli abissi da una gola tenebrosa, aveva in mano due bottiglie ammuffite di
Carcerato: "ha più di dieci anni!" Un bicchiere pieno fino
all'orlo così da vicino ormai mi fa un certo effetto, anche nella penombra
della cantina e con tutta la disposizione d'animo che uno può avere lì.
"Ormai sono proprio fuori!" Ho pensato. E il Biondo incombeva
minaccioso, brandiva la bottiglia, pronto a intervenire al minimo cedimento
di livello. Chi aveva il coraggio di contraddirlo! "Adesso scortica
questo!" Ha detto a Santino. "Che sete!" Ha fatto Memmo
appollaiato su un bigoncio capovolto. Ho sentito un brivido nella schiena,
ho pensato al mio delicato equilibrio gastroalimentare. Allora si rideva con
poco, ridevamo con Gustavo, il vecchio scapolo bighellone incorreggibile
simpatico assetato ciarliero. Gustavo aveva sempre la chiave della cantina
in tasca e finita la messa già sapevamo dove andare. Gustavo sapeva
cantare, voleva sempre cantare, attaccava una canzone e tutti, allegri
stonati sbracati, gli andavamo dietro. Gustavo era il nostro maestro di
canto. Cantavamo di tutto, le canzoni un po' sconce della cantina, cantavamo
lo spazzacamino. Quando cantava Gustavo ci metteva l'anima e il corpo,
gonfiava il petto e il collo, diventava rosso, sudava. Per cantare meglio si
levava il cappello. Incredibile! Dalla testa pelata di Gustavo si alzava una
colonna di vapore densa, compatta, arrivava al soffitto, piegava, spariva
nelle porosità umide del masso, gli andava dietro, come un'aureola spessa,
cilindrica. Era una cosa veramente buffa da vedere Gustavo con la colonna di
vapore che gli saliva dalla testa pelata. Allora tutti ci mettevamo a ridere
e il coro finiva nel baccano. Solo Gustavo continuava a cantare. Ora Gustavo
non c'era più e non sapevamo cantare. Personalmente non ne avevo neanche
voglia, il pensiero dell'aureola mi disturbava un pochino. Francesco però
ha insistito, quella notte era obbligatorio. Con quella pelata che si
ritrova ci dovrebbe stare più attento. Alla fine abbiamo intonato lo
spazzacamino. Non è venuto male, però sembrava un canto triste, non mi ero
mai accorto prima che lo spazzacamino fosse così triste. Francesco cantava
come un matto, io guardavo se gli fumava la testa, lui era tutto preso e non
si è accorto di niente.
La mattina mi sono svegliato alle otto, quasi cinque ore di sonno, non mi
potevo lamentare. Purtroppo è successa una cosa grave. Silvestro ha
strappato tre capitoli di Pinocchio. Non aveva mai fatto una cosa simile.
L'ho sorpreso in cucina aggomitolato sul libretto, raspava come un matto,
come quando affila le unghie, strappava con la bocca, ci metteva un
accanimento. L'ho sgridato, l'ho minacciato con la mano. È rimasto qualche
secondo per terra col pelo ritto e le orecchie abbassate, tremava a ogni
movimento della mano, poi si è infilato sotto il tavolo, sopra la sua
sedia. Dieci secondi dopo - stavo ancora gridando - aveva già gli occhi
chiusi la bestiaccia, come niente fosse. Aveva intaccato pagina quindici,
per le altre non c'era niente da fare. Che gli sarà preso? Silvestro è un
buon gatto, che in qualche modo abbia saputo?... Be' sì, il gatto e la
volpe... il gatto poi anche un po' stupido... al suo posto anch'io... Per un
istante l'ho pensato seriamente. Proprio ora che volevo riparare, ero
arrabbiato. Lui, la pancia all'aria le zampette morbide gli occhi chiusi,
sembrava che dormisse da tre ore, aveva l'aria innocente candida come il
pelo, muoveva appena la coda.
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