Tommaso
Urselli
è nato a Taranto nel '65. Risiede a
Milano, dove lavora come operatore sociale con soggetti portatori di
handicap. Si interessa di letteratura e teatro. Il testo teatrale "LA
PORTA" è stato selezionato nel '02 al festival di drammaturgia
contemporanea Tramedautore, e ne è stata fatta lettura scenica presso il
Teatro Arsenale di Milano, regia di Annig Raimondi. |
I sette figli
"Hai capito?", urlai a Tony,
"restituiscimi i pattini, e subito!" Ma lui, il mio caro amico,
continuò a pattinare come niente fosse; a pattinare e a ridere, con quel
sorriso menefreghista di chi sa che l'avrà comunque vinta solo perché è
di qualche anno più grande.
Tony abitava di fronte a casa mia, quella dove sono nato. Erano uguali, le
nostre case, come del resto quasi tutte quelle di certi paesi del sud:
bianche, di un bianco da far male agli occhi, e con la terrazza per stendere
i panni. La terrazza era il nostro regno: da là prendevamo a pietre i gatti
dei vicini e facevamo la pipì in testa agli anziani che d'estate si
radunavano davanti alla bottega di zio Uccio.
"Ma sta piovendo?, com'è possibile..." gridava lo zio.
"No no, è quel delinquente di tuo nipote che ci piscia in testa",
facevano in coro gli altri.
E giù bestemmie, le bestemmie più belle e fantasiose che io abbia mai
sentito. Il primo santo a cadersene giù dal suo piedistallo, chissà
perché, era San Pasquale. Io e Tony aspettavamo con trepidazione quel
momento; ridendo a crepapelle, facevamo il verso ai vecchi gridando anche
noi a squarciagola: "Mannaggia San Pasquale, mannaggia San
Pasquale...".
Ma l'ultimo divertimento, la novità, erano i pattini. Papà e mamma me li
avevano regalati per il compleanno e Tony era subito piombato a casa come un
falco: neanche mezz'ora dopo era in strada a scorrazzare con i miei pattini
ai piedi.
"Hai capito, ridammeli...", provai a ripetere.
"Se no?"
"Se no chiamo..."
"Se chiami tuo padre io dico a tutti che tenete in casa i cani
morti."
Sì, perché mio padre, tra le altre cose, collezionava cani morti. Io non
ci trovavo niente di strano. Se uno nasce e pian piano impara a mangiare, a
parlare a suo padre e a sua madre, e suo padre un giorno gli mostra la sua
collezione di cani morti, tutto gli sembra normale; e pensa che magari ogni
padre ne abbia una da mostrare con orgoglio al proprio figlio. In più, la
nostra era veramente bella: ce n'erano di tutti i tipi imbalsamati là in
salotto, e sembravano tutti vivi. Quello che mi piaceva di più era Jimmy,
il grande husky con un occhio verde e l'altro azzurro, e il pelo bianco come
la neve. Era anche il preferito di papà che ogni giorno, dopo pranzo,
andava a bere il caffè accanto a lui e tra un sorso e l'altro sussurrava:
"Jimmy, Jimmy caro...". Ma Jimmy, questo io lo capii solo in
seguito, non poteva sentirlo.
Ogni tanto papà e mamma si chiudevano in camera e litigavano. La mamma
urlava di non poter portare le sue amiche in salotto perché era già
occupato dalle bestie; papà, col suo fare impassibile, restava per lo più
muto. E magari alla sera se ne tornava a casa con qualche altro cucciolone
trovato in campagna o chissà dove.
"Ne hanno fatto fuori un altro", diceva "devono essere stati
quei delinquenti, i sette figli...".
I "sette figli" erano una famiglia di disgraziati orfani di padre
e di madre. Le due sorelle più grandi, per tirare avanti, andavano a
battere in città, ed era questo a fare imbestialire papà.
"La vanno a dare ai cittadini; sono un disonore, un disonore per tutto
il paese. Tempi grigi, tempi grigi...", borbottava. Si toglieva la
giacca e stava anche un'ora a guardarsi il suo nuovo amico; poi lo portava
giù in cantina e dava il via al processo di imbalsamazione. Presto, molto
presto, il salotto della mamma avrebbe avuto un nuovo ospite.
"Era meglio quando i cani li dipingevi", ogni tanto sbraitava la
mamma.
Si perché, anni prima, mio padre aveva deciso di seguire un corso di
pittura; l'aveva però abbandonato quasi subito perché, per frequentarlo,
era costretto ad andare in città almeno due volte la settimana.
"La pittura? E' per i cittadini", rispondeva . "Ai cittadini
piacciono le cose finte ma io nel mio salotto, nel mio museo, ci voglio i
cani veri ! Realismo, realismo...".
Quella parola, realismo, aveva per me un sapore oscuro. Non capivo cosa
volesse dire e per molto tempo ho creduto si trattasse di qualcosa contro la
mamma. Solo anni dopo, quando mi iscrissi al liceo artistico, ne compresi
appieno il significato. In quegli anni imparai ad apprezzare il lavoro di
papà e ne divenni anche, con sua somma soddisfazione, l'apprendista. Tempo
dopo, portai a compimento estremo la sua teoria.
E' con enorme entusiasmo che adesso, sorseggiando anch'io una bella tazza di
caffè, posso sussurrare, tutto intriso di gioia realistica: "Papà,
papà caro, mamma, mamma cara"...Qui, nel salotto della mia vecchia
casa...Anche se loro, forse, non mi possono sentire...Però, sembrano
vivi...Chissà, chissà chi è stato...Forse i sette figli?...Dimmelo tu
Tony, amico mio, dimmelo tu.
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