Andrea
Colbacchini
ho 22 anni, dovrei studiare storia
all'università. Passo il tempo a disprezzare ciò che mi circonda. Cerco
di evadere dalla noia suonando il basso in un paio di gruppi e scrivendo.
Non sempre ci riesco. A volte ne escono cose di questo tipo... Non
cambierò il mondo e questo stesso non cambierà. Ai ripari! |
Storia breve, finale rapidissimo
Avevo abbandonato, stremato, le mie faccende.
Sudato, in una afosa mattina d'agosto, mi ero liberato, scagliandola
lontano, della scopa. Dannata era poi atterrata infilandosi sotto il
mobiletto del corridoio, dopo aver rimbalzato contro l'appendiabito.
Io con le brache incollate lungo le mie gambe mi lasciavo cadere sul divano.
La stoffa del cuscino mi pungeva la schiena nuda; non curante, avevo afferro
il telecomando l'accendino e una, l'ultima, sigaretta dal pacchetto.
Pensavo a perchè mi fossi messo a fumare quando avevo ancora il fiato
corto, e perchè far tante fatiche per ritrovarsi ancora a pulire la
settimana o il mese successivo.
Caldo, serrande abbassate il più possibile, tanto da lasciare entrare solo
alla minima quantità di luce in salotto, così da permettermi di muovermi
senza sbattere. La finestra e la porta che va in terrazzo avevano i vetri
aperti (vano tentativo di creare una qualche corrente). Cominciavo a
sospettare che fosse inutile: l'aria non sarebbe mai entrata da una parte
nè sarebbe poi uscita dell'altra.
Gelatina, non aria, condita con la povere che avevo sollevato fino a poco
prima. Imperterrito continuo ad aspirare dalla sigaretta come se dentro
questa si trovasse l'alta montagna. Un'oasi di pace e serenità dove
respirare a pieni polmoni dà quasi fastidio, tanto è freddo ciò che si
respira, e dove i campanacci di vacche al pascolo marcano, senza sfregiare,
il tempo che lì non ha limiti ma solo ciclicità.
Capivo, dopo che la mia mente era stata altrove, che stavo fumando per
punizione.
Una parte del mio cervello mi ammoniva e mi puniva per aver scelto di
rimanere in città in cerca di non so cosa, senza seguire i consigli di chi
se ne era preventivamente andato a riversare sul mare, o a gettare da una
rupe, un inverno che inizia a settembre e finisce con luglio.
Quindi fumavo, mentre il nervosismo saliva e il sudore scendeva a macchiare
e insozzare il divano.
Povero divano. Rimanendo dov'ero rompevo le scatole pure a lui che si vedeva
negare, dalla mia presenza, il riposo che fino a lì aveva solo dato.
Avevo acceso la tv e cambiavo i canali a caso senza farmarmi su nessuno,
sempre più convinto, che mi stavo proprio punendo.
I clacson delle auto non segnano affatto il tempo, al massimo indicavano il
caldo che faceva fuori o il livello di nervosismo di chi lì ci viveva.
Almeno quei poverini in quel posto ci dovevano stare, io c'ero per volontà
mia.
Su due piedi decisi di cercare altrove le risposte sul perchè stavo lì.
Mi ero alzato e mentre con una mano cercavo di sollevare la persiana della
finestra, con l'altra reggevo in verticale la sigaretta per impedire che la
cenere vanificasse le mie fatiche.
Una volta in terrazzo, braccia in avanti sul poggiolo rovente, mi si era
aperto davanti uno scenario nauseante.
Sulla strada sotto di me delle formiche ubriache procedevano in file
parallele, alcune andando, alcune venendo. Ogni tanto interrompevano la loro
corsa a causa di alcune uova perfettamente sode, che cercavano, rotolando,
di segmentare il filo formico, che sarebbe altrimenti diventato un ostacolo
per la strada verso il pollaio. Fuori di se gli insettini gridavano un canto
di odio e maledizioni, le uova rompevano i loro gusci e rotolavano più
velocemente chiedendo aiuto a qualcuno che non sempre c'era, e se c'era,
avrebbe preferito cuocerle e magari bruciare le formiche.
Sentivo i miei capelli friggere nel sudore e nel grasso della mia testa.
Avevo fatto cadere la cenere in mezzo allo spago nero e sfuocato che le
formiche leccavano piano piano (forse lo stavano vomitando proprio in quel
momento). Mi ero accorto allora che quelle dalle sei zampe avrebbero dovuto
essere molto grandi visto che la cenere della mia sigaretta non era più
visibile, e anzi si perdeva tra loro senza dare assolutamente nell'occhio,
calpestata e smembrata dall'avanzare barcollante degli insetti.
Mai avevo visto dal vivo esseri di quelle dimensioni: la necessità di
andare a vederle da vicino mi aveva fatto sobbalzare.
Ero tornato ad avere la sigaretta in bocca e aspiravo ora più faticosamente
che mai.
Entrato in casa non riuscivo più a vedere niente, sentivo solo la pressione
del sangue nelle mie vene premere con meno forza.
La testa gira, la vista proprio non torna, il sangue evita il cervello,
perchè i cervello pretende di non esistere, e giù. Sono caduto prima sulle
ginocchia poi sulla faccia.
Il ripiano del graal che reggeva il posacenere aspettando che un giorno
qualcuno ci posasse il santo calice, mi era venuta incontro simpaticamente,
lasciandomi con le gengive sanguinanti.
Punti colorati, a dozzine: altre formiche, diverse.
Mi ero ripreso solo con l'aiuto della condensa del mio respiro sul pavimento
che stava appiccicando la mia guancia alle mattonelle. La sensazione
sgradevole mi aveva riportato nella spiacevole realtà.
Dovevo andare a guardare quegli insetti ubriachi, per il sangue bastava una
sciacquata in bagno.
L'acqua da me sporcata girava ancora nel lavandino, mentre io chiudevo la
porta e me ne andavo indossando la maglietta lungo le scale.
Una volta in strada, mi ero messo a pensare al percorso da fare per
raggiungere il formicaio, ma la mia attenzione era stata catturata da due
prostitute che stavano parlando ad alta voce tra di loro. Non le capivo.
Questa doveva essere una città più grossa di quello che avevo sempre
pensato: puttane in strada alla mattina?
Non era così, il mio orologio già segnava le quattro e mezzo: capoluogo di
provincia, medie dimensioni.
Quanto ero stato sul pavimento? Probabilmente al ritorno mi sarei ancora
trovato là disteso a baciare le piastrelle. Mi sarei dovuto svegliare a
calci. Dopo tutto quel tempo, comunque, la mia impronta ci doveva essere di
sicuro.
Mentre pensavo a ciò che mi sarei detto per convincermi ad alzarmi e a come
potessero essere le quattro, avevo camminato proprio in direzione delle
meritrici.
Due voci di donna mi avevano richiamato all'ordine.
Davanti a me una gallina di un metro e sessanta e una mucca con una corona
di fiori al collo, entrambe con il cappello, mi stavano parlando con voce
suadente.
Mentre la gallina mi gira le spalle offesa dopo che io le avevo fatto notare
che non capivo cosa stava dicendo, la mucca pezzata sembra nutrire interesse
nei miei confronti.
Guardando il ruspante andarsene avevo notato che stava reggendo per i manici
una borsetta di cuoio viola, tenendola appesa là dove la coda si attacca
alla schiena.
La vacca stava cominciando a parlarmi, dopo che mi si era posta davanti, io
invece la interruppi per sapere se in qualche modo avevo offeso la sua
compagna di viaggio.
Ottenuta risposta negativa, rafforzata dal fatto che a sentir l'erbivoro non
c'erano problemi, e che l'ovovipara faceva così con tutti, avevo trovato
modo di rilassarmi, la mucca notandolo mi fece un enorme sorriso e mi
invitò a salirle in groppa.
Accettai di buona lena: una cavalcatura mi avrebbe fatto comodo per
raggiungere, e forse affrontare quelle formiche giganti. Ero salito su
quella comoda groppa, l'andatura lenta mi aveva fatto riflettere su come il
"ronzinante" non si sarebbe rivelata poi così utile mancando di
una adeguata bardatura ed essendo, l'animale, non veloce di natura.
Mi aveva chiesto se prima di qualsiasi cosa, potevo permetterle di fermarsi
a bere e mangiare, poi, sarebbe stata disposta a ogni mia volontà.
Ci eravamo fermati così in riva ad uno stagno, in uno dei parchi di cui la
città non lesinava la presenza. E là, mentre lei si sollazzava io me ne
stavo a guardarla seduto poco distante chiacchierando dapprima del più e
del meno, e poi su chi eravamo e su cosa facevamo in un posto così
detestabile. La mucca partecipava ai miei discorsi e ne proponeva di nuovi,
io, rispondevo e facevo a mia volta altre domande.
Stavo riferendo delle formiche con l'idea di proporle l'impresa, quando lei
smise di scacciare le mosche con la coda, cosa che faceva senza posa da
quando l'avevo vista.
Con la voce più dolce, suadente e , perchè no, sensuale, che mai avessi
sentito proferire aveva cominciato a cantare.
Cantava ciò che secondo lei io dovevo fare. Mi spiegava che non vi erano
posti pessimi, ma solo pessimi stati d'animo con cui vivere in luoghi
diversi. Che il tempo sarebbe trascorso in ogni caso, sia che io lo avessi
detestato, sia che fossi stato ad esso condiscendente. Che le persone
andavano scoperte, e che a fuggirle avrei solo fuggito un me stesso malato
che non sarebbe mai guarito.
Aveva cantato tanto, tutte le risposte a domande che io non avevo ancora
posto ma che sapevo, un giorno avrei fatto.
Io avevo ascoltato con attenzione, rapito da quelle impalpabili ma tanto
profonde note, e avevo incominciato a riflettere trasportandole su di un mio
pentagramma, in chiave di FA: più in basso.
Tutto si era rotto con il canto che era divenuto pianto, e che versava
lacrime contenenti parole: TANTO E' INUTILE, NON CI CREDO IO PER PRIMA. TI
ACCONTENTO.
La mucca mi si era avvicina e ad un metro si era girata dandomi le spalle.
Si stava per sedere sopra di me, io mi stavo scansando quando la sua coda mi
aveva afferrato un braccio tenendomi incollato lì dov'ero. Le sue grosse
mammelle mi avevano sfiorato il naso, avevo chiuso gli occhi. Ne sentivo il
forte odore e il tepore.
Quando l'odore si era fatto più disgustoso, avevo aperto gli occhi
incuriosito e rimasi stupefatto al cospetto di quell'enorme ano che si
faceva sempre più vicino.
Inevitabile, lo stavo sentendo avvicinarsi al mio capo, lo stava
avvinghiando.
Non vedendo più niente avevo capito che vi ero dentro.
Sentivo i muscoli di quello sfintere contrarsi e affaticarsi per farmi
entrare il più possibile.
In poco tempo mi ci trovai dentro fino alla vita. Avevo quindi deciso di
farmi strada arrampicandomi sulle pareti umide e puzzolenti, viscide e
appiccicose: introdurmi alla ceca per vedere fino a dove sarei riuscito ad
arrivare.
Sentivo le membrane e le pareti dell'intestino adeguarsi alla mia presenza.
Più cercavo di salire, più la strada si faceva difficile, mi mancava
l'aria e il non poter vedere mi dava tremendamente fastidio.
Poi, in un attimo, mi ero sentito afferrare per una caviglia. Il braccio di
qualcuno mi aveva seguito, mi aveva preso e adesso mi strappava fuori.
Avevo deciso di lasciare la presa dopo che la mucca aveva sospirato penso
per il vigore del mio oppormi.
Una volta fuori, qualcuno, un uomo, mi aveva piantato un coltello sullo
stomaco, senza chiedermi né dire niente. Con delle urla aveva poi fatto
fuggire la pezzata, e si era messo a rincorrerla.
Io, sporco come mai ero stato e sanguinante, con ancora la lama conficcata
in corpo, mi ero incamminato verso casa approfittando del fatto che nessuno
mi stava badando.
Era ormai buio quando stavo introducendo la chiave nella serratura.
Entrato, mi ero diretto in bagno, avevo estratto il temperino con estremo
dolore, mi ero messo a fare la doccia e a disinfettarmi.
Non avevo la benché minima idea di come potessero essere state le formiche,
non le avevo viste, e dire che ero uscito per questo.
Mi ero rivestito ancora bagnato e, arrivato in salotto, trovandomi lì,
ancora scaraventato per terra, con il sangue che usciva dalle gengive mi
dissi:
"Svegliati coglione, ti devi sciacquare la bocca; poi è meglio se
cominci a farti da mangiare, sono le sette."
Un calcio.
"Non hai comprato le sigarette mentre eri fuori?"
"No."
Caramella
Camminando nota per terra una carta di caramella.
Una carta di quelle rosso intenso, lucide e trasparenti.
La raccoglie, come un bambino se la porta agli occhi e ci comincia a
giocare.
Dapprima li copre entrambi.
Guarda in basso, non vuole farsi scorgere da quelli attorno.
Fissa per un po' l'estremità dei suoi pantaloni, stirati a filo di lama.
Pensa a come siano diventati poco seri ora, di contro a come erano pacati e
sobri nel loro intrecciarsi in quadri di diverse tonalità di grigio.
Punta le scarpe e le pozzanghere che volutamente calpesta per vedere
zampillare quell'acqua ormai mutata in sangue.
Le foglie morte ai lati del marciapiede. Decide di fermarsi, le mira per
bene.
Intanto ha già ricominciato a piovere più forte.
Le gocce picchiano sul suo cappello, fino ad irritarsi perché lui le sta
totalmente ignorando.
Così, una volta che la falda è ben intrisa d'acqua, una di queste, scelta
tra tutte, porta il gelo, rivendicando i propri diritti d'esistenza, fin
giù lungo la sua schiena passando tra collo e colletto, e tra i due nervi
dietro il collo che data l'età si notano bene.
Solo allora si accorge della pioggia. Riflette un po' sul da farsi, decide
di lasciare la presa sulla carta con la destra, afferrare la sciabola
fin'ora appoggiata all'avambraccio di sinistra e quindi sguainarla con
vigore sopra il proprio capo, sfruttando il pulsantino posto vicino l'elsa.
Prodigio della tecnica.
Non spada di Damocle, ma scudo.
Verdi, gialle, marroni? Rosso, arancione, rosso più scuro!
E come le foglie l'asfalto, le aiuole, le auto, gli autobus, i passanti! Mio
dio! Sta alzando la testa! Mira alle persone, mira ai giovani, mira ai
vecchi , alle donne e ai bambini.
Uno di questi disteso in lettiga, sembra abbandonare la sua aria da pashà,
e nel passare risponde con un sorriso prima e con uno strano verso, in non
so in che lingua o pronuncia aristocratica, poi come per dire: "Bravo
mio giullare, mi hai fatto ridere! Per oggi avrai salva la vita! In
quest'anno di magra si deve combattere ogni giorno per ottenere di poter
esistere, ora vattene, lasciami governare in pace su questi stolti che si
prostrano come vermi al mio passaggio, che sospirano di sollievo se rido, ma
che tremano e imprecano ad ogni mia smorfia o pianto."
Risponde anch'egli con un riso al sorriso, non importa se qualcuno lo scorge
ora, mentre alterna la carta tra l'occhio destro e il sinistro, tra entrambi
e nessuno. Non trova più ragione di doversi nascondere, troppo le sue idee
lo infervorano, per essere taciute o annacquate.
Richiude l'ombrello, getta il cappello, corre sotto la pioggia che non bagna
ma fa sorridere, getta pure la carta, e ride. Non gli serve più la
strana-materia. Le è bastato far vedere che esiste ancora, il resto lo ha
fatto lui.
Non pensava di trovarne ancora, di quelle ottime caramelle il segno ed il
gusto, che se anche non assaporato, ha potuto gustare nel riscoprirsi
bambino.
Pensava che era stato comunque facile farsi degli amici, come lo era un
tempo.
Che era stato facile trovarsi a sorridere per sciocchezze, come da tanto non
si faceva.
Abbassa di fretta il ponte levatoio, si arrampica come acrobata lungo la
pertica, attraversa indenne la terra di nessuno, mette la chiave nella
serratura, la fa girare ed entra in casa. Accende la luce.
Si mette alla ricerca disperata di qualche spicciolo, rovista in cucina,
fruga in salotto tra i cuscini del divano e sotto al gatto che non lo bada,
non ha fame adesso. Entra in camera apre i cassetti, gli armadi, sotto il
guanciale, dentro le calze arrotolate.
Suda, perde la pazienza. Non si è ancora tolto il soprabito, che,
giustamente, si mette davanti a qualsiasi movimento, tanto per ostacolargli
il cammino.
Ma lui si sente invigorito dal riso di prima e dai divertenti pensieri che
gli hanno attraversato la testa un po' bianca, un po' teschio, protetta,
com'era, dal cappello disperso.
Eccoli! Finalmente!
Quei pochi centesimi che cercava per non dover cambiare pezzi più grossi!
Li mette in tasca, senza contarli.
Poi via, veloce torna in strada sbattendo alle sue spalle tutto ciò che si
può chiudere.
Mentre cammina, e di nuovo non piove, pensa; pensa al passato, alla gente e
all'uomo che è stato.
Sta cercando ancora di quelle caramelle!
Una caramella per un passo in più verso il tempo trascorso!
Una caramella che vale un discorso, un sorriso, un pianto, un amico, un
amore.
Entra nella tabaccheria a destra, niente.
Entra in quella a sinistra, niente.
Nei bar, nei negozi di dolciumi, nelle pasticcerie, niente.
Le trova, infine alla sera, in un supermercato. Niente di tanto speciale:
nascoste da pacchi e pacchi di altre caramelle che ispirano poco; le trova
qui, incastrate tra due scaffali, sepolte da niente che abbia valore.
Via, alle casse!
Lunga e snervante, l'attesa porta sapori di ricordi, l'occhio non sta fermo,
la gola deglutisce, la lingua bagna le labbra, le mani si alternano nella
presa del sacchetto, quasi sudano. La fila non si dirada affatto, i bimbi
piangono, le donne ciarlano, gli uomini sbuffano, tra le cassiere c'è chi
bestemmia Dio per averle, nella sua misericordie e clemenza destinate a quel
posto, e chi, invece, annega la disperazione ed il vuoto in fiumi di parole
che sgorgano dalle bocche e al loro passaggio rintontiscono.
Basta! Spossato, apre il sacchetto, afferra e scarta una caramella, la mette
in bocca.
Dolce, il gusto, la sensazione; dolcissimo il piacere. Lo spirito si stacca
dal corpo, non prova più noia, né ansia, ma galleggia in un mare di
ricordi che sembrano sogni di passioni e delizia.
Ancora si succhia e già si è fuori da quella sciagurata bolgia. Impiega un
bel po' per tornare a camminare con le proprie gambe.
L'atterraggio è dei peggiori, mentre galleggiava, tutto ok, ma i movimenti
trovano difficile coordinazione nella discesa, e una volta in contatto con
il terreno, le gambe si muovono senza aver l'idea dello sforzo che avrebbero
dovuto fare per portare il corpo. Cade, rotola, si ferma a contatto con
l'acqua di una pozzanghera.
Ricomincia a piovere. Lui piange.
Ha incontrato amici che non esistono più, li ha visti per poi riperderli:
nel suo cervello ora, la malinconia, il senso della prima perdita, la gioia
del ritrovamento, la tristezza sconfortante di un nuovo addio, il terribile
dubbio che niente sia vero,tanto il ricordo quanto la possibilità di
riviverlo.
Piange.
Ne prende ancora!
Che importa? Non stava forse meglio lontano? Perché tutto questo malessere
da sopportare se lo si può sorvolare?
Fruga, afferra, tira, la caramella gira, poi lui di nuovo la prende e prende
a custodirla in un sarcofago dalla serratura in avorio.
E ancora ricordi, sapori, odori, timori, colori, volti, tocchi, … conati.
Più rimane dentro questa realtà già percorsa, più staccarsene è
difficile, più la sua voglia di ritornare al vero s'affievolisce.
Piccolo si fa il suo corpo, piccolo sempre più anche se già consunto dal
tempo.
Si restringe, mantiene le proporzioni ,ma si fa sempre più minuto. Così
come il suo desiderio di tornare a vivere il mondo, il dover riscontrare la
propria esistenza nel tutto, il dover continuare lungo una strada nebbiosa
di cui mai si percepisce la destinazione.
Ecco! Si accorge di come le cose attorno a lui siano sempre più enormi,
più pesanti!
Si intimorisce, nella pausa tra una caramella e l'altra lo coglie il panico.
I pochi pensieri che riesce a comporre nella scatola, suonano circa come
delle grida di terrore.
Poi si ferma; riflette.
Più mangia più si rimpicciolisce, più si rimpicciolisce più il mondo
attorno a lui si fa terrificante.
Più trova pace nei ricordi più ha paura di ciò che gli sta attorno e
quindi di più ha paura di ricordare.
Cosa fare? Continuare?
Grande è l'auto che gli passa a fianco, e devastante il suo rombo. Lui è,
ormai, tanto leggero che lo spostamento d'aria lo porta lontano.
Grandi sono tutte le cose, piccolo l'impermeabili, le scarpe, i vestiti,
lui.
Si deve buttare a capofitto. Recupera tutte le forze e si avventa,
intrepido, su un'altra caramella.
Oramai questa era grande quanto un intero suo braccio. Non importa: ne
strappa la carta almeno in parte, prova ad addentarla. Niente.
La caramella ora in parte toccava l'umido selciato, e cominciava a
sciogliersi, in parte se ne stava coperta dal corpo rinsecchito e ammaccato
che l'aveva denudata.
Dopo aver notato che l'acqua intenerisce la crosta decide di mettersi a
leccarla.
Così dopo un primo titubante assaggio, riesce a ritrovare il gusto della
caramella e quello del ricordo.
Adesso la tiene con entrambe le braccia, risultando grande quasi quanto lui.
L'espressione e la posa di lui, la bava, che li univa come un feto alla
placenta,…è la scena di uno stupro. Mentre l'acqua aiuta la sua saliva a
privare il dolce della propria dignità strappata lungo una strada bagnata
senza che nessuno faccia niente per aiutarla, lui getta gli occhi
all'indietro come per guardare direttamente, nel cervello le immagini
proiettate dalla propria memoria.
Poi si ferma, stanco a riprendere fiato.
Terribile, angosciato si rende conto di non poter più fermare il proprio
restringimento.
Proprio ora che di ricordi ne aveva vissuti tanti, da aver recuperato le
forze per poter ritornare a vivere una seconda vita, vede che non c'è più
niente da fare: continua a rimpicciolirsi.
Ancora piange. Seduto sul bordo della caramella lascia che il suo calore, la
pioggia e le lacrime sciolgano la stessa a poco a poco. Questa diventa
poltiglia sotto il suo leggero peso, e gli si incolla ai pantaloni.
Non ha più importanza, se anche riuscisse a liberarsi è oramai, la
caramella, troppo alta per scendere. La velocità di restringimento è
comunque troppo rapida per sprofondare fin sopra il collo e trovarsi con lo
zucchero che irrita la gola e le narici.
I suoi pensieri sono per le persone che lascia, figli, nipoti, amici,
conoscenti, il gatto, la routin di ogni giorno, la moglie…
Ma la moglie e già morta.
Non lo ricorda, dopo aver rivisto tutta la sua vita la percepisce come
realtà.
Ai personaggi di ieri si sono affiancati e sommati quelli di oggi.
Lui non lascia, nello scomparire, solo chi rimane. Il suo è un dolore di
chi lascia proprio tutti e tutto ciò che è stata la sua vita, senza
speranza di rincontrare qualcuno o qualcosa da qualche parte.
Lui scompare il resto resta. Questo è ciò che prova.
L'ultimo pensiero che gli attraversa il cervello è il terrore e lo
sconforto nel realizzare che man mano che il suo corpo si restringe ed
evapora, il ricordo che tutte le persone evocate hanno di lui scompare a
poco a poco senza lasciare traccia.
Sa che arriverà a non essere mai esistito.
Non è.
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