Giuseppe
Calagna
scrivo, perchè, nel mezzo del cammino
della mia vita, mi è venuto perentoriamente di farlo e mi tonifica pure.
Vengo, e si vede e si sente leggendomi, oltre che parlandomi, da un Sud
abbastanza funnutu. Mi gratifica raccontare storie e sentire dagli altri
che effetto fanno (mi pare di vedere in giro parecchi raccontare in
prevalenza contenitori senza contenuto e gratificarsi sin troppo della
forma). Mi gratifica 2 lavorare di cesello per sgrezzare un
linguaggio che sia strumento divulgativo senza essere piatto e volgare. |
L'uomo di ferro
- Matri, matri! - enfatizzò la signora Maria,
avvolgendosi il mento fra il pollice e l'indice della sua mano sinistra,
come a rafforzare la sua maraviglia - vero omo di ferro est -
- Omo forte-forte-forte - gli fece eco Rosa, l'altra vicina di casa - la
botta fu terribile, ma lui è un mulo, viaggia dritto, come un treno sulla
strada ferrata.
Lo vedevano uscire di casa ogni prima mattina, quasi all'alba, l'uomo di
ferro, pioggia o neve, scirocco o maestrale. Loro si sorseggiavano il primo
caffettino della serie e lui, in compunta tenuta da podista, usciva da casa
e prendeva a trottare a ritmo regolare, ogni giorno sempre più sostenuto.
Dopo un'ora e un quarto, mentre loro davano fondo all' ultimo goccio,
strizzato dalla caffettiera a due tazze, lui rincasava, come uno zenit,
grondante di sudore, ma mai stravolto.
Tempo mezz'ora era, bello e intrusciato, pronto per il lavoro.
Da quando gli era successa la disgrazia, poveretto, l'uomo di ferro faceva
sempre quella faccia accigliata, le guance un po' cadenti, la bocca serrata.
Pareva guardarti sempre male e non lasciare trasparire emozione alcuna. La
Rosa sosteneva che era così pure prima, era, come dicono da queste parti,
"santo che non suda", inquietante in quanto inaccessibile.
Era diventato patito del moto dopo la disgrazia. Correva ogni mattina e,
quand'era libero, anche al crepuscolo. Ad un amico, forse l'unico che ancora
ogni tanto frequentava, aveva detto che ne aveva bisogno, per, sue parole
testuali, spremere ogni mattina dai suoi neuroni le endorfine necessarie per
mandare avanti la giornata.
Si svegliava male, la mattina, l'uomo di ferro, male e presto, alle tre e
mezza - quattro, con le tenebre di fuori e di dentro e lo smarrimento di
ritrovare vuota ogni alba la metà destra del suo letto a due piazze, oramai
troppo sterminato.
Alle sei, quando si metteva in moto, le gambe erano molli e la testa piena
di pensieri. Quando prendevano campo quelli pessimi, gli veniva la nausea e
la voglia di fermarsi. Allora lui spingeva di più e anche se continuavano a
disturbarlo, le penzate divenivano inutili, senza senso, riguardanti cose e
persone di nessun significato. Era come se gli si allargasse il campo della
coscienza e arrivasse a percepire più in profondità e scavare di più
nella memoria. Tornavano in ballo limature di discorsi o fatti di estranei e
automaticamente, la mente iniziava a sfruculiare, a fare considerazioni e
associazioni strammiate. Storie di corna, reali o fantasticate. Storie di
mafiosi veri o presunti. Storie di corna e di mafiosi in prevalenza.
Poi dopo i trequarti d'ora di corsa, iniziava quello che l'uomo di ferro
definiva effetto sballo della corsa, lui lo sentiva arrivare quando
apprezzava una caloria in volto, prima appena accennata, poi sempre più
intensa, la fatica allora sembrava paradossalmente diminuire, nonostante lui
prendesse ad andare più veloce. Era allora che il valzer dei pensieri nella
sua testa si faceva via via più lento, e tutti gli animaluzzi che lo
disturbavano, ad uno ad uno lasciavano la scena e si ritiravano in buon
ordine, fino al silenzio. Non sentiva più le macchine che lo tangevano
dappresso, nè il fastidio dei loro gas di scarico, nè, quando costeggiava
un certo quartiere di case popolari, il chiacchericcio dei bambini o i
rimproveri delle madri. Gli passava financo la paura d'imbattersi in cani
disposti ad azzannarlo, quando percorreva certi sentieri sabbiosi di
campagna, per alternare asfalto e sterrato, come ogni buon podista soleva
fare in rispetto delle proprie caviglie. Era in quel momento che il senso di
peso alla testa alleggeriva e si sentiva più rasserenato. Allora l'uomo di
ferro accelerava e accelerava ed era sempre meglio, fino a quando la
stanchezza si faceva insopportabile, allora rientrava L'effetto sballo
durava in genere alcune ore; l'indomani doveva necessariamente tornare a
muoversi, pena il ritorno della calatura di sofferenza sulla sua testa.
- E' un senza Dio, senza rossore nella faccia, uhh!
'Sto cafè stamattina ti fece i rimasugli- Rosa fece la faccia schifata per
il pensiero sull'uomo di ferro e per i residui solidi di caffè rimastigli
in bocca - la macchina tedesca di corsa, tse! Non ci pensa più a quella
poveretta.
- Almeno per l'occhio della gente poteva aspettare che facesse sei mesi - la
signora Maria parlava, mentre con una spugnetta umida andava a caccia di
macchioline untuose sulla ceratina che faceva da tovaglia al tavolino della
cucina - sarà per colpa della guarnizione che mi fa questo deposito, debbo
ricordarmi di accattarla. Insomma omo di ferro, ma malvagio e senza Dio -.
Aveva sempre amato le auto veloci, inspecie se tedesche. Era stata
un'occasione, la BMW spyder, serie M, duemilaeottocento centimetri cubici
per trecentottanta cavalli che smaniavano sotto il cofano. Pareva nuova con
quel celeste così fosforescente che ci volevano gli occhiali scuri per
rimirarlo. Verso le cinque e mezza soleva svegliare il quartiere con il
rombo di quella belva, ma l'uomo di ferro diveniva vegliante mediamente
verso le tre di mattina e veniva preso da una tale smania che si doveva
alzare di soppiatto.
Aveva il piede pesante: correva nelle autostrade, nella strade di campagne e
se ne andava financo all'autodromo. Glielo avevano anche detto che prima o
poi sarebbe andato a schiantarsi contro qualche muro o qualche padre di
famiglia, ma lui accennava un sorriso con quella bocca irrigidita che si
ritrovava e sottovoce diceva che non c'era problema.
Poi finì per davvero per sfaciarsi contro un albero nella strada dei
cipressi e fu uno di quei casi di "auto distrutta autista
miracolosamente illeso".
Ora non correva più, manco a piedi, l'uomo di ferro.
A forza di spremerli, i suoi neuroni, pareva avessero esaurito le endorfine.
Quando Maria e Rosa lo vedevano passare, sempre più tirato in volto,
posavano la tazzina del cafè e si facevano il segno della croce, credendo
seriamente in cuor loro che fosse spiritato. Avevano sentito dire che
qualcuno lo aveva visto in città in compagnia di donne e questo creava in
loro un mix di scandalo, eccitazione, timore ed incredulità: - Che òmino
senza vergogna! -. Quasi quasi avevano paura ad essergli vicine di casa.
Gl'incuteva una tale ansietà con quella sua faccia ogni giorno più cupa e
afflitta, che temevano seriamente che in un crescendo di follia, potesse
coinvolgere pure loro in qualche tragedia. Se ne sentivano tante in quei
giorni di gente insospettabile che dava fuori di testa e faceva succedere il
Vivamaria.
Anche in paese era scaduto nella considerazione generale. Nessuno sembrava
concedergli attenuanti. Censuravano senza alcun sconto la sua condotta e la
scomparsa della giovane coniuge era un aggravante: condannato per
direttissima al pubblico ludibrio. Spregiati manco si azzardavano ad
indossare i suoi panni contaminati. Per loro sempre di ferro era, ma il
metallo ora non faceva più pensare alla sopportazione eroica, ma all'
insensibilità.
L'uomo di ferro, nel mentre, comunque se l'era
pensata bene di darsi al volo. Ali posticce per solcare il cielo e planare
in maniera ardita sulle spiagge dorate o magari su campi di frumento o di
girasole. Si era unito ad un manipolo di sbalestrati, che l'iniziarono
all'arte del deltaplano. L'apprendistato fu breve, troppo breve, ma l'uomo
di ferro volle fortemente così.
Li si vedeva venire giù dalla collina che domina il paese, lentamente,
facendo dei giri larghi, a guisa di aeroplanini di carta scaraventati
dall'alto da un gigante, che previamente aveva alitato caldo sulle loro
punte.
Fino a quando un giorno un venticciolo di scirocco mandò l'uomo di ferro
fuori zona ed allora emersero le magagne di un apprendistato, a bella posta,
fin troppo affrettato. Finì per atterrare male e con eccessiva gravità su
delle rocce affioranti dal mare. L'impatto su quegli scogli insidiosi
ricordò molto da vicino uno schianto e, seppur di ferro, l'integrità
dell'impalcatura di quell'omo venne decisamente meno: "Frattura esposta
tibia sx + frattura bacino + frattura composta II-III vertebra lombare +
plurime fratture costali". Questo fu il laconico referto dei sanitari,
ma c'era di peggio: "Stato di schock ipovolemico secondario ad'emorragia
intraddominale da rottura traumatica di milza + plurime emorragie
endobronchiali secondarie a lacerazioni da coste fratturate". Arrivò
esanime ed esangue al più vicino nosocomio, ove misero mano su di lui con
urgenza e disperazione. Sette ore e tre litri sangue infuso dopo, i medici,
che è notorio come non si facciano mai i propri di cazzi, suo malgrado, lo
misero nelle condizioni di salvarsi la pelle.
Rosa e Maria lo videro tornare in circolazione sette
mesi dopo, claudicante e macilento. Procedeva a stentati saltelli,
aiutandosi con due stampelle. Solo l'espressione di pietra non era mutata.
Transitando nei paraggi della verandina ove le due donne facevano salotto,
tramutata in camera con abbondante uso di pannelli di plexiglass, l'uomo di
ferro, guardando dentro attraverso la finestra aperta, incrociò lo sguardo
delle signore. Era uno sguardo severo, che fu inteso da Rosa e Maria come di
sfida o di rimprovero e ciò li spinse intimorite a guardare altrove.
La solidarietà del paese nei lunghi mesi di non autosufficienza si ridusse
a quella burocratica della cooperativa dei servizi, pasti caldi e pulizie
periodiche.
Giorni fa ho visto passare ho visto passare il
funerale dell'uomo di ferro. Era stato scaricato al Pronto Soccorso dagli
ambulanzieri del 118. "Addome acuto" era stata la diagnosi
d'ingresso. Operato ancora d'urgenza, era deceduto qualche giorno dopo per
setticemia. Si era trattata di "Peritonite da perforazione del colon
ascendente. I dottori dissero che il colpevole si chiamava Chron, un morbo
che infiamma l'intestino,. autoimmunitario, nel senso che l'organismo
reagisce contro sè stesso come in una sorta di guerra civile sanitaria. I
dottori dissero pure che tipicamente il morbo si presentava in cristiani
poco capaci di esprimere apertamente le proprie emozioni, come i santi che
non sudavano. Il feretro girò lento per le strade del paese, su
un'autentico pezzo da museo, una massiccia Mercedes Diesel degli anni
cinquanta, quella ancora con le pinne posteriori all'americana, seguita solo
da un pugno di presenti, obbligati da legami di sangue.
Su suo preciso volere l'uomo di ferro venne cremato.
In paese girò per un po' di tempo insistente, una voce, bizzarra,
assolutamente infondata, secondo cui dalla incinerazione residuasse un
metallo, liquefatto, incandescente. Si dice assurdamente che fu usato per
forgiare le punte aguzze delle trottole di legno, le strummule, che i
ragazzini di queste parti usano per giochi di abilità e di cruenza, nel
senso che i vincitori acquisiscono in premio la possibilità di distruggere
a colpi di punta le strummule degli sconfitti.
Le punte plasmate con il metallo dell'uomo di ferro, si disse che erano di
consistenza talmente dura da lasciare i bambini sgomenti ed eccitati.
Accadde ai Mondiali di quell'anno
Ventimilasettecentosessantaquattro chilometri
quadrati di lande ondulate per duemilioninovecentomila anime. L'ottanta per
cento della terra abitualmente calpestata da quei santi cristiani che
dimoravano nell'isola di Sicilia, dei quali però questi benedetti gallesi
erano quasi la metà.
Chissà perchè i Mondiali di quell'anno li avevano assegnati proprio a quel
luogo.
Mi reiterava proprio quella pensata, quando, immobili come statue di cera,
aspettavamo al centro del campo la fine del minuto di silenzio, alla memoria
di non so quale notabile gallese, scomparso proprio in quei giorni
memorabili, per dare inizio alle danze.
L'azzurro delle nostre maglie spiccava assai sulle tonalità dominanti,
color grigio topo, e si che si era in Giugno inoltrato. Un prosit a chi le
aveva realizzate, quelle casacche, con quella gradazione di azzurro di
quell'anno. Si facevano veramente guardare, tanto che non riuscivo a
togliere gli occhi di dosso dai miei compagni (di certo non l'avrei
scambiata con nessuno a fine partita, la maglia, ammesso che mi avessero
tenuto in campo sino in fondo). Non c'era proprio partita con gli avversari,
tinti di un rosso marcio, dimesso.
La luce era quasi crepuscolare, nonostante fossero le tre del pomeriggio e
ogni tanto alzavo gli occhi al cielo per cercare inesistenti squarci
d'azzurro, finendo così per bagnarmi la faccia di una polvere d'acqua che
veniva giù quasi in incognito (inzuppa villano si diceva dalle mie parti).
L'aria, però, frizzava gradevolmente, invogliando al movimento.
L'eventualità di un fubbol memorabile, quel giorno, diveniva meno remota.
Assurdo, perchè giocare un mondiale fra quelle vallate che non mi dicevano
proprio nulla? Malgrado si fosse a ridosso del perentorio trillo, ero
quantomeno ossessionato da quell'affare. Mi puzzava parecchio, ma non capivo
cosa ci fosse dietro.
Manco la cornice era granché, lo stadio mi pareva microscopico e anche
scalcinato, la capienza inadeguata, scandalosamente inadatta all'evento.
Gli spalti in legno, vecchia Inghilterra, erano pieni a uovo. Si erano
limitati a dare una mano di vernice marron scuro a tutto ciò che il loro
pennello aveva incontrato lungo la sua corsa.
La scritta WALES us ITALY 0 -0 campeggiava in un antiquato tabellone
relegato in un angolo. Le scritte e i numeri erano ancora di cartone, pezzi
di cartone che venivano cambiati a seconda degli eventi.
I tifosi del luogo a intermittenza battevano ritmicamente i piedi sulle assi
del pavimento, pensando di atterrirci e quando lo facevano tutti insieme il
chiasso era tale da far temere che venisse giù tutto. Gli sparuti italiani
erano stati confinati in uno spicchio di stadio: i soliti quattro tricolori,
agitati dai soliti quattro emigranti. Figli di minatori? Un insolito
pensiero si accavallò agli altri che già mi riempivano la testa: minatori
italiani in Galles?.
Nel cerchio del centrocampo, aspettando l'inizio delle ostilità,
scintillava la plastica figura del grande Schibaldi, per tutti Il Duca. Come
lui ne nascevano uno ogni morte di papa: centravanti vecchia scuola,
toscano, lungo lungo e imponente, vedeva la porta da tutte le parti,
esplosivo di destro, di sinistro, di testa, di tergo, di nonsocchè.
Sornione al limite dell'indolenza, era capace, gattone leggiadro, di levarsi
dal finto torpore, quando meno te lo aspettavi, per castigarti con le sue
celeberrime zampate. M'incuteva un tale rispetto che, il primo giorno di
ritiro, gli diedi automaticamente del lei, poi lui mi sorrise carezzandomi
la chioma scombinata:
" Per il popolo Il Du'a, per gli amici Francio, terruncè".
Di fianco a lui, occultato da cotanta sagoma, stava il suo completamento
naturale, Dio li aveva fatti e poi si erano accoppiati, il minuscolo Tiralli,
il gobbo maledetto, cervello fino, pugliese, dieci naturale. Da tempo
immemorabile mai aveva lesinato al Duca palloni succulenti, che usava
pascere con fare, oserei dire, materno.
Attorno a quei due avevano costruito quella nazionale, attorno c'eravamo
tutti noi, manovali della pelota, portaborracce. Quell'anno non c'era alcun
blocco di giocatori del medesimo club, ma, dispersi, provenivamo tutti, per
disposizione dall'alto, da squadre e città diverse, tanto che ci
rimproveravano scarsa amalgama. E forse fu per questo, al solito, che, già
al primo turno, avvertimmo ben nitidi sulle nostre schiene gli antichi
sgradevoli brividi coreani.
Cincischiammo davanti a squadre anonime, patendo pene dell'inferno e già
pregustavamo un prematuro ritorno a casa al sapore di pomodoro, quando un
autorete in Zona Cesarini ce lo evitò, anche se permase ben nitida nelle
nostre menti la figura francamente stercoracea.
Di fronte stavano gli altri, guanciotte pasciute , zigomi vermigli e
prosciutti al posto di gambe, gallesi tracagnotti o lungagnoni, in
prevalenza biondastri. Non mi parevano proprio dei fuoriclasse, però ci
guardavano con l'insolenza di coloro che avevano preso coscienza di essere i
padroni del vapore.
I bordi del campo, poi, ve li raccomando! Un via vai di gente, per lo più
uomini in giacca e cravatta che si agitavano sovreccitati. Chi erano? Che
facevano lì, a pochi piedi dal rettangolo di gioco, a disturbare un quarto
di finale mondiale?
Mi accorsi presto, poi, di quella donna di mezz'età e del suo sorriso
stampato in volto, algido e raffinatamente fasullo. Mi parve che i tipi in
vestito afferissero a lei, terminale del loro agitarsi. Vestiva un sobrio
tailleur scuro, che ben s'accordava con i colori prevalenti dello sfondo.
Istintivamente l'associai a quelle governanti monolitiche che presentano
cotanta vocazione al comando, da esercitare una sorta di tirannia
strisciante sugli stessi datori di lavoro.
Il fischio del direttore di gara cinese, ancora assorto nei miei
insignificanti pensieri, mi colse impreparato, ma diede il la ad un
sostenuto cardiopalmo, che sentii financo dentro le orecchie, e ad una
fastidiosa sensazione di gambe paraparetiche flaccide.
Una terna arbitrale di musi gialli, mah!
Il vegliardo mi aveva nominato cane da guardia di una
fetta di campo sulla parte destra, che andava dal limite della nostra area
sino alla linea del centrocampo. Dalla sua panca, che pareva una fermata di
corriere in disuso, mi aveva ammonito imperiosamente dal superare quella
linea di gesso, tranne suoi precisi contrordini. Avrei fatto la spola su e
giù per quella fascia, sino a scoppiare, con il compito di guastatore delle
azioni degli altri e la speranza di arginarne la spinta, rubare palloni e
possibilmente ribaltare l'azione. Una volta ci chiamavano mediani, ora
avevano riconvertito il termine con centrocampista di fascia, ma non è che
la differenza nel pratico si notasse poi molto.
Io a quell'ora in quel posto non ci sarei
assolutamente dovuto essere. La nazionale l'avevo sempre vista con il
binocolo, poi una serie di inusitate coincidenze, vale a dire un'anomala
moria di centrocampisti, vuoi per infortuni, squalifiche o ruggini con il
caparbio cittì, avevano costretto lo stesso, turandosi il naso bitorzoluto,
a portarmi alla veneranda età di trentatre anni in gita fra quei lidi.
Nelle gerarchie dei centrocampisti di fascia destra ai Mondiali ero comunque
solo il numero tre, vale a dire riserva della riserva. Poi la mezza bufera
seguita alla rasentata eliminazione aveva fatto cadere in disgrazia chi mi
stava davanti, palesemente fuori fase, e aveva costretto il mister a turarsi
una volta di più quel suo vecchio trombone e a farmi debuttare in nazionale
nel bel mezzo dei Mondiali, a me, Carrubbazza Stefano da Valguarnera
Caropepe, che, dopo frequentazioni insistite di scalcagnati palcoscenici
isolani, ero arrivato alla massima serie solo da un paio di anni, ben oltre
la trentina, ed in squadre non precisamente di rango.
Mi fischiavano con fastidio le orecchie, immaginando le filippiche di quel
pugno di cari amici, che andavano sotto il nome di cronisti sportivi.
Immaginavo i loro schifati commenti del tipo: - Povera patria: ai Mondiali
con un rozzo siciliano dai piedi di piombo -
Al fischio d'inizio seguì un ovvio boato, prolungato e assordante.
Traccheggiammo tutti quanti per dieci minuti buoni, riluttanti a fare
conoscenza reciproca e restii a scoprire le proprie carte. La tattica la
faceva da padrona e si cercava solo di svolgere il proprio compitino con
diligenza. Poi ognuno prese a fare quello che gli riusciva meglio: i
gallesi, volenterosi fabbri, la misero sul piano fisico, iniziando a
martellarci con il loro gioco monotono e privo di bagliori. Palla avanti e
pedalare, corse arrembanti sulle fasce laterali per arrivare sul fondocampo
e concludere con traversoni per le teste dei loro lungagnoni. Noi non ci
smentivamo e, su decisione di Matusalemme, che sosteneva che non avevamo i
mezzi fisici per imporre il nostro, di gioco praticavamo il solito,
all'italiana, femmina, di contenimento. Li aspettavamo nella nostra metà
campo, sperando, poi, furbi italiani, di fulminarli con mortiferi
contropiedi.
Chi scoprì presto le sue carte fu la giacchetta nera di Hong Kong. Sin
dall'inizio prese salomonicamente la decisione di fischiarci tutto contro
con una commovente diligenza. Continuava a fissarci con il suo sorriso
amimico a trentadue dentoni. Fischiava e sorrideva, protestavamo e
sorrideva, ci sventolava cartoncini di un colore simile alla sua pelle e
continuava a sorridere.
Per un quarto d'ora abbondante non beccai palla,
fatta eccezione per un paio di palloni rubati e subito consegnati a piedi
più virtuosi. Ero fuori da tutti gli schemi, i miei compatrioti tendevano
ad ignorarmi non so se per boria o per umana pietà, forse per tutte e due.
Dovevo badare solo a distruggere e finiva che non facevo altro che correre a
vuoto come un pazzo. Ben presto anche i gallesi mi giudicarono inoffensivo,
lasciandomi una certa libertà.
Al minuto 17 andò a finire che mi coprii di ridicolo. Il nostro
centromediano Scalabrin, razza Piave, sventò l'ennesimo monocorde attacco
britannico, ciabattando il pallone alla "viva il parroco", con una
veemenza tale, da uscirne fuori un campanile altissimo, che pareva non
volesse sapere di tornare sulla terra. Tutti rimanemmo per un po' con il
naso all'insù a scrutare dove diamine andasse la palla e lei, alla fine,
nella sua caduta sventuratamente scelse proprio me fra i ventidue in campo:
me la ritrovai di sopra, venire giù pure abbastanza celere. Gli stop non
erano di certo i miei pezzi forti, ma sciagurato, con la mente annebbiata
dall'emozione che mi ritrovavo, presi la decisione più disgraziata: avrei
potuto spedirla fuori alla spiccia con una capocciata o una pedata, ma mi
decisi per l'aggancio di classe, appropriato ad un siffatto palcoscenico. Il
risultato fu catastrofico, la lisciai alla grande, per prenderla poi di
sbieco e consegnarla docile docile all'avversario. Come una colata di
cemento armato, salve di risate e di sonori fischi precipitarono sul mio
groppone. Tremendi sorrisi di scherno spuntarono fra molti giocatori
gallesi, ma anche qualcuno dei miei non seppe trattenersi dal mostrare segni
di sbellicamento.
Traballai di brutto, ma non andai al tappeto.
- Caruba!! Dacci dentro, 'orco boia! Caruba, gioca facile! -
La voce del vegliardo, indemoniata, mi perveniva lontana lontana, ma
bastevole a farmi riemergere dalle nebbie della vergogna.
Poi al minuto 25 andò finalmente in scena il duo delle meraviglie. Tiralli,
sino ad allora andato al passo, ritrovatasi la palla fra i piedi al limite
della nostra area, vide con la coda dell'occhio lo scatto furtivo in avanti
del Duca dal centrocampo verso l'area straniera e mirabilmente lo raggiunse
con un fendente orizzontale, che parve un autentico colpo di bigliardo.
Schibaldi si aggiustò alla meglio la sfera e galoppò verso la porta
avversaria vanamente inseguito dai difensori gallesi; quando fu a tu per tu
con il portiere, lo mandò a farfalle con una finta navigata e finì per
entrare in porta con tutta la sfera.
Ci abbracciammo come da copione.
Nel mortorio generale un omino calvo, suo malgrado, fissò sull'obsolescente
tabellone il cartello con su scritto 1 sotto la dicitura ITALY, proprio
mentre riprendevano le ostilità.
- Caruba!! Testone, rincula, rincula!
Il vegliardo, ringalluzzito, ci diede l'ordine di serrare maggiormente le
fila in difesa di quell'inatteso dono del destino, mentre i caproni gallesi
riprendevano a caricare con una irruenza decuplicata. Io, che quando si
trattava di difendere non mi facevo pregare, in quell'assedio di Stalingrado
feci la mia parte.
Ma alla fine tanto tuonò che piovve: tale Smith (ce n'erano tre in campo),
Benjamin Smith, insidioso fluidificante, al minuto 41 riuscì a penetrare
sul lato mancino della nostra area di rigore. Il ligure Palafreniere, detto
il Pala, terzino all'antica, lo puntò trafelato. Come fu o come non fu Ben
Smith andò per le terre e si udì netto pure un suo gridolino di dolore.
Tutti poterono udire il fischio. L'ineffabile giacchetta di Hong Kong aveva
indicato senza indugi il dischetto in mezzo all'area. Poi scomparve dalla
vista di tutti, sommerso dalle fascinose maglie azzurre di quell'anno, che
lo circondarono in maniera poco amorevole. Lui non si scompose per niente e
continuò a distribuire a tutti sorrisi e cartellini gialli, anzi alla fine
ne tirò fuori pure uno rosso: il Pala fu mandato anzitempo sotto la doccia
(se c'erano le docce in quel cacatoio!), nuovamente ammonito per
comportamento irriguardoso. Con un inglese, che dire rudimentale è poco,
aveva continuato a gridare negli ampi padiglioni auricolari del giallo
qualcosa del tipo: - Dont tach, dont tach it, ser! Is actor, is actor! -
Fino a quando il cinese si stufò e lo cacciò via.
In seguito, ogni volta che mi capitò d'incontrarlo, il Pala mi giurò e
spergiurò fino alla nausea che manco l'aveva toccato quel filibustiere d'un
britannico.
Comunque l'altro Smith, quello più noto, Matthews, trasformò il penalty
senza indugi.
L'omino calvo stavolta si attivò con maggiore lena per sostituire il
cartello e riprese pure, con rinnovata vigoria, il tramestio di piedi
gallesi. Le facce degli uomini in giacca e cravatta a bordo campo divennero
meno tirati e anche il sorriso fasullo della donna di mezz'età in tailleur
parve illuminarsi, pur se di una frazione infinitesimale.
- Caruba! Terone, non ti muovere da lì, se no ti strappo le balle! -
Figurarsi se in inferiorità numerica, quello là ci diceva d'attaccare.
Finì che concedemmo tre quarti del campo ai liberi scorrazzamenti gallesi,
finendo per imbottigliarci tutti in quella maledetta area di rigore che
divenne la nostra galera.
Mi sembrò inevitabile quel che accadde al minuto 44, cioè che lo Smith
centrocampista, Christopher, ci provasse con una gran legnata rasoterra da
fuori, che il pallone penetrato fra una selva di gambe, schizzasse come una
pallina di flipper, che il nostro vecio e plurimedagliato portiere,
Gentilozzi III, cuneese, riuscisse comunque con un colpo di reni a
respingere prodigiosamente quella sfera impazzita, ma anche che il lumbard
Taraschi, prototipo di libero catenacciaro, rinviasse la stessa
affannosamente mentre ballonzolava mortifera nell'aria piccola e che infine
la palla lungo la sua corsa finisse per incocciare lo stinco di Scalabrin,
cambiare una volta ancora direzione, ritornare indietro e, fellona, varcare
lemme lemme la nostra linea di porta. Molte casacche azzurre rimanemmo a
terra per un minuto buono, poi prendemmo direttamente la via dello
spogliatoio per l'intervallo, a capo chino.
Lì l'aterosclerotico ci vendemmiò rudemente i
timpani con un cazziatone dei suoi. Non è che ci capii molto di quella
vociata, comunque ogni cosa, nelle sue parole, girava intorno ad un unica
fissa. Pur se a tratti li chiamava "coioni" e a tratti "maroni"
o "palle", secondo il suo vedere, dovevamo tornare in campo e
mostrarli in maniera ostentata e oscena a tutti, giocatori e pubblico. Non
ci ordinò, comunque, di attaccare all'arma bianca, perché secondo lui in
dieci non c'era speranza di spuntarla. Meglio, a suo dire, mantenere il
risultato e confidare in quello che lui definì "provvidenziale colpo
di culo".
Io temetti che mi facesse fuori per fare posto a qualcuno che sapesse
realmente giocare a calcio, ma lui mi disse che mi teneva, anzi che
addirittura mi spostava a terzino sinistro a guardia del migliore, o forse
meno peggio, di loro, di quel Bobby Brown, che nel primo tempo in quella
fascia aveva fatto il bello ed il cattivo tempo. Avrei dovuto sentirmi fiero
di quella promozione, se non fosse stato per un minuscolo particolare, cioè
che in vita mia mi ero tenuto sempre alla larga da quel ruolo, in quanto non
ne avevo assolutamente le qualità per esercitarlo. Quel Bobby Brown era una
freccia ed io ero abbastanza fermo, in quanto a velocità. In buona
sostanza, mi avrebbe di certo ridicolizzato, ma comunque da bravo soldatino
non battei ciglio.
Tornammo in campo che era più buio. Mi guardai
intorno, ma d'impianti d'illuminazione non mi parve di scorgerne traccia
alcuna. Faceva nettamente più fresco e il grigiastro dominante mostrava ai
miei occhi un'insolita sfumatura azzurrina.
La ripresa non ebbe l'aria di modificare il copione. Loro continuavano ad
andare avanti a testa bassa, noi tremebondi, rinculavamo e stavamo rintanati
in difesa. In più si resero manifeste tutte le vecchie ruggini che c'erano
fra alcuni di noi. Il lumbard Taraschi si fece sentire con Squinzi, l'aletta
destra, core de Roma, der Testaccio, biasimandolo, perché, a suo dire, non
copriva abbastanza, ma questo, per tutta risposta si lamentò del fatto che
i difensori non riuscivano a impostare le ripartenze, per cui il gioco
risultava lento e prevedibile. Al che fu il friulano Scalabrin ad
adombrarsi, affermando che era compito del Geometra impostare l'azione, ma
questi, tale Ciro Moscatiello di Torre Annunziata, chiamato così per la sua
destrezza nello smistare palloni con rigore geometrico, si difese
rammaricandosi per l'inferiorità numerica in cui versava il settore del
centrocampo, che pressato dagli straripanti gallesi, faceva una fatica boia
a gettare le basi per una decorosa manovra d'attacco. Era chiaro che pur
tacitamente si tirava in ballo la scarsa propensione degli attaccanti a
rientrare e dare una mano d'aiuto, ma nessuno si sarebbe mai sognato di
criticare manifestamente quei due mammasantissima, anche se corrispondeva al
vero che il duo Schibaldi-Tiralli, non supportato adeguatamente, latitava
già da un pezzo.
Come fu o come non fu si videro i miei compagni di squadra, a gioco fermo,
iniziare a mandarsele a dire, gesticolando animatamente fra di loro, fin
quando surriscaldati a puntino, presero poi a spedirsi a quel paese o a
voce, si sprecarono i "pirla" o i "a li mortacci tua", o
tramite gesti non sottintesi, del tipo segni dell'ombrello o dita medie
puntate verso il cielo.
Io rimasi estraneo a quella farsa, in quanto non mi tirarono in ballo,
essendo nella loro considerazione una sorta di intoccabile del fubbol, nel
senso indù del termine.
I gallesi ci guardavano sbalorditi e non capivano.
Bobby Brown non tardò a crearmi magagne . Mi
guardava come se venissi da un altro pianeta e credo non avesse un buon
concetto della mia persona. Non gli era ancora riuscito di dribblarmi, ma
lanciato in velocità mi lasciava implacabilmente al palo. La prima volta
che mi sfuggì lo zapponai da tergo e al cinese non parve vero di potermi
sventolare a tu per tu il cartoncino giallo. La seconda volta, per evitare
che mi potesse sventagliare quello vermiglio, lo dovetti lasciare andare. Il
caro Bobby arrivò sul fondo e poté crossare indisturbato. Sulla palla si
scaraventarono assieme in tre, Gentilozzi III, Scalabrin e l'altro Brown,
Charly e dopo la contesa la sfera malandrinamente prese la strada della
porta sguarnita, finendo per insaccarsi per la terza volta. Mentre Charly
Brown esultava con tutto il popolo sugli spalti, le maglie azzurre
sommersero colleriche nuovamente il cinese. Quel demonio aveva segnato di
mano, ma l'arbitro non ne volle proprio sapere di annullare quel goal. Era
il minuto 52.
Ammollammo ancora di più. Vagavamo astenici per il campo in balia di quegli
energumeni ed eravamo estremamente irritabili, infiammandoci fra di noi per
ogni nonnulla. I miei compagni erano ora passati agli insulti di campanile,
del tipo "terun", "polenta", "Roma ladrona"
eccetera eccetera e i gallesi nel mentre infierivano. Addirittura al minuto
57 gli riuscì financo un azione limpida, scevra di aiuti con gli occhi a
mandorla. Lo chiamarono "Il goal dei tre Smith": Chris fuggì
sulla fascia destra fino a pascere un delizioso cadò per Matt, la cui
capoccia fece da sponda per l'accorrente Ben, che di piattone spedì
facilmente la sfera alle spalle del povero Gentilozzi.
La faccenda principale ora non era tanto il buscarle per 4 a 1, ma il dovere
permanere ancora in quel cacatoio ribollente per più di un'altra
mezz'oretta buona. La sospensione per manifesta inferiorità nel fubbol non
l'avevano ancora inventata.
L'ala sinistra, il romagnolo Robilacci, abbandonò il
terreno di gioco che pareva suonato, il vegliardo, che aveva smesso
d'insultarci, se l'era pensata bene di rimpiazzarlo con l'ennesimo
terzinaccio, tale Attard, proveniente da certe vallate dove si sentiva
prevalentemente la parlata francese. Temeva l'obsoleto la goleada storica.
Poi i gallesi decisero d'infierire: inscenarono uno
snervante torello, accompagnato dagli olè provenienti dagli spalti. Si
passavano la palla per vie orizzontali invitandoci ad intercettarla, per poi
triangolarci ignominiosamente. Gli inquietanti uomini in giacca e cravatta,
sempre più a ridosso del campo, sembravano non partecipare direttamente
alla festa, ma si vedeva che i loro tratti del volto erano palesemente
rilassati.
Bobby Brown doveva nutrire di certo un'antipatia particolare verso la mia
persona. Vincevano largamente, ma lui aveva deciso di ridicolizzarmi in
tutti i modi. Già da alcuni minuti aveva preso a provocarmi, apostrofandomi
con triti luoghi comuni sulle italiche genti. A volte mi si rivolgeva
chiamandomi "maccarone", altre "mandolino" o addirittura
"pizza Napoli", ma a me questo tipo di sfottò non mi faceva né
caldo, né freddo e manco gli davo conto. Poi Bobby Brown andò più sul
pesante e iniziò a fare apprezzamenti sulla sfumatura ambrata della mia
tinta cutanea. Prese a rigurgitare su di me termini come "afrikan"
o "marochen" e lì qualcosa mi si smosse a livello epigastrico.
Fino a quando non lo udii chiamarmi con quel termine straniero, "monkey",
e farmi pure le boccacce. Si dà il caso che io, a quei tempi, potevo
conoscere, sì e no, una ventina di parole di quella lingua e guarda caso
sapevo che quella stava per "scimmia". Venni preso dai sacri
furori e se sino ad allora mi ero comportato da bravo soldatino, obbedendo
ciecamente alle fregnacce impostemi da quel Matusalemme di cittì, sentii
ora netto un demoniuzzo prendere possesso di me.
Quando Bobby Brown tentò l'ennesimo della serie di quei dribbling che tanto
lo gratificavano, lo affrontai con un impeto tale da sradicargli la palla
dai piedi (meno male che il cinese forse pensava alle cose sue e non mi
fischiò un fallo comunque inesistente) e partire in avanti come una
locomotiva. Superai la linea del centrocampo a tutta birra, sentii
distintamente il geometra sulla mia destra che mi gridava : - E mollala,
mollala 'sta palla, scarpone! - Non lo presi manco in considerazione. Puntai
dritto sul primo gallese che si frapponeva fra me e la prosecuzione della
corsa. Non rallentai manco per idea e credo che lui dovette temere per la
sua incolumità, perché l'impatto fu morbido e il rimpallo mi favorì. Dopo
fu il Duca a reclamarmi la sfera, ma con tutto il rispetto per la sua
illustre figura lo mandai a a fare in quel posto. Si frappose dopo un
secondo baluardo umano, avevo ancora vigore in corpo, l'impatto fu più
robusto, proseguii la corsa a braccia allargate e proteso in avanti alla
ricerca dell'equilibrio, ma alla fine non caddi ed anche il secondo rimpallo
mi venne padre.
A quel punto mi si spalancarono le porte dell'aria di rigore: era grande,
spianata, libera da maglie rosse e azzurre. Fui colto da sensazioni
agorafobiche, quei luoghi mi parvero smisurati ed estranei, non avendo avuto
mai il passpartù di spingermi oltre la fascia di centrocampo. Poi vidi
venirmi incontro la sagoma sempre più ingombrante del gigantesco portiere
britannico. Ero discretamente decentrato rispetto alla porta avversaria e
non sapevo che fare. Avrei potuto provare a saltarlo, ma non era farina del
mio sacco. Percepivo dietro di me passi trafelati di gente che stava
recuperando. Finii per non prendere una vera decisione, chiusi gli occhi e
ciabattai, alla come veniva veniva. Prima di riaprirli udii distintamente
ridursi i rumori di fondo, come se qualcuno avesse tutto d'un tratto
abbassato il volume generale. Quando li riaprii mi accorsi subito della
figura autorevole del Duca, che veniva verso di me con le braccia al cielo
per abbracciarmi. Avevo sparacchiato sciaguratamente quella palla e sarebbe
andata a finire vergognosamente a lato, se non fosse stato per il portentoso
fiuto del gol del Duca Schibaldi, che, inseguitomi per tutta la galoppata,
con una arrischiatissima scivolata era riuscito ad intercettare la sfera,
indirizzandola con successo verso la porta vuota.
Era il minuto 63, ma il fatto più singolare successe subito dopo. Tutto lo
stadio poté nettamente udire il mio urlo liberatorio, che somigliava più
ad un assurdo latrato. Durò un'eternità, sembrava finire e poi riprendeva.
Fu isterico, violento, stridulo, animale, ridicolo, inquietante. Andai uno
per uno dai miei compagni, li prendevo per le braccia, li scuotevo poco
civilmente e faccia contro faccia gli frantumavo i timpani con
quell'ululato. Loro mi guardavano a bocca aperta, inebetiti, ma contavo sul
fatto di contaminarli almeno un po' di quella scossa elettrica che inattesa
mi stava trapassando da capo a capo. Temetti di venire espulso per le mie
intemperanze, ma forse le mie grida avevano rintronato pure l'ineffabile
giacchetta nera di Hong Kong.
Nello spezzone di partita che rimase da giocare,
niente fu più lo stesso. Vaffanculo Bobby Brown, lo abbandonai al suo
destino e presi ad avventurarmi anarchicamente oltre la metà campo, anzi
dovette essere lui più volte a preoccuparsi di me e rincorrermi. I miei
compatrioti ripresero colore e finirono per avere più fiducia nei propri
mezzi: i fluidificanti cominciarono a fluidificare, le alette provarono a
volare, i geometri presero meglio le misure, i reparti iniziarono a parlare
fra di loro e non parvero più separati in casa, il sistema Italia provò
almeno ad essere virtuoso ed io istintivamente pensai ad "un nuovo
miracolo italiano".
Tutti parevano sottomettersi a quella nuova disciplina, tutti tranne lui, il
vegliardo. Il nostro goal lo colse in uno strano silenzio, poi riprese fiato
e tornò a rompere:
- Caruba, dove cazzo vai, rincula, torna sull'ala, coione! - Pretendeva che
tornassi a fare il bravo soldatino. Per un po' feci finta di non lo stare a
sentire.
I gallesi avevano smesso di fare il torello e gli spalti la smisero con gli
olè, anche se confidavano sui restanti due gol di vantaggio, che però
presto diventarono uno.
Accadde quando finalmente il Geometra, in una rapida ripartenza, riuscì a
mettere in moto sulla fascia destra Squinzi, er core der Testaccio, che,
dopo aver svolazzato lieve per un po', lasciò palla a Tiralli e fuggì via
veloce, dettando il passaggio. Il pugliese di prima intenzione lo servì a
puntino della sua specialità più prelibata, il lancio millimetrico, e
l'aletta capitolina pervenuta, a tutta birra, sul fondo, pascé un
traversone a mezza altezza sul primo palo. Quivi successe una cosa di cui
ancora si parla in molti Bar Sport: il solito Duca si librò con un saltello
plastico, che ai più parve un passo di danza, finendo per colpire
delicatamente la palla con il tacco destro di quel tanto che bastò a
prolungarne la traiettoria, mettere fuori causa il portiere gallese e finire
telecomandata sul capoccione di Scalabrin, rustico difensore, non si capisce
per quale motivo in libera uscita da quelle parti in quel momento. Il
friulano ebbe il tempo di accorgersi della scritta "Basta
spingere!" che quel pallone portava in fronte e obbedì. Correva il
minuto 68 e miracolosamente stavamo 4 a 3.
Fu in quel momento che i britannici barcollarono: un brivido freddo dovette
correre lungo le loro schiene, gli spalti ammutolirono, i giocatori parevano
provati, ma era ai bordi del campo che, fra quella gente, si palpava forte e
chiaro un certo nervosismo. Gli uomini in giacca e cravatta avevano ripreso
a muoversi smaniosamente e la donna di mezz'età in tailleur scuro
continuava a sorridere, ma di un sorriso che, ai miei occhi, mostrava ora
sfumature inquietanti, con venature, per la mia mente suggestionabile,
addirittura omicide.
Io avevo continuato a spingere a tutto campo e, modestia a parte, ero, in
quei minuti, il vero motore di quella selezione. Ora avevo pure il rispetto
dei miei compagni, anche se quel maledetto vecchiazzo continuava a
riprendermi. Ora mi sentivo a mio agio, non stavo più a pensare di starmi
giocando un quarto di finale mondiale e manco mi accorgevo più né di
spettatori ostili, né dei cronisti e dei loro taccuini. Stavamo giocando a
fubbol, sereni nella mente e nei muscoli, per il piacere di giocare, come ai
bei tempi andati nella spianata di Cammisazza.
Portavamo ancora i calzoni corti, quando approfittando di ogni ritaglio di
tempo disponibile, ci armavamo di pallone doppia gomma e correvamo laggiù,
dove la periferia diveniva campagna inoltrata. Era chiamata così, perchè
lì, a tale Perricone Matteo, detto Cammisazza, un giorno gli venne lo
spinno di costruirci un non-so-che-cosa e per questo fece prima spianare
quel terreno. Poi cadde in disgrazia e non se ne fece nulla, però rimase
quello spiazzo, che nella nostra fervida immaginazione di poveri
sicilianuzzi divenne meglio del Maracanà. Delimitavamo le nostre porte con
i pietroni o addirittura con le cartelle della scuola, quando decidevamo di
non entrare in classe e di fare Sicilia. Poi, sotto il pico del sole di
Luglio o sotto le botte d'acque improvvise di Settembre, erano solo partite
di pallone, ginocchia sbucciate nella ghiaia, goal-non goal per colpa di
pali e traverse fantasmi e risse interminabili, visto che si disconosceva
l'idea stessa di arbitro. Alla fine ci fiondavamo tutti a dissetarci al
vicino cannolicchio Bologna, dove l'acqua veniva fuori dalla sottostante
sorgente mogia e ghiacciata.
Anche allora avevamo il nostro Schibaldi, ai nostri occhi non ancora
disincantati, fuoriclasse in erba dentro e fuori la spianata di Cammisazza.
Era molto più dotato di me ed era lui la nostra leggenda. Io però,
caparbio, avevo in mente solo lui, il pallone e la fissazione di poter
calcare un giorno un vero prato verde, con veri spettatori e un vero tele o
radiocronista, che commentasse le mie gesta pedatorie. Intanto talvolta,
mentre correvo con la palla fra i piedi, mi ritrovavo a commentarmi da solo,
a voce alta:
- Ecco Carrubbazza Stefano che avanza imperterrito sulla fascia, scambia la
palla col compagno Casamento Tanino (il piccolo Schibaldi), che gli torna la
sfera, Carrubbazza entra in area, converge, elude l'intervento del portiere
e ...goal! -
Poi le strade si divisero, appese presto le scarpettine al chiodo e prese a
seguire certi pifferai che gli indicavano modelli di vita ben più massicci,
da omini veri.
Da tempo ora Casamento Tanino giaceva ospite presso il carcere dell'Ucciardone,
accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ogni tanto mi
scriveva delle lettere, era un mio accanito tifoso e addirittura con i
compagni di cella aveva fondato un "Carrubbazza Fans Club".
Al minuto 70 Matusalemme si convinse di fare un
cambio. Inizialmente non capimmo bene a chi toccasse uscire, visto che quei
tirchiazzi manco i cartelli con i numeri avevano in dotazione. Poi vennero a
riferirmi che era me che il vegliardo voleva sostituire. Rimanemmo
interdetti, stavo giocando la partita della vita e lui mi faceva fuori.
Lemme lemme e a capo chino mi stavo incamminando verso gli spogliatoi,
quando mi sentii richiamare:
- 'aruba, pezzo di scemo dove 'azzo vai? - mi girai, era il Duca Schibaldi:
- Tu non ti muovi da qui, lascialo fottere! - Non dissi nulla, mi fermai, ma
ero palesemente frastornato. Il cinese farfugliò qualcosa e con teatrali
movimenti delle braccia m'indicava qual'era l'uscita. In fondo vedevo
l'arcaico dimenarsi. Allora il Duca sollevò le braccia e gli indici al
cielo e, con modalità che non ammettevano repliche di sorta, fece segno
ripetutamente di no verso la panchina. Furono attimi di notevole tensione.
Poi si vide la figura del cittì mandarci platealmente al diavolo e tornare
finalmente a sedere. L'uomo di Hong Kong si vide tutta la scena, rimase per
un attimo interdetto, quindi fece riprendere la partita: ero rimasto in
campo e, come in quel vecchio film di mare, pensavamo di esserci pure
liberati del nostro decrepito comandante.
Ripartimmo con più accanimento di prima: ristrappai palla a centrocampo e
la depositai sui preziosi piedi del gobbo maledetto, che senza manco
guardare lanciò in avanti in un punto, ove sapeva che si sarebbe
scapicollato quella pantera del Duca e così fu. Il nostro fuoriclasse si
avventò su quella sfera, se la sistemò alla meglio e partì diretto,
ancora una volta, verso la porta. Ero certo che non l'avrebbero ripreso e
che avremmo fatto 4 a 4. Avanzò solitario sino al limite dell'aria, dove
quella bestia di difensore rosso mal pelo, che non ricordo mai come si
chiamasse, vistosi perso lo zapponò da tergo, infierendo con violenza
inaudita su quegli stinchi aristocratici. Il Duca volo in avanti e cadde
pure male. Lo sentii urlare e chiedere aiuto. Si teneva la gamba destra.
Quando mi avvicinai mi prese la nausea davanti alla vista agghiacciante del
suo piede destro penzolante, quasi disconnesso dalla gamba. Se lo portarono
via i barellieri, mentre continuava a piangere come un bambino: frattura
scomposta di tibia e perone fu la mia diagnosi presuntiva, abbastanza
probabile, anche se non ero un dottore.
Perdevamo il nostro carico da undici, ma almeno mi consolavo all'idea che
saremmo tornati in parità numerica, visto che il rosso malefico, in virtù
della regola dell'ultimo uomo e del fallo assassino da tergo, andava
cacciato via a pedate. Con fare teatrale l'ineffabile giacchetta nera di
Hong Kong gli si avvicinò, cercò per un po' fra le sue carte e finalmente
gli schiaffò in faccia il cartellino che si meritava: GIALLO!
Incredibilmente ancora una volta quello sciagurato non si smentiva. Lo
sommergemmo un'altra volta di casacche azzurre, ma rimediammo solo altri due
gialli sul nostro groppone.
Per sostituire l'insostituibile Duca, in panchina avevamo comunque in canna
una valida cartuccia: lo stagionato cannoniere di Bassano del Grappa, Edmeo
Soncin, vecchio bucaniere delle aree di rigore, ora a corto di benzina, ma
perniciosissimo quando entrava a partita inoltrata.
Vedemmo accanto al vegliardo una sagoma riscaldarsi saltellando, ma ci parve
poco massiccia per essere quel tronco d'uomo di Soncin e di fatti non era
Soncin.
- E' il poppante, è il poppante - urlò allarmato qualcuno
- Minchia, vero u poppante è - esternai a voce alta. Qualcuno si mise le
mani nei capelli.
Il poppante era Pietro Paolo Puddu, sardo, chiamato così da noi perchè la
bocca, a dire di molti, gli puzzava ancora di latte, avendo solo vent'anni.
Era stato portando in gita premio, essendo una promessa, ma era ancora
ritenuto acerbo per certi palcoscenici. Era un'attaccante esterno, ma
fisicamente ci appariva, come dicevano dalle mie parti, "Soffia, che
vola", troppo filiforme per quei nerboruti di gallesi.
Chissà perchè, con una certa cognizione di causa, a quel punto pensai che
si trattasse della vendetta dell'uomo chiamato cittì, morsicato dalle vespe
per il nostro ammutinamento.
Correva il minuto 73, ripartimmo, è vero, ancora all'arma bianca, ma meno
convinti di prima e con più disordine fra le fila. Ci scoprivamo
pericolosamente e, anche se gli avversari mi parevano veramente sulle
ginocchia, ci esponevamo al loro contrattacco. E cosi puntualmente avvenne:
al minuto 75 un liscio di Taraschi, l'uomo più arretrato, all'altezza del
cerchio del centrocampo, aprì a Charly Brown un'autostrada per la nostra
porta e per la sua gloria. Avanzò indisturbato nella nostra metà campo,
Gentilozzi III gli andò incontro (sentii distintamente tintinnare tutte le
sue medaglie mentre si muoveva) fin fuori area, nel tentativo
d'intercettarlo. Fino a che non si ritrovarono uno contro l'altro, il
fringuello gallese e il vecio piemontese quasi canuto, temprato da mille
battaglie, oramai quasi quarantenne. Gentilozzi cercò disperatamente gli
occhi dello straniero, come se volesse trasmettergli un qualche fluido
alloppiante. Poi Charly optò per l'ipotesi più vistosa, dribblarlo,
metterlo a sedere, entrare in porta con la palla e metterci una pietra
tombale su quella maledetta partita e su quei tignosi d'italiani. Fece tutto
discretamente a puntino e sarebbe riuscito certamente nel suo intendimento,
se non fosse stato per quel lunghissimo tentacolo del nostro, a cui bastò
pizzicare a malapena la sfera, per mandare a scatafascio tutti gli ambiziosi
propositi del giovane britannico, che vistosi perso, però, si lasciò
cadere spregevolmente come se fosse stato falciato da una mietitrebbia
quanto meno.
La porta era salva, ma vidi Gentilozzi III, furente, sfilarsi i guanti, e,
innocente, prendere la via degli spogliatoi, espulso.
A quel punto la logica avrebbe detto di tirare via un giocatore per mettere
dentro il secondo portiere. Ma dalla panchina il vecchio bacucco, in vena di
togliersi sassolini dalla scarpa, nè si mosse, nè fece muovere nessuno e
ancora una volta ce la dovemmo sbrigare da noi. Attard, il mezzo francese,
indossata la gloriosa maglia di Gentilozzi corse verso la nostra porta,
improvvisandosi estremo difensore.
Col cinese stavolta manco avevamo reagito e manco lo avevamo sommerso,
avendo preso coscienza della sua consistenza di gomma.
Eravamo 9 contro 11, ma, morsi dalla tarantola per l'ennesimo sopruso, posso
assicurarvi che questa differenza in campo non la vide nessuno. I gallesi
stavano completando la loro trasformazione in pallide sagome di cartone,
parevano ectoplasmi e noi, pienamente consci di ciò, avremmo vendicato il
sacrificio del vecio Gentilozzi III.
In realtà stavamo giocando addirittura in 8. Puddu, il poppante, come era
prevedibile, stava ai margini di tutte le nostre manovre e il fatto che per
noi era come se non esistesse, poveraccio, lo abbatteva a tal punto, che lo
sì vedeva vagare per il prato verde, alla ricerca di un improbabile buca,
ove sprofondare.
Questo fino al minuto 77, quando, come lupi famelici, ci avventammo per
l'ennesima volta sulla preda oramai in balia nostra. L'aletta Squinzi
viaggiò come un pendolino, una volta in più, sulla fascia destra e finì
per crossare di fino dal fondo campo, i mastodonti gallesi dentro l'area
respinsero di testa con affanno quel pallone, che finì dalle parti del
semicerchio che delimitava il limite dell'area. Appostato lì si trovava
quel gobbo maledetto di Tiralli, che, coordinatosi divinamente, scoccò un
tiro velenosissimo che partì basso per poi innalzarsi, destinazione sette
di sinistra. Il pareggio pareva cosa fatta, ma la palla andò a schiantarsi
giusto sull'incrocio dei pali, in una maniera così veemente, cosicchè
dagli spalti tutti poterono udire chiaramente quel tipico suono metallico,
fesso, decisamente irriguardoso per le fatiche dei cannonieri.
Fu a quel punto che il destino volle che il rimbalzo prediligesse proprio la
sagoma adolescenziale del poppante Puddu, appostato solitario a tre metri
della porta sguarnita. Ci sarebbe stato tutto il tempo di aggiustarsi la
palla a dovere, prendersi un caffè e comodamente poi insaccarla, ma, forse
immerso ancora in pensieri autosvalutativi, il giovane sardo, prima perse
qualche istante a rendersi conto di essere stato lui il prescelto dalla dea
bendata, poi attraversato da capo a capo da una sorta scarica epilettica,
terrorizzato, finì per colpire fulmineamente quella sfera, alla come veniva
veniva, quasi si volesse liberare di essa al più presto possibile. Il
risultato fu che la colpì così sciaguratamente, da riuscire nell'impresa
titanica di mandarla di una spanna ben sopra la traversa.
Lo stadio prima ammutolì e poi dovette riprendere colore, perchè riprese
forte il fracasso.
Il lumbard Taraschi sconcertato, passando innanzi a quel che restava del
poppante, riverso a terra esanime, gli gridò con voce stridula nelle
orecchie:
- Che cazzo hai fatto, sardignolo di merda! - Vada per la merda, ma lo
storpiamento odioso del termine sardo, dovette sembrare troppo al giovane
Puddu, perchè riemergendo in un istante dalle nebbie del suo doloroso
torpore, si rialzò di colpo, finendo per serrare con la mano sinistra il
collo del compagno e preparandosi a fiondare con il braccio destro un pugno
sul volto dello stesso. Fortuna che mi trovavo nei paraggi e che riuscii a
spostare di forza il poppante, facendolo desistere dal suo intento cruento,
prima che succedesse l'irreparabile.
Mentre a braccetto lo allontanavo, lo udii singhiozzare sommessamente, ma
forse fu solo una mia impressione. Gli dissi solo: - Cazzo, Puddu
ripigghiati! C'è tempo, c'è ancora tempo, porco zio! - poi lo lasciai al
suo destino, perchè nel frattempo la partita era ripresa.
Il disdicevole accadimento, però, almeno servì a
scuoterlo, perchè presto, preso dai Turchi, vedemmo, il poppante,
spiritato, iniziare a correre appresso ad ogni pallone, in tutte le parti
del campo, a vuoto e senza senso, ma comunque non più fantasma.
La delusione per il mancato pareggio, invece, pareva avere ottenebrato le
nostre menti stravolte dalla fatica; continuavamo ad attaccare a testa bassa
contro un avversario in coma irreversibile, ma senza costrutto.
Poi al minuto 79 accadde un evento straordinario: fu
quando il Geometra, a spasso per la trequarti avversaria in evidente crisi
d'idee, d'un tratto si sentì investire da tergo da qualcosa, che aveva la
veemenza di un TIR imbufalito. Di certo non poteva manco lontanamente
immaginare che trattavasi di Puddu, il poppante, che, spintolo via con una
spallata assassina, finì per fuggire via in avanti con il pallone,
ingobbito, come a volere caricare tutti coloro, avversari o compagni, che
avessero osato intralciargli il cammino. In realtà caricò la spingarda,
perchè arrivato ai venticinque metri, senza preavviso, lasciò partire una
randellata orba, che passò sopra la teste di tutti e finì per fare secco
O'Brien, l'armadio a due ante a difesa della porta gallese, che manco si
mosse, paralizzato dall' evento.
La palla era nel sacco, ma nessuno, per tre o quattro secondi buoni, si
mosse. Nessuno si riprese subito dalla buona o cattiva nuova, né gli
avversari, né noi, né tantomeno Puddu, tutti rimanemmo come immobilizzati
da un misterioso sortilegio, svanito il quale poi iniziammo a convergere da
tutte le parti del campo verso il sardo, al che tornò in se pure lui e
scappò via. Iniziò allora una bizzarra caccia all'uomo, una specie di
manfrina, per cui lui, facendo platealmente segno di no col dito indice, si
sottraeva al nostro abbracciò, ma noi seguitavamo a braccarlo imperterriti.
Fortunatamente i giocatori di fubbol hanno la memoria corta, per cui lo
raggiungemmo, lo sommergemmo, lo schiacciammo sotto una montagna di carne in
sofferenza anaerobiotica e di teste fradice per l'inzuppa villano di oramai
quasi novanta minuti di polvere d'acqua ininterrotta.
Il cinese ammonì pure Puddu per la perdita di tempo,
ma oramai non avevano più scampo, mancavano più di dieci minuti, ma
avremmo potuto fare pure dieci goals, tanta era il nostro strapotere su quei
morti viventi.
I bordi del rettangolo di gioco tornarono a fremere di un'attività
incessante. Temevo che gli uomini in giacca e cravatta facessero d'un tratto
invasione di campo, tanto erano vicini alle righe. La donna col sorriso
stampato in volto continuava a dare ordini, che mi parevano tassativi,
comunque le loro facce non facevano presagire nulla di buono.
Continuammo ad essere padroni del campo: indiavolato
strappai un'altra palla a centrocampo ad un rimbambito Bobby Brown e la
deposi con riverenza fra i piedi preziosi di quel folletto di Tiralli, che
di prima lanciò Squinzi, er core de Roma. Questi avanzò sulla fascia
destra non incontrando resistenza alcuna, arrivato sul fondo, fintò il
cross, ma in realtà, liberatosi come un birillo di un avversario, avanzò
verso la porta, il portiere cercò di chiudergli la visuale, ma Squinzi
visto Puddu solo davanti la rete, gli allungò la palla: fu un gioco da
ragazzi per il poppante insaccarla.
Era il sacrosanto goal della vittoria, ci apprestavamo nuovamente a fare
cagnara, quando scorgemmo il guardalinee, cinese pure lui, fermo con la
bandierina alzata. Il sangue ci gelò in corpo, aveva avuto l'ardire di
chiamarci il fuorigioco: la congiura dagli occhi a mandorla era ora
completa.
Ci disperammo ancora, ma c'era tempo, c'erano ancora nove maledettissimi
minuti più recupero, non vedevamo ostacoli di sorta per la riuscita del
nostro intento: pensavamo che nulla ci potesse comunque fermare.
Mentre aspettavamo che riprendesse la partita,
rifiatammo un attimo e mi accorsi che la luce ci aveva quasi salutato.
Aspettavamo che il portiere rimettesse dal fondo, ma non vedevo il pallone,
non c'era più il pallone. O'Brien lo attendeva con le mani nei fianchi
senza disperarsi, pensai alla solita perdita di tempo di chi teme seriamente
di buscarle. Andai io stesso a reclamarlo sul fondo, ma non c'era manco
l'ombra del pallone e per giunta fui affrontato da due tipi in giacca,
cravatta e occhiali scuri che mi sorridettero sardonicamente e mi
invitarono, con fare garbatamente intimidatorio, a tornare in campo. Cercai
inutilmente aiuto dall'ineffabile giacchetta di Hong Kong, ma al solito
quello era sordo ad ogni nostro richiamo e continuava a ridermi in faccia.
Aspettammo inutilmente almeno cinque minuti buoni
sperando di riprendere a giocare. Intorno si andava facendo un silenzio
sempre più surreale, poi smanioso non seppi stare più con le mani in mano
e mi feci il giro dei compagni invitandoli alla rivolta: - Che minchia
significa? Chi cazzo stiamo aspettando? -
Li guardai uno per uno, mi parve che il sacro furore fosse scomparso dai
loro occhi, si stavano sgonfiando, parevano già dei sacchi flosci. Come
rassegnati, addirittura sfuggivano il mio sguardo, manco mi stavano a
sentire e lessi pure paura nei loro occhi. Solo Puddu mi veniva dietro come
un cagnolo, presenziando silenzioso alle mie sfuriate e calandomi in
continuazione la testa. Alcuni gallesi mi guardavano imbarazzati, altri
invece sembravano sapere il fatto loro e rividi in essi quella luce
sfumatamente insolente d'inizio partita.
Il tempo passava e la partita non riprendeva. Una
sensazione di freddo prima accennata, poi sempre più fastidiosa, iniziò a
percorrere le mie ossa, inesorabilmente.
Poi scorgemmo un certo movimento dalle parti di un cancello sbarrato dietro
la nostra porta. Lì si era formato un capannello di gente, che cresceva di
minuto in minuto. Mi sembrò d'intravedervi tutti gli uomini in giacca e
cravatta e pure la donna di mezz'età in tailleur, ora esplicitamente
eccitata.
Quando quella folla s'ingrossò a dismisura, udimmo tutti distintamente quel
suono.
Era riprodotto senz'altro da uno strumento a fiato, credo da un corno. Lo
associai per istinto ai Nibelunghi, alle sagre del Nord, ai giornaletti del
mitico Thor della mia infanzia. Era un suono arcano e un po' soffocato,
prolungato, sentii il gelo crescere di più dentro le mie viscere.
Quando i custodi dello stadio aprirono quel cancello, la gente lemme lemme
varcò quella soglia ed entro nel campo da gioco sempre più numerosa, dando
origine ad una inusitata processione. Procedevano silenziosi e il ritmo dei
loro passi non mi sembrava scoordinato, anzi direi che fosse cadenzato, non
era un gregge quello che si muoveva, ma quasi una moltitudine in parata.
Quando la testa di quel corteo poi passò dalle mie parti, mi accorsi
distintamente della prima fila. Vi erano personalità che dovevano essere
importanti, oltremodo importanti, perché alla loro vista i giocatori
gallesi si disposero subito sull'attenti e in rigorosa fila, come se
dovessero risuonarsi gli inni nazionali o dovessero essere passati in
rassegna. Il pubblico sugli spalti si era già con delicatezza messo tutto
in piedi e rimase in religioso silenzio tutto il tempo.
Al centro della testa del corteo ve ne erano due che dovevano essere
veramente malmessi, perché avanzavano spinti su delle carrozzine. Credo
fossero un uomo e una donna e dalle facce scavate che si ritrovavano
dovevano essere molto malati o forse più probabilmente molto molto vecchi.
Apparivano affaticati e il maschio addirittura mi parve respirare
penosamente, a bocca aperta. Ai loro lati deambulavano autonomamente due
donne, abbastanza giovani. Avevano guance decisamente pasciute e la loro
carnagione era mirabilmente chiara, così come le loro capigliature,
tagliate corte e così come i loro vestiti, di un viola pallido appena
accennato. Li giudicai nordiche, ma di un nordico estremo, così come anche
gli altri due, quelli di salute cagionevole, che vestivano pure loro di
chiaro, l'uomo di un verdino pallido, la donna di rosa. Tutti e quattro poi
portavano delle curiose lenti da sole molto strette in altezza, tanto che li
associai ai mezzi occhiali da presbite. Avevano un portamento fiero,
austero, gli sguardi persi in avanti, quasi avessero dei paraocchi, e
nasini, piccoli e graziosi, in aria, come pure i loro menti, moderatamente
prognati.
Avvertivo in loro un nonsocchè di antico, di mai percepito prima, un odore
di quasi estinto, come di cordoni ombelicali non recisi con cose misteriose
che si perdevano nella notte dei tempi. Sicuramente erano imparentati, e le
donne potevano essere sorelle e chissà forse anche gemelle.
Dietro li seguirono altri e altri ancora. Prima mi
passarono innanzi facce di notabili e fra loro scorsi la donna in tailleur
che aveva ritrovato quella sua specie di sorriso falso Poi fu la volta degli
uomini in giacca e cravatta e quindi sfilarono le forze dell'ordine in
divisa e no.
Io e Puddu andammo a presentare le nostre rimostranze
al cinese, che per tutta risposta ci sventolò due cartoncini rossi.
Quindi sempre ordinatamente e in fila per quattro
iniziò a entrare in campo la gente comune.
Si poteva vedere il serpentone avanzare lento sul prato verde, fino a che
formò una sorta di gigantesco otto.
Il buio poi continuò ad avanzare, tanto che in molti accesero le fiaccole e
il serpentone s'illuminò.
La polvere d'acqua seguitava a venire giù in incognito, il ghiaccio a
calare sulla mia persona, fino ad impadronirsene....
Dopo senz'altro avremo perso ai rigori o al
famigerato golden goal. |