Paolo
Loriga
ho trentun anni e ho molte passioni, tutte comunque facenti capo all’arte, parlo di letteratura, musica e cinema. Personalmente mi diletto a scrivere, cantare e leggere. La passione per la scrittura, quando c’è, è tale da non conoscere confini di metodo, contenuto e forma. Infatti fosse per me scriverei in maniera artistica anche la lista della spesa, è proprio una passione…. Se mi viene in mente un argomento parto…e…si salvi chi può! Quindi posso scrivere testi, soggetti, poesie…insomma, dipende dalle esigenze, il fatto importante è che comunque lo faccio sempre con serenità e soddisfazione! Ovviamente come tutte le forme d’arte, il piacere è maggiore se condiviso da altri.. |
I MIGLIORI
Società sempre più evolute cullano menti distratte, occhi attenti, scrutano orizzonti già dipinti da altri, cantati da altri ancora e…vedono, vedono ma non credono…tutti quegl’occhi in asse tra loro, espressioni di coraggio, stupore, rammarico, emozioni distorte, come frequenze abilmente campionate, parole scritte bene, apostrofi azzeccati troncano sentimenti aggrappati al cielo, un cielo scuro, carico di nuvole, odore di ozono già sostituisce profumi melensi, intensi, laddove glicini e mimose sottolineavano amori in corso amori stagionati stagioni non finite perché non consumate, là si celano i migliori…i migliori non sono quelli più bravi a correre, no, i migliori non sono i migliori e basta, loro, loro non lo sanno di essere migliori perché soli, perché isolati nel loro coraggioso folle momento, isolati da un mondo immobile che non gira più intorno allo stesso loro sole, un mondo che cade e si rialza e non cura ferite laceranti, non medica e non guarisce, non vuole guarire…i migliori stanno là, sotto ai rumori assordanti di una sporca e inutile città, nascosti tra i passi frenetici e maleodoranti meandri di stupide gabbie, i migliori non sanno di essere migliori, non vogliono esserlo, per questo già si alzano, camminano stanchi e scorgono la follia che avvolge la nebbia, la individuano chiaramente, la tagliano e la mettono in un panino di rimpianti, colmandolo di gusti amari, ripensando a quel momento in cui una mano, un cervello impazzito, hanno dato loro quella nuova scomoda collocazione, forse meno innaturale del previsto visto che ora loro, i migliori, sono nudi, sono fieri, sono acuti, ma, soprattutto, sono sensibili, sono consci di quanto amore corre nelle metropolitane di sentimenti sbiaditi, quanto difficile sia afferrarlo, trasformarlo in un puro momento di felicità, in una carriera opportunista, in un perfetto cliché da rispettare, in un futuro senza rimpianti, senza dolori, in un futuro che volava tanto basso da non credere di poterlo afferrare, una gioia breve, sottile, profumo inebriante mal colto…I migliori sanno che la serenità si è accanita un giorno con loro, li ha obbligati ad essere dettaglio sconclusionato di un disegno fatto a mano, bel disegno, non fosse per l’abile ricalco che loro, i migliori, rifiutano, loro, caduti nella trappola della debolezza umana, loro, sono agli angoli di una società che premia chi si arrende e mette ko chi lotta senza forze, chi lotta per un’idea, al punto di ucciderla quell’idea, insieme alla miglior consapevolezza di essere anche loro parte di quel disegno e la loro fierezza compensa la noiosa critica che altri animi meno lacerati non fanno che infondere nell’aria stanca di un gelido via vai, ora che il metro passa e lascia una scia di vento quell’aria sgradevole risolleva gli animi stanchi ma decisi, decisi a passare un’altra notte a cinque stelle nell’albergo delle anime salve… 2------------------ ANDERSEN Attimi logorati da ricordi malcelati….così il vecchio Andersen amava carteggiare e ridipingere le pareti del vecchio capanno, stanco come lui, anch’esso aveva registrato modifiche di umori, climi impazziti, alluvioni sentimentali e tutti quei passi così poco calcolati, poco calibrati…il peso delle presenze estranee a quel capanno, i riti frettolosamente consumati, le fughe da un mondo troppo stretto, le gocce d’acqua spesso inaspettate, scivolate dal tetto ma non dai corridoi intasati della memoria… l’ospitalità data suo malgrado a giovani e vecchi insetti, che forse, più di quei passi e di altri sguardi chissà dove chissà quando, animavano e coloravano angoli deserti. Le corse, gli occhi bassi per non vedere il proprio disagio riflesso in frammenti di specchi pezzi da museo…i momenti della "sedia", così amava chiamare quegli spazi racchiusi tra un’ insoddisfazione e un misterioso sogno da realizzare…Andersen aveva passato anni e anni ad aspettare, ad aspettarsi, correva così veloce che la sua stessa ombra a volte, più veloce di lui, lo precedeva, lo inchiodava a quella sedia mezzo traballante e lo obbligava a guardarsi dentro, a fare i conti non già con una coscienza stanca e con progetti mancati ma con tutto quello che ancora poteva e doveva fare per trasmettere quell’energia non spesa a chi meglio di lui avrebbe potuto farne buon uso. I ponti tagliati con ogni componente della famiglia d’origine e di quella che lui stesso aveva voluto creduto e cullato per anni, fino a quando….fino a quando la resa diventava la soluzione al peso dell’incapacità di affrontare e mediare situazioni scomode. Andersen, in questo suo esilio volontario, non aveva mai perso il contatto con la realtà. Un enorme acquario, abilmente illuminato e furbescamente amplificato da una grande lente. Un gioco, quello, così difficile da capire…Chi era dentro la vasca e chi fuori? Chi libero e chi prigioniero? Chi a fuoco e chi sfocato? Andersen aveva scelto di non capire più, voleva solo analizzare, registrare, interpretare ma non giustificare, gli obblighi di una società che aveva combattuto e che, forse, non lo aveva capito. Il suo talento non era così tangibile e pronto all’uso come quello di un abile artigiano o di un medico, non il suo, lui aveva scelto di vivere con quel poco che gli bastava, aveva lasciato dietro sé ogni elemento e complemento non strettamente necessario alla sopravvivenza di ciò che riteneva davvero importante, la sua anima, il suo sopravvivere con dignità…in un mondo non più schiavo. Mentre Lui continuava a logorarsi nella sua accanita solitudine, Marion, la moglie, Peter, l’unico risultato di quell’improbabile unione, vivevano in una casa non lontano da lì, avevano ormai ricreato una specie di armonia che non aveva mai escluso il ruolo di quell’infelice ometto dai capelli grigi e la barba incolta, la sua camminata così stanca ma elegante non aveva mai abbandonato quelle stanze della vecchia casa, non aveva , soprattutto, perso il ruolo che solo a lui spettava e nessun altro avrebbe potuto o voluto interpretare. Ecco, ora, al suo diciottesimo anno d’età, era Peter il vero perno di questa strana famiglia tanto unit dalle sue stesse distanze e ora ne Peter né Andersen avrebbero potuto avere la minima idea di quale ruolo destino e natura, maledettamente alleati, li avrebbero chiamati a sostenere. 3---------------------------- Attimi logorati da ricordi malcelati….così il vecchio Andersen amava carteggiare e ridipingere le pareti del vecchio capanno, stanco come lui, anch’esso aveva registrato modifiche di umori, climi impazziti, alluvioni sentimentali e tutti quei passi così poco calcolati, poco calibrati…il peso delle presenze estranee a quel capanno, i riti frettolosamente consumati, le fughe da un mondo troppo stretto, le gocce d’acqua spesso inaspettate, scivolate dal tetto ma non dai corridoi intasati della memoria… l’ospitalità data suo malgrado a giovani e vecchi insetti, che forse, più di quei passi e di altri sguardi chissà dove chissà quando, animavano e coloravano angoli deserti. Le corse, gli occhi bassi per non vedere il proprio disagio riflesso in frammenti di specchi pezzi da museo…i momenti della "sedia", così amava chiamare quegli spazi racchiusi tra un’ insoddisfazione e un misterioso sogno da realizzare…Andersen aveva passato anni e anni ad aspettare, ad aspettarsi, correva così veloce che la sua stessa ombra a volte, più veloce di lui, lo precedeva, lo inchiodava a quella sedia mezzo traballante e lo obbligava a guardarsi dentro, a fare i conti non già con una coscienza stanca e con progetti mancati ma con tutto quello che ancora poteva e doveva fare per trasmettere quell’energia non spesa a chi meglio di lui avrebbe potuto farne buon uso. I ponti tagliati con ogni componente della famiglia d’origine e di quella che lui stesso aveva voluto creduto e cullato per anni, fino a quando….fino a quando la resa diventava la soluzione al peso dell’incapacità di affrontare e mediare situazioni scomode. Andersen, in questo suo esilio volontario, non aveva mai perso il contatto con la realtà. Un enorme acquario, abilmente illuminato e furbescamente amplificato da una grande lente. Un gioco, quello, così difficile da capire…Chi era dentro la vasca e chi fuori? Chi libero e chi prigioniero? Chi a fuoco e chi sfocato? Andersen aveva scelto di non capire più, voleva solo analizzare, registrare, interpretare ma non giustificare, gli obblighi di una società che aveva combattuto e che, forse, non lo aveva capito. Il suo talento non era così tangibile e pronto all’uso come quello di un abile artigiano o di un medico, non il suo, lui aveva scelto di vivere con quel poco che gli bastava, aveva lasciato dietro sé ogni elemento e complemento non strettamente necessario alla sopravvivenza di ciò che riteneva davvero importante, la sua anima, il suo sopravvivere con dignità…in un mondo non più schiavo. Mentre Lui continuava a logorarsi nella sua accanita solitudine, Marion, la moglie, Peter, l’unico risultato di quell’improbabile unione, vivevano in una casa non lontano da lì, avevano ormai ricreato una specie di armonia che non aveva mai escluso il ruolo di quell’infelice ometto dai capelli grigi e la barba incolta, la sua camminata così stanca ma elegante non aveva mai abbandonato quelle stanze della vecchia casa, non aveva , soprattutto, perso il ruolo che solo a lui spettava e nessun altro avrebbe potuto o voluto interpretare. Ecco, ora, al suo diciottesimo anno d’età, era Peter il vero perno di questa strana famiglia tanto unit dalle sue stesse distanze e ora ne Peter né Andersen avrebbero potuto avere la minima idea di quale ruolo destino e natura, maledettamente alleati, li avrebbero chiamati a sostenere. |