Francesco
Pasqua
scrivo |
Mentre fuori piove
Mi piace la pioggia.
Ho piazzato la mia scrivania sotto la finestra anche perché non mi
sfuggissero giornate del genere. Mi piace vedere la pioggia scorrere sui
vetri, ricamare d'ombra le mie mani asciutte, riempire di buona tristezza i
miei occhi, accompagnare col suo tango sottile il confondersi delle cose di
là dal vetro. "Ascoltami" sembra dire, e io ascolto.
La vedo sbuffare dalla grondaia del palazzo di fronte, farsi pozzanghera
vicino al portone, schiumare e svignarsela per Via Pasolini, laddove quasi
ogni passante ha un ombrello per cappello e viceversa. E c'è anche chi si
ferma sotto un cornicione, ci ripensa e allora saltella verso casa tra uno
schizzo e l'altro. Quel tizio non riuscirà mai ad accenderla quella pipa:
è già al suo dodicesimo tentativo.
S'accende invece il motore di un'auto sotto casa mia. Un gatto allora
attraversa velocissimo la strada mentre quello che fino a un istante prima
era il suo riparo più sicuro, sgomma via nell'ingorgo del rientro.
Strano. Serena giunge soltanto adesso.
Avrebbe dovuto essere in camera già da un quarto d'ora. Undici secondi
netti e aprirà la porta di casa sua. Otto, nove, die... Deve essere
affamata. E soprattutto dev'essere sola: ha lasciato lo zaino davanti alla
cucina e nessuno è venuto a salutarla.
Stamattina a scuola è venuta con le trecce. Quelli della 3ª D l'hanno
presa in giro per tutto il tempo della ricreazione. Stronzi. L'avessi io la
fortuna di stare in classe con lei.
Mi piace Serena.
Ho spostato la scrivania sotto la finestra proprio perché non mi perdessi
il suo viso mentre studia. E' dolce quando legge. Solitamente si tortura una
ciocca tra le dita poi, complice la sua fida penna blu, bussa alle proprie
labbra perché possano ripetere quello che ha appena letto. Talvolta alza
gli occhi e le capita di perdersi nella foto che la ritrae felice accanto al
suo ragazzo.
Si chiama Silvano e io di lui ne valgo almeno dieci.
Conobbi Silvano alla fine dello scorso anno
scolastico, durante il concerto organizzato dagli studenti del quinto.
Partecipavano tutti i gruppi della scuola e l'unico a non esser riuscito a
mettere su una band fui io. Testardo, m'iscrissi come solista, negandomi la
dolce pace del sonno per un'intera settimana. Inoltre...
La mattina del fatidico giorno ero muto e infreddolito per la paura. Facevo
avanti e indietro per il cortile, freneticamente, le mani in tasca, gli
occhi smarriti e la tachicardia in piena efficienza. Se n'accorse anche
Guido. La sua stretta fraterna mi risollevò un po' ma già un minuto dopo
stavo escogitando la scusa migliore per tornare a casa.
"Non fare lo stronzo, che diranno gli altri?"
"Perché? Se resto e canto diranno qualcosa di meglio?".
L'arrivo di Serena poi peggiorò le cose.
Lo stomaco mi s'appallottolò nel momento stesso in cui fiotti di tabasco
parevano irrigarlo. Mi costrinsi a guardare altrove ma il tentativo mi fu
impedito dallo sprovveduto che, pur di raggiungere la sua amata, mi travolse
facendomi cascare di schiena.
Non mi feci niente.
La chitarra che portavo a tracolla sì.
Erano saltati il re e il sol.
"Scusa, non t'ho visto... Stai bene?"
"Io sì. La chitarra quasi..."
"Ti presto la mia.".
Parlami di te
ma senz'aprire bocca
sfiorami coi tuoi capelli,
col tuo respiro e con la tua forza,
io t'ascolterò,
senz'aprire bocca,
t'ascolterò.
Non so cos'accadde, sarà stata l'amplificazione, il
silenzio che improvvisamente scese a coprire il brusio, l'eccitazione
d'averla lì davanti, bella e ignara, o forse la consapevolezza di tenere
tra le braccia una chitarra destinata a suonare solo per lei, o tutte queste
cose insieme, non lo so, tant'è che io quel giorno cantai come non mai,
come non ho più saputo fare nemmeno chiuso nel buio del mio armadio.
Raggiunsi l'ultimo accordo quasi senza rendermene conto, ringraziai e scesi
dal palco sospinto da un soffio d'imbarazzo regalatomi dal fresco applauso.
Porsi la chitarra e ripresi la mia sulla spalla. Dissi qualcosa, non ricordo
cosa. Poi Silvano baciò Serena a un metro soltanto da me, si fece largo tra
gli altri e raggiunse il palco.
Non l'avevo mai vista da così vicino. Mi colpì quel suo neo accanto al
naso. Piccolo, piccolissimo. E il suo naso. Preciso e indisponente. Mi
colpì il pollice della sua mano sinistra addormentato nel pugno della
stessa. E poi le ciglia. Pettinavano l'aria quelle ciglia. E il collo.
Profumava di vaniglia. Lo capii non appena un soffio mi raggiunse fino in
gola, non appena lei si voltò per interrogare tutto quel guardare. Mi
sorrise e io persi il cuore nel rullante. Balbettai qualcosa con gli occhi,
poi spostai lo sguardo altrove, sulle nuche davanti e infine su Silvano al
microfono. Stava sussurrando frasi roche, giri di parole, concetti ovvi
studiati apposta perché tali non sembrassero. E Serena doveva sospettarlo.
Almeno a giudicarla da quell'altro sorriso così distante dai suoi soliti.
In prestito direi. Sì, perché tornai a fissarla. Senza rendermene conto,
ancora una volta e una volta per tutte tornai a toccarla con gli occhi.
Finché un acuto di chitarra distorta non mi raggiunse in pieno stomaco.
Come un rimprovero.
E ora la pioggia. Interminabile e intensa, di taglio
e di schiaffo. Là fuori sul marciapiede di sotto. Non c'è più nessuno. In
casa i passi di mia madre sono lenti, fastidiosi come la puntina su un
vinile impolverato. Mi dice che va a riposare di là. Dovrei iniziare a
studiare. Prendo un libro ma Serena ha appena attraversato il corridoio. E'
in camera. Apre la finestra e dà un'occhiata in strada. Potrebbe vedermi e
allora mi ritraggo un attimo. Sembra stia cercando qualcuno. Si volta.
Qualcosa non va. E non è il riflesso grigio del cielo sul muro sopra la
scrivania. E' quella foto. La stacca, poi scappa. In bagno. Da qui non si
vede ma posso intuirlo dalla luce gialla sulla parete all'ingresso.
Ombre.
Ombre di braccia che strappano. Mi pare.
Il giallo scompare dalla parete. Serena raggiunge il proprio letto in tuffo.
Vorrebbe dormire.
Vorrebbe.
Ma non può.
Forse un mese fa. All'apertura della scuola. Forse
allora.
Mi passò quasi accanto, bella d'abbronzatura, ingentilita dai riflessi del
sole incantati sulle guance. Aveva il vento contro. Perciò incattivì gli
occhi. Forse.
Silvano l'aspettava al cancello, sorridente, con l'aria di chi finalmente
avesse trovato l'espressione giusta per affrontare quell'occasione, ignaro
della goffaggine che gli avrebbe presto appesantito la lingua dinanzi a quel
gesto improvviso.
Una lettera.
Serena gliela cacciò di rabbia e dolore nella tasca posteriore dei jeans,
scivolandogli da sott'al naso come solo un foulard potrebbe. Silvano non
accennò una mossa. Estrasse il foglio e lo lesse d'un fiato, senza mai
alzare gli occhi, senza accorgersi di me che intanto passavo.
Quella grafia: "No, stavolta no. __________ _ ____ __ __ ____ _________
____ ____ _____ ____ _ _______ ________ _ ____________ __ _____ _______ _ _
______ ____________ __ ________________ ____ _ ______ ________ ___ ____ ___
_____ ______ ______ ___ __ _ ______ ____ ___ ____ _______ ___ _________
_____ __________ ____ _____________ __ _______ ____ _____________ __ _____
____________ _____ _ ________ ___________ __ _ ____________ _ ___ _____
________ _ _______ ".
Poteva iniziare così una lettera d'amore?
Forse. Se non avessi assistito a quella scena.
No, stavolta no.
Era accaduto qualcosa, forse qualcosa d'irreparabile, forse d'estate. Era
accaduto e poi ancora. Forse.
L'unico dei miei amici che li avrebbe potuto incontrare durante le vacanze
era Guido, che mi raggiunse sulle scale subito dopo essersi districato dalla
transumanza tipica del primo giorno di scuola.
Mi confermò che i due stavano ancora insieme anche se, certamente, non
doveva essere stata un'estate indimenticabile per Serena. Raccontò che la
si vedeva sempre poco e quelle volte mai tranquilla. Addirittura una notte
qualcuno disse d'averla pure sorpresa in spiaggia da sola.
In lacrime.
Allora riferii a Guido ciò che avevo appena visto davanti al cancello, con
l'intenzione d'incuriosirlo. Ottenni giusto una scrollata di spalle. Si sa
quanto gli occhi possano ingannarci sulla verità delle cose. Rispose così.
Specie se c'è di mezzo qualcuno di cui siamo perdutamente innamorati.
Colpito.
Forse si trattava solo di una semplice litigata tra fidanzati, di quelle che
s'aggiustano con un bacio durante la ricreazione. Forse. Ma durante la
ricreazione Serena stava da sola. Affacciata a una finestra del corridoio.
Sola. Con il vento contro. Perciò aveva quello sguardo. Forse.
No, stavolta no.
Quel pomeriggio la persiana della sua stanza rimase abbassata. Probabilmente
voleva stare un po' in pace, al buio. Probabilmente voleva dormire. E
piangere. Per cui niente luce. Non erano lacrime da vedere quelle e
restatene fuori per dio. Se entrate evitate l'interruttore, se entrate
evitate le domande. Ogni domanda.
I suoi ne discutevano di là in cucina. Di tanto in tanto sorprendevo suo
padre percorrere lento l'intero corridoio, soffermarsi davanti alla porta
chiusa, farfugliare qualcosa. Quindi tornare indietro, incontrare ancora gli
occhi tristi di sua moglie e passarsi avvilito una mano tra i capelli.
No, stavolta no.
M'addormentai riverso sulla scrivania, le braccia incrociate a farmi da
cuscino sui libri ancora aperti, come finalmente quelle persiane al mio
risveglio, come le labbra di lei su quelle sorridenti di Silvano quella
mattina davanti alla scuola.
Stranamente.
E' tutto appannato. Tiro giù il polsino della manica
destra, lo stringo nel palmo e strofino contro i vetri ormai gelidi. La
pioggia insiste, così l'odore d'asfalto che filtra dagli spifferi.
Anche le finestre a casa di Serena sono appannate. Scorgo appena la sua
sagoma nera ancora sul letto. Si sposta continuamente come in preda a un
pensiero insostenibile. Credo stia guardando fuori adesso. Le gambe distese,
le braccia dietro al collo. Meglio smettere di strofinare allora, potrebbe
vedermi davvero e magari scambiare il gesto per un saluto. Che fa? Si sta
avvicinando alla finestra e... Saluta? Un attimo, non è me che saluta ma
qualcuno là sotto. E' Silvano. Ha appena messo la catena allo scooter e sta
per salire. Serena è nervosa, corre in bagno, poi in cucina e infine apre.
L'abbraccio e il bacio sono quelli di sempre. Sei in ritardo, sì lo so ma
la pioggia, vieni con me, dove mi porti, resta calmo e così via fino in
camera. Silvano appende il giubbotto alla spalliera, si accomoda sul letto,
poggia la testa bagnata sul cuscino e le fa cenno di copiarlo. Lei sorride e
intanto sembra domandargli qualcosa. Lui fa spallucce e tenta di afferrarle
un braccio. Troppo tardi. Serena scivola via in cucina.
E' un coglione. Non s'è ancora accorto che manca la foto alla parete, fossi
io già l'avrei stordita di domande. Non solo, è anche un curioso di merda.
Ha tra le mani il diario di Serena e lo sta sfogliando con quelle dita
tozze, inutili anche per un accordo di mi minore. Ecco, adesso ha fatto
cascare qualcosa da... Cos'è quella faccia Serena? Ha appena fatto capolino
dalla cucina e non m'è piaciuta per niente. Controllo le sue ombre e mi
rattristo. La vedo camminare per il corridoio con due bicchieri di birra in
mano, il braccio destro più indietro, l'altro più alto e in avanti. Gli
occhi su quest'ultimo. Cosa c'è in quel bicchiere Serena? Quelli non sono i
tuoi passi... S'accosta al telefono. La chiamo. Magari l'intimorisco con uno
squillo e ci ripensa. Occupato. Sta telefonando. Perché? E a chi? Chiude.
Anzi, no. Lascia la cornetta staccata. Riprende il bicchiere e giunge in
camera. Sorride e cazzo stavolta quello non è il suo sorriso, Silvano sei
proprio un coglione io me ne sarei già accorto, quello non è il suo
sorriso, Silvano non bere, ti prego non bere, non bere, non bere...
Le scale, troppe, anche in velocità, anche tre alla volta e volando sulle
ultime quattro, sempre troppe. Giungo in strada col fiato che ormai è solo
un ricordo, metto le mani a visiera e provo a dare un'occhiata alla
finestra. Dovrei saperlo che da qui non si vede niente. Poi con 'sta
pioggia, ancora peggio. Il portone è chiuso, citofono. Rispondete, cazzo,
rispondete. Niente. Riprovo. Schiaccio tutti i pulsanti, nessuno escluso.
Voci gracchianti. Signora mi scusi ho dimenticato le... CLICK! Torno sulla
strada, il naso insù. Le persiane ora sono abbassate. Citofono nuovamente.
Pioggia su pioggia. Insisto. Qualcuno si rompe le palle e apre: se mi becca
su per le scale mi fa un culo così. Prendo l'ascensore. Terzo piano. Casa
di Serena. Stampo una mano sulla porta e piango una supplica. Mi apre una
vecchia con la voce stridula... Che dici? Serena? Ti sei sbagliato, qui non
abita Serena, sta sopra quella... Faccio per salire ma inciampo e quasi mi
scasso il mento. Mi rialzo, mi volto e mi specchio in quella vecchia zitta e
ferma con la mano sulla bocca ...ti sei sbagliato, forse fai ancora in tempo
a scendere, a far finta di nulla perché nulla in fondo è successo, chissà
che hai visto, gli occhi ingannano, ricordi? forse vogliono stare un po' da
soli e la cosa non ti piace, tutto qui. Forse.
Scendo. Lo sguardo della vecchia m'accompagna finché non sparisco nella
rampa. La sento chiudere la porta. Un pensiero. Rifletto per quasi un
minuto. Okay risalgo. Il corrimano quasi mi scotta il palmo.
Il pianerottolo, la porta. Quella giusta.
Suono? Ascolto.
Forse un rantolo.
Forse.
Allora suono.
Un rutto rauco, netto. Come uno strappo.
Busso forte, più forte, di più.
Spingo l'orecchio contro la porta, gli occhi chiusi per sentire meglio.
Il motore del frigo.
Solo questo.
Solo questo.
Solo questo.
E' già sera. La luce blu di una volante schiaffeggia
i volti dei curiosi radunati in strada. Nel portone c'è un viavai
interminabile, qua e là un commento, lo sciogliersi di un gergo
insopportabile. I genitori di Serena sono ancora su: non riescono a fare le
scale. Quando l'ispettore Caspero spiega l'accaduto ai vari giornalisti
appena accorsi sul luogo, io credo d'assistere al finale d'un brutto film.
"A chiamare la polizia è stata lei, pochi istanti prima del delitto:
era agitata, sembrava chiaramente in pericolo, ripeteva con ossessione
l'identità del giovane che diceva fuori di senno. E' stata strangolata. Le
impronte rilevate sul collo non lasciano dubbi circa l'assassino. L'abbiamo
trovato addormentato sopra il cadavere, per via del sonnifero. Era nella
birra. Forse un maldestro tentativo di suicidio. Si spera di saperne di più
nelle prossime ore, per adesso il ragazzo è ancora in stato
confusionale".
Ascolto l'ispettore. Non appena i giornalisti si disperdono richiamo la sua
attenzione. M'hanno detto di non allontanarmi, di stare a disposizione e in
silenzio. Ho ubbidito, ma adesso non ne posso più. Piango. Ho perso Serena
e sento che non resisterò ancora a lungo qui. Voglio andare via, questo
ripeto all'ispettore. Voglio andare via. Non avete capito nulla, voglio
andarmene. Calmati, mi dice. Lo fisso stringendo gli occhi. Mi chiede come
mai ero lì, che ci stavo a fare, se conoscevo i due. Dico che non li
conoscevo o meglio, lui no, lei solo di vista. Riflette, poi mi ricorda che
la signora del piano di sotto m'ha visto piuttosto spaventato chiederle di
Serena. Io gli ricordo che ancora piove, che attraversando di corsa la
strada m'ero affannato tanto da sbagliare porta. Perché stavo andando a
casa di Serena? Mi doveva dare una cosa. Cosa? Un libro. Quale? Non lo so.
Sì la conoscevo solo di vista ma frequentavamo la stessa scuola e allora
facendo la strada insieme un giorno... M'interrompe. Meno male: stavo per
dire un'altra cazzata. Alza gli occhi, si sposta un attimo sulla strada e
corre a chiedermi se da casa mia si vede l'interno della camera. Rispondo di
sì, forse, ma con la pioggia come potevo... E poi non sono un guardone.
Posso andare? Posso. Mia madre mi raggiunge e io scoppio a piangere tra le
sue braccia. L'ispettore ci guarda e mi sa che non è convinto, vorrei
aiutarlo, raccontargli la verità, ma so che non è giusto. La troverà da
sé la verità. Se è in gamba magari ha già intuito che qualcosa non torna
e allora presto scoprirà di che si tratta. Una vendetta covata da tempo.
Forse un mese fa. All'apertura della scuola. Forse allora.
No, stavolta no.
Torno a pensarci mentre sposto la scrivania dalla finestra, mentre ripasso
in mente quel terribile piano, mentre Serena mi rispiega il suo dolore e io
non riesco a trattenere il mio. Mentre rimango da solo in camera, al buio.
E vorrei farla finita.
Mentre fuori piove e abbasso le persiane.
Che non sono lacrime da vedere queste. |