Cristiana Paolini

toscana, vive a Roma.

Segnalazione Speciale con il racconto "I semprevivi" al Concorso Letterario Nazionale "Il senso puro della parola", (1998).

Premio Selezione Autori Italiani '99, di Andrea Livi Editore, con il racconto "All'improvviso nelle scarpe". (1999)

Seconda classificata al Concorso "Il senso puro della parola" con il racconto "La canna". (2000)

Terza classificata al Premio letterario "Idea donna" con il racconto "Stream of Consciousness". (2002)

Nello Spazio Autori (2003), è stata pubblicata la raccolta "Controcanto" e (2004) i racconti "I semprevivi", "Clorina", "All'improvviso nelle scarpe", tratti dalla raccolta I Racconti della Versilia. - www.pedro.it/webs/spazioautori/

Della Raccolta "Photogrammi" sono stati pubblicati :

"Tentata fuga dall'incomprensione" sulla Rivista Letteraria Storie. (Ottobre 2002)

"Spot", sulla Rivista Letteraria Fermenti (Luglio 2003)

"Fuga nella morte" e "Fuga dalla vita" (Dicembre 2003)
"Fuga nella droga" e "Fuga dalla noia" (Marzo 2004)
"Fuga dalla città", "Fuga dal corpo" e "Fuga dal paese" (Giugno 2004)
"Fuga dall'amore", "Fuga nell'alcool" e "Insicurezza" (Settembre 2004)

sulla Rivista Letteraria TamTam,
Proposte Editoriali editrice.

La medesima Raccolta è arrivata finalista al Premio Letterario "Elsa Morante" (organizzato da Proposte Editoriali, e dalla Rivista Tam Tam, 2003) insieme ai "Racconti della Versilia " ed è stata recensita su Storie n.51 dicembre (2003).

Con il racconto ADELINA si è classificata sesta al concorso letterario Les Nouvelles 2003.
Il racconto è stato pubblicato sulla Rivista Letteraria Prospektiva N. 25, Prospettiva Editrice.

Sulla Rivista on line www.Rottanordovest.com sono stati pubblicati i Photogrammi n. 1 e n. 54 alla sezione poesia. (ottobre 2004)
Alla sezione narrativa il racconto "All'improvviso nelle scarpe". Dicembre 2004

Sul sito della Rivista www.Laballata.net è stato pubblicato il racconto Gli occhiali tratto dalla raccolta Racconti della Versilia, e sulla medesima Rivista cartacea (n.4) è stato pubblicato il Photogramma n. 56. (Novembre 2004)

La Rivista Percorsi, ha pubblicato nella Raccolta antologica, letteraria, annuale, il racconto "Terremoto". Novembre-Dicembre 2004

Sul n. 55 della Rivista Storie è stato recensito il racconto "La canna", Gennaio 2005

Nella raccolta antologica "Plaza de Toros" immagini e parole, Edizioni Librati, è stato pubblicato il racconto "La Corrida". Novenbre 2005

Pubblicato on line anche sulla Rivista on line www.Rottanordovest.com OTTOBRE 2006

Menzionata tra i "meritevoli" la Raccolta "Racconti di donne" al Premio Elsa Morante,

-organizzato da Proposte editoriali, e dalla rivista TamTam- Roma, 2005.

Sulla Rivista di cultura e libri on line, www.Scriptamanent.net , della Rubbettino Editore, Marzo 2006, è stato pubblicato il racconto breve "Il poeta muto", a cura di Marco Gatto.

Sul n. 57-58 della Rivista Lett. Storie sono stati recensiti i racconti "Il poeta muto", e "Asia" Aprile 2006.

Sul n. 59 della Rivista Lett. Storie è stato recensito il racconto "IL", maggio-giugno 2006

Il poeta muto

Decise così da un giorno all'altro. ma non decise solo lui, furono proprio le parole che cominciarono a diradare la loro presenza.
Non riuscivano più a passare dalla bocca.
Gli si spezzavano così, a metà, fra il palato e la lingua come se l'aria le dissolvesse al contatto.
La corposità di un tempo era diventata irreale, come si dice: non avevano più senso.
E così a poco a poco, giorno dopo giorno cominciò a diminuire il volume, gli articoli arrancavano su per la gola.
Poi fu la volta degli avverbi e poi dei verbi e gli aggettivi.
I sostantivi puri furono i più duri a morire ed invece il pronome personale IO si annullò per primo.
Le parole dunque, per Arturo, non avevano più significato e quindi furono annullate, morirono, defunsero.
Aveva capito che la loro funzione ormai era andata persa.
La gente le usava da troppo tempo e la verità delle cose, la verità dei fatti, la realtà, non era più nascosta fra le pieghe di un avverbio come "orrendamente" o di un participio come "massacrata".
La realtà era là, davanti ai nostri occhi, nell'orribile matricidio o infanticidio che si era appena compiuto, ma nel momento stesso in cui quelle parole venivano pronunciate entravano nelle orecchie della gente e si perdevano nei meandri del cervello, e poi nei neuroni e poi nelle particelle infinitesimali fino ad assottigliarsi a tal punto da sparire nel nulla pur entrando a far parte di noi.
Non irrompevano più come un'onda anomala nella testa delle persone.
Non procuravano più scosse elettriche alla nostra percezione cosciente.
In un primo momento stentò a capire se era colpa della bocca che non operava più con la giusta tonalità, con il giusto timbro o se fosse stata colpa degli orecchi che non accoglievano più con l'adeguata ricezione.
Rimase ad arrovellarsi su questi due apparati per mesi poi arrivò alla conclusione che quelli erano solo dei mezzi.
Il problema non era la bocca o l'orecchio che, poveretti, assolvevano alla loro funzione, malgrado le mille difficoltà quotidiane che un orecchio e una bocca devono sopportare.
Il problema, il vero problema era lui, il cervello.
Il cervello elaborava tutti questi elementi.
Era lì che andavano ad infrangersi i suoni, a depositarsi le emozioni.
Ma il cervello per essere ripulito da tutte le scorie di anni ed anni di bombardamenti tossici doveva cadere nel silenzio.
Doveva recuperare la capacità di pensare senza l'interferenza esterna.
Aveva bisogno di tacere, tacere per sempre.
La parola, il rumore assordante della caotica vita di tutti i giorni, avevano perso d'effetto perché si parlava troppo, perché si faceva troppo rumore.
Fu portato a prendere questa decisione proprio dagli oggetti stessi di questo disagio.
Era come se la sua capacità di parlare si fosse personificata e avesse deciso in modo del tutto autonomo di ripulirsi.
La catarsi doveva avvenire in lui, era stato deciso così e cominciò creandogli non pochi problemi.
Le frasi senza senso che ormai balbettava, spiazzavano in modo inequivocabile l'interlocutore e la dissolvenza totale fu un punto d'arrivo irrinunciabile.
Le persone attorno cominciarono a naufragare in un mare di congetture spietate, o stravaganti, alcune facevano anche ridere e, Arturo, più volte dovette trattenersi dal farlo.
Ma la verità, la realtà della cosa, ancora una volta andava persa.
Lui, non voleva semplicemente più parlare. Tutto qui.
E nella decisione irreversibile che prese per potersi concedere una purgazione totale, la scrittura, che fino a quel momento aveva preso poca parte della sua vita, assunse il ruolo più importante.
Arturo si sarebbe espresso, d'ora in avanti, solo attraverso di essa, perché solo così avrebbe potuto recuperare la realtà delle cose, la veridicità dei fatti, la spontaneità in tutto e per tutto.
Ciò che era brutto e ciò che era bello sarebbe stato recuperato solo in questo modo.
Cominciò a lasciare bigliettini a destra e a sinistra.
Per fare la spesa non era più necessario dire la marca preferita di un prodotto, o citare la pubblicità che lo reclamizzava, o la miriade di aggettivi che affogavano ormai la sostanza.
Una lista della spesa aveva tutta la semplicità della lista della spesa, doveva essere spartana, veloce, immediata: il pane era il pane, fatto di farina, acqua e sale e non la "tartaruga" o la "ciabatta" o la snobistica "baguette".
E poi c'era l'acqua che era semplicemente H2O e non la frizzante, la liscia, la gassata o quella a poco contenuto di sodio.
L'infinita molteplicità dei significati e delle parole non aveva allargato la possibilità di comprendere meglio gli oggetti o le situazioni, ma li aveva completamente annullati.
La sua non era una battaglia contro il punto di vista, no assolutamente, ma un recupero, un recupero totale del significato e del significante nella loro essenzialità.
Voleva spogliare la realtà di tutti quegli orpelli che ci si affanna a mettergli addosso.
Perché aveva capito, aveva compreso che non si arrivava mai al dunque, mai al dunque.
Il suo intento era sincero. Non era un allontanamento dalla realtà che lo circondava, ma un tentativo disperato di recuperarla quella realtà.
Non fu capito.
Il suo mutismo divenne malattia, nevrosi, pazzia, non rimase "mutismo".
Assunse tutte le tonalità deviate più impensabili, si vestì delle forme più pazzesche, bizzarre e più lontane dalla naturalità della cosa, ancora una volta.
La tendenza era la solita, attribuire mille diversi linguaggi ad un solo concetto: il silenzio.
In fondo era la forma più pura della parola, ma se ne era persa la semplicità appunto.
Un giorno aveva visto un film ed una frase aveva colpito la sua attenzione: "c'è bisogno del silenzio per vedere le cose" e lui l'aveva assaporata nella sua linearità, l'aveva accolta e l'aveva messa in un cantuccio.
Evidentemente ora, era necessario ritirarla fuori ed era lì, fatta apposta per quel momento e per la sua necessità.
"Sono le espressioni nette, semplici, quelle che arrivano al cuore, sono i concetti puri quelli che colpiscono. Come le prime parole dei bambini scandite nella loro solida corposità, sono quelle e basta, e si fanno intendere." pensava Arturo.
Così, cominciò la sua avventura verso il silenzio e verso la scrittura.
Così, divenne, il poeta muto……………..……..

La Corrida

Già gli affondava la lama nel collo, nel punto esatto dove non c'era dubbio sull'esito finale.
Il sangue schizzò fuori a fiotti con la massima irruenza.
Aveva eseguito quel gesto senza indecisioni perché il colpo fatale dev'essere preciso, quasi un atto dovuto dopo tanto stillicidio.
La morte non poteva che essere una liberazione.

Si erano preparati per uscire, la colazione che li aspettava era abbondante.
Erano usciti dalla stanza con aria di chi negli alberghi ci passa la metà della vita.
Scendevano le scale che dalle camere portavano alle sale del ristorante con evidente dimestichezza, camminando sui tappeti rossi sempre con andatura lieve, di chi si è appena alzato e non ha voglia di svegliarsi nemmeno con il rumore dei propri passi.
I vestiti, immancabilmente chiari, davano loro un fascino particolare: si capiva che non avevano bambini a cui badare, che non avrebbero attraversato a piedi la città nella canicola estiva sudando e sventolandosi per un minimo di refrigerio, si muovevano sempre in taxi.
Nessuna fatica avrebbe sgualcito le camicie color crema di lui, né il bianco kaftano di lei, leggermente trasparente, giusto il tanto per intravedere le forme piene, di carne soda e ancora ben tenuta.
Avevano scelto un tavolo piccolo proprio per restare soli vicino alla finestra, per guardar fuori e non incrociare gli sguardi degli altri clienti, indugiando a volte in silenzio e con gli occhi chiusi, il volto rivolto all'esterno, ma tenendosi sempre per mano sotto quei primi raggi di sole che, dopo, non sarebbero stati più sopportabili.
Si sarebbero detti due sposini alle prime armi, alle prime tenerezze come accadeva anni fa, quando solo dopo il matrimonio ci si poteva conoscere in maniera più intima.
Ma ormai non avevano più vent'anni, anche se le loro persone belle e forti di anni vissuti nell'agio dimostravano dieci anni di meno.
Era una vita che andavano in quell'albergo, erano diventati quasi un'istituzione e, da sempre, avevano assistito alla corrida estiva almeno una volta all'anno, tutti gli anni, da sempre.
Tutte le mattine svuotavano con cura maniacale ad una ad una le marmellatine ai gusti di prugna, albicocca, mora ed arancio.
Anche il burro veniva spalmato con precisione, un velo sottile, attenti a non rompere la fetta biscottata che si frantumava al minimo contatto con la lama del coltello: erano gli unici al cui tavolo non restavano mai briciole da raccogliere.
Certo le quantità consumate in quelle colazioni rivelavano una fame non indifferente, quasi un compenso a una carenza di qualche genere.
Erano i primi ad arrivare al tavolo, e gli ultimi ad andarsene, forse per non avere l'obbligo di salutare chi si alternava nella sala, lui con il giornale e una pipa, lei un libro di poesie: passavano così le due ore della colazione.
Poi uscivano come due angeli un po' démodé, sempre con quell'aria evanescente fra le vesti fruscianti e profumate che li avvolgevano: lui un panama alla Hemingway, lei un cappello dalla falda larga, entrambi con occhiali da sole scuri.
Due anime bianche che scomparivano nel caotico e festoso traffico di Barcellona per andare a vedere i magnifici "castelli di sabbia" di Gaudì come li chiamavano loro e recarsi infine alla corrida.
E quel giorno si sedettero nella tribuna d'onore come sempre e, al solito, mano nella mano, aspettarono l'inizio nel fremore evidente di tutti gli spettatori.
Quelli abituali, ansiosi per uno spettacolo che evidentemente li affascinava e quelli che, per la prima volta, assistevano eccitati e dalla curiosità e dal timore di rimanerne, magari, disgustati: il dubbio era comunque esaltante.
L'ardore e la crudezza di quella giornata non erano stati preannunciati da nessun particolare anomalo, che facesse solo sospettare eventi tragici in agguato.
Il torero entrò nell'arena con un'eleganza innata, si poteva capire da come avanzava.
Alto e magro girava lo sguardo agli spalti cercando il plauso ma con un'indifferenza palese, tronfio, com'era, della sua posizione di attore già affermato.

Una scossa percorse il braccio dell'uomo sugli spalti, la mano mollemente adagiata in quella della sua compagna ebbe una contrazione improvvisa, e lei lo guardò sorpresa, cogliendo, in contemporanea, che lo sguardo fisso in avanti di lui aveva un batter di ciglia in più, che gli fece sgranare gli occhi in un'espressione anomala di stupore.
Lei, allora, gli strinse a sua volta la mano, dolcemente però, come di complice intimità, e si accostò l'avambraccio muscoloso ancora di più al corpo quasi a sfiorarsi il seno.
Il toro ancora non entrava, e il torero come un pavone che fa la ruota per attirare l'attenzione roteava su se stesso, alzando le mani in segno di saluto.

Un attimo ed è rivolto verso la loro tribuna e lì l'inchino classico con alzata di cappello, uno sguardo più prolungato e lui si scosta dal corpo di lei e lei avvertendo quel distacco si gira ancora, ancora lo guarda.
Osserva: lui, con un gesto insolito, si toglie il panama e si tira indietro il ciuffo che in modo scomposto era venuto in avanti, un insolito modo accurato che non gli appartiene pensa ancora lei, quasi femminile nella sensualità còlta, e si sente improvvisamente a disagio, il contatto adesso è un fastidioso strusciare di due corpi sconosciuti.
Il viso dell'uomo è diventato paonazzo, piccole stille di sudore brillano sulla fronte all'attaccatura dei capelli brizzolati e leggermente lunghi, che in modo quasi automatico continua a tirare indietro, indugiando a volte sulla nuca come in una sospensione pensosa, il cui contenuto lei avverte istintivamente essere una minaccia.
La lotta nell'arena ha inizio ma, quella volta per lei, non è la solita corrida.

Le sensazioni contrastanti che imperversavano adesso nella sua anima quieta e nel suo corpo sopito, da anni ormai, la turbarono a tal punto che fu costretta ad alzarsi scusandosi, e a uscire dalla tribuna.
Si allontanò perché per la prima volta, dopo tanti anni, si sentiva un'estranea vicino a quell'uomo che, folle a dirsi, nel giro di pochi secondi era diventato un'eco anomala nella sua testa.
Restò in disparte per tutto il tempo, e lui non si curò di cercarla preso com'era dalla lotta dell'uomo con la bestia, là in quel cerchio, al centro dell'attenzione di mille e passa persone.
L'entusiasmo represso forse da una vita, esplose in quel palco, come se una forza bruta avesse risvegliato, non si sa per quale perverso meccanismo, una bestialità nascosta.
Così le appariva adesso quell'essere sconosciuto che si alzava gridando e agitandosi.
I gesti, consueti ai suoi occhi, dopo anni di vita insieme, ora avevano una connotazione insolita, sempre ricercata, ma con una sfumatura impercettibile che lo facevano apparire …. diverso: il tenere il mignolo leggermente scostato dalle altre dita, il portarsi la mano alla bocca nei momenti più pericolosi, tutto … sotto una nuova luce.
Continuò a guardarlo come un mistero improvviso: le mani sventolavano adesso davanti al viso con fare mellifluo, la pelle, che ora appariva avvizzita attorno agli occhi, veniva asciugata con il fazzoletto bianco, con modi affettati, e la lingua passava e ripassava sulle labbra insistente, quasi maniacale.
Le dava fastidio adesso quella bocca tanto bramata, quelle mucose fini adesso le facevano senso, e si chiedeva come avesse potuto vedere in lui altro da quello che vedeva in quel momento.
Il massacro era quasi al termine, il sangue colava dalla pelle squarciata del toro verso cui provò, per la prima volta, un forte senso di pietà.
La folla urlava, eccitata, e lui con loro, non con lei, ma con loro, e d'improvviso lo vide là, il corpo esangue sotto la fatica dei colpi inferti, un viluppo di corpi sudati che lottavano verso un'esaltante perdita.

La loro prima notte, dopo il matrimonio, era stata un fallimento.
Le venne il dubbio, in quella serata così deludente, di aver decisamente frainteso le proprie aspettative.
La sussurrata esaltazione dei sensi in un turbinio di sensazioni meravigliose non ci fu o meglio, ci fu un timido tentativo iniziale, ma dopo poco l'umiliazione della mancata riuscita ebbe il sopravvento, e la sua nascosta sensibilità materna venne in soccorso di quell'uomo perso nell'incapacità dei primi approcci, pensò allora, e fu solo tenerezza uno nelle braccia dell'altro.
Da quel giorno per sempre.
Non ci fu mai più la capacità di cambiare le cose, la voglia sì, tanta, ma tutto si assestò in un platonico matrimonio fatto di dolcezza e rispetto reciproco.
E adesso si vide in tutti quegli anni, dedita all'attesa che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato.
Si era sì placata la sua passione mai espressa, ma in fondo in fondo, bramava ancora quel desiderio rimasto sepolto fra le pieghe delle sue vesti accattivanti e della sensualità manifestata ad ogni piccolo accenno di attenzione da parte di lui.
Solo adesso capiva.
Solo adesso vedeva, là, in quell'arena ciò che forse era palese a tutti, da tempo, ma che lei aveva accortamente rimosso per non soffrire di una scelta sbagliata.
Avevano creato insieme un connubio perfetto, erano una coppia impeccabile, bella a vedersi tanto era l'affiatamento che scaturiva dai loro occhi, complici.
Una coppia da invidiare nello scatafascio generale dei matrimoni dei loro conoscenti, da prendere a modello per qualcosa che forse era possibile raggiungere, credendoci, come loro ci credevano.
Ma a questo punto capì.
Capì che a crederci era stata soltanto lei: una vita a mettere da parte i sensi come una cosa troppo terrena da sembrare sporca nel loro rapporto idilliaco che si nutriva di arte e cultura.
Una vita a lottare contro quegli sconvolgimenti viscerali che ogni tanto si presentavano a riscuotere la loro parte di soddisfazione, lì al basso ventre dove la testa non comandava più, ma che venivano regolarmente messi a tacere come realtà appartenenti al mondo degli uomini quando loro, invece, erano Dei.
La parola sesso era sconosciuta alle loro orecchie malgrado un sensuale alone avvolgesse le loro impeccabili figure.
Tutta quella celestialità rovinò in un giorno, nel più profondo dei baratri e lei vide il suo arcangelo alle prese con le più gravi bassezze dell'inferno.
La rosa rossa portata per l'occasione fu lanciata con impeto e baciata prima, e il torero la raccolse e la baciò a sua volta, incrociando ancora lo sguardo con lui nel toccarsi la fronte a mo' di congedo.
Quanto avrebbe voluto ricevere lei quell'ardore: l'offesa fu fugata per un secondo dal pensiero di quella lascivia tanto sospirata e si sentì persa, come una bambina al primo bacio.

Rientrarono come sempre in albergo, per il consueto aperitivo serale, con l'immancabile levità, anche se lei distava di un passo rispetto a lui e, per la prima volta, non entrarono mano nella mano aveva osservato incautamente l'uomo della reception.
Si sedettero nella veranda inondata dal sole ormai grondante arancio.
Il grosso del caldo ora era svanito e una lieve brezza spirava tra le fronde del vecchio glicine abbarbicato alle colonnine stile impero.
Lui, perso fra quegli intrecci, adagiato fra i grappoli lilla.
Lei che continuava ad osservarlo, fingendo di guardare, finalmente, i clienti che si avvicendavano ai tavolini accanto.
Sorrise anche a qualcuno di loro accennando un saluto col capo mentre pensava a tutte le volte che dopo cena, quando lei sprofondava nel suo libro di poesie, lui regolarmente usciva … a farsi una passeggiata lungo Las Ramblas, con la cara vecchia pipa fra le labbra e non tornava se non … non lo sapeva, quando tornava, perché cadeva regolarmente addormentata nel cuore della notte.
Forse chissà … allora … tutte le estati … quando sarà stata la sua prima volta … quanti toreri aveva "matato" in tutti quegli anni … quello, era stato una delle ultime conquiste…!?

Non riuscì a chiudere occhio quella sera, aspettò fino a vedere le prime luci dell'alba.
Quant'era vera quella luce, quanto tempo sprecato.
Si dice che i sogni della mattina siano quelli più veri e lei lo uccise così il suo sogno, sprofondato nel sonno del loro letto dopo una notte insonne.
Gli affondò la lama nel collo con precisione, senza indugio come tante volte aveva visto fare al torero.
OLE' gridò …………… e sentì, in risposta, l'urlo di approvazione, eccitato ed eccitante, della… follia!

L'UOMO NELLO SPECCHIO

Lo vide così per caso, in un giorno qualunque della sua esistenza che lenta e noiosa si trascinava ormai da diversi anni.
In quel periodo la staticità degli avvenimenti si era acuita.
Forse per questo motivo ogni ben che minimo cambiamento veniva colto per appropriarsene con disperazione cercando così di acchiappare frammenti di vitalità dove poteva.
Quel giorno vide riflesso nello specchio se stesso mentre si vestiva come tutte le altre volte.
Né più né meno che la sua immagine magra e allampanata di pacifico impiegato del catasto.
Ma a un certo punto con la coda dell'occhio mentre si girava per prendere l'impermeabile appoggiato sul letto, si accorse che la sua figura specchiata non si era chinata con la stessa identica precisione di sempre.
Lì per lì non diede peso alla cosa. Pensò che la solitudine cominciava a giocargli brutti scherzi e se ne andò come tutte le mattine al lavoro.
Ma nel corso della giornata ripensò più volte a quel fatto e la convinzione che qualcosa di diverso fosse veramente avvenuto cominciò a rafforzarsi, fino a che alla fine aveva chiaro davanti agli occhi quell'impercettibile differenza di tempo che c'era stata fra lui e la figura nello specchio.
La sera stessa tornato dall'ufficio fece diversi tentativi davanti al medesimo, ma mai, mai una volta notò l'incredibile avvenimento di cui si era persuaso durante tutto il giorno.
Se ne andò a letto dopo aver preso il solito bicchiere di latte caldo e aver ascoltato le notizie del telegiornale della sera.
Ora aveva di nuovo cambiato parere: sì, era stata solo suggestione.
Una di quelle fantasie che la disperazione a volte alimenta per dare una scossa d'urto a una vita monotona.
La mattina dopo si alzò come tutte le altre allo strepitare di una vicina di casa che buttava giù dal letto il figlio che si sarebbe alzato dopo un quarto d'ora di quel vociare.
Le urla di quella donna scuotevano pure lui, come un ricordo infantile che lo torturava anche da grande pur avendo sostituito la mamma con una radio sveglia ben sintonizzata su piacevoli programmi musicali.
La sua levata molto probabilmente coincideva con quella del ragazzo del piano di sotto perché quasi sempre gli strilli si interrompevano e cominciavano i memorandum: "il latte brucia...i denti...pettinati...torna subito a casa dopo la scuola!"
Ma l' uscita di casa dell'impiegato non combaciava con quella del ragazzino che mai aveva incrociato sulla scala, dove di certo si sarebbero scambiati uno sguardo di compassionevole comprensione.
Quel giorno però fece più tardi del solito. Si lavò la faccia con molta cura ricordandosi, nel momento stesso in cui si vide riflesso nello specchio del bagno, ciò che gli era accaduto il giorno prima.
E vedendo l'assonnata faccia si sorrise con ironia quasi prendendosi in giro.
Che cosa gli aveva fatto balenare l'assurdo pensiero che la sua immagine non si fosse mossa in contemporaneità con la sua persona?

Prese dalla specchiera il grosso tubo comprato in offerta al nuovo discount alimentare sotto casa, lo scartò e cominciò ad agitarlo per far montare bene la schiuma al suo interno.
Nel frattempo continuava ad osservarsi con l'occhio falsamente distratto di chi si vuole cogliere in fallo. E continuava a sorridere al pensiero di quel suo gioco strano.
La schiuma bianca uscì come panna dal beccuccio e con una mano se la spalmò sapientemente sul viso, massaggiandola nei punti che ormai sapeva più critici: il mento e sopra le labbra, facendole rientrare in una smorfia forzata che quasi gliele nascondeva del tutto.
Un minuto e poi con maestria cominciò a passare il rasoio dal basso verso l'alto, lentamente ma con agilità.
Gli occhi continuavano a seguire precisi i contorni del viso e gli mancava ormai una piccola macchia bianca sotto l'orecchio quando con stupore vide che il suo occhio gli faceva l'occhietto dall'altra parte della superficie argentata.
Un movimento brusco ed ecco che il taglio era fatto e cominciava a sanguinare.
La mente incredula adesso si stava annebbiando, mentre al di là vedeva chiaramente se stesso che senza alcuna traccia di sangue continuava a farsi boccacce d'ogni sorta fino a scomparire in una nuvola di risate che risuonarono nelle sue orecchie con una voce identica alla sua.

Il ragazzo del piano di sotto uscì dalla porta di casa sbattendosela dietro come sempre, come a voler stritolare in quella chiusura violenta tutti gli urli e le raccomandazioni che uscivano a fiotti dalla bocca della madre.
Si caracollò giù dalla ringhiera della scala rischiando in quella scivolata l'osso del collo come tutte le mattine, ma all'improvviso un urlo, non materno, dietro le sue spalle lo fece scendere precipitosamente e un'ombra velocissima lo sfiorò mentre scivolava giù con perizia maggiore della sua.
Restò sbalordito quando si rese conto che quella freccia umana altro non era che l'inquilino del piano di sopra.
Diverse volte lo aveva visto rincasare, la sera, e lo aveva osservato attentamente da dietro le finestre di casa sua: abiti grigi che rattristavano ancora di più quella figura smilza, capelli brizzolati, precoci per l'età che doveva avere, e che di certo erano il risultato della vita squallida che conduceva: non poteva essere altrimenti visto lo sguardo spento che lo accompagnava ogni volta.
Eppure quella figura agile e svelta era proprio lui! Con un balzo fu giù dalla ringhiera nell'androne, piegandosi mollemente sulle ginocchia ed ergendosi poi dritto come un fuso senza indugi, con la fermezza di un atleta.
Si girò con un sorriso ammiccante e uno sguardo di sfida che sbalordì il ragazzo: era proprio lui ma...diverso.
"Vieni con me?" chiese brusco e accattivante.
Il giovane con la bocca ancora spalancata per lo stupore annuì con la testa, senza riuscire ad emettere alcun suono.
Uscirono dal portone del palazzo come se tutte le mattine avessero condiviso quella fuga, nel modo più naturale possibile, complici da sempre in un'amicizia profonda.
Roma era stupenda a quell'ora. Il caos cominciava a strisciare fuori come nebbia da ogni angolo di strada, ma non era assordante perché ancora imbambolato dal sonno.
Il vicino di casa propose di affittare un motorino e il ragazzo accettò, già eccitato alla sola idea di passare una giornata diversa con quello sconosciuto insolito e affascinante.
Il problema scuola non fu nemmeno menzionato e come a cavallo di una scopa stregata volarono per le strade della città senza una meta precisa.
Si ritrovarono a Ponte Flaminio sotto quelle grandi aquile e sopra quelle enormi colonne smozzicate scartarono un bombolone caldo, rigonfio di crema pasticcera e se lo ingurgitarono guardando il Tevere che scorreva lento come una grossa vena verdastra di quel corpo che sempre più si animava e splendeva nella luce viva del sole mattutino.
Il vicino non parlava se non di rado, per proporre una nuova escursione: ora Fontana di Trevi a guardare le turiste, ora il Pincio e Villa Borghese, distesi nell'erba con una coca cola fresca presa da una cannuccia e gli occhi persi nel cielo a seguire i corvi neri e gracchianti.
Oppure alla Bocca della Verità per far ridere le giapponesi mentre si torcevano nelle fauci di quella faccia tonda, urlando all'improvviso e strattonando platealmente.
Il ragazzo gli raccontò senza difficoltà la sua insignificante vita di sempre, lamentandosi delle sue amicizie che niente erano al suo confronto, e dimostrando tutta la sua felicità e gratitudine per quella inaspettata botta di vita...era tutto merito suo.
In fondo non era poi così sconvolgente, nel senso che non stavano facendo "cose turche", ma semplicemente avevano fatto a pezzi la noia di tutti i giorni e questo lo faceva star bene.
Dopo un gelato incredibilmente enorme al Gianicolo, decisero di andare ad Ostia parcheggiando il motorino e prendendo il treno molto più veloce e comodo.
Quel viaggio fu per lui di una bellezza indicibile.
Il sole filtrava caldo dai finestrini sporchi di quel trenaccio mal messo, ma l'idea di esserci, di essere così presenti a se stessi in quel momento rendeva tutto stupendo, quasi poetico tanto era vero.
L'estate ormai era nell'aria anche se eravamo alla fine di aprile, e la corsa sulle dune bianche e selvagge del lido li aveva fatti sudare tanto da fargli desiderare un tuffo nel mare arruffato che si stagliava davanti ai loro occhi ebbri di quell'odore e di quella sensazione di libertà, semplice.
L'acqua non era nemmeno tanto fredda e il gioco degli schizzi continuò per diverso tempo.
Tornarono e andarono a mangiare un pezzo di pizza seduti su un muro di fronte ai Fori Imperiali nella luce rossastra del tramonto.
Sestilio, così si chiamava il ragazzo, si ricordò di casa quando scesero di corsa dalla scalinata di Piazza di Spagna, evitando in modo scomposto e pericoloso i turisti seduti a godersi la pace della sera e la musica delle chitarre che suonavano Battisti:"….come può uno scoglioo, arginaare il maare, anche se non voglioo torno già aa volaaree..."
Così rientrarono e sulla porta il vicino guardandolo e vedendolo gioioso e stanco disse: "...spero di rivederti, per un'altra giornata da leoni! Chissà, forse, se riuscirò a liberarmi ancora……grazie della compagnia."
E com'era sceso velocemente la mattina, a grandi falcate salì per scomparire su per le rampe della scalinata, senza dare il tempo a Sestilio di salutare.
Urla inumane uscirono dalla casa del povero ragazzo che finì la giornata buscandole di santa ragione dal padre, infuriato per la sua scomparsa.
La mattina dopo con la faccia apparentemente contrita dal rimorso per quello che aveva fatto si alzò presto, fece colazione e salutando la madre che per la prima volta non ebbe bisogno di urlare di buon'ora come al solito, uscì di casa con la promessa di tornare appena finita la scuola.
Scese gli scalini lentamente, e ad ogni gradino alzava lo sguardo nella chiocciola delle scale per vedere se arrivava il suo amico, ma niente.
Fuori dal portone indugiò ancora e poi siccome vide la madre che sbirciava dalle tendine, fece finta di allacciarsi le scarpe appoggiando i libri per terra e chinandosi per far meglio.
Il portone si aprì con leggerezza.
Il suo sguardo colse la punta lucida e nera di un paio di scarpe da uomo, non erano di certo quelle scalcinate da ginnastica del suo amico di scorribande.
Alzò lentamente lo sguardo deluso verso l'alto e un sorriso lo colse di sorpresa nel riconoscerlo o meglio nel vederlo.
Era lui non c'erano dubbi, ma vestito in giacca e cravatta, con la solita ventiquattr'ore stretta nella mano e uno strano sbercio sulla faccia magra, che il giorno prima non aveva, però.
Doveva essersi rasato e tagliato.
Il ragazzo lo salutò confidenzialmente, ma la risposta fu gentile e distaccata.
Lo guardò andar via lento e un po' goffo nei movimenti, restando anche quel giorno a bocca aperta per lo stupore.
Ma questa volta nessuno gli chiese niente e con la testa frastornata un po' dalle botte e un po' dalla sensazione di essersi trovato davanti un estraneo, si incamminò verso la scuola: il pensiero fisso a quel taglio che era sicuro non c'era sulla sua simpatica faccia, così diversa quel giorno... eppure era lui.
E scrutando l'immagine di quell'uomo che si allontanava riflessa nella vetrina del supermercato, gli parve di vedere per un attimo un sorriso accattivante e un occhio strizzato sulla sua faccia scura.

L'urlo

Un urlo gli si srotolò nell'esofago partendo dal basso ventre.
Ingoiò saliva acida per cercare di contenerlo, ma capiva che non c'era niente da fare.Il lucido, controllato comportamento, che lo aveva sempre contraddistinto, sembrava essersi smaterializzato al contatto di qualcosa che aleggiava là attorno, impalpabile.Nessuno udì quella improvvisa esplosione dalle sue viscere, non ci furono sguardi né movimenti a tradire la meraviglia e l'incomprensione.
Lui solo ne sentì la deflagrazione nelle vene attraversate da litri di sangue ad una velocità decisamente insolita.
Si mosse, con passo veloce, verso la finestra .
Il resto dell'ufficio continuò ad accalorarsi sull'organizzazione del progetto in corso.
Guardò fuori perforando con le pupille alterate il vetro quasi inesistente.
Si voleva, con quella trasparenza, sopperire alla mancanza di spazio dell'angusta stanza al diciassettesimo piano di quel perfetto parallelepipedo.
Aveva bisogno d'aria. La fissità del condizionatore non aveva l'esaltante ebbrezza della discontinuità di un soffio di vento sul viso.
Con un gesto violento allentò il nodo della cravatta, non poteva aprirla quella finestra, non ce n'era la possibilità a quell'altezza.
Con il tono più affettato che in quel momento riusciva a recuperare dalla memoria di ormai comprovato self control, bisbigliò a qualcuno del gruppo che doveva uscire un attimo e si diresse con passo tranquillo nel bagno.
Là appoggiò le mani sul lavabo percependone la fredda superficie maiolicata.
Lo tenne stretto quasi fosse una preda appena cacciata, immobile sotto la sua presa.
Respirò ansimando come avesse fatto uno sforzo immane.
Chinò la testa toccandosi il petto con il mento poi, girandola di fianco e ancora in avanti con una lenta rotazione, si guardò nello specchio lucido.
Il viso trasfigurato in quello sforzo evidenziava le piccole rughe attorno agli occhi che irretivano la sua pelle di quarantenne.
Tutto normale, niente di eccezionale, ma quei solchi sterili sul viso flaccido, rarefatto e molle, come sgonfiato d'acqua e rigonfiato malamente, lo facevano sentire precocemente invecchiato.
L'urlo continuava a ribollire dentro e a squassargli il petto che liberò dal peso della giacca grigia in fresco-lana appendendola all'attaccapanni d'argenteo ……...
Ruotò con frenetica lentezza il rubinetto a stella dell'acqua fredda.
Lasciando finalmente la presa di quel mite lavandino, ormai esausto e caldo anche, allargò le mani sotto lo scroscio dell'acqua, guardandola espandersi e scivolare come fosse la prima volta che vedeva quel liquido primordiale e puro.
Quella situazione gli cominciava a stare veramente stretta.
Ormai anche il suo fisico oltre alla sua mente già provata, ne risentiva.
Le cose dovevano, dovevano necessariamente cambiare.
Il lavoro l'aveva portato fin là, nella mitica "Grande Mela", lui, un cittadino della piccola, piccolissima Forte dei Marmi, il "pomo" della Versilia e solamente in estate.
Cinque mesi di mare a piene mani; da maggio a settembre.
L'acqua, il sole e l'aria erano stati gli elementi base della sua esistenza.
La mattina si alzava presto facendo una ricca colazione sul terrazzo di casa al suono dei gridi di decine di rondini nere che sfrecciavano festose in gruppo nell'azzurro del cielo.
Una gioiosa danza a velocità incredibile, rischiando ogni volta l'impatto coi pali del bersò ricoperto da glicini.
Il profumo dei tigli aromatizzava interi periodi, al solo ricordo ne riaffiorava l'intensità, e la stessa cosa accadeva quando a quel sentore si sostituiva il più dolciastro dei gelsomini bianchi mescolato a quello del cocco delle creme solari usate a profusione dai villeggianti.
Un'esplosione di aromi e di colori che stordivano inebriando per sempre la cartina tornasole della memoria di tracce indelebili.

Tirando a sé la levetta del dispenser del sapone, uscì una schiuma bianca, asettica, provò ad annusare ma, l'olfatto, dopo anni di smog era perso.
Provò ad accarezzarla strusciando dolcemente le mani una sull'altra……il ricordo della sabbia calda fatta scivolare fra le dita o di quella umida e graffiante rastrellata con le mani per scavare una buca profonda fino ad arrivare all'acqua, gli percorse i gangli nervosi riportando in vita tracce di una sensibilità che credeva perduta.
D'improvviso un bussare: "Antonio…..stai bene?!"
"Bene, bene…" ripetè quasi automaticamente e la sua voce assunse la lucida, controllata tonalità di sempre, moderatamente pacata.
"Perfetto….. noi intanto andiamo avanti, sbrigati!"
Questa volta un pugno si srotolò un attimo prima di infrangersi sulla porta di metallo, ultra lucida e ultra moderna, del bagno.
Non c'era tempo nemmeno per andare al cesso!
Tutto procedeva ad un ritmo insostenibile: lavorare, lavorare, lavorare….. il resto non contava. Si doveva portare a termine ogni giornata solo per ricominciare quella successiva con la solita frenesia.
Non potevi permetterti di staccare la spina, di allentare la presa, distrarti un attimo, non te lo permettevano o sarebbero stati guai, guai seri,….. la carriera,… il capufficio,….. ma ce l'aveva lui, il bisogno di andare a cagare e, in quell'attimo fuggente, pensare?… pensava, almeno in quell'attimo, alla sua vita?!

Sua madre apparve con il solito foulard sulla testa ormai imbiancata, i calzini nelle vecchie ciabatte e il grembiule sulla minuta veste di cotone, bussava perché doveva entrare, c'erano i panni da lavare, ancora.
Sapeva di crostata d'albicocca e di pane fatto in casa.
Lui invece là dentro era alle prese con la sua chitarra cercando di imparare meglio i pochi accordi che gli aveva insegnato il fratello.
Un giorno battendo il tempo con il piede mentre ancora indugiava sulla tazza del water, si accorse della presenza di uno scorpioncino.
Quell'estate raccontò a quell'insolito ascoltatore, ogni volta che andava in bagno, gli avvenimenti più importanti, tanto per fargli passare un po' di tempo; immaginava fosse ben poco eccitante stare là dentro, tutto solo e tutto il santo giorno chiuso in quel buco.
D'altronde, pensava Antonio, era l'unico posto al sicuro con la luce.
Di notte invece usciva allo scoperto, girava per le pareti della stanza in caccia di cibo e ogni tanto si faceva una capatina anche fuori, l'aveva visto più volte al limite della cornice della finestra con il pungiglione ricurvo all'insù, pronto alla difesa.
Povero scorpione, aveva pensato, così potente con quella sua arma, eppure costretto a nascondersi per non soccombere sotto la suola di un'insignificante ciabatta.

Ecco….in quel momento si sentiva come quello scorpione: chiuso in un buco per difendersi dagli ingranaggi di un mondo insignificante, che poteva però con un colpo solo schiacciare lui, la sua vita, il suo ruolo.
L'arma che lo aveva sempre contraddistinto: l'intelligenza, la prontezza, la capacità di capire e di migliorarsi, non gli servivano più a nulla.
Entravano in gioco altre regole che lo spiazzavano, lo impoverivano, ma non poteva opporsi, non poteva farci proprio niente.
Aveva una famiglia da mantenere, il minimo, un figlio e una moglie, ma rischiare di perdere il posto di lavoro oggi, era impensabile.
E poi tutti quegli anni di sacrifici: ore buttate sulle carte d'ufficio invece che su una sdraio in terrazza a leggere un buon libro, o nelle aree di un parco a giocare con il suo piccolo per conoscerlo meglio, per avvicinarsi di più.
A qualcosa doveva arrivare, a qualcosa di meglio almeno per una soddisfazione economica dato che ormai quella lavorativa, s'era capito, languiva nell'entusiastico stadio iniziale dell' appena laureato, pieno di sogni e di mondi fantastici.
Ma non ce la faceva più.
Non sapeva a cosa appigliarsi per poter andare avanti.
Coltivare un sogno, sì continuare a coltivare un sogno per poter respirare aria buona, carica di energia rivitalizzante.
Ripensò alla sua vita in Versilia, ora, a settembre, c'era il rito della raccolta dei funghi.
Da ragazzi scavalcavano i cancelli delle stupende ville dai giardini perfetti, alcuni dal sapore patinato delle riviste di moda, quasi fossero delle piccole boutique ultimo grido, altri invece che sapevano di un classico ormai sfumato, con il fascino dei giardini antichi visitati da tate francesi o inglesi che accompagnavano al mare i piccoli rampolli delle casate nobili.
Una mescolanza di passato e di presente dovuto anche ai racconti fantastici che sua nonna faceva di quei posti e di quelle persone, essendo stata lei insegnante di lingue, ed avendo così frequentato il jetset occasionale di quel piccolo paese turistico.
Si avventuravano a cercar funghi rischiando sempre l'osso del collo e anche i colpi di scopa dei giardinieri che li minacciavano di galera, se capitava che li trovassero dentro le splendide proprietà.
Raccoglievano i "pinetini", casse e casse portate sulle canne delle vecchie, sgangherate ma irrinunciabili biciclette.
Arrivati a casa entusiasti e vincenti per quei piccoli tesori che permettevano loro di vivere quelle magnifiche avventure, scaricavano le casse e assistevano impotenti alla fine miseranda che quei frutti prelibati facevano….nella spazzatura!
Ma non si arrendevano e l'anno dopo erano punto e a capo.
Era la speranza, la speranza che prima o poi quei funghi sarebbero stati mangiati e loro si sarebbero presi i complimenti dalle famiglie, sarebbe stato riconosciuto il loro impegno.
La speranza. Anche il solo suono di questa parola era bello.
Sperare che le cose sarebbero cambiate, era quello che doveva fare.
Si riannodò la cravatta con la sveltezza di sempre.
Il suo cervello era già altrove: cambiare vita, lavoro, tornare a passeggiare sulle spiagge e fra le pinete della sua amata Versilia.
Alimentare un sogno, ecco, già il seme era stato buttato, la mente defluiva, i pensieri torbidi e ossessivi lasciavano il posto a cieli aperti, al profumo del muschio e della legna bruciata in uggiose ma serene giornate di pioggia, dove lo stare soli con se stessi era una scelta, un piacevole masochistico piacere e non un'imposizione esterna di quel alienante modo di vivere.
Appoggiò una mano aperta al muro e con l'altra spinse con forza il bottone dello scarico del gabinetto.
Guardò l'acqua scorrere via in un fragoroso scroscio: tutto il suo malessere era là dentro e se ne stava liberando in un colpo solo, facendolo precipitare dal diciassettesimo piano in una delle innumerevoli fogne di quella fantastica, enorme, città.

Montalcino

Erano abbandonati stanchi morti sulla spiaggia, quando Ernesto si svegliò.
Avevano bevuto fino all'alba, in modo smisurato, senza nessun ritegno per le proprie persone, né per quelli che li vedevano ondeggiare scomposti nella notte mondana dell'estate versiliese.
Che cosa avevano da perdere in fondo? La loro condizione sociale era poco più che niente: "in cerca di prima occupazione"... ormai da diversi anni, avrebbero dovuto aggiungere a grossi caratteri sulla carta d'identità.
Quella di Ernesto stava anche per scadere, ma aveva già pensato di non rinnovarla; che senso ha una identità stampata solo sulla carta!
"Che lavoro fai?" questa è la prima domanda che ti rivolgono ogni qualvolta conosci qualcuno, e la tua risposta è sempre la stessa: "...sto cercando".
E allora, via libera ai soliti discorsi inutili: "ma, possibile?... eppure, forse qualcosa si trova… adesso."
Ma tu vallo a spiegare che hai perso degli anni e ti sei diplomato più tardi perché dovevi aiutare tua madre al negozio.
Prova a raccontare a chi ti sta davanti con aria sfrontata, che sembra dire: chissà questo che vuole? …… " sai……mio padre…… ha avuto sempre un vizietto."
"Il vino - diceva- fa sangue!"
E giù un bottiglione a pasto, perché lui di sangue ne aveva bisogno. Ci diceva che da piccolo era sempre stato anemico, era giusto che da grande si rimettesse in forze!
E così fra una flebo e l'altra di bianco e di rosso, mia madre rimaneva sola in mezzo a salami e mortadelle.
E io passavo le giornate a portare i sacchetti della spesa a tutti i clienti, ma le spese mie chi le faceva?
La notte cercavo di rimediare studiando con impegno, ma crollavo regolarmente dopo che mio padre smetteva di urlare con la mamma e il sonno della stanchezza, mentale più che fisica, prendeva il sopravvento.
Al diploma finalmente poi c'ero arrivato.
A quel punto certamente avrebbero chiesto: "...e il negozio?... potevi lavorare lì dentro."
"Certo... se l'avessi avuto ancora!"
Purtroppo era andato in fumo per colpa della ricerca sbadata di un famoso vino di Montalcino che mio padre non riusciva a trovare.
Era tornato dopo la chiusura, perché avevamo un suo vecchio compagno di guerra a cena.
Non appena ricevette la telefonata si ricordò che in una giornata di "fuoco" gli aveva promesso che se ne fossero usciti vivi gli avrebbe offerto quel vino, ogni volta che fosse andato a trovarlo: era il preferito da mio padre e molto costoso.
E così quell'impegno gli costò più del previsto.
Già mezzo ubriaco, dopo una giornata di dose raddoppiata per la contentezza di quell'arrivo inaspettato, aveva lasciato il ciancicato sigaro sul bancone e tutto era scomparso nel giro di un'ora.
Ovviamente, l'unica cosa che si era salvata, era quella vecchia bottiglia di vino.
Non fu mai aperta perché l'amico, che telefonò subito dopo che mio padre era uscito per la sua impresa, all'ultimo momento aveva rimandato la visita al giorno successivo.
Venne però al funerale del babbo, che in seguito a quella sciagura non se la sentì più di annegarsi nell'alcool ma, per l'ultima volta e in segno di catarsi, decise di bere l'acqua del fiume che attraversava la città di Massa buttandosi giù dal ponte più alto.
Consegnai la bottiglia di Montalcino all'amico, il quale la conserva tuttora sul comò della camera da letto di mia madre che da quel giorno prese a consolare con sempre più assiduità: chissà se hanno intenzione di stapparla il giorno delle loro imminenti nozze?
Non avrò occasione di chiederglielo perché me ne sono andato e da allora non li ho più visti.
In fondo mia madre aveva diritto a rifarsi una vita dopo tanto grigiore.
Una vita color rubino e profumata dopo tanto "secco" di cattiva qualità, buttato giù a forza giorno dopo giorno, per tanti anni.
Ma in fondo, avevo anch'io sete di un sorso di attenzione in quel momento, dopotutto non si smette mai di aver bisogno dell'appoggio della propria madre…. anche da grandi!
Da quel giorno avevo cominciato ad arrabattarmi in tutti modi, ma non mi ero reso conto che gli anni erano passati.
Io, un ragazzo bonaccione tutto amici e famiglia, mi ritrovavo improvvisamente nella strada alle prese con coyotes e alligatori, pronti solo a sbranarti e a ricordarmi che ero figlio di un ubriacone.
Strano! fino a che mio padre era vivo questo non mi era stato fatto pesare.
Malgrado tutto era sempre un reduce di guerra e anche un grande lavoratore, finché le braccia non gli diventavano di burro e lo sguardo di pesce.
Ma imparai che delle persone si ricorda o tutto il peggio o tutto il meglio, e di mio padre era rimasta solo l'impronta di quel sigaro che mi bruciava dentro ogni giorno di più.
Imparai a diventare scaltro e turbolento, cominciai a frequentare le così dette cattive compagnie, che altro non erano che ragazzi allo sbando come me, più o meno, tranne qualche raro caso di naturale scempiaggine.
Se almeno avessi trovato qualcuno che mi avesse dato fiducia con un lavoro onesto.
Bastava cominciare una vita in sordina e sarei riuscito, ne sono convinto, a farmi la famiglia che desideravo tanto, e il passato sarebbe veramente annegato nel mio futuro.
Ma non era andata così!
"Non è così!!!"
Urlò con tutta la forza che solo l'alcool ti dà un attimo prima di portartela via di nuovo.
A chi aveva parlato fino ad allora?
I suoi amici erano tutti sdraiati sulla sabbia e non si curavano che dei loro sogni, se ancora ne avevano.
Com'è che aveva iniziato il racconto della sua vita?
Era solo davanti al piatto mare che non si era scomposto nemmeno un po' e che di sicuro non gli aveva posto domande.
Anzi aveva annegato quelle parole come granelli di sabbia nel suo ventre profondo, perché in giro c'era solo un muto silenzio.
Continuò a guardare all'infinito con lo sguardo perso che tante volte aveva visto negli occhi di suo padre.
Ora quello sguardo se lo sentiva addosso come un vestito smesso.
Era il suo vestito, e se avesse tolto anche quello sarebbe rimasto completamente nudo.
Nudo su quella spiaggia, all'alba di un nuovo giorno: in cerca di un posto……. soprattutto nella vita.

IL TERREMOTO

Si trovava là da una vita o almeno da quando la sua era cominciata.
Quella fatiscente figura aveva sempre fatto parte del suo mondo: una torta di compleanno presa a morsi dalla grossa bocca del gigante che, gli avevano raccontato, un brutto giorno si era trovato a passare da lì.
Con le grosse ma invisibili mani, aveva stritolato interi caseggiati quasi fossero state noci, e con i piedi, enormi, ne aveva schiacciati altrettanti senza curarsi delle persone che vi abitavano.
Antonio, bimbettino, aveva sentito solo il tremore che quei passi provocavano sulla terra e il rumore sordo rimanendone terrorizzato.
Tutta la gente del paese urlava e scappava; anche la sua famiglia corse nel campo di nocciole che aveva dietro casa e non rientrò fino a quando le scosse non si fecero piccole piccole .... l'orco fantasma, si stava allontanando.
Una grossa, orribile torta andata a male con le briciole rovinate là attorno che le davano un aspetto ancora più tetro.
Le travi spezzate spuntavano come monconi di candeline dal tetto accasciato.
Erbacce e muschi la decoravano come umidi e molli disegni di zucchero.
Le porte sembravano pan di spagna rigonfio dal troppo liquore, e i mattoni di tufo a vista, creavano vari strati ora più chiari ora più scuri, a seconda di come la pioggia era scivolata su di essi, caramellandoli.
Con un battito improvviso le ciglia scure, che si erano posate lievi su quel giorno di festa distrutto, si allontanarono veloci svolazzando qua e là, distolte dal richiamo insistente di cugino Fonzo e così Tonino, tornò a giocare con il nugolo di piccoli scalmanati di u rione.
Il cielo si scuriva sempre più velocemente e le madri di lì a poco come tante lucciole, nere e indistinguibili, ma ciascuna con il proprio nido di calore alle spalle, sarebbero apparse sui balconi per richiamarli a casa.
Il piccolo quartiere sarebbe ricaduto nella calma di sempre e il silenzio, come un vecchio signore di campagna, avrebbe intrapreso la sua passeggiata serale.

Quella presenza, ormai semi ricoperta da rovi, era diventata parte integrante del paesaggio e di quel paesotto che nel frattempo si era allargato e rinnovato con belle costruzioni bianche e rosa.
Antonio era passato davanti a quella casa un' infinità di volte per tornare alla sua, ma quel giorno si era fermato di nuovo ad osservarla con attenzione.
Era diventato un ragazzo alto e la barba aveva cominciato ad ombreggiargli le guance nervose.
Vi rimase a lungo davanti, seduto sugli scalini di pietra bagnati e scuri per la pioggia appena smessa.
L'aria odorava di fumo, era già tempo di caminetti accesi.
Si chiedeva perché in tanti anni nessuno avesse mai pensato a rimettere in sesto quel rudere.
In quel posto i bambini si avventuravano malgrado i muri traballanti, per loro era una sfida continua entrarci quando le ombre si facevano enormi e il fruscio del vento e lo svolazzare dei pipistrelli creavano strani rumori.
Era la prova di coraggio per il gruppo di piccoli uomini in crescita.
Tonino l'aveva superata come tutti i ragazzi della sua generazione, ma gli altri si erano dimenticati di quel posto e lui invece no.
Quel giorno Antonio provava un sentimento diverso: di ribellione e sgomento insieme.
Non solo era rimasta là, traccia di quel passaggio, ma anche giù in città, luoghi identici, continuavano ad alimentare il ricordo di quei terribili giorni.
Non sapeva perché, ma percepiva che quella casa contribuiva all'incubo che da qualche anno a quella parte lo perseguitava.
Per questo si era fermato ancora una volta: per capire il suo disagio.
Come si addormentava si trovava in un ambiente buio e pieno di ragnatele.
Dopo un po' riusciva anche a vederle: bianche e spesse gli si appiccicavano su tutto il corpo e in qualunque modo si voltasse erano sempre là.
Nel suo girare a tentoni i filamenti elastici gli si posavano sul viso insistentemente, le mani si affannavano per strapparli via, ma ne erano piene anch'esse.
Inutile cambiare stanza, pulirsi, camminare, quelle comparivano sempre più numerose e appiccicose.
Il rintocco dell'orologio del paese come una folata di vento improvvisa spazzò via i suoi pensieri carichi di domande.
Si alzò in piedi riprendendo il respiro che si era affievolito nel ripensare a quell'incubo ad occhi aperti.
Con il passo molle e quel macigno sul petto si diresse a casa prima che la madre uscisse urlando a cercarlo nella piazza.
Non era più un bambino e quel vociare irrispettoso della quiete altrui adesso, era insopportabile ma a u rione questa era l'usanza e le sue proteste venivano regolarmente schernite.
Le mele messe a maturare sui terrazzi riempivano l'aria di dolce e nelle aie le nocciole come grosse macchie di ruggine contrastavano con le cataste di granturco sponzato e messo a indorare al sole.
Un altro inverno.

Cugino Fonzo era partito di nuovo per Modena.
Ormai da diversi anni quella era la sua città e al paese tornava solo per le ferie.
Aveva trovato un buon lavoro e non ci avrebbe rinunciato per tornare alle origini come alcuni compaesani avevano fatto.
Non si spiegava come tanti uomini della sua età continuassero a vivacchiare laggiù pur di rimanere fra quelle pietre consunte dal tempo e dalla noia.
Non c'era niente in paese, eccetto un bar pieno di gente che si lamentava di tutto.
Fonzo era sempre stato un tipo tranquillo, anche lui come gli altri aveva trascinato la sua vita dai giochi nel rione e le sfide nella casa, al bar con le carte fino a sera quando allegri per i troppi bicchieri di Grieco, si accompagnavano ridendo nel rientro. Il ragazzo meno problematico e riflessivo di Tonino, ma molto più pratico aveva colto l'attimo, per andarsene alla prima occasione.
Tonino invece era restato.
Sebbene più volte fosse andato a trovare il cugino e fosse rimasto entusiasta della vita che conduceva, sentiva che non era giusto sottrarsi come molti del suo paese, alle responsabilità che quella terra addossava loro.
Certo la vita di laggiù era piatta e le cose continuavano nella stessa e lamentosa apatica indifferenza di sempre, ma ogni volta era tornato, come se qualcosa lo legasse in modo indissolubile a quel posto.
Si era trovato una donna e aveva messo su famiglia ma le inquietudini di quand'era ragazzo continuavano anche adesso che era diventato padre.
Il lavoro era scarso e si arrabattava a fare un po' di tutto.
Malgrado i problemi che si presentavano ciò che l'ossessionava di più era il pensiero fisso che quell'edificio a distanza di anni era ancora là, e ancora era nei suoi incubi come qualcosa di vivo e d' inafferrabile.
E ogni giorno passandoci davanti diventava sempre più doloroso.
Con la maturità era riuscito a cogliere dettagli che prima con lo sguardo del bambino non aveva visto o che non era riuscito a notare con quello distratto e scanzonato dell'adolescente.
Ora in quella casa di bambole, dove la vita era stata bloccata su un'istantanea e lasciata là alla vista di tutti, scorgeva le mensole: i piatti poggiati sopra di esse a pile, tazzine da caffè ancora allineate in bell'ordine, un catinella sotto il lavandino della cucina.
C'era lo squarcio di una porta azzurra scolorita che apriva forse su una camera da letto, e una finestra ancora intatta che guardava su entrambi i lati del cielo, sospesa a mezz'aria come il quadro di un pittore d'avanguardia; una di quelle opere semplici, ma incomprensibili e insignificanti all'apparenza, che però attirano lo sguardo e lo spettatore ci sta ... per capire.
"Capire" continuava a domandarsi Tonino.

Carmelina veniva urlando giù per la salita che partiva da urione :"è caruta!" "è caruta! "
Le mani protese verso il cielo scompigliavano a tratti i capelli come se volessero arruffarli più del vento, che quella mattina correva forte fra le braccia seminude degli alberi ormai pronte ad accogliere il riposo del vecchio, stanco inverno.
Ma a dispetto della stagione l'aria era benevola, calda e inebriante come quella di una mattina primaverile.
Era il tredici di novembre.
Quella figura lunga e magra che si notava nel paese dove tutte le donne erano piccole e piene, sembrava un fuscello in balia di quelle folate.
Le calze nere e spesse risaltavano sotto la gonna verde a quadri e sbattevano dondolando in modo scomposto come quelle di una marionetta .
Anche la voce si perdeva nell'aria, ma l'espressione del viso inequivocabile, preannunciava messaggi di sciagura: "...è crollata! è crollata !"
Come grosse pietre quelle sillabe rotolarono giù dalla discesa e si sparpagliarono nella piazza fino a risalire su, nella stretta e ripida strada di "Santo Iaco".
Tutte le donne del borgo si affacciarono ripetendo come una eco umana e le mura ne risuonarono come dopo un'improvvisa esplosione.
La moglie di Tonino si affacciò per ultima e zia Carmelina si fermò proprio sotto il suo terrazzo.
Non ci fu bisogno d'altro.
Gli sguardi delle due donne si scontrarono.
Ora la madre correva su per la salita e questa volta era lei che prevaricava il vento per la velocità disperata con cui avanzava.
Arrivò.
Il paese era già là riunito e la polvere ancora alta circondava tutti come nebbia sopra un paesaggio marino.

La notte come nero di seppia era scesa viscosa e improvvisa.
Le foglie con il loro giallo acceso illuminavano tratti del selciato, ma non svolazzavano più al passaggio, perché l'umidità della sera le aveva rese molli, appiccicate in un morbido e scivoloso tappeto di alghe.
Tonino era là, accovacciato in un angolo della terra.
Sentiva il freddo girargli attorno e toccargli le membra, ma il caldo che emanava il suo corpo esausto, faceva da barriera.
L'odore della legna bruciata gli entrava nel naso come tante altre volte, ma quella sera sembrava che le sue narici fossero spalancate sui comignoli di tutte le case: qualcuno stava arrostendo carne.
Voci di persone e televisioni arrivavano alle orecchie, non ascoltava, ma riusciva a distinguere perfettamente un telegiornale dalla pubblicità e sentiva il suo cuore pulsare in tutto quel trambusto, eppure era convinto di averlo spento proprio quel giorno.
La casa ormai non c'era più, si era dissolta nella polvere della sua stessa caduta.
Il fantasma a distanza di tanti anni aveva fatto sentire ancora la sua potenza, perché era rimasto sempre là dentro, in agguato.
Filuccio, suo figlio, era stato portato subito all'ospedale in città, ma i suoi audaci giochi di bimbo erano finiti per sempre.
Se n'era andato divorato da quella stessa torta che a lui, a differenza del padre, piaceva tanto.
Nell'orrore di quella notte Tonino viveva il suo incubo.
Tutto, adesso, aveva un significato: la pigrizia, l'indifferenza, il vivere di sempre…….passato lo sgomento violento dell'incidente, erano già tornati a far da padroni nel paese.
Ma Tonino nel fragore catastrofico di quell'avvenimento aveva ricomposto la sua inquietudine.
Prese fra le mani un frammento di quel passato e lo stritolò con la forza di un gigante.
Poi si alzò lentamente, azzannò l'aria che continuava a punzecchiarlo e riempiendosene i polmoni con boccate feroci, si diresse verso casa con una amara certezza: il presente, d'ora in avanti, sarebbe stato……………….. diverso.

 

La  c a n n a

" Guardala Eurialo, guardala! "
Le voci provenivano da tutte le direzioni: davanzali delle finestre, terrazzini scalcinati, stanzoni vuoti in rifacimento di quell'enorme edificio in via Pitagora.
Era stato messo in vendita parecchi anni prima ma nessuno del posto, conoscendo lo stato di degrado in cui era stato ridotto da anni di abbandono totale, aveva osato comprarlo: era troppo malconcio.
Poi una grossa società del nord aveva pensato che sarebbe stato adatto per un supermercato, lì, nel centro della città vecchia e così erano ormai due anni che una ditta edile ci stava lavorando.
Ma la struttura era quasi pericolante, gli operai, pochi, e le Belle Arti non avrebbero mai permesso di rovinare la facciata di quel pezzo da museo che era palazzo Peripato.
Così i lavori si trascinavano fra le innumerevoli difficoltà che si presentano tutte le volte che si tenta di inserire un corpo nuovo in un involucro decadente e chissà per quanto ancora quel quartiere sarebbe stato inondato da polvere, urla e rumorosissimi trapani.
L'unico contento del trambusto era solo lui, Eurialo, che aveva trovato in quel cantiere una montagna di amici dimostratisi fin dal principio simpatici e ben disposti ad accettare la compagnia e le domande insistenti di quel ragazzone di trent'anni rimasto bambino per sempre.
Eurialo li faceva divertire come matti, lui lo sapeva bene, e si sentiva veramente felice con quei compagni sempre sporchi e accaldati che gli davano pacche pesanti sulle spalle curve e lo rincorrevano bestemmiando quando faceva loro qualche innocente scherzo.
La sua vita era cambiata da quando quella officina era sorta e le sue giornate adesso erano divertenti.
Con la voce scomposta e la bocca sempre spalancata al sorriso, ma leggermente bagnata da una bava che non sapeva controllare, continuava a ripetere a tutti che Giorgio, Beppe, e gli altri si stavano costruendo casa per andare a stare lì con lui.
E ogni volta che qualcuno metteva in dubbio le sue affermazioni divertendosi a smontare così quelle certezze, cercava conferma interrogandoli fino allo sfinimento.
Quelli, senza nemmeno starlo ad ascoltare rispondevano continuando a smantellare o a rifare un intonaco: "Sì, verremo a stare qui! Sì Eurialo, è vero!".
Ma era capitato che invece la domanda a volte fosse: "...ma... Pasquale, mi ha detto che prima o poi ve ne andate!" e alla canonica e distratta risposta " Sì, Eurialo, è vero!" il povero ragazzo fosse colto da convulsioni tanto da far fermare il lavoro, caricarlo sulla prima macchina a disposizione e portarlo di corsa all'ospedale.
La madre andava regolarmente a riprenderlo; solo lei riusciva a calmare quel figlio nato così strano, un bambino di tre anni ormai uomo fatto, che Dio le aveva destinato.
Era stato il grande dolore per la perdita del marito diceva lei.
Il padre di Eurialo lavorava su un peschereccio, uscendo ad ogni alba e qualsiasi tempo facesse perché, con la famiglia che sarebbe aumentata di lì a poco, non si poteva permettere periodi di inattività.
Un giorno, proprio quando la signora Alfonsina era alla fine della gravidanza, fu travolto dal mare in tempesta e restituito dopo parecchi giorni, prigioniero di una rete come uno dei suoi tanti pesci.
Il dolore straziante che sconvolse la povera ragazza aveva avvolto quel bambino in una campana di vetro per tenerlo lontano dalla vita, "...che è sofferenza…", continuava a ripetere la puerpera nei momenti di lucidità dopo un mese di dormiveglia anestetizzata dall'ulteriore triste realtà che quella nascita le aveva messo fra le braccia.
"Non è infelice il mio Eurialo" ripeteva alle vicine di casa, "proprio perché é così non conoscerà mai il dolore, Dio ha provveduto...ha provveduto per il meglio."
E quel bambino crebbe con il sorriso sulle labbra, una luce spenta negli occhi e l'amicizia compassionevole di tutta la gente del posto.
Da quando quei muratori erano arrivati a sconvolgere la quiete del centro città, Eurialo era ancora più gaio e giulivo.
La mattina presto si alzava e si vestiva con maniacale precisione.
Qualcuno gli aveva regalato un cappello da vero imbianchino fatto con il "Quotidiano" di Taranto e tutti i giorni se lo accartocciava ben bene sulla testa che cominciava a pelarsi alle tempie.
A lui piaceva quella perdita e trionfante portava alla madre i capelli che ogni tanto trovava sul cuscino come fosse stata una conquista.
Questo perché un certo bell'imbusto del quartiere completamente pelato sollevava nella sua personcina un'aurea di adorazione.
Mai una volta si era fermato a scherzare con Eurialo come invece facevano tutti, ma lui aveva sentito raccontare dai ragazzi del circondario le imprese di quel delinquente, diventate incredibili gesta nella sua immaginazione.
Era considerato, malgrado gli altri non avessero il candore di Eurialo, un grand'uomo temuto per " le sue forze nascoste " sosteneva ingenuamente lui: "è tutta nella pelata la sua forza, io lo so, è così che sto diventando anch'io, anch'io sarò forte nello stesso modo un giorno!"
La madre annuiva e pensava al marito con la pancia gonfia d'acqua, sfigurato dalla conoscenza brutale degli abissi di quel mondo che amava tanto, e per non farsi vedere piangere si metteva a sbucciare le cipolle.
A casa di Eurialo si mangiava spesso cipolle in tutte le salse, crude o cotte, e lui aveva l'alito pesante ma nessuno lo prendeva in giro per questo.
Dopo il cappello infilava la tuta da lavoro blu che un ex meccanico del gruppo gli aveva procurato. Più che blu era celeste ormai, coperta da chiazze di vernice e di stucco rinsecchito.
Poi prendeva il cestello che la madre gli preparava regolarmente con il pane, il formaggio, pomodori e qualcosa da bere e partiva per il suo lavoro.
Come un vero muratore andava tutte le mattine al cantiere e là restava fino alla chiusura.
Così per due anni. Aiutava a portare un sacco di cemento lì e una cazzuola là, lo facevano muovere in continuazione e se ne approfittavano anche.
Ma più arrivava stanco alla sera più era felice, così lo facevano trotterellare e sgobbare tutto il giorno e lui, sempre con il sorriso sgraziato fra i denti storti, era contento per quel suo ruolo da mascotte.
Ma qualcuno aveva notato che ogni tanto si fermava incantato a guardare dalle finestre del palazzo, fissava laggiù il canale, che univa il mar grande al mar piccolo.
Qualcosa o qualcuno, attirava spesso la sua attenzione.
Di colpo dimenticava gli amici, gli scherzi, il via vai continuo con un mattone in mano.
Si bloccava, immobile, con la bocca spalancata e lo sguardo affondato nel luccichio vibrante del mare.
Fu così che un giorno qualcuno gli si affiancò e cercò di seguire il filo dei suoi occhi verso l'oggetto di tanta ammirazione.
Ma non riuscendo a capire, alla fine chiese: " Cos'è Eurialo che guardi? "
" Laggiù...la vedi? " rispose.
" Cosa dovrei vedere ? " e quello, pensò a una donna!
" La canna laggiù, vedi come è lunga e come diventa fine e poi si piega a volte fino a toccare il mare e allora succede qualcosa e d'improvviso il filo si tende e il pesce compare e vola nell'aria come un uccello! "
L'uomo allora capì. Il ragazzo era attirato da quei pescatori solitari che stavano ore e ore sul molo con la speranza di acchiappare qualche piccolo pesce di passaggio in quella lurida acqua vicino al porto.
Qualcuno ne ricavava addirittura la cena e passava così il tempo per non bighellonare, come tanti facevano a spasso per il Corso.
Certo ci voleva passione per stare tante ore lì ad aspettare, nel silenzio e al vento che a volte frustava freddo le guance, ma a Eurialo non sarebbe mancata la pazienza e nemmeno la sopportazione, pensò il confidente.
" Anch'io voglio far volare i pesci! " aggiunse deciso " come si fa? "
Al compagno sornione che gli stava accanto venne d'impeto un pensiero maligno e trattenendo in una contrazione delle labbra il sorriso, seriamente disse: " Te lo dico io come si fa! Ci vuole prima di tutto la canna. Tu, ce l'hai la canna in mezzo alle gambe? "
Eurialo divenne tutto rosso. Quel coso in mezzo alle gambe c'era, ma non era come quella là, tutta blu con il filo che luccicava ai raggi del sole.
Era piccolo e molle quel coso laggiù sotto i pantaloni e quando succedeva qualcosa per cui cresceva un poco e si induriva non aveva mai raggiunto quella grandezza, e poi... nessuno gliene aveva mai parlato.
Ma voleva sapere e balbettando fra i denti, si fece coraggio e disse: " Sì che ce l'ho! "
" E allora guardala Eurialo, guardala e crescerà. Diventerà la tua canna da pesca. Vedrai! ci pescherai anche una moglie! "
L'incosciente amico di giochi non aveva capito che quella battuta sarebbe stata presa sul serio da Eurialo nel cui mondo tutto era possibile e dove soprattutto la malizia non aveva assolutamente capacità di germogliare.
Fu così che Eurialo cominciò a guardarsi la canna con la speranza fiduciosa di vedersela un giorno tra le mani magari verde e blu come piaceva a lui, non per pescarci una moglie come aveva detto l'amico, non sapeva cosa fosse e non gli interessava, ma per poter finalmente far volare i pesci per aria.
Certo lui non li avrebbe messi nel secchio come gli altri e portati a casa.
Li avrebbe solo fatti volteggiare in cielo due o tre volte e poi li avrebbe ancora fatti andare sott'acqua per ricominciare il gioco quando si fossero di nuovo trovati da quelle parti.
E così i giorni cominciarono a passare diversamente.
La mattina Eurialo non si alzava più con la stessa solerzia perché rimaneva nel letto a guardare se per caso durante la notte quella sua cosa fosse cresciuta e si fosse trasformata, ma niente.
Arrivava tardi sul posto di lavoro e poi si appartava per vedere se era successo nel frattempo.
Così i compagni una volta saputo l'oggetto di tanto interesse e di cambiamento, cominciarono a prenderlo in giro.
Nella sua ingenuità non aveva tenuto per sé la cosa, ma rispondeva spontaneamente alle domande dicendo che si guardava la canna!
E loro: " Guarda la canna Eurialo, guarda la canna! "
Fu così che cominciò a guardarsela davanti a tutti lì nel cantiere, spinto da quelle voci che credeva sincere e senza il pudore che giustamente non conosceva.
Cosa poteva mai saperne lui di sesso?
Finché il gioco rimase all'interno del palazzo tutto andò per il meglio perché quei rozzi muratori non si scomponevano ovviamente per quel piccolo cencetto rosa che ogni tanto ciondolava fuori dalla tuta blu da meccanico.
Ma la faccenda cambiò quando cominciò a guardarsi anche per le stradine che conducevano a casa.
Fu così che quel giorno si fermò poco prima del cancello perché sentiva che stava succedendo.
Si tirò fuori il tutto e con un sorriso enorme ammirò soddisfatto il miracolo che si stava compiendo proprio mentre una vicina di casa passava di là.
L'amica della madre cominciò a strillare scappando con le mani nei capelli: " Mio Dio Eurialo che fai, che fai! Alfonsina corri, tuo figlio... guarda che fa! "
Ma alle grida accorse una volante della polizia.
Caricarono sull'alfetta il povero ragazzo che nel frattempo colto di sorpresa da quelle urla aveva visto scomparire di colpo il suo desiderio e aveva attaccato a piangere, tenendosi in mano il piccolo uccellino dalla testa penzoloni.
La madre questa volta lo raggiunse al commissariato e per difenderlo dall'accusa di maniaco esibizionista, dopo ben tre ore di colloquio con il figlio che continuava a piangere per la sua canna persa e a ripetere frasi senza senso, alla fine riuscì a farsi spiegare la storia per filo e per segno, fra pesci volanti e canne lucenti saltate fuori da quel racconto sconclusionato.
Risolta così quella faccenda insolita, madre e figlio tornarono a casa, e nel percorso lei si sentì stringere il cuore in una morsa e non aspettò di essere in cucina per dare sfogo al suo dolore.
Aveva visto per la prima volta piangere il figlio ed era stato uno strazio indescrivibile.
Quella povera creatura aveva conosciuto la sofferenza come tutti gli altri.
"La vita è amara anche con loro" si rese conto all'improvviso.
Quello scherzo non fu perdonato e malgrado le insistenze, Eurialo non fece più ritorno al cantiere.
Gli fu inoltre proibito, in maniera categorica, di guardarsi al di sotto della cinta dei pantaloni, e lui, per la prima volta, provò vergogna nell'abbassare gli occhi ad una certa altezza anche con chi gli stava di fronte.
Ora camminava a testa alta e le spalle ben dritte, rigido come un manichino per paura che qualcuno si mettesse a urlare come quel giorno.
Oltre agli strilli della vicina voleva dimenticare quella sensazione orribile che si era tramutata in acqua e gli era uscita dagli occhi e dal naso e che gli aveva fatto tanto male.
Ebbe solo il permesso di passeggiare sul molo dove tutti lo potessero vedere e dove lui passava ore e ore a sognare, triste ormai, la sua canna mancata.
" Chissà come avevano fatto tutti quelli laggiù a non farsi vedere dagli altri mentre se la guardavano. " continuava a domandarsi.
E non c'era altro modo per averla, concludeva sconsolato!

Ma la coscienza a volte rimorde.
Un giorno venne recapitato un pacco incredibilmente infiocchettato alla mamma di Eurialo, con un biglietto firmato " gli amici del cantiere ".
La donna lesse a voce alta dopo aver scorso velocemente quella grafia "pigiata" poco avvezza alla leggerezza di una penna: " Uno di noi ha finalmente pescato una moglie e ora non ha più tempo per i pesci. Te la regala con tutto il cuore sperando che sia come la volevi tu! "
Le parole pronunciate dalla signora Alfonsina non ebbero molto effetto sul destinatario, che si era messo invece a tendere e mollare, con tutta l'attenzione di cui era capace, i riccioli dei nastri multicolori del pacchetto, attirato in realtà più dall'involucro che dal suo misterioso contenuto, e che il postino Fabrizio teneva fra le braccia quasi fosse un enorme mazzo di fiori.
Ci fu un attimo di silenzio e la madre di Eurialo sospirò come se con il movimento del petto spingesse un oggetto pesante.
Questo rotolò via per un attimo verso il fattorino che prontamente respinse al mittente con una contrazione dei muscoli del viso di rassegnata partecipazione.
La donna fece un cenno di assenso e quello si piegò verso il ragazzo consegnandogli l'ingombrante e appariscente regalo.
Eurialo si mise a scartare con cautela perché gli dispiaceva sciupare quella stravagante composizione, ma quella volta fu diverso.
Fu il giorno più bello della sua vita.
Appena scorto il dono inaspettato, un guizzo percorse gli occhi che riacquistarono il normale respiro, come due pesci che tornano all'acqua dopo aver passato momenti interminabili fuori dal loro ambiente naturale.
Prese fra le mani quei metalli con una cautela impensabile, li accarezzò sfiorandoli come fossero stati di carne viva.
Li montò con cura impiegandoci una intera giornata e guardò i vari pezzi brillare nell'aria della sera, blu e verdi metallizzati: era ancora più bella di quello che poteva immaginarsi.
Il giorno dopo di buon'ora era sul molo con i vermi e tutto il resto a osservare le mosse del vicino che lentamente si preparava alle ore di attesa.
Chissà se anche lui pescando una moglie gli avrebbe regalato la sua canna gialla e rossa. Così ne avrebbe avuta una di scorta!
"Pescare una moglie" rimuginava ogni tanto nei momenti in cui lo sguardo fisso alla piatta superficie marina, unito al frusciare incessante delle piccole onde, lo faceva cadere in un soffice torpore mentre rilanciava con poca maestria la lenza in mezzo alla corrente.
" A me non interessa pescare una moglie - borbottò risoluto verso il compagno di pesca, che già tirava a sé la canna che si incurvava - io voglio solo far volare i pesci! " e uno strattone improvviso lo fece sussultare.
Il sorriso tornò di nuovo sulla bocca sgangherata aperta al mondo e i suoi occhi furono illuminati ogni giorno dai " brillini marini " come li chiamava lui e ogni tanto offuscati, un poco, ma solo un poco, dalla domanda che chissà se avrebbe mai pescato quel misteriosissimo pesce che era " una moglie ".

Gli occhiali

L'enorme palla di lardo li stava vagliando con attenzione.
Lara ed Alì, a loro volta, arrancavano in mezzo alla peluria ispida e nera che imbrigliava piccole gocce di sudore, poco sopra le labbra dell'interlocutrice, distese sull'orlo di una domanda trattenuta .
"Oggi giorno, si sa, i ragazzi vanno da soli a fare le vacanze ma, di solito, hanno la pelle abbronzata o tutt'al più lampadata" pensava la grassona. "Qui, la cosa è ben diversa..."
I tratti marcati del ragazzo e gli occhi con quelle folte sopracciglia non erano certo quelli di un terrone in vacanza.
No, qualcosa non quadrava.
La ragazza poi, poteva anche averli diciott'anni, ma la storia del portafoglio rubato con documento annesso, puzzava di scusa inventata alla bell'e meglio.
"Aspettate qui, che guardo se ci sono camere libere per il pomeriggio! " e fra i peli umidicci sibilò "…non voglio cazzi con questi due mocciosi."
Il tono era così scocciato e il tanfo di sudore rimasto a guardia della reception talmente disgustoso, che i due se la svignarono non appena il grosso e deforme culo della ex puttana, ora maitress della pensione La lucciola, scomparve nell'antro vellutato e polveroso del salone d'ingresso.
L'amore non ha colore, né razza, né cultura, ma lei che ne poteva sapere ?!
I ragazzi girarono al primo angolo favorevole inseguendo il filo senza capo delle stradine e mettendo quanto più cemento potevano fra il loro sentimento e quella pensionante di ipocrisia.
Firenze era bollente.
Cominciarono a temere che di lì a poco il caldo avrebbe fatto liquefare l'asfalto, rendendo così visibili le loro impronte.
Poi, improvvisa, accanto alla locandina del Vernacoliere, che come al solito esplodeva caratteri neri di fiche e buchi di culo, un volantino e su quello una foto inequivocabile di Lara in tutta la sua bellezza: "wanted" lei tradusse subito e brevemente ad Alì, che non capiva.
Chi, non l'avrebbe notata?! Non c'era scampo.
La città sembrava, d'un tratto, un'enorme edicola: ad ogni angolo i suoi meravigliosi occhi, le labbra piene, la pelle morbidamente tesa ; in quel modo i genitori cercavano di rintracciarla.
Alì si fermò e tirò fuori dall' immancabile grande, pesante borsa all'Etabeta, un paio di occhiali scuri, modello finto Armani.
Lara li indossò, con un attimo di esitazione, dopo averlo guardato a lungo negli occhi senza parlare, e da quel momento la loro fuga assunse la tonalità deviata che famiglia, polizia e gente le avevano quasi naturalmente attribuito.
Tutto cambiò nell'attimo stesso in cui quello schermo fu messo fra lei e il mondo attorno.
Bastò quel pezzo di vetro ad appannare tutti i suoi sentimenti ed il viso di lui poi assunse una tonalità talmente diversa che lei, per la prima volta, notò di più, i tratti somatici che lo caratterizzavano.
Le strade attorno presero un'angolatura strana, come se curvassero ora verso l'alto ora verso il basso, e una sensazione di nausea cominciò a farsi sentire con sempre maggiore insistenza.
Si sentiva disgustata da quella improvvisa cappa nera, ovviamente degli occhiali da cinquemila lire non potevano avere che lenti adeguate, ed era per questo che la sua visione era alterata, ma non solo…..
Per riposarsi un po' dopo tanto correre presero un autobus che saliva anche su per le colline verso Fiesole e si fecero tutto il percorso da capolinea a capolinea.
Da dietro quelle lenti adesso osservava le persone che in autobus davano occhiate insistenti, anche se con apparente casualità, alle loro mani intrecciate.
Guardavano le mani e poi i loro visi e poi alzavano il sopracciglio e rivolgendosi finalmente in altra direzione si vedeva, si vedeva chiaramente il pensiero conclusivo… "finirà…."
Certo finirà, pensava con crescente astio lei, perché questo è quello che volete, perché questo è quello che ci porterete a fare.
E si odiava, e odiava adesso, quella situazione perché si sentiva cambiare dentro, perché vedeva adesso quello che vedevano gli altri e non le piaceva, non le piaceva per niente.
Liberati dal peso della borsa di Alì dopo averla lasciata in custodia ad un compagno di lavoro che stazionava nella piazza del Porcellino, camminarono ancora a lungo per la città incantata.
Si mescolarono alle frotte di turisti che ogni giorno affollano il centro, fecero avanti e indietro per Ponte Vecchio sempre mano nella mano e in quella mescolanza di visi ed etnie da tutto il mondo, si sentirono finalmente un uomo e una donna insieme.
Gustarono, quel pomeriggio, il sapore della vera vacanza, l'esserci per conoscere, per stupirsi senza pensieri, senza timori anche se lei avrebbe voluto strapparsi di dosso quegli occhiali che continuavano come due ali scure a lambire quell'ultima giornata insieme.
Raggiunsero il giardino di Boboli, lo percorsero tutto, in lungo e in largo, si sedettero all'ombra dei grandi alberi, sulle panchine attorno alle fontane.
Si baciarono percorrendo i viali alberati sotto l'incrocio delle fronde che formavano una galleria di luci e colori, nella magica atmosfera di quella giornata estiva.
E poi tornarono a camminare seguendo il placido letto dell'Arno, nel riverbero aranciato del tramonto.
Al crepuscolo si rannicchiarono in un angolo del parco delle Cascine e lui decise che non sarebbe tornato sulle spiagge della Versilia.
Lara però doveva tornare, e lui non l'avrebbe lasciata da sola, se non là, nei paraggi.
Presero il primo treno disponibile e là, chiusi in un vagone con le tendine tirate sul lato del corridoio, Lara si tolse finalmente gli occhiali e la sua mente tornò alla pace iniziale.
Il viaggio di ritorno fu triste e passò in un lampo ripercorrendo anni della loro vita come già avevano fatto durante quei quindici giorni insieme.
Lui, una famiglia numerosa in un piccolo villaggio.
Un posto impossibile da identificare sull'atlante della memoria geografica di lei, che pure percepì negli odori, nella polvere e nei colori delle sue parole.
Un paese povero: la vita annaspata nel mare delle illusioni infantili, poi la maturità e la comprensione che non c'era speranza e così la decisione di partire per un nuovo mondo.
Il sogno di tanti catapultato in un'altra terra, altre idee e abitudini.
E trovarsi di nuovo ad annaspare in un'acqua che non era nemmeno la propria!
Lei, il nuovo mondo.
Famiglia benestante: padre insofferente e madre offesa dall'indifferenza del marito, i quali però non avrebbero mai macchiato la posizione sociale raggiunta con una separazione.
Lara li disprezzava per essere così codardamente aggrappati al bozzolo che avevano costruito attorno alla crisalide incartapecorita del loro matrimonio.
E loro due? Si erano conosciuti una mattina d'agosto.
Una di quelle giornate roventi in cui anche l'acqua del mare sembra ribollita con cotiche e fagioli.
Alì sii era fermato per vendere le solite cose di tutti i vù cumprà.
Lara non aveva soldi da spendere, stava pranzando a panini e frutta e glieli offrì.
Si misero a parlare e da allora, accadde quasi ogni giorno, perché lui passava sempre, dato che quella era la sua zona di lavoro.
Lei bella, sola, non ostile né timorosa.
Lui dolce, solo e intraprendente per una volta tanto, come se fosse stato a casa sua con una ragazza della sua terra.
Cominciarono a vedersi anche la sera dopo cena.
Lara lasciava il fratellino davanti ai videogames a Fiumetto e andavano ad appollaiarsi sul ponte della Versiliana per parlare, conoscersi.
Ma un giorno il bimbo chiese davanti ai genitori se Ali lo avrebbe mai portato al suo paese.
Evocato quel nome senza accento come un presagio, fu immediatamente tarpato via dalla vita di Lara.
Così la fuga.
Ora però avevano capito che non c'era futuro per loro, per la loro diversità.
Era quasi buio quando raggiunsero Forte dei Marmi.
Andarono sulla spiaggia e passarono la notte guardando la luna che brillava sull'acqua: erano lì e da qualsiasi altra parte.
Lara doveva lasciarlo.
La loro storia era comunque stata una realtà.
Nessuno avrebbe mai cancellato la libertà che uno aveva donato all'altro e l'amore sarebbe rimasto dentro.
Un uomo doveva continuare il suo viaggio e una donna seguirlo rinunciandovi.
Si lasciarono così: all'alba Lara salutò per sempre Alì avvolto nel kilim che li aveva tenuti stretti tutta la notte.
Il profumo del mare a quell'ora era puro e forte.
Nel silenzioso e dondolante corridoio di pini sovrastanti la strada del ritorno, il canto delle tortore nel risveglio del mattino le colorò il cuore di nostalgia.
Quell'uccello moderatamente grigio e dolce le scandagliava l'anima con un TUuu di cui non aveva mai avuto coscienza: lei sceglieva di scegliere.
Non avrebbe mai dimenticato, e quella nota triste le avrebbe ogni volta spalancato una porta chiusa, ma nessuno avrebbe più strappato via quelle ali.
Corse a casa con la polvere, i colori e gli odori di un mondo tutto suo, che riuscirono a sovrastare le urla della madre e anche lo schiaffo di suo padre ……..una tortora, lontano, si alzò in volo.

 

ASIA

L'uomo spense anche la fioca lampada del salotto.
Il tonfo del buio che improvviso come una cascata li avvolse, attutì a malapena il fruscio della seta stropicciata tra i due corpi.
Le dita della mano di lui sprofondarono nella luce della sua vagina..
Quello che avvenne fu un rituale ripetuto ormai stancamente.
Non tenevo più memoria adesso dei rapporti con gli uomini.
Non annotavo più nel taccuino della mia fantasia i gesti inconsueti, le parole strane, le figure dei giochi che accendevano l'immaginazione.
Semplicemente non lo facevo più, perché non accadeva niente di nuovo.
Un disco rotto ripeteva il canto erotico di tutta una vita, diverso solamente perché nuovo era il cliente che suonava alla mia porta.
Sentì battere forte dentro il corpo.
L'uomo la girò poi a pancia in giù sulle lenzuola, lei, con gli occhi chiusi e la faccia sprofondata nella federa, respirò a fondo il profumo fresco del sapone di Marsiglia.
La sensualità di un tempo era svanita come un fiume in un buco della terra.
Era diventata sotterranea in quel mondo improvvisamente venuto alla luce dalle vulcaniche annotazioni del diario di Anna: un pegno per l'amicizia profonda che ci legava.
Un breve periodo di lontananza aveva interrotto il nostro rapporto in tutti quegli anni.
Io sapevo solo che Anna aveva lasciato la città per seguire un uomo: "… mi dà vita… " mi aveva scritto un giorno, su una cartolina con il golfo dei Poeti di Portovenere.
Appesi quel piccolo riquadro di terra vicino al computer in ufficio, e ogni volta che la nebbia di Milano affumicava la città là fuori, sprofondavo nella luce del mare di quell'angolo di Liguria, nel giallo dei narcisi e nel profumo delle violacciocche che spiccavano sulla roccia grigia.
E sentivo la voce di Anna espandersi dall'inchiostro della sua incerta grafia"… questa volta è per sempre".
L'uomo ansimava sopra i seni appassiti dai tocchi maldestri dei suoi predecessori.
Era diventata un po' anche la mia storia ormai.
Le cartoline che inaspettatamente arrivavano dai posti più belli del mondo riportavano fotogrammi di un film che facevo scorrere nella testa come se ne fossi stata la regista.
Poi più nulla.
La scena si era bruscamente interrotta davanti a un faro, su una scogliera dell'Algarve battuta dal vento dell'Atlantico, e da quel faro la luce svanì per sempre.
Anna sparì dietro la Torre Eiffel, le Piramidi, il Colosseo, le Moschee, i tramonti dei deserti americani, per riapparire dopo diversi anni nascosta dal calco di una maschera di accesa vivacità sessuale.
Com'era cambiata.
L'uomo le leccava il collo contraendosi sopra il suo corpo.
Le parole umide, sussurrate concitatamente, al contatto con la sua pelle ghiacciata si solidificavano scivolando via come gocce di sudore.
Non rimaneva più nulla della spensierata ragazza che rideva e beveva Martini per imparare a ballare meglio, diceva .
Era diventata un pipistrello, lei che adorava fare lunghe passeggiate anche nel più rarefatto sole della città.
Ora usciva di notte nelle ore più tarde.
La vedevi, avvolta da meravigliose pellicce di volpe argentata, prendere il taxi e sfrecciare via come una falena verso la luce al neon dei locali più "in" di Milano.
Rientrava la mattina e spariva nel lussuoso appartamento comprato in via Monte Napoleone.
Venne diverse volte a trovarmi, ma non mi raccontò la fine del suo amore, ed io non volli insistere per non vedere lo strazio del suo sguardo che si lacerava al solo ricordo. Era già abbastanza percepibile.
No, non era più lei.
Quella mattina venne a salutarmi con un pacchetto in mano, annodato da un fiocco che legava anche una rosa rossa, resa cupa dal tempo, la quale si frantumò in mille pezzi non appena sciolsi quel nodo.
C'era la sua storia: i giorni belli e quelli brutti e poi, la fine di quell'amore incredibile, che completò il film lasciato a metà tanti anni addietro.
Non mi piaceva quel finale e quello successivo poi mi lasciò davvero senza fiato.
La trovarono in un canale dei Navigli imbottita d'acqua e di psicofarmaci, forse per paura che anche quella volta non andasse come lei avrebbe voluto.
Nella foto del giornale si scorgeva solo la pelliccia biancastra che galleggiava allargata sull'acqua scura: una farfalla dalle ali inzuppate, pesanti che mai più avrebbe ripreso il volo.
E proprio il giorno del suo funerale rilessi il diario alla ricerca di un qualcosa che, finalmente, giunse.
Planò leggero come un petalo spinto via dalla corolla di pagine che andavo sfogliando e, mi finì fra le cosce dato che ero seduta sul letto.
Forse quel segno sarebbe dovuto bastarmi e farmi capire a che cosa andavo incontro, ma volli anche leggere e così compromettermi: "Mi chiamo Asia e sono sconfinata come quella terra. Se vuoi, puoi visitarmi a tutte le ore del giorno, ma solo rigorosamente al buio, basta il ricordo e l'immaginazione per essere felici."
Il numero di telefono corrispondeva al suo e così spinta dalla curiosità andai nell'appartamento di cui mi aveva lasciato le chiavi.
Entrai e girai per le stanze silenziose e piene delle sue cose.
All'improvviso il telefono mi fece sobbalzare.
Alzai il ricevitore senza pronunciare parola e la voce chiese:
"…Asia? "
risposi automaticamente: "…Sì! "
"…arrivo. "
Abbassai la cornetta e aspettai ansiosa.
Qualcuno suonò alla porta e poi entrò: sbadatamente l'avevo lasciata aperta.
Non mi accorsi nella frenesia dei fatti di trovarmi in camera, seduta sul letto e con le luci spente, ma era tutto prestabilito, doveva essere così per qualche ragione che ancora rincorro.
Sentivo quel respiro concitato ma pesante, come di chi cerca di controllarlo.
Il passo sicuro percorse il salone, le sue mani mossero oggetti di vetro, il suono di un liquido scorse veloce ed io deglutii piano per non interrompere il silenzio che si caricava sempre più di movimenti ben percepibili.
Poi lo sentii avanzare, vidi la sagoma nera nella luce soffusa della sala e fu così che mi trovò.
Sembrava tutto molto naturale.
Accarezzandomi i capelli rimase in piedi davanti al mio viso e mi riempì la bocca con il membro già eccitato.
Sì, sembrerà strano ma cominciò proprio così.
D'altronde la nebulosità di quell'esistenza vissuta ai margini della notte e all'oscuro del giorno mi avevano sempre incuriosita.
Era come se io stessa fossi fatta per quel genere di vita che, ovviamente, non mi apparteneva, ma che non sarebbe mai stata se lei, lei non mi avesse lasciata in quel modo, consegnandomi, nell'ultima ora della sua esistenza, l'eredità di quel diario che segnò il mio destino.
Così diventai… Asia.
Da quel giorno tutti i fine settimana mi recavo nel suo appartamento e assaporavo il sottile piacere di trasformarmi in un'altra che forse già esisteva, ma che evidentemente non avrebbe mai avuto il coraggio di uscire allo scoperto se non con quello stratagemma.
I clienti erano tanti, ma io non li vedevo mai in faccia, come loro non vedevano mai me, perché il biglietto di Asia era molto esplicito ed io continuai a pubblicarlo con quella dicitura, senza cambiare una virgola.
Per alcuni degli uomini che frequentavano quel posto c'era il desiderio, proprio come per la mia amica, di continuare a far l'amore con la solita persona che non corrispondeva certo ad Asia, e lei, a differenza di loro lo era, virtualmente, sempre.
Dunque non era la sua prorompente fisicità ad attrarli, no, non poteva essere quello, anche se era possibile, nel buio della stanza, percepirla attraverso tutti gli altri sensi.
Era un gioco molto più sottile che coinvolgeva le loro fantasie in un rituale sempre uguale a se stesso.
Al contrario, per altri, il buio poteva nascondere donne ogni volta diverse fra loro e questo poteva essere eccitante.
Ma per Anna no, ne sono sicura era solo e sempre uno.
Poteva sembrare ambiguo un ragionamento del genere, ma la logica di quel pensiero con l'andar del tempo si fece strada nella mia testa, come molto probabilmente era accaduto nella mente di Asia.
Non importava chi fosse l'uomo che ogni volta entrava da quella porta, per lei era come fare l'amore con lo stesso uomo del passato.
Sicuramente era sempre e solo lui, perché anche per me l'uomo che si stagliava nella luce gialla del salotto diventava sempre quello creato dalla mia fantasia.
Era una specie di invasamento che all'improvviso mi prendeva e mi faceva amare come mai avevo fatto prima, convinta che lui fosse sempre Lui, il mio corrispettivo ideale.
Il rumore della zip che si chiudeva la fece trasalire percorrendole la schiena in un sussulto finalmente di piacere.
Le spalle dell'ultimo cliente di quella strana serata si stagliarono ancora nella luce soffusa del salone, anche questa volta non si era quasi accorta della sua presenza.
Quella sera non risposi più al telefono, mi sentivo strana, avevo ricominciato a pensare ad Anna con insistenza e ai suoi ultimi giorni di vita.
Sentivo solo le ossa indolenzite dalla violenza con cui avevamo fatto l'amore, capitava, ogni tanto, che la dolcezza non facesse parte di quell'oscurità anzi, per alcuni era ancora più incentivante, ma non mi era mai capitato niente di male.
Chissà se anche lei si era sentita così, chissà se l'incantesimo era svanito come stava capitando a me.
Nulla era più eccitante come una volta, quella continua clandestinità mi stava ingurgitando ed io stavo diventando l'ombra della donna che credevo essere.
Anzi stavo diventando io stessa il fantasma irreale che vedevo riflesso negli uomini con cui andavo a letto.
Ormai non esistevo più, ero solo una eco della mia immaginazione.
Mi chiusi la porta alle spalle e non rimisi mai più piede in quell'appartamento.
La paura di sparire come Anna dalla mia vita, mi portò improvvisamente alla ricerca di un'esistenza normale.
Ho cambiato lavoro, ho cambiato città trasferendomi immediatamente.
Ho scelto la Versilia, una delle tante cartoline inviatemi quando ancora Anna era felice.
Uno di quei posti pieni di luce e di sole in cui tante volte ero sprofondata per sfuggire al triste grigiore di Milano.
Asia era troppo sconfinata per le mie possibilità e forse lo era stata anche per Anna.
Un giorno distrattamente leggendo gli annunci di un giornale vidi evidenziata una scritta:" Asia dove sei?
Il buio che ti avvolgeva ti ha inghiottita?
Ritorna."
Lessi quelle poche parole con il fiato sospeso, poi corsi alla finestra come a cercarne il respiro.
Era una giornata diafana.
Batuffoli di polline come lana leggera volavano sospinti dal vento ormai primaverile.
Alzai il viso verso la luce abbagliante e provai a guardare dentro il cerchio perfetto del sole quasi a captarne tutta l'energia.
Dopo un po' dovetti desistere perché gli occhi si chiudevano da soli.
Ribadii che la mia vita sarebbe stata sempre così: occhi spalancati alla luce anche a rischio di rimanerne accecata, e scaraventai giù dalla finestra il giornale che si spiegò lasciando planare i suoi fogli come petali sulla strada sottostante, disperdendo Asia per sempre.

 

ADELINA

Strinse la pelle calda nella sua mano.
La sentiva perfettamente: scivolava ora lenta, ora veloce perché la mente non era lì, a controllare con la dovuta attenzione quello che stava facendo.
Sì, questa storia deve finire. Basta.
Era ciò che si ripeteva, seguendo il ritmo del corpo che si piegava a destra e a sinistra, lasciando che la mente continuasse a vagare, lo sguardo fisso davanti come a osservare un viso sconosciuto.
Non ne posso più ripeteva dentro di sé e le labbra, inumidite dalla piccola lingua, si muovevano in sincronia con quelle parole pensate, come se volessero farle traboccare una volta per tutte.
Tre vite da gestire, ognuna con il proprio destino e nemmeno tanto semplici.
Tre teste da seguire senza porre indugi ai pensieri con la prontezza e lo slancio che si offre al primo amore, una fatica incredibile da sopportare ogni volta cambiando zona, casa e amici.
Tutto aveva un limite e lei lo aveva raggiunto.
D'un tratto il suo corpo sussultò, facendola ritornare immediatamente alla realtà.
Ebbe un fremito, la peluria del corpo le si drizzò e un gemito scivolò via dalla bocca umida e semiaperta.
Ripreso il controllo della situazione la mano accentuò la presa.
Ora sentiva la pelle leggermente sudata, quasi calda e gonfia.
Non era mai stata brava in queste manovre e preferiva muoversi in modi diversi, ma le esigenze erano quelle.
Aveva cominciato per gioco.
Una scommessa con un'amica dell'università, tanto per movimentare la loro piatta routine di studentesse di Legge alla Sapienza di Pisa.
Le condizioni erano favorevoli perché come pendolari avevano la possibilità di stare fuori tutto il giorno, senza nessun controllo da parte dei genitori.
La loro vita poi, aveva luogo a Forte dei Marmi e, fino a quel momento, era stata cullata dal lento dondolare dei pini e inebriata dal profumo del mare.
Le storie d'amore si erano limitate, per lo più, a passioni estive con i turisti, che a frotte si riversavano sulla costa da Viareggio a Marina di Massa.
La maggior parte di loro ben consci che ciò che stavano vivendo, sulle assolate spiagge della Versilia, altro non erano che storie a perdere, anche se a volte intense come tutti gli amori che nascono nel temporaneo accantonamento della quotidianità della vita.
Questo, comunque, non impediva di promettersi amore eterno fino alla successiva stagione.
Tre uomini… tre uomini in contemporanea, questa era stata la loro scommessa.
E così, con la tenacia e la spavalderia della giovane età, avevano iniziato queste relazioni, senza minimamente pensare alle conseguenze, né per sé né per le persone coinvolte.
Per lei, il primo contatto era avvenuto sul luogo degli studi: era meglio avere, durante la settimana, un punto d'appoggio, anche per motivi logistici, almeno ci sarebbe stata la possibilità di conciliare dovere e piacere.
La sua scelta era caduta su un ricercatore di lingue, che abitava nella piccola città universitaria, ma appartenente ad una facoltà diversa dalla sua, proprio per non dare adito a chiacchiere di nessun genere.
Era un quarantenne bruno, dal baffo accattivante e la capigliatura folta, occhi scuri e profondi dell'uomo del sud, perché quelle erano le sue origini, ma con quel parlare italiano dell'inglese tipico, dato che era madrelingua.
Rinomato fra le studentesse, proprio perché fare il piacione, approfittando della sua posizione, era ormai una consuetudine, non le era stato difficile abbordarlo fingendo di essere una studentessa alle prese con una lingua che proprio non le andava giù, e che lodava senza parsimonia l'ineguagliabile accento da straniero che tanto lo rendeva interessante.
Lui l'aveva presa subito sul serio come tutti i viveurs convinti, e poi, quando scoperto il gioco, aveva capito di essere stato preso in giro, s'invaghì ancor più di quella giovane sfrontata e audace, forse perché, per la prima volta, si trovava a gestire un rapporto dove non c'era possibilità di ricatto.
La seconda scelta cadde sul Forte, la zona di casa, dove almeno non ci sarebbero state battute d'arresto e la passione, per il fine settimana, sarebbe stata assicurata senza grandi spostamenti.
E, questa volta, scelse un coetaneo soprannominato Roxy per via dei suoi bellissimi capelli rossi da irlandese, con il quale avrebbe potuto instaurare un rapporto semplice come tanti, da vivere in tutta tranquillità fra le pareti domestiche, perché così si poteva dare respiro alla mente e al cuore con un impegno decisamente minimo.
Poi infine, il terzo uomo, affidato alla casualità del destino.
E il caso aveva voluto che fosse notata da un professore della Sapienza, un professore di filosofia, che la impegnò fin dall'inizio in un rapporto faticosissimo, sia sul piano sentimentale che su quello fisico.
Decisa prima a rifiutare il corteggiamento insistente, cedette poi attratta anche dalla differenza di età - lui aveva cinquantatré anni - che a sua insaputa la coinvolgeva in un qualcosa di insolito.
Avevano preferito che la loro relazione non fosse pubblica in facoltà per il fatto che era un professore del suo corso, oltretutto sposato.
Perciò i loro incontri clandestini, avvenivano nella bellissima ma altrettanto lontana Lerici, terra adorata da Shelley, il poeta preferito dal suo amante inglese!
Questo era sicuramente il contatto più difficile da mantenere, perché la sua poca destrezza nel portare la macchina le rendeva veramente arduo raggiungerlo.
Si vedevano solitamente durante la settimana, la notte prima del giorno libero di lui dall'università, e poi tutta la giornata seguente, sempre nel solito albergo dai grandi finestroni aperti, sovrastanti il mare sulla strada fra Lerici e San Terenzo.
Era lo stesso mare che bagnava anche il suo adorato Forte, ma là, il blu e il verde smeraldo fra quegli anfratti, fra quelle rocce grigie dove in primavera sbocciavano le violacciocche dal profumo intenso e dolciastro, aveva un non so che di diverso che l'aveva sempre affascinata.
Più volte aveva osservato quella landa acquosa dall'alto del castello, camminando lungo la stradina che lo costeggia, infilandosi fra le piante di leccio e i cespugli di caprifoglio, per trovare come tutti i frequentatori del posto, il punto adatto per potersi abbracciare e restare appartati il più possibile.
Quelle rocce bagnate dalle onde insistenti e schiumose anche nei momenti di stasi assoluta, davano a quel mare qualcosa di selvaggio, che entrava dentro, e le mani e i baci seguivano le stesse cadenze con una violenza e una esuberanza insolite anche per lei, che non si conosceva poi così focosa come temperamento.
C'era la voglia improvvisa e violenta di farsi quasi del male, le mani di lui le allargavano le cosce spudoratamente, era difficile tenere a freno il desiderio che esplodeva.
Era come se la forza con cui le onde penetravano gli anfratti più nascosti di quelle rocce laggiù invadesse con la stessa instancabile insistenza i loro sensi, come a voler ripetere l'amplesso eterno che il mare, con il suo movimento, ha con la terra ferma, passiva ma pronta ad accogliere, opponendo solo la sua immobilità a quella penetrazione costante.
Lei aveva lo stesso atteggiamento: chiudeva le gambe e si irrigidiva, perché ogni rapporto doveva essere una conquista ottenuta con la forza.
Il mare sulla spiaggia della Versilia al contrario, era più dolce e così anche quel compagno.
Le permetteva di rilassarsi all'abbandono di un uomo senza pretese, ma non per questo meno importante dell'altro, era lo spirito diverso, il contatto.
C'era la dolcezza che arriva lambendo un poco alla volta, senza irruenza, come un'onda lieve, in un crescendo continuo, con i preliminari di un amore che non ha fretta, perché ha davanti a sé un ventre morbido dove sprofondare.
A Pisa, invece, il fiume non aveva la stessa potenza, non c'erano né dolcezza né turbamento, ma solo un lento scorrere fra rive sempre uguali, all'interno di un rapporto che procedeva con la stupida, inconcludente tecnica della conquista da quattro soldi, come del resto si era presentata fin dall'inizio.
Adesso era giunto il momento di darci un taglio.
Sì, perché lo sforzo di mantenere tutti questi impegni, era diventato veramente insopportabile.
La sua compagna di avventure, Dirce, aveva perso la scommessa quasi subito, mandando a carte quarantotto i tre rapporti avviati, facendo un casino incredibile perché non era stata altrettanto brava a mantenere le distanze fra uno e l'altro.
La sbadataggine cronica di cui soffriva aveva fatto fallire miseramente il suo intento.
E cosa ancora più grave, si era lasciata andare, completamente andare fra le braccia di uno dei tre, facendosi coinvolgere in un rapporto morboso ed estremamente passionale.
Insomma, si era davvero innamorata, e così gli altri due si erano accorti ben presto della carenza di attenzione venuta ad offuscare il loro supposto rapporto unico e, rivelando rabbiosamente la loro presenza, avevano fatto affondare anche il grande amore.
E lei naufragò in un mare di sensi di colpa e di nausee, perché quel cercare di barcamenarsi fra uno studente in filosofia parlando di politica e uno di botanica percorrendo chilometri in montagna alla ricerca delle erbe più sconosciute, le avevano procurato un'ulcera allo stomaco, a cui aveva provveduto il terzo uomo, futuro medico, consigliandola sugli ultimi preparati per poter contenere i terribili crampi che, puntualmente, le si presentavano quando la situazione si faceva più pressante.
La scommessa, dunque, era stata vinta da Adelina ma non per questo, allora, era giunta alla conclusione di dover interrompere quei rapporti.
Ma adesso non ce la faceva proprio più e dato che lei tirava le fila di tutte e tre le relazioni, avrebbe dovuto trovare senza difficoltà il modo giusto, veloce e indolore per troncarle.
Improvvisamente il telefonino……
Con uno scatto strinse le dita, volse lo sguardo di lato a individuare il suono dilagante come un allarme insistente, allungò il braccio a frugare nella borsa buttata a casaccio sul sedile accanto, poi, non trovando che centomila altre cose, decise: aumentò la presa sul cambio, ingranò a scalare e accostò….guidare e telefonare in contemporanea non faceva per lei!
Il nome sul video era ……del bello di lingue.
"Ciao, dove sei?"
"Sto preparando un esame, lo sai che ne ho uno a breve….che c'è?"
L'accento inglese sembrava prevalere, anzi la prima parola sembrava non decidersi fra le due lingue "mh….shit….devo parlarti….è successo un casino…..quando puoi venire?"
"Non posso te l'ho detto ho uno stramaledetto esame da preparare….dimmi brevemente….cos'è successo?!"
"…..non così per telefono….."
" bene, vengo a Pisa la prossima settimana, prima non ce la faccio…"
" ma io… sono in un guaio ……non so come…..she falls pregnant…."
E l'accento italiano fece sentire la prevalenza.
Deglutì piano quelle parole per capirle meglio "…she cosa?!"
"….. pregnant….. pregnant……" urlava lui riacquistando l'aplomb solo nella pronuncia di quelle che sembravano sillabe mostruose, ma che risuonavano nel ricevitore piene e quasi calde.
"…..no guarda, ripeti e in italiano per favore, non ho voglia di spremermi ora, risparmiami l'inglese sono già abbastanza fusa…"
Attimo di suspence tanto per creare intimità e poi l'italiano arrivò forte e chiaro"…….è incinta…..quella cretina mi aveva assicurato che non c'erano problemi e poi ha saltato la pillola e ora cerca me."
Se il cellulare può rappresentare un erotico oggetto di piacere, in quel momento, la sua mano lo strinse con tanta violenza che l'orgasmico flusso di parole che ne seguì ne fu la giusta conseguenza.
"…incinta….. ma chi?….cosa…..pillola…..saltata……"
"Sì e vuole tenere il bambino, mi devi aiutare…..dare un consiglio….lo sai che… non voglio inguaiarmi!"
" e quando….!?"
" sai… è capitato… ti cercano… si propongono…..è difficile per un uomo….."
"….brutto inglese di merda!… dunque, tutti i discorsi sulla correttezza britannica e la chiarezza e …..fanculo tu e la tua studentessa troia….."
Buttò il cellulare sul cruscotto senza nemmeno chiudere la comunicazione, ingranò la prima e ripartì, senza freccia e senza guardare, così che da dietro le arrivò una strombazzata e un moccolo irripetibile dal finestrino dell'Audi in transito.
Accolse quello sproloquio col sorriso sulle labbra perché……meno uno!
E chi se lo sarebbe immaginato…incinta……povero trombatore da strapazzo…mica ci aveva dato su alle matricole…ben gli sta, è la giusta punizione per uno così.
Il viaggio, che fino ad allora aveva avuto le tonalità grigie del cielo che incombeva sulla riviera ligure, si aprì in un raggio evanescente, illuminando di un bagliore traslucido la strada che lieve scendeva verso il mare e da cui apparve il castello in tutta la sua rocciosa e massiccia presenza.
Un imprevisto come quello dava a tutta la faccenda l'iniziale avvio verso una risoluzione positiva e liberatoria.
Intanto un rapporto si era risolto da sé, quindi scuse in meno da inventare, e poi questa casualità era sicuramente un segnale che dava fiducia, e lei credeva a queste cose.
La sua filosofia di vita le aveva insegnato a valutare con la giusta importanza i fatti imponderabili del destino e le strane congiunture che si vengono a creare.
Potrebbe sembrare strano in una persona che aveva studiato a tavolino come far seguire alla sua vita una certa direzione.
Eppure, dopo aver dato il via a quelle tre storie, si era lasciata andare ad una sorta di flusso quotidiano che dava spazio alle diverse implicazioni senza forzare mai i rapporti in un certo modo.
Questo ovviamente da parte sua ché, dall'altra sponda, le direttive venivano impartite eccome!
Infatti era da loro, e dalle loro esigenze che partiva tutta la marea di emozioni ed impegni giornalieri a cui non sapeva più porre limite.
Avevano avuto il sopravvento.
Figuriamoci se lei si fosse impegnata con ognuno in un rapporto normale e, come succede, a dare anche delle dritte riguardanti le proprie esigenze: sarebbero esplosi nel giro di poco tempo.
La guida della macchina in quel momento non era più un problema, le sue mani sul cambio non sudavano più.
Arrivò sollevata al solito appuntamento con il professore, come ogni tanto scherzosamente lo apostrofava.
La giornata iniziò e si dipanò senza ardore, strano per lui, ma lei non ci diede peso dato che, quel giorno, orientata verso nuovi orizzonti, pensava alla scelta da fare.
Così non si pose domande su quel calo improvviso di desiderio ma si chiedeva, invece, se quell'inizio particolare avrebbe deviato fin dalle fondamenta il prescelto rapporto futuro.
Era un aspetto su cui riflettere e a cui dare la giusta importanza: in fondo mesi di vita a tre non erano cosa da poco nella riscoperta di una storia normale.
Anche quel giorno passò.
Ma dopo una settimana un fatto sconvolse letteralmente i suoi propositi sul come cominciare il lento e inesorabile dissolvimento del secondo rapporto.
La svolta fu inevitabile e, questa volta, davvero inaspettata.
Il professore le disse, con tutta la calma che può derivare solo da una persona che ha fatto della professione una formula di vita, che la moglie, dopo averlo lasciato mesi prima, era tornata a casa e lo aveva perdonato.
La loro storia perciò, doveva avere un termine, non voleva rischiare… ancora……
"Tornata….perdonato?!" esplose, come se la sua anima fosse esente da qualsiasi frammento anche piccolo di coscienza sporca.
"Ti aveva lasciato!!! Questo volevi dire con …… non ci sono più rapporti……."
"Sai sono sempre suo marito …..devo….non posso…. esentarmi….d'altronde non ho mai detto di non avere più feeling con lei."
Quella parola stonò nel contenuto e pacato scorrere delle parole italianissime che lo avevano sempre contraddistinto, rendendolo così affascinante e convincente.
Quanta importanza aveva dato alle parole, fino ad allora, e non ai fatti……sì, adesso, se ne rendeva conto.
Il silenzio si fece sentire implacabile fra di loro e lui, per la prima volta, stava davanti a lei, muto.
Quel giorno il rientro verso casa non le sembrò poi così tortuoso.
Il volante girava lento, ma con precisione fra le mani che lo facevano scorrere, lasciando che la strada lo indirizzasse con la giusta inclinazione; non lo forzava più di tanto rendendo faticose anche le curve più lievi.
Si ricordava che proprio per una errata tenuta del volante era stata bocciata all'esame di guida: una guida troppo tesa e quindi poco sicura.
Ora lo sterzo seguiva l'andamento della strada, agiva quasi da solo sull'impronta dell'asfalto, i suoi movimenti avevano acquisito una scioltezza decisamente insolita.
Lo stacco inaspettato da questo secondo uomo, le aveva dato un imprinting diverso.
Forse era proprio lui quello, fra i tre, che più la dominava.
Il suo carisma, l'età, l'esperienza, ne avevano fatto una figura quasi paterna, ma con l'ardore di un amante vero, irraggiungibile.
Forse la scelta sarebbe caduta su di lui.
Se solo avesse tenuto nascosto quell'evento sarebbe rimasto sul piedistallo su cui inconsapevolmente lo aveva messo.
Lei in fondo ne aveva di segreti!
La loro storia era stata tenuta nascosta, vivevano nella bugia fin dall'inizio.
Che fine misera per un futuro insieme. Che desolazione! Che cosa ne sarebbe stato di lei se quello fosse stato il suo grande, unico, vero amore!?
Non osava pensare, nemmeno per un attimo, a ciò che avrebbe provato se fosse stata abbandonata in tali condizioni.
In fondo, l'impostazione che aveva dato al rapporto le permetteva di prendere il giusto distacco, eppure ci stava maledettamente male, lei, che per mesi se lo era diviso con altri due uomini!
Stava soffrendo le pene dell'inferno, stava piangendo, sì stava piangendo, si stava asciugando con la manica del vestito le lacrime che grondavano giù dagli occhi rendendole la vista appannata.
Si fermò ad una curva dove la strada si allargava sul fianco del monte, in una piazzola creata dalle infinite fermate delle auto per godere dell'incantevole paesaggio.
Guardò là, oltre il castello, guardò il mare vasto e lucido, si chiese se in quel momento qualcuno pensasse a lei…..
Vide la sua vita che doveva ricomporsi da lacerazioni di cui lei era stata la causa, ma quegli uomini, in definitiva, erano poi così diversi?
Il loro amore che aveva di unico come davano ad intendere?
Lei era entrata in un gioco con la stessa spregiudicatezza che si ha quando si fa una scommessa: sapeva cosa metteva sul tavolo.
Certo partiva avvantaggiata, perché consapevole di quello che stava facendo.
Ma gli altri no, gli altri non stavano giocando, a detta loro stavano tutti facendo sul serio! Sul serio, si erano messi con lei.
Non riusciva più a comprendere la realtà delle cose.
Le sembrava quasi una enorme roulette a cui aveva solo dato il via, ma di cui aveva perso i giri successivi.
Seguì il volteggiare di un gabbiano nell'organza del tramonto che si apprestava a dare all'atmosfera intorno i toni aranciati e languidi intravisti, tante volte, fra le sue ginocchia piegate e sulle natiche di lui, che accompagnavano il ritmo finale di un amplesso fra caprifogli e lecci.
Vide il corpo dell'uccello, nero in controluce, allungarsi e, con una veloce torsione su se stesso, buttarsi giù in picchiata, sprofondare nel mare, e per un attimo sentì battere contro le pareti della sua vagina, avvertì ancora il peso del suo corpo esausto sopra il seno.
Si alzò il bavero della giacca, stringendolo attorno al collo e, tirando su con il naso, rientrò in macchina.
Agguantò il cambio, questa volta quasi con rabbia, e riprese a scendere, buttando ad ogni tornante, lo sguardo assente alla luna che bianca ed enorme sorgeva dalle Alpi.
Arrivò a Forte dei Marmi che la luce, ormai, era solo un biancore sfumato sulla distesa marina e, dalla strada, si vedevano le luci a palla del pontile che si allungavano sul nero profondo più vicino alla spiaggia.
Si stupiva di se stessa.
Era stupefatta più dalla sua reazione che dalla sconvolgente rivelazione ricevuta quel giorno, proprio perché la giudicava sconvolgente; era quella la parola che le caracollava nella testa e che esprimeva bene la palla di cannone sparatale dall'unico che riteneva, in fondo, l'uomo giusto per lei.
Per lei che non credeva nelle relazioni infinite, monogame e routinarie.
Alla fine si era ritrovata invischiata in un amore come tutti gli altri, ed ora pagava pure lo scotto di un tradimento ancor più feroce, in un certo senso, perché la fedifraga di partenza era lei, ma questo fatto non esisteva più alla resa dei conti.
Scese dalla cinquecento che aveva parcheggiato un po' di sbieco sul lungomare, ma a quel punto una multa poteva essere un dolce ritorno alla normalità.
Non capiva. Cominciò a camminare, guardando distrattamente il marciapiede e scansando i pochi passanti che in quella sera ventosa si affrettavano a tornare ognuno dai propri amori.
E il suo? Dov'era? Credeva di averlo trovato almeno in una scommessa, in un congegno dove lei aveva dettato le regole, ma poi tutto era andato avanti a sua insaputa, e se ne erano create di nuove.
Proprio come nella vita: tutto era legato al destino e lui aveva deciso la partita, e ora non comprendeva più qual era il gioco e quale la realtà.
Le veniva quasi da ridere mentre allungava il passo sul pontile verso il mare e il vento le appiccicava i capelli alla bocca e la gonna alle gambe, come vele sbattute allo stesso albero.
Si sporse dalla balaustra, affacciandosi alla prima che dava sulla spiaggia, allungò lo sguardo a cogliere i bagliori sparsi della terra in lontananza, di cui le sarebbe rimasto solo il profumo della salsedine e delle violacciocche, in un turbinio di colori sfavillanti.
Quel promontorio sembrava una nave in procinto di partire verso lidi che non erano certo i suoi.
Si ritrasse socchiudendo gli occhi, quasi non volesse far vedere al mare la sua sofferenza.
Un fruscio da sotto i piloni e parole improvvise come conchiglie portate da un'onda, glieli fecero riaprire.
"Dai Roxy… c'è qualcuno!? Ci vede……!"
" …e allora!? sarà capitato anche a lui o lei di trovarsi all'imbrunire con il proprio amore sulla spiaggia….non ti fermare…"
La mano della sconosciuta affondò nel rosso folto dei capelli spingendo la testa di lui sul proprio collo per tacitarne così i gemiti.
Solo questo, intravide e sentì Adelina,………………………………………………..
………………..mi ricordano la sabbia dei deserti americani in certe ore del giorno……………………………aveva detto una volta all'amante senza troppe pretese, del fine settimana.
Era una sera in cui i raggi obliqui del sole mettevano in risalto i bagliori fulvi della sua capigliatura, mentre le lunghe dita delle mani, accarezzandoli, ne ricordavano anche la stessa sensazione tattile……………………………….. no, qua no, ci potrebbe vedere qualcuno che conosciamo e non mi va di finire nelle battute idiote dei nostri compaesani…………………………
E così, dopo quell'attimo di fugace abbandono sul lettino del bagno Annetta, si erano diretti a casa sua, nel solito garage, freddo e scomodo, perché questo si ostinava a ripetere lui, ogni qualvolta lei gli proponeva un amplesso a cielo aperto.

L'uomo con il violoncello

Avevo preso la metro per l'ennesima volta nel tentativo, ormai diventato quotidiano, della ricerca di un lavoro.
Il disagio che provo ogni volta nell'entrare in quel treno sotterraneo mi porta automaticamente ad andare lontano con il pensiero, per distogliere la mente dal fatto che si è chiusi dentro ad un tunnel nero e stretto sotto la superficie della terra, a volte di parecchi metri, e dove un black-out momentaneo sarebbe sufficiente a mandarmi in apnea.
A ben pensarci è come entrare in un incubo dei più classici, con la differenza che lo si fa in maniera cosciente e automatica, come a volte succede per tante altre cose nella vita, senza renderci minimamente conto di quello che si subisce o si sopporta, a meno che poco poco ci si fermi a riflettere.
Così per distrarmi mi sposto sulle persone attorno, ché altrimenti il terrore claustrofobico che si scatenerebbe, altro non potrebbe portarmi se non a scappare via il più velocemente possibile da quella macchina infernale.
Ci sono persone di qualsiasi genere, età e ceto sociale racchiusi là dentro, ognuno con una storia alle spalle da cui si potrebbe trarre racconti per ogni genere letterario conosciuto.
Mi piace pensare alla vita di queste persone, a quello che potrebbero essere o a quello che mostrano in quel momento nello spazio ristretto di una locomotiva e nel tempo ridotto di una corsa.
Dopo un po' di tempo che si frequenta questo mondo su rotaie capita di vedere gli stessi personaggi che prendono il treno a quell'ora tutti i giorni.
Vi parlo di personaggi, così amo definirli, perché non sono anonimi passeggeri della metropolitana ma persone che si caratterizzano per qualche loro peculiarità.
E quel giorno notai l'uomo col violoncello.
Era di spalle: i capelli un po' lunghi, radi e brizzolati sfioravano il bavero sollevato di un giaccone blu scuro di un cotone spesso, pesante, che calava un poco sgualcito sopra un paio di pantaloni a coste larghe di velluto grigio, forse un po' troppo grandi per l'esile persona che si intravedeva dalle caviglie sottilissime, che spuntavano come fuscelli dagli scarponi grossi come quelle di uno scalatore di montagne.
Le mani si aggrappavano al "manico" di quel particolare strumento musicale dalla pancia paffuta che stava dritto in piedi al suo fianco quasi fosse un angelo custode.
Ne parlo in questi termini perché la prima impressione fu che fosse uno dei tanti suonatori metropolitani che spesso si incontrano ai piedi della scala mobile o in qualche corridoio per raccogliere pochi spiccioli per la giornata.
Cominciai a pensare alla sua vita da ambulante della musica.
Sicuramente aveva visto più mondo lui di me e data la sua età avanti con gli anni, avrebbe avuto chissà quali esperienze da raccontare.
Me lo immaginavo per le strade di Londra o di Parigi con accanto un cappello a forma di coppola dentro cui arrabattava il pranzo del giorno.
Chissà con quali temperature aveva combattuto nel dormire sotto un ponte o con quali individui era venuto in contatto nelle più svariate situazioni di pericolo in cui ci si può trovare quando si abita per strada.
Tutta la vita in compagnia del suo strumento musicale alla ricerca chissà di un qualche, improbabile ingaggio fortuito, all'incrocio con via Pigalle, o a piazza di Spagna.
Una vita di stenti, ricca però della libertà, ogni giorno, di scegliere una strada su cui incamminarsi alla ricerca di un momento in più da ricordare, senza padroni sul lavoro a cui rispondere, senza famiglia a cui "dovere" un impegno, senza una meta da perseguire se non quella della più semplice sopravvivenza, come un uomo di tempi arcaici, privo di regole o di formalismi.
Erano le sette del mattino e chissà da quale pertugio sotterraneo era uscito e chissà in quale strada si sarebbe perso quel giorno sulle note della sua musica.
La metro si era fermata ed io, nel girarmi per far spazio ad una donna che non si era accorta di essere arrivata perché presa dalle chiacchiere con un' amica, persi di vista l'alzarsi del violoncellista e nello sfrecciare via di nuovo veloce attraverso i finestrini, vidi solo la parte finale dello strumento ondeggiare lento fra la folla: molto probabilmente se l'era preso in braccio come un bambino, per evitare gli urti.
Mi capitò più volte di intravederlo con il suo fedele compagno fra la gente di quell'ora e pensai che evidentemente aveva fatto di quella fermata, la sua, quotidiana.
Il caso volle che mai riuscissi a vederlo in faccia e quindi la mia immaginazione poteva lavorare a più mani plasmando un volto nuovo a seconda del mio umore o della mia giornata.

Poi un giorno me lo trovai davanti mentre distrattamente e in corsa come al solito, scendevo le scale alla stazione dei treni locali, sulla Tuscolana.
Le mani affondate nelle tasche sbiecate davano alle spalle un aspetto curvo, di disattento abbandono come se non fosse presente con la testa sul luogo dove camminava, ma vi fosse semplicemente di passaggio.
Rallentai l'andatura perché al di là di qualsiasi impegno volevo quel giorno dare un viso al mio "closchard" e così, con attenta indifferenza mi misi sulla sua scia come ad inseguire la bava lucente di una lumaca cittadina.
Il passo leggero non aveva particolari cadenze, sembrava però aumentare mano a mano che ci si avvicinava ai locali della ferrovia.
Ad un certo punto si arrivò ad una zona interdetta al pubblico, dietro l'entrata della stazione, e lui senza indugio, si infilò in una porticina dove campeggiava a lettere rosse in segno di stop la parola : p r i v a t o.
Aspettai seduta su una delle fredde panchine in travertino e pensai che la mia curiosità, non trattenibile, era motivo sufficiente per rischiare di perdere l'appuntamento della giornata.
Certo il mio era un grosso rischio, perché proprio quello, nella casualità, avrebbe potuto essere il lavoro della mia vita: ma niente, l'istinto del raccogli storie quel giorno aveva la prevalenza e ben sapendo che altro che quel mestiere avrei voluto fare, mi arrischiai ad assecondarlo.
In fondo girarci intorno era inutile, il mio sogno era diventare una scrittrice, dedita più alla fantasia che alla realtà per arrivare ad una verità consolatoria, più o meno, del mio stato d'essere, in questo mondo.
Aspettai poco a dire il vero e, dall'uscio semiaperto, ad un certo punto sentii saluti a più voci ed una in particolare molto bassa, che precisava il turno assegnatogli il giorno successivo.
Sicuramente quella era la voce del mio personaggio perché, prima di lui, scorsi il manico del suo violoncello spuntare dalle assi brune della porta.
Ancora una volta di spalle continuai a seguirlo, stavolta però le idee nella testa si erano rimescolate, quel timbro di voce gli dava una connotazione diversa, non appariva più la figura resa dura dalla vita di strada, forte e decisa, ma lasciava spazio ad un animo più caldo, una differente personalità cominciava ad emergere dalle corde della sua gola.
Questa volta si diresse al binario 4 della stazione, al solito schivò le persone reggendo fra le braccia il suo bene prezioso, ed io con lui, in una un'anime condivisione di stato quasi esaltato, tanto la camminata era adessso lunga e decisa.
Forse essendo sabato rientrava a casa dopo una settimana passata in città, d'altronde quel treno portava fuori Roma verso la campagna della Sabina.
Salii anch'io sul treno per Orte, senza il minimo dubbio che quella fosse la cosa giusta da fare.
Finalmente trovò un posto al secondo piano del treno che doveva averlo convinto: i sedili erano tutti e quattro vuoti, e lui si mise vicino al finestrino rivolgendo finalmente la faccia al mio sguardo che sostava poco più in là, al centro del corridoio.
Gli occhi grandi, sotto una fronte larga solcata da rughe vizze di anni, si sgranarono come a volersi aprire il più possibile, soffermandosi nei miei che lo scrutavano attenti.
La bocca si sistemò in uno stringersi di labbra accennando un mezzo sorriso e le mani dopo aver abbandonato la presa del violoncello, che aveva adagiato con particolare cura su uno dei sedili di fronte, si distesero a raggiera su una cartellina blu che non avevo mai notato prima.
Dopo averla aperta ne tirò fuori dei fogli rettangolari con delle righe nere sottilissime, che sistemò sul tavolinetto estraibile lisciandoli con maniacale, lieve pressione.
Estrasse anche una matita dalla borsa e una gomma bianca che sembrava un panetto di burro caldo.
L'espressione del volto assunse un'aria sollevata, quasi di estatico godimento e con la testa cominciò un mimico movimento musicale.
Ed io allora scoprii un nuovo personaggio……..
Adesso il mio pensiero faceva da scorta ad un'anima completamente diversa.
Davanti a me un'artista come prima, ma questa volta, accanto a lui anche la figura del ferroviere, una sfumatura nuova accanto a quella già esistente.
O meglio il ferroviere nascondeva nella sua ombra l'anima di un artista e questo particolare adesso gettava una luce diversa sulla considerazione che mi potevo fare di lui, in questa diversa prospettiva.
Tutto adesso cambiava, non più vita avventurosa a rischio di chissà quali pericoli, ma una vita normale, scandita da orari di turni da rispettare, impegni e responsabilità impensate, la vita di centinaia di persone sotto il suo vigile controllo da guidatore del treno, dove il suono poteva essere solo un annuncio e diventare segnale di vita o di morte.
Come cambiava la mia prospettiva in quell'ottica, come la visuale portava nuovi sfondi e nuove fantasie.
E adesso la visione che mi ero fatta di lui era più o meno romantica? che cosa ci perdeva o guadagnava, al contrario?
Ero eccitata all'idea di poter riprogrammare un mio personaggio sull'onda nuova che questa scoperta mi portava a cavalcare.
Scesi alla prima fermata utile, lo lasciai ai suoi fogli dove molto probabilmente aveva segnato una nuova sinfonia, un motivo in più da dedicare alla sua anima, vista la luce estatica degli occhi.
La mia mente lo immaginava ritirarsi in una piccola casa di campagna, dove lo attendevano una moglie ed un figlio e, dopo aver atteso ai suoi doveri di padre e di marito, isolarsi in una stanza, ricavata da un'angolo della cucina, profumata di legna e lavanda messa ad ardere nel camino. Là, abbandonarsi all'abbraccio del suo violoncello, in un amplesso di ricercato piacere, e trasformarsi ancora, nella sua fantasia questa volta, in un famoso concertista in giro per il mondo, al seguito di un'orchestra importante e con lui anch'io, nell'abbandono di una realtà alla ricerca di un'altra sempre possibile ed intrigante, nella affannosa corsa alla verità.

CONTRASTI

Era finalmente da sola in camera sua.
Stava dietro alla porta, appiccicata al termosifone acceso quasi fosse lei a riscaldarlo, in quella tiepida ma assolata giornata d'autunno.
Aveva da quel punto la visione completa della sua camera da letto, collocata all'estremo opposto del corridoio dove si trovava anche quella dei genitori.
Si riscosse bruscamente, sentendo il bruciore del ferro, dall'attimo di isolamento totale che l'aveva come estratta dal tempo, fermandole il cervello, che non connetteva più, e il cuore, che in qualche punto si era fermato malgrado tutte le preghiere ed imprecazioni.
I pensieri rollavano nella testa incapaci di fermarsi.
Da dentro, attraverso lo sguardo, si catapultavano fuori ma poi improvvisamente, ecco che si ricomponevano in una massa unica, come bianco d'uovo che non trabocca dal guscio, tornando ad affollare e a scontrarsi intatti nella testa.
La sua mente non si era impossessata della realtà circostante e anche se gli oggetti avevano su di lei una funzione ipnotica catalizzatrice e catartica necessaria, in quel preciso momento per sopravvivere, e gli occhi ne erano pieni, la mente non riusciva ad appropriarsene.
E quel continuo ricomporsi non dava scampo.
Il brusio al piano di sotto era aumentato.
Le parole servivano a riempire un silenzio che da poche ore era dilagato in tutta la casa con l'impeto soffocante della sabbia che entra improvvisa dentro una piramide sotterranea riempiendola, o dell'acqua all'interno di un sottomarino, affondandolo.
C'era stato lo stesso panico: avevano spinto e chiuso le porte e le paratie con tutto il corpo, ma i granelli si erano infiltrati, le gocce si erano insinuate ed erano andate a coprire, a lambire tutto lo spazio disponibile fino allo sfondamento totale, ineluttabile dopo tanto travaglio, ma comunque, sempre e comunque, inaspettato.
Aprì lo sportello dell'armadio per scegliere il vestito da indossare, quello più adatto all'occasione: una gonna lunga al polpaccio, una maglia con il collo appena accennato, un giacca pesante ché, malgrado la temperatura mite, sentiva, quel giorno, un gran freddo.
Forse covava qualcosa, certo di lì a poco si sarebbe ammalata, lo sentiva nelle ossa quel gelo: le saliva su per la colonna vertebrale e si concentrava alla base della nuca.
Non c'era verso di farlo passare, si poteva anche stracoprire quando le succedeva così, poteva anche mettersi in una stufa e ardere con tutta la legna dentro, ma non le sarebbe passato.
Tanto valeva vestirsi in maniera appropriata.
La casa rosa…dovevamo andarla a vedere insieme era il nostro progetto prossimo…informarci se era possibile comprarla….
Quel tipo di gonna le era sempre piaciuto, stile anni trenta, l'intrigava perché ci vedeva la giusta composizione di femminile e di sportivo che caratterizzava le donne di quell'epoca.
La gamba si scorgeva quel tanto che bastava per mettere in risalto la caviglia sottile, ben delineata, le calze scure l'avrebbero accentuata.
La giacca con i fianchi leggermente segnati mettevano in evidenza i suoi, sottili, e gli davano quel poco di femminile senza scadere però nella smaccata prosperità che talvolta è richiesta ad una donna.
Il suo aspetto longilineo acquistava in sensualità con queste piccole accortezze, ma il suo essere non si doveva mai trovare in imbarazzo sotto lo sguardo indagatore di un uomo, perché lei, era, prima di tutto, una donna.
Avevamo finalmente trovato un punto in comune: la passione per la natura tramandata come un gene caratterizzante una specie, quel feeling particolare con gli animali, un atavico retaggio mai perso.
I capelli ……come pettinarli….sciolti forse, non avevano una bella piega quel giorno.
No, forse era meglio un ciuffo….basso……sì basso, elegante, composto, le stava molto bene, le metteva in evidenza gli zigomi, poi il trucco già…..il trucco.
Si mosse di nuovo verso il termosifone e attaccò i vestiti all'attaccapanni posto là sopra, lo fece in modo meccanico come faceva con il pigiama ogni notte prima di andare a letto.
Li sentiva freddi, si sarebbero un poco riscaldati e forse anche lei.
Non mi accompagnerà più…
Rimase ancora un po' lì, ferma; la sorella che vide la sagoma immobile dietro il vetro della porta, le fece fretta.
Si ricordò che pure suo padre si lamentava perché era sempre in ritardo: anche giorni addietro si era arrabbiato prima di accompagnarlo nelle insolite passeggiate mattutine che la malattia imponeva.
Come si era infuriata! Che importava….possibile che lui, in quel momento, mettesse in evidenza quella stupida, insignificante mancanza, e non vedesse altro, non notasse invece ciò che sua figlia stava passando!
Ma era abile a far credere che le cose andassero sempre nello stesso modo, aveva imparato a bleffare bene.
Comunque, fu una giornata memorabile: un gruppo di cicogne arrivate dal mare si posarono sul campanile della chiesa.
Un evento ripreso dai fotografi e dai numerosi turisti che affollavano il paese, ma soprattutto un segno di buon auspicio e lei quel giorno ci credette, ci volle credere con tutte le sue forze, ne aveva bisogno…..
Indossò i vestiti che aveva scelto, era quasi pronta, doveva solo truccarsi….vediamo un po'.
Labbra tenui sì, colorate appena per non dare l'idea dello sciatto e poi un po' di mascara waterproof così non si scioglie ed appena una riga di matita sfumata, anche perché le palpebre sono gonfie, senti come sono gonfie!
E le pigiò più volte quasi a cacciare dentro l'orbita tutto il bulbo.
La porta si spalancò d'improvviso spingendola contro il termosifone.
" Sei pronta!? Sei sempre la solita, anche in queste occasioni!".
Il rimprovero della sorella entrò con lo spostamento d'aria mescolato al profumo dei fiori che avevano invaso la casa.
I colori erano bellissimi, ma l'olezzo di alcuni gigli stava impregnando tutta l'aria che cominciava a diventare nauseabonda, era dolce troppo dolce, se lo sarebbe ricordato così, per sempre.
Le scarpe, dove avrò messo le scarpe…eccole, sono da lucidare…pazienza, le spolvero, è sufficiente… ora vado in bagno, devo andare in bagno mi viene da vomitare.
Aprì la porta della camera.
Dal basso il brusio era aumentato: una festa…. continuavano a parlare e a parlare.
Dalla camera dei genitori ombre si stagliavano silenziose dietro la porta a vetri: movimenti lenti, impercettibili e bagliori sinistri; entrò nel bagno lì accanto.
Chiuse a chiave.
Non vomitò, ricacciò tutto dentro perché la sola idea di quell'atto contro natura le ripugnava.
Non voleva vomitare, ce l'avrebbe fatta fino a sera?….forse sì, forse quella giornata sarebbe passata come tutte le altre: sole, crepuscolo, buio….. il buio, voleva solo il buio, nei pensieri, sulle cose, attorno alle persone.
Dormire ecco cosa desiderava.
Ecco di cosa aveva bisogno, solo dormire e sognare un'altra realtà sperando che quella non la raggiungesse anche nei sogni.
In una giornata come quella, cominciata con una corsa folle alle cinque di mattina verso una città dove non era mai stata, su una strada in mezzo ad una campagna verdissima, con un sole che avrebbe fatto invidia alla primavera ancora lontana da venire, lei…. pensava al buio, al sonno!
Uscì dal bagno.
Anche gli altri erano usciti di casa, tutti.
La cagnolina di famiglia guaiva chiusa da qualche parte, forse in garage.
Gli aveva fatto festa anche quella mattina quando era rientrato su una barella ormai semi incosciente, ma la fedelissima compagna di caccia lo aveva voluto salutare con la gioia di sempre, muovendo freneticamente il fondo schiena dove si intravedeva un mozzicone di coda.

Il feretro era partito e lei continuava a rimandare.
Lo faceva apposta, voleva far tardi perché avrebbe voluto non arrivare mai.
Guardò il cielo diafano a contrasto con i grandi abeti verde scuro: aspirò forte.
Erano tutti alberi di Natale che poi, messi in giardino, erano diventati giganteschi.
Si rivide bambina mentre ci girava attorno e rivide suo padre, altissimo, che preparava la buca indossando grossi stivali di plastica verde: com'era bello!
Proprio adesso… che avevamo ritrovato un dialogo…
Si guardò i piedi e dalla caviglia vide una sottile smagliatura che saliva: la pelle bianca a contrasto la inorridì.
Non c'era tempo, non c'era più tempo ormai ……..e un singhiozzo soffocante le esplose in gola.

I  Semprevivi

L'orologio segnava le ore 17,30 del 7 luglio 1967 e l'autista a voce alta disse "eccoci arrivati all'hotel Niagara!"
Scrosci d'acqua inondarono selvaggiamente le orecchie dei presenti, allagando cavità e protuberanze dei loro corpi e delle loro menti con un impeto di vitale freschezza.
"Strano nome per una casa di cura per anziani" commentò l'autista del tassì seguendo l'onda che defluiva mentre Marta e Grazia si apprestavano a pagare la corsa.
Con quell'ometto gentile solo per interesse, avevano intrapreso la solita conversazione sul tempo, questa volta non distrattamente come di solito avviene, dato che quello era il tempo della loro vacanza.
Avevano commentato con educazione ma arditamente l'espressione da lui usata per definire la temperatura insolita, quasi fredda, per quel periodo dell'anno.
"Come si fa ad accettare un'aria simpatica quando si è in vacanza?!" avevano obbiettato.
Poi, lasciandosi polemiche e mare alle spalle, scesero dalla macchina e varcarono il cancello del rigoglioso giardino.

Vestite con eleganza come di consueto, indossavano abiti firmati e numerosi gioielli che davano la giusta vivacità al loro fossilizzato stile "signora".
L'abbronzatura leggera e dorata illuminava quei visi appassiti, che erano sempre stati così, senza età, fin da quando erano ragazze, come fossero state destinate a una perenne giovinezza o vecchiaia non si capiva.
Signorine da sempre; sembrava che quell'appellativo le conservasse in qualche modo intatte con il trascorrere degli anni, per quando non lo sarebbero state più.
Ma il tempo passava e loro continuavano a rimanere "le signorine."
Erano venute a trovare un'amica di gioventù ormai vedova e ospite di quel posto dalla primavera precedente, a causa del suo precario stato di salute.
Sedettero sul terrazzo all'ombra di un enorme abete carico di carnose pigne verdi che penzolavano dai rami come tanti membri a testa in giù.
Quella vista se pur piangente, aveva fatto fremere i loro corpi essiccati dalla mancanza di amore, e si misero proprio là sotto, per godere almeno l'ombra di ciò che il loro inconscio e più intimo pensiero aveva tramutato in oggetti del desiderio, ormai solo sognati.
Sotto quei grappoli osceni e quasi spudorati nella loro esuberanza, cominciarono la conversazione di rito con la cara e malandata amica.
Fra un tè al gelsomino e numerose sigarette ebbe inizio il consueto scambio di notizie: una con l'altra e con l'altra ancora alla ricerca della più esplosiva e dirompente, in quella rappresaglia di pettegolezzi e storie infinite.
Il resoconto dei morti batteva tutto il resto per il loro numero esorbitante che aumentava di anno in anno, dato che il giovane Carlo, o la "treccina", o quello con il naso a maiale: "...maialino, ricordate?!", avevano ormai varcato da un pezzo la soglia dei settanta e quindi le loro gesta erano alla resa dei conti.
Di quelli risposati si conosceva già tutto, era difficile trovarne di nuovi, poi c'erano i divorziati e i malati che andavano
di pari passo, come se facessero parte della stessa categoria.
Nonostante gli argomenti, nelle loro parole c'era sempre contegno; i sorrisi erano accennati anche quando si slanciavano in azzardati commenti ironici o battute pungenti.
Ma ecco che nel calderone gorgogliante di fatti e persone, un nome esalò improvviso come un folletto fra quelle fate riunite a convito.
Un nome che sapeva di primordiale e che evocava fra le donne un qualcosa di proibito e di virile: Adamo.
"Già...Adamo...il bell'Adamo...di lui che si sa? chiese Grazia alzando lo sguardo come se avesse rivisto qualcosa di caro imbrigliato tra quelle fronde.
"S'è deciso a sposarsi?" incalzò Marta con un sospiro di inequivocabile nostalgia "...e chi ha scelto fra le due sorelle in attesa...Olga oppure Elsa?"
"Ah, ma allora non sapete proprio niente!" esordì misteriosa l'ospite.
Le palle dei quattro occhi rotearono velocemente verso la sua bocca come se, colpiti contemporaneamente dalla stessa stecca, si dirigessero in buca.
"Siete totalmente all'oscuro delle ultime nuove!" rimarcò solleticante l'amica che già si sentiva meglio,"...certo, è dall'estate scorsa che mancate. Non è possibile che siate al corrente dei risvegli primaverili di Adamo dopo un così logoro e ormai autunnale rapporto a tre!"
La bomba era esplosa!
L'amica d'infanzia, ringalluzzita da una nuova energia fino ad allora lamentata, si aggiustò meglio sul dondolo a fiori.
Sgranando gli occhi sulle bocche semichiuse delle amiche, in attesa del cibo come uccellini, si apprestò a raccontare la novella con l'indice sfiorante il naso arricciato, come ad annusare l'imminente profumo della narrazione.
E questa ebbe inizio in una girandola multicolore di particolari piccanti, fra labbra socchiuse allo stupore, sguardi strizzati ed esclamazioni variopinte, per concludere nella scoppiettante sorpresa finale "... ebbene, le ha lasciate per una che ha trentadue anni e dicono sia bellissima!"
Il pranzo era stato servito.
"...e loro?" chiesero come "amaro" le due signorine per concludere.
"Ah, di loro non si sa più nulla. Si sono chiuse nella villa e non se ne sa... niente! Sparite! Una tragedia... dopo una vita passata a rincorrerlo così, da un giorno all'altro,...se n'è andato! L'ho saputo poco prima che entrassi qui alla fine dell'inverno."
Le due ascoltatrici nascosero dietro il dispiacere una punta piccola, ma soddisfacente di compiacimento: era andata male anche a loro, a Olga ed Elsa appunto, a quelle rivali di vecchia data e si sentirono per un po' ringiovanire.
Chi era dunque l'amato traditore?
Adamo era un compagno di gioventù che l'amica stessa aveva presentato loro durante le vacanze estive.
Uno di quei ragazzi che nel paese affascinava le donne per i suoi capelli fluenti e corposi e la voce pronta sempre ad accarezzare accattivante ogni movimento timido dell'interlocutrice.
Inseguito da tutte ma abbrancato da poche elette, si diceva fosse diventato il fidanzato fisso di due sorelle del posto soprannominate "le dame".
Si diceva che una non sapesse dell'altra. Ma si diceva anche che sapessero entrambe e che tutti e tre vivessero in ambiguo accordo
questo amore impossibile e scandaloso.
Gente ricca e al di sopra della moralità corrente, che si godeva la vita e i soldi fra amore e liti furibonde nell'attesa di un matrimonio supposto ma mai concluso.
La visita volgeva al termine.
Le ombre della sera avevano allungato le pigne a dismisura tanto che sembravano toccare il suolo come un fuoco d'artificio che si spegne.
L'aria s'era fatta via via pungente, quasi antipatica.
Così fra mille convenevoli si salutarono con la promessa di rivedersi d'inverno, sapendo già che non sarebbe avvenuto, come negli anni precedenti, ma proporlo era ormai anch'essa una consuetudine quasi di buon auspicio.
Se ne andarono lievi com'erano venute dal terrazzo ancora accaldato, lasciando una scia di buon profumo intrappolato nelle gocce di resina lagrimate lungo il tronco del vecchio albero.
Andarono e si moltiplicarono.
Storie e storie girarono per il paese in un crescendo di notizie e di fatti nuovi ogni volta più stuzzicanti: fughe, liti, rappacificazioni.
La vita di Adamo era un vulcano che eruttava donne, viaggi, amplessi, e figli naturali.
Una lava ardente dentro la quale veniva fatto viaggiare a sua insaputa, seguendo l'onda fantastica e dirompente della diceria, sulle sue funamboliche storie d'amore.
Le tre amiche lo avevano conosciuto perché era impossibile che una donna in paese, nativa o turista, potesse sfuggire al suo carisma; e sicuramente avevano fatto molto di più che conoscerlo.
Il parlare della sua rigogliosa esistenza che ancora continuava come se per lui il tempo non fosse passato, contribuiva a tenere giovani oltre ai ricordi anche le sensazioni, facendole sentire ancora ragazze nelle vacanze forzate della loro esistenza. Certi miti resistono al tempo!
Così di lui si continuava a saper tutto e si continuava a raccontare.
E di loro..."le dame"... niente.

Elsa si dondolava sulla scolorita seggiola sotto il portico, con lo sguardo avvolto nello scialle violetto dei suoi occhi stanchi. La testa minuta, reclinata leggermente, sembrava muoversi al ritmo della ninna nanna dei ricordi.
Olga tardava a rientrare quella sera, ma a un certo punto si udì il cancello della villa cigolare e i tonfi sordi del bastone sul fiume di lastre in pietra serena, lungo il prato.
"Ormai fa troppo caldo e i fiori seccano presto." disse la donna mentre avanzava verso casa. "Iride, la fioraia, mi ha consigliato una specie che dura tanto, si chiama..., sì, ha proprio detto i... Semprevivi!...facile da ricordare. Hanno petali che sembrano di rafia."
Si sedette di fronte alla sorella sull'altra sedia a dondolo, spossata.
Allungò le braccia scarne e raggrinzite scostando il cartoccio di giornale che teneva in braccio sul petto floscio, come se ci fosse avvolto un bambino, e lo appoggiò sulla terza sedia che si trovava al centro, fra di loro, e che leggermente oscillò sotto quel piccolo peso.
"Te ne ho portati alcuni per farteli vedere, perché tu non ti sbagli la prossima volta. Sono coloratissimi guarda, e non hanno bisogno di acqua per vivere... gliene ho messo un mazzo intero!", e subito dopo puntando gli occhi in quelli della sorella e cambiando improvvisamente tono di voce come se una belva ferita si fosse impossessata di lei, aggiunse: "ovviamente la bellissima da quel giorno non c'è più stata!"
Elsa raccolse quello sguardo e lo accarezzò come avrebbe fatto a un gatto dal pelo arruffato; poi si sporse per vedere e aprire l'involucro, dando nuovo impulso al movimento della seggiola.
"Hai fatto bene, " convenne "domani comunque andrò e controllerò che siano come ti hanno detto... semprevivi."
Adesso le due donne e la sedia al centro dondolavano tutte e tre simultaneamente nella luce brunita della sera.

L'estate era nel pieno.
Frotte di vacanzieri si aggiravano per il paese sommerso da improvvisati ciclisti tremolanti e sbandati.
Un bambino pensò che una semplice bicicletta non gli bastava più e guardandosi intorno cercò qualcosa per trasformarla il più velocemente possibile in un rombante motorino.
Per terra un logoro pezzo di carta bianco e nero poteva fare al caso suo. Lo prese e accuratamente cercò di stirarlo per poterlo piegare con più facilità.
Mentre le sue mani agivano come un ferro da stiro, lesse:
" 21 marzo 1967,...damo, scomparso improvvisamente all'amore dei...... i funerali fra pochi intimi si svolgeranno...".

... e pensare che a settembre si sarebbe raccontato che l'eterno amante fosse addirittura in viaggio di nozze, in un fantastico giro attorno al mondo.

All'improvviso nelle scarpe

Si rotolò all'improvviso nelle scarpe, indirizzando lo sguardo in un'altra direzione, e con quei barconi ai piedi uscì da casa senza salutare nessuno, non se la sentiva.
Erano giorni ormai che navigava la vita in quel modo. Giorni di ore naufraghe, passate a svicolare chiunque, anche gli sconosciuti, che, solo con la loro presenza, potevano riesumare un passato in quel momento ancora così lacerante.
Il suo olfatto non si sbagliava, la sentiva nell'aria con quell'odore dolciastro.
Si trascinò sulla spiaggia, certo che là avrebbe trovato almeno un cane, sbandato come lui, in cerca di un ramo secco arrivato da chissà dove.
E solo, come un bastardo rinnegato, vagava sulla battigia, cercando di indovinare fin dove l'onda sarebbe arrivata e se quella successiva gli avrebbe inzuppato i piedi.
Un tempo, quel gioco gli procurava la gioia della sfida; ora, era un modo per occupare la mente che continuava a rollargli nelle scarpe.
Lei, all'inizio con il suo aroma particolare, gli aveva lambito l'anima, proprio come quell'onda, non continuamente, ma a tratti.
Così come l'acqua del mare gli bagnava i pantaloni e l'orlo più scuro a poco a poco saliva verso le ginocchia, nello stesso modo lei aveva impregnato di sé la sua vita, senza che lui se ne rendesse conto.
Pensava che l'acqua si sarebbe fermata alla cintola. Nel giro di pochi mesi invece gli era arrivata alla testa, ma non aveva più paura di affogare.
Si lasciò trasportare dalle correnti, ora tempestose, ora placide dell'oceano amoroso.
D'un tratto però un giorno, quel maledetto giorno, l'alta marea si ritirò e lui era rimasto là, afflosciato sulla riva e quell'ossigeno che gli entrava violento negli occhi e nella bocca gli perforava i polmoni, facendolo boccheggiare.
Il suo respiro si era fermato quando con freddezza gli aveva annunciato la sua partenza per Torino.
"E' la mia vita, - scrosciava - il mio futuro, e la carriera poi ..."
Prevedeva che la distanza avrebbe inaridito il loro rapporto.
E allora capì:...che lei, proprio lei, aveva messo quell'immenso mare di emozioni in un catino e aveva deciso di svuotarne il contenuto nel tombino che si trovava a pochi metri da loro, e lo stava facendo in quel momento.
Se ne stava liberando lì, accanto a lui, su quella fredda panchina del lungomare di Forte dei Marmi.
Vide tutta la sua vita con lei, rovesciarsi in quella grata arrugginita che i suoi occhi, improvvisamente velati, avevano cercato di mettere a fuoco da dietro la salmastra lacrima che li inondava suo malgrado.
"Mettere a fuoco" pensava, continuando a nuotare per rimanere a galla.
Un modo per distrarsi e non ascoltare più le sue parole, conchiglie disabitate.
Ma il fragore dello scroscio aumentava e non riusciva a vedere più nemmeno quelle sbarre: era un tutt'uno d'acqua e ferro.
Ora, sulla spiaggia, solo.
Un gabbiano squarciava qua e là con il suo grido tagliente il cielo grigio uguale al mare, uguale a lui.
Ora, i pini, lontano.
Grandi ombrelli neri, si stagliavano alti dondolando mollemente.
La loro storia era cominciata proprio là sotto: nell'odore muschiato e fresco di quelle pinete, contro i tronchi appiccicosi di resina.
Come seme di pigna, aveva volteggiato leggero nell'aria, roteando su se stesso in una girandola di emozioni sempre più eccitanti fino a quel giorno, in cui cadde al suolo fragorosamente, a sua insaputa, ma non per mettere radici.
Si guardò le grosse scarpe nere ora completamente imbiancate e le sentì pesanti come la testa.
Erano piene di sabbia, come la mente, imbottita di imprendibili grani di ricordi ormai non più componibili in un unico e solido castello.
Cominciò a urlare come un delfino alla deriva e tirava calci alzando folate compatte di quella materia inerte che seguendo il capriccio del vento gli si rivoltò contro, entrandogli ancora, ancora negli occhi e nella bocca.
La avvertì ruvida e graffiante sul viso, il dolore era sempre là.
Coprendosi la faccia cercò di scuoterla via il più possibile, poi tornò sui suoi passi con le mani sporche in tasca.
Seguiva ora le sue orme al contrario, e come faceva da bambino cercò di rintracciare quelle ormai cancellate dall'acqua.
Tracciandone di nuove su quella scia frammentata in attimi irrecuperabili, fece rotta verso casa.

CLORINA

Il seno bianco e leggermente sceso sfumava dalla camicetta sgualcita di seta rosa.
Clorina scosse la sabbia che a chiazze impolverava quella parte rimasta in lei adolescenziale nell'acerba conformazione.
Era stata sempre orgogliosa di quei piccoli capezzoli che affioravano da sotto i vestiti che, come gocce di melassa, le piovevano addosso.
Magra ma ben fatta non aveva mai invidiato le forme piene delle amiche.
L'esuberanza e tutta la sua bellezza esplodeva da quel corpo esile ma fortemente sensuale.
Gambe lunghe e ben delineate, spalle larghe e ossute ma che le incorniciavano il viso con grazia.
Le mani affilate si muovevano sempre come se stessero suonando una melodia.
La guardavano, la guardavano donne e uomini da sempre, come si guarda un animale raro.
Lei si accorse presto di quegli sguardi che le rimanevano appiccicati addosso come insetti sulla carta moschicida.
Ne era appagata come se la sua persona ne traesse energia vitale.
Più la guardavano e più lei era bella, lo poteva percepire e così, anche gli altri.
Dalla Capannina provenivano i ritmi sincopati della musica latino americana.
Erano passate "Le mille bolle blu" e "Sapore di mare" cantate dalla viva voce di Mina e di Gino Paoli.
Erano passate le lunghe ore di caldo sul lungomare ad aspettare l'arrivo dei vip che d'estate venivano nelle ville dai prati all'inglese, disseminate fra i pini muscosi dove d'Annunzio si era bagnato di pioggia.
Il locale più amato del Forte era ormai un ricordo stantio di voci e di note.
Un tentativo mal riuscito di una proposta indecente: far rinascere gli anni 60 come se si potesse clonare il tempo, le emozioni e perfino gli odori di quello che fu un periodo di svaghi e di sogni.
La dolce vita della Versilia era passata per sempre.
Clorina allungò il braccio verso lo zainetto di pelle rimasto afflosciato su se stesso, e tirò fuori il pacchetto delle Malboro.
Lo aprì alzando il coperchio e guardandoci dentro come a uno scrigno.
Prese uno dei tanti bastoncini gialli e bianchi, se lo portò alle labbra, increspate da una lieve tela di rughe e ancora umide e odorose di sesso, e lo accese cliccando sull'accendino.
Lo sguardo tuffato nelle onde a pochi metri con il pensiero di chi ancora una volta era riuscito a ferirsi.
Lo aveva accolto ancora una volta.
Sì, ancora una volta aveva cercato nel corpo di uno sconosciuto uno sguardo….quello sguardo.
La luna piena sbiancava tutto il paesaggio attorno.
La spiaggia deserta alle tre di notte poteva anche non essere quella di Forte dei Marmi e lei poteva non essere lei.
Questo pensiero come un aquilone volteggiò per pochi secondi davanti ai suoi occhi poi crollò con un tonfo nell'acqua.
Un pesce affiorò per un attimo provando ad assaggiare l'ossigeno.
Lei continuò ad aspirare quello che la mano automaticamente le offriva.
Il pollice lento sfiorava steso le labbra socchiuse che cacciavano via il fumo.
Gli occhi accennarono un sorriso beffardo e malinconico insieme tornando sulla spiaggia.
Lo sconosciuto accanto si era addormentato: i pantaloni calati fin sotto il sedere e la bocca semiaperta emanava fumi d'alcool.
Chissà se si sarebbe ricordato di lei al risveglio, di lei per come veramente era.
Clorina rivide la sua prima volta proprio su quella spiaggia.
Pantaloni tirati giù alla rinfusa….. la gonna, la sua più bella, color glicine, messa apposta per l'occasione, lunga e annodata su un fianco.
Sotto il golfino d'angora un corpetto ricamato San Gallo, con maniche tagliate all'americana che da bianco candido diventò poi di un incancellabile grigio sporco.
Lo buttò via come tutto il resto.
Era il suo primo appuntamento vero: Gianni.
Lui, proprio lui, l'unico che non la guardava mai.
L'unico che riusciva a nascondere l'attrazione per quella splendida diciassettenne.
Ma bastò un biglietto con una piccola rosa canina, sfumata rosso arancio, e poche parole: "…aspettami, domani, dietro la Capannina alle 16.Ti voglio."
Quel ti voglio così inaspettato l'aveva inorgoglita. Era felice.
Di ritorno da Viareggio, quel pomeriggio dopo la lezione di musica, l'autobus ebbe un guasto per strada, persero più di un'ora.
Andò all'appuntamento ma alla spiaggia ormai non c'era più nessuno: era settembre e cominciava a far buio presto.
Girò tutt'intorno al locale pensando che forse era ancora seduto là, da qualche parte.
Non vide nessuno.
Si girò per tornare indietro dispiaciuta ma non delusa: il ritardo era suo.
Lo avrebbe rivisto l'indomani, comunque.
D'improvviso una zaffata d'aria calda la avvolse e si trovò scaraventata per terra.
Le gambe aperte, il glicine strappato oscenamente.
Sfiorì nel giro di mezz'ora.
Qualcuno poi, raccolse quella corolla calpestata.
La portarono in una clinica a Genova e lì rimase per anni.
Gianni si sposò.
Clorina non rispose mai alle lettere che lui le mandava ogni mese con una rosellina all'interno.
Non lesse mai quelle lettere.
Raccoglieva tutto il giorno fiori. Li adagiava fra le lenzuola bianche di un diario che le davano ogni mese i dottori, diario dove poter dar sfogo ai pensieri che affollavano la sua mente, ma che non traboccavano mai dalle interminabili sedute di cura.
Anni di torpore e di silenzio necessari per dimenticare.

Soffocò l'ultimo bagliore della cicca nella sabbia fresca di quella notte estiva.
Dalla discoteca la musica andava e veniva come le onde del mare.
Le sembrò che l'universo la guardasse attraverso la luna.
Ma non c'era pupilla in quell'occhio, era solo un enorme bulbo bianco senza vita, che non le dava più la sensazione di un tempo.
Né aveva più avvertito, da allora, la sua bellezza come se non ci fossero più stati occhi ad ammirarla: li aveva persi tutti quella sera, nello sguardo spento di un ubriaco qualunque.
Aveva cominciato così, quasi inconsapevolmente, a ricercare quell'ebbrezza negli avvenenti ospiti della Capannina.
Frugava nei loro sessi alla rinfusa, ogni volta con uno diverso, ed anche con più, nelle lunghe notti versiliesi.
Aveva quarantacinque anni ma sembrava che la sua figura si fosse cristallizzata in una persona dall'età indefinita e giovanile.
Chiuse la lampo dei jeans con vigore sollevando il petto e trattenendo il respiro.
Si alzò incespicando fra le gambe dell'uomo che ancora giaceva scomposto sulla battigia.
Raccolse i sandali dai tacchi a spillo e si incamminò a fatica e barcollante verso le luci dei tavoli all'aperto.
Non aveva ancora trovato quegli sguardi cancellati così improvvisamente dalla sua vita.
Ma forse chissà….. uno, …uno qualunque, là dentro, avrebbe potuto restituirglieli.

Controcanto

(Che cosa penano - o pensano - le donne dato che di loro non si sa niente.)

VIDAL
Controcanto a Woobinda

Anche a me piaceva la pubblicità del bagnoschiuma Vidal.
E mi piaceva perché quel bianco cavallo correva libero in mezzo alla natura.
Era libero e bello. Anch'io volevo essere libera e bella.
Il momento più bello quando a dieci anni aiutavo mia madre nello sbrigare la casa e i miei sette fratellini era quando dovevo lavare i piatti e tutti i loro panni.
Ogni volta pensavo che quella era la schiuma del Vidal e mi sentivo libera e bella.
Io non ho ammazzato i miei genitori.
Non avrei avuto la forza fisica di tirare calci nei coglioni di mio padre. Non sapevo allora nemmeno dove si trovassero i coglioni e poi mi avrebbe fatto troppa impressione vedere il sangue. E non strillavo se non lo comperavano tanto poteva essere tutto il mio Vidal.
Solepiatti o sapone di Marsiglia tutto era Vidal bastava vedere la schiuma bianca ed io mi trasformavo nel bianco puledro che correva libero nei prati.
Così quando vidi per la prima volta la bianca schiuma che usciva dal cazzo di mio padre pensai a Vidal e sentii anche il suo profumo.
Fu allora che individuai le palle di un uomo e in seguito ogni volta che la sborra mi riempiva la bocca o mi schizzava sulla pancia sentivo il profumo di Vidal e il suono degli zoccoli del bianco stallone che correva nel vento delle praterie o sulle onde del mare.
Un giorno poi provai a berlo il Vidal, ma cominciai a schiumare tanto dalla bocca e dal naso che mi portarono in ospedale e da allora mi chiamano Vidal.
Oggi sul lungomare di Rimini sono chiamata anche la puledra bianca perché la zona mia è invasa dalle negre ma io resisto, e di bagnoschiuma me ne posso comprare a litri.
Mi cercano tutti perché profumo di Vidal.
Il mio è il profumo della libertà.

PIPPICALZELUNGHE

Come mi piaceva.
Con quello stallone sotto al culo tutto il giorno.
Bellissimo, muscoloso, bianco a chiazze nere. Com'era grande.
"Pippicalzelunghe che nome, fa un po' ridere", ma io ero convinta che la canzone dicesse "che non me fa un po' ride" e infatti mi domandavo sempre perché doveva fare un po' ridere.
O se fa ride tanto o non se fa …ride.
Non si fa ridere un po',… no…manco per niente.
Poi da grande me l'hanno spiegato.
Me l'ha spiegato un camionista che aveva la mia stessa età all'epoca in cui lo trasmettevano e che vedeva Pippicalzelunghe perché la sorella strillava come un'oca se non gli facevano vedere la rossa (che poi chi lo sapeva che era rossa, il televisore era ancora in bianco e nero!) dalle buffe trecce all'insù.
Me l'ha spiegato mentre lo cavalcavo con grande destrezza nella cabina letto del suo mega camion "Stallone 97".
Così si chiama e mi è rimasto impresso quel giorno. Anche perché faceva un gran caldo e non mi è venuta molto bene, proprio con lui, Stallone 97, e ci sono rimasta un po' male ma è successo solo la prima volta.
Mi sarebbe piaciuto andare a cavallo e i miei clienti dicono che ho un talento naturale.
Era il sogno della mia vita possederne uno ed essere libera come Pippi senza genitori a romperti i coglioni tutti i giorni ma per fortuna di quelli mi sono liberata scappando di casa a quindici anni.
Anche la scimmietta mi sarebbe piaciuta anche lei era un piccolo sogno.
Adesso frequento "Tarzan 69", "Stallone 97", "Falco Selvaggio" e così via, e faccio lunghe cavalcate con loro.
Dicono sia la mia specialità.
Sentire sotto il culo quei muscoli scattanti mi fa sentire libera.
Non sono mai andata a cavallo ma penso che sia proprio così.
Certo Pippicalzelunghe è proprio un nome strano ma non mi fa comunque ridere e poi perché calze lunghe?… non mi ricordo. Chissà se Stallone 97 mi sa spiegare anche questo. Glielo chiederò alla prossima.
Certo che oggi non li danno più certi film.
Che sognano le bimbe oggi? La mia guarda Beautiful con quel mascellone di Ridge che cambia moglie ogni volta che cambi canale.
Non sogni certo la libertà che avresti sognato con il Signor Nelson!
Ed io quella libertà invece ce l'ho nel cuore. Me la sento nel cuore e dentro il culo ogni volta che ci penso.
E ci penso sempre, ogni volta.

MAGNUM

"Certo" mi ha detto "senza preservativo non si fa"
"Certo" gli ho risposto io, con il lavoro che faccio non è possibile non usare il guanto è una questione di rispetto.
Ed io ho tanto rispetto soprattutto per lui.
Lui che è diverso dagli altri. Lui che è comparso così all'improvviso, una faccia pulita e a cui regalo ogni volta che viene, perché viene solo una volta al mese da un anno, il profumo dell'uomo che non deve chiedere mai.
Un messaggio preciso ho pensato, capirà ne sono sicura.
Perché lui non dovrà chiedere mai e nemmeno lo faccio più pagare da qualche mese a questa parte. Anche se qualcosa da allora è cambiato, sì qualcosa è cambiato e non capisco perché.
Così è andato a comprare i preservativi quelli ritardanti per lui, usa sempre quelli.
Io non ho bisogno di stimolanti o ritardanti. Io ormai so anticipare o ritardare o prolungare tutto alla perfezione.
Sono anni che faccio questo mestiere e capisco al volo il cliente. Quello che vuole. Quello che apprezza.
Ma con lui no. Con lui è diverso. Mi lascio andare e con lui godo veramente. Chissà se l'ha capito che non faccio finta. Chissà.
"Allora vado a comprare i preservativi."
"Allora vai" gli ho detto guardandolo dritto negli occhi. Ora tra noi era tutto chiaro.
Glielo avevo detto. C'ero riuscita. Per la prima volta in vita mia avevo dichiarato il mio amore.
All'inizio non ero sicura. Con tutti gli uomini che si frequenta capita, capita spesso di innamorarsi specie di quelli abituali, di credere che esista davvero il principe azzurro che ti porta via da quello schifo di vita.
Specialmente quando una è all'inizio e giovane e inesperta come lo ero io. Ma poi ci si rende conto che non è quello giusto o che ha una moglie che non lascerà mai o che è troppo giovane per legarsi.
Certo si capisce tante cose facendo questo lavoro molte di più di una donna normale. Senti i loro racconti, le loro lamentele. Quanta tristezza nella vita degli uomini!
Io invece adesso ero felice.
Lui aveva ascoltato in silenzio tutto quello che gli stavo dicendo. Ed ho visto una luce nuova nei suoi occhi…che occhi!
E gli ho spiegato perché non lo facevo più pagare, perché compravo io i preservativi (che invece faccio portare sempre ai clienti) perché gli regalavo sempre Denim a volte il musk oppure il fresh, ma era sempre lo stesso, lo stesso messaggio ovviamente. E perché in quell'unico giorno in cui veniva lui non fissavo altri appuntamenti… volevo essere tutta e solo sua.
E lui mi guardava e quello sguardo cambiava o sì che cambiava aveva cominciato a capire. Quanto l'amavo.
Mi sono scusata ma quel giorno la mia scorta era finita e non ero scesa per potermi preparare con tutta calma.
Lui disse." …non ti preoccupare…vado io. Non ti preoccupare. Vado."
Ed era uscito di casa, diverso, sì… decisamente …diverso.
Mi sono seduta davanti alla televisione aspettando il suo rientro.
Eravamo finalmente una coppia.
Ora lui sapeva quanto l'amavo.
Aspettavo
Davano Miseria e nobiltà quella sera, di Totò, era divertente.
Aspettavo
…lo vidi fino alla fine.
Aspettavo
Poi improvvisa la pubblicità.
Aspettavo
…come uno schianto,
Aspettavo
…lacerante.
Aspettavo
La pubblicità del Magnum,
Aspettavo
…con lui che va a prendere i preservativi.
Aspettavo
… lei che rimane sola.
Aspettavo
…in riva al mare.
Aspettavo
E una risata esplose… improvvisa… istintiva.
Aspettavo
Da allora non ho più smesso.. aspettavo... di ridere …aspettavo…e poi mi hanno portata qui.

Stamani dottore vede anche me diversa vero?
Certo.
Sono diversa.
Ho acceso il televisore stamani, sa mi fa tanta compagnia.
Posso parlare con Castagna o con la Gruber, ogni tanto, è una donna che sa ascoltare.
E mentre la guardavo… la televisione non la Gruber… la guardavo in silenzio, perché stamani non avevo voglia di parlare, hanno fatto di nuovo la pubblicità.
Quella pubblicità.
E allora ho capito.
Ho capito tutto dottore.
Non ho più bisogno delle sue spiegazioni, finalmente ho capito.
Che cosa bella la televisione.
In un attimo ti risponde a cento domande.
Ora so che devo ancora aspettare.
Ma soprattutto perché sto aspettando.
Si è solo fermato a mangiare un gelato!
E' questione di tempo…non si preoccupi dottore… arriverà.


WONDERBRA

Oggi sono depressa.
Vorrei avere le puppe della Barale e il culo della Anna Falchi.
Mah…proviamoci 'sto reggiseno Lepel appena comprato, e guardiamoci allo specchio.
Uhh che strazio…a malapena riempio le coppe taglia seconda ché la prima mi vergognavo anche solo a chiederla alla commessa.
Proviamo un po' a tirare dentro la pancia…, avviciniamo stè braccia…pieghiamoci… ecco così…noo, l'effetto non c'è… l'effetto Barale non c'è cazzo!
Bah…passiamo all'Infiore… ma che palle quest'anno sono proprio peggiorata!
Guarda quiii… un Infiore su fianchi che non esistono e un culo piatto senza la verve che invece ha quello della Falchi che per giunta ha anche il seno tipo Barale.
Ma come fanno ad essere così!
Faccio ore di ginnastica estenuanti.
Gite da sola in bicicletta perché le amiche, quelle! che ne avrebbero più bisogno di me ci hanno rinunciato.
E poi pesi su pesi nei punti giusti e i risultati nndò staaanno!!!
Sì oggi sono proprio depressa. …tiè… è la seconda volta che vomito dalla rabbia.
E chi ci si mette in costume quest'anno ? Io no di sicuro. Mi toccherà passare l'estate con l'asciugamano sui fianchi. Ma pperché io!!! proprio io ?! …

(voce dalla cucina)

"ALBERTO !!!"
"Siii ?!"
"ALBERTOOO!"
"COSA vuoi ??"
"Sceeendi, è pronta la cena."
"Arriiivo ………… uffa… vabbè,… Wonderbra lo provo dopo.
Chissà che la Erzigova non sia la svolta della mia vita."

 

CAREFREE

Asciutta e pulita tutto il giorno.
Così dice la pubblicità.
Asciutta e pulita e tu amore mio non dovrai preoccuparti per questo.
Penserò io a tutto.
Ogni giorno mi impegnerò perché la tua personcina precisa e ordinata così rimanga.
Ho comprato Carefree, è il migliore, lo abbiamo sempre detto.
Poi ti laverò ogni giorno con il tuo bagnoschiuma preferito e ti passerò l'olio profumato che un mese fa abbiamo comprato insieme a Parigi, ricordi?
Che giornate!… via Pigalle… il quartiere Latino… Montmartre …finalmente libere in una città splendida, dove tutto acquista un particolare significato.
Non come a Roma dove anche l'ombra viene inesorabilmente schiacciata dal preteso sole della grande metropoli con un idiota di vicino di casa che continua a guardarti con occhi da… "te lo farei vedere io che cos'è un uomo!"
Non c'è rispetto. Non c'è proprio rispetto.
Ma tu almeno tu, non dovevi adeguarti.
Questo no, non me lo dovevi fare.
"Sai, dobbiamo evitare di dare nell'occhio… sai, in ufficio mi hanno fatto pesare la cosa…"
"Più contegno, signorina, più contegno, non si faccia venire a prendere tutti i giorni, più contegno!"
Così ti ha detto quel finocchio del tuo capufficio, chissà che non si sia preso una cotta per te il cretino!
E tu…"per un po' è meglio vivere ognuno a casa sua".
Proprio in questo palazzo e per giunta, su questo pianerottolo doveva venire ad abitare la mamma del tuo stronzo di capufficio, quel bigotto rotto in culo che non è altro.
Se non fosse che mi farebbe vomitare glielo farei io un bello scherzetto.
Ma lasciamolo perdere lui e quella stronza della madre.
In fondo sono solo merde e puzzano, solo questo faranno in tutta la loro porca vita.
Ma noi, no.
NOI… siamo un'altra cosa!
E tu.
TU tesorino …TU, non dovevi umiliarmi in quel modo.
Tu non devi ridurmi ad un'ombra nella tua vita.
Io sono stata il tuo sole fino ad oggi, ho scaldato le tue giornate e le tue notti con tutto l'amore che potevo….

(Voce sul pianerottolo)

DRIIN….DRIIIN…mamma sono io…

……..lo senti il pedofilo? È venuto a trovare la mamma! Povero piccolo è appena uscito dall'ufficio….

Mamma ciao, scusa un attimo…vado un momento qui accanto, a casa di Fides.
Vado a sentire perchè non è venuta in ufficio… sono giorni ormai, è strano… non risponde al telefono e lei non ha chiamato per avvertire…

….vieni… vieni… tanto non ti apro, non ti faccio entrare nella nostra vita brutto stronzo.

DRIIN…DRIIN…Fides…apri…sono io…sono Giovanni mi senti?!

Certo che no, non ti ascolterà più…
Ora poi… è l'ora del bagno… lo devo preparare per la cena il mio amore, fa sempre la doccia dopo l'ufficio.
Allora… biancheria pulita sullo sgabello, musica new age per rilassarsi e poi le tue piccole manie, sei ossessionata dalla biancheria sporca non la puoi vedere.
Certo le perdite sono aumentate e poi hai anche uno strano odore malgrado ti lavi come facevo prima.
Forse devo farlo più spesso, in effetti ad agosto fa molto caldo…ddio come sei ghiacciata… e poi, magari devo comprarti un anti odorante di quelli a lunga durata.
Domani esco e vado a fare la spesa, tanto… tu mi aspetti qui… vero amore?
Eccolo il tuo amatissimo e profumato Carefree… per noi donne è proprio una manna dal cielo.
Sono perfettamente d'accordo con te, io posso comprenderti purtroppo.
Un uomo non ha di questi problemi di perdite e cose varie ma… consoliamoci… se lo fossi stata non ti avrei mai conosciuta.
Avrò cura di te piccola mia… per sempre.

(DA ascoltare al suono di:"La petite fille de la mer"from the album:l'apocalypse des animaux..)


LA FAMIGLIA IN T.V.
Confusione televisiva

Io a canale 5 non ci andrei mai.
Io lo scherzo al programma di Castagna non lo farei mai.
Io ci porterei una storia vera, ci porterei.
Io a Castagna non lo dico ma mio marito la troia ce l'ha davvero e ci va a letto ogni volta che vuole.
Se la porta nella casa al mare quella puttana.
Ogni volta che ha un viaggio di lavoro si guadagna anche delle scopate incredibili sul lungomare romano perché è lì che abbiamo la nostra casa estiva.
Se portassi mio marito da Castagna gli verrebbe un coccolone a lui e a quella baldracca della moglie del suo migliore amico, a Stranamore li faccio andare in onda, vedreste che facce!
Lui pensa che io creda alle favole e ai fiori quando me li porta.
Ma perché non me li porta anche quando va a Torvaianica?
E perché trovo sempre dei capelli biondi quando scopo nella casa al mare.
Io non ci scopo più da tempo nella casa al mare, e una sera di queste quasi quasi telefono a Castagna e gli faccio portare la troupe alla villa e lo voglio proprio vedere quando saltano fuori da dietro le pareti e inquadrano la sua faccia porca e quella maiala della sua amica.
Lì su canale 5 a Scherzi a parte.
Tutti lo devono sapere altro che scherzo, tutto vero tutto assolutamente vero!
Sì telefono, telefono prima che tolgano il palinsesto a Castagna, con quegli occhi azzurri e quei riccioli morbidi.
Forse potrei farglielo io uno scherzo se Castagna ci stesse, io ci starei di sicuro!
Nella camera da letto al mare io con Castagna.
Ecco di chi sono i capelli biondi potrebbe controbattere il cornuto, già ma lui non scopa mai, come fa a vedere se ci sono dei capelli biondi!
Chissà… chissà se Castagna accetterebbe…


MULINO BIANCO

Io, guardo sempre la pubblicità dei biscotti e delle merendine perché sono le pubblicità più belle, sono quelle che ti fanno sognare.
C'è sempre una bella cucina sicuramente modello Cuccarini, non lo dicono perché altrimenti sarebbe una pubblicità nella pubblicità, ma di sicuro è quella che tutti gli italiani amano perché anch'io me ne innamoro ogni volta che la vedo.
E' sempre piena di luce, con oggetti e fiori come su una rivista alla moda, ordinata e spaziosa e la famiglia si sveglia sempre tutta insieme.
E scendono sicuramente da un altro piano, che la casa è bella anche quella, grande e a due piani.
Lei è in vestaglia anzi no, sempre in camicia da notte, è bella da sogno, e la tavola è già pronta, apparecchiata perfettamente e i bambini sono allegri e il marito, bello anche lui, ti fa pensare a notti indimenticabili, è sorridente e tutti mangiano insieme ridendo e scherzando.
Tutte le volte mi incanto e la gioia mi riempie il cuore.
Quando la telecamera poi inquadra l'esterno con quel giardino verde e addirittura la pala del mulino beh, mi vengono le lacrime agli occhi.
Io vivo in uno scantinato a Roma ma qua, non lo chiamano così, lo chiamano seminterrato perché solo in parte è sotto terra, infatti le finestre sono ad altezza marciapiede.
Quando entrai la padrona mi disse che era luminosissimo e questo, effettivamente, c'era scritto sull'annuncio di Portaportese…… "Seminterrato luminosissimo" è per questo che lo scelsi, sugli altri mica c'era quella magnifica parolina.
Solo che la luminosità cambia se sei ad altezza scarico macchine.
Ma non ci si poteva permettere altro.
Accettammo.
E da allora ho cominciato a sognare la pubblicità del Mulino Bianco.
Io non mi alzo mai con la mia famiglia, sono sempre la prima.
Faccio colazione da sola, guardando l'unico spiraglio di sole polveroso che entra fra le gambe di passaggio di quelli che si svegliano presto come me.
In effetti a quell'ora c'è il sole, ma alle sei di mattina e solo d'estate.
Poi c'è tanto caldo o tanto freddo.
I miei bambini litigano sempre a colazione, e mio marito poi, in canottiera e mutande, a malapena sveglio, non saluta nemmeno, sbadiglia, si beve il caffè ed esce fino all'ora di pranzo.
Questo la domenica, ché gli altri giorni lavora al mercato e prende il caffè con gli amici di banco al bar della Iole……la odio quella bionda tinta e sfatta!
Sono contenta che ci sia la pubblicità.
Per me non è odiosa anzi, mi fa star bene.
Se non ci fosse sarei più triste perché non potrei sognare anch'io una famiglia così, in un posto così.
Se non ci fosse la pubblicità in questo schifo di film che è la mia vita come potrei andare avanti.
Abolirla!?
Non ci penso proprio, è l'unica realtà bella che mi rimane.

ED ORA…LA PUBBLICITA'
Il genio della casa

Il marito te le bacia quelle mani dopo che con Svelto hai lavato i piatti e forse chissà baciandole pensa alle seghe vellutate che ne verranno fuori.
Il pavimento splende e tu tutta felice, truccata e ben vestita esci di casa e poi rientri, e tuo marito rientrando pure lui a casa dall'ufficio, sorride perché è tutto così splendente e viene accecato da quel pavimento che brilla come un diamante.
E da dove sei rientrata? Da una festa con le amiche, da teatro dal cinema? Ma no! da fare la spesa ovviamente, perché hai guadagnato tempo con Mastrolindo per andare a fare la spesa!
E così hai la possibilità di girare di più e risparmiare andando al Sidis dove i biscotti li fanno 10 lire meno che alla Spesa e alla Standa dove la carne è in offerta e alla Coop dove i succhi di frutta costano meno che da Topdì dove però la carta igienica la trovi a tre veli anziché due, a cento lire in meno.
E tu genio della casa, hai così risparmiato.
I tacchi delle scarpe sono da rifare, le braccia pure, forse hai speso ventimila per la benzina e ti sei incazzata con il posteggiatore abusivo di turno, a cui hai dovuto mollare duemila lire su specifica richiesta perché oggi le offerte non si fanno più, nemmeno in chiesa, ma si ordinano, però hai fatto una spesa oculata.
Ma torniamo a te!
Tutta in tiro passi Vaporello aspettando gli amici che si meravigliano di come la casa sia uno specchio, perché di solito è un merdaio indicibile quella casa schifosa.
E tu li fai sedere al tavolo e porti quello che tuo marito ha preparato cinque minuti prima che arrivassero con il forno sforna tutto: pizzette, tartine, torte in crosta che verranno elogiate ampiamente perché di solito quando cucini tu donna, fai della merda.
Sempre e solo la solita merda senza fantasia, e mettendoci per giunta un pomeriggio intero e sporcando decine di pentole e piatti.
Ma eccola è lei, che alla fine della tua esilarante giornata da merdaccia ti risolleverà il morale.
Perché te hai scelto. Perché te hai lei, hai Candy.
E pensi già alla mattina dopo, quando ti alzerai felice perché comincerai la giornata a pulire il cesso con Viacal.
Quel bagno pieno di incrostazioni da far schifo anche al più lercio dei bagni turchi.
E così dicevo, pulirai il tuo schifosissimo bagno e poi ti comparirà l'omino dalla finestra o attraverso la porta come se fosse lui il padrone di casa, e tu dirai, felice di questa visita inaspettata, con voce soave "…è lei…" e noi penseremo "ecco che si fa pure l'amante la troia".
E lui ti prenderà per mano e invece di farti saltare da dio sul letto, come non fa più tuo marito da tempo, perché tutte le sere si appaga con il cibo pensando meglio stò tronco di gelato Algida che la fica sudata di mia moglie, ti fa saltare dentro la tovaglia e ti fa notare quante macchie ci sono e che i tuoi amici avranno sicuramente notato perché non hai usato Dash.
E continua a illustrarti i prodigi che può fare quel sapone senza minimamente notare che pezzo di figa sei ancora, se poco poco ti mettessi in lingerie. No, non ti vede ma ti chiede un pezzo di torta quella allo yogurt, ovviamente!
Ma te la vogliamo far finire questa giornata!?
Ma sì dai, anche un genio ha bisogno di riposo ogni tanto… e allora beccati stà camomilla, Sogni d'oro naturalmente, che ne hai proprio bisogno.



TAMPAX

Facile da usare.
Facile un corno.
Ti devi mettere lì, a gambe aperte e piegate, cercando di centrare e poi, infilalo bene, altrimenti ti senti questo coso su e giù tutto il giorno, almeno facesse godere… un fastidio unico, come le mutande piccole sempre nel culo.
E poi sto male. Ma perché alla televisione ti fanno vedere queste ragazze tutte sorridenti che vanno magari in bicicletta quando io sto male da cani!
Due Sinflex da 500 almeno i primi due giorni se tutto va bene, occhiaie tipo fanale Station Wagon e loro invece si lanciano con il paracadute.
Ed io, dio che palle! altro che gita in bicicletta in quei giorni, perché così si chiamano quei cazzo di giorni da giro di utero a trecentosessantacinque gradi al minuto, e poi ti dicono che sei isterica!
Ma perché ogni tanto non facciamo a cambio e provate voi, voi con i vostri bei coglioni asciutti! Forse certe stronzate non le pensereste nemmeno più.
E non sottovalutate le perdite, quelle di tutti i giorni, come se avessimo sempre queste perenni perdite non ben definite e incontrollabili, e tutti, tutti i santi giorni!
Come se questi fossero i nostri problemi esistenziali.
Ma delle nostre DIARREE MENTALI parla mai nessuno?!
Per le VOMITATE che ci facciamo ogni giorno dopo esserci bevuta questo schifo di vita che a volte ci viene fatta scolare a forza, avete un rimedio da offrirci?
No.
Perché solo delle cagate e delle pisciate dei nostri bambini parlate.
Perché dopo le mestruazioni sono quelli i problemi più grandi.
Le cagate puzzolenti e le alluvionali pisciate dei nostri mocciosi e …dagliela di nuovo con i pannoloni!
Peccato che non hanno ancora inventato gli assorbenti interni per il sederino e il pisellino dei nostri bambini, chissà potrebbe essere una novità non da poco nella nostra squallida vita e cambiarcela …anche!

CAMBIO DI PUBBLICITA'

Ultimamente nelle pubblicità di prodotti per le donne, non ci sono più le donne.
Adesso ci hanno messo gli uomini.
Ma non gli uomini uomini. Ma gli uomini di oggi che non sanno più se sono uomini o non lo sono.
E noi donne non si capisce che cosa vogliono da noi.
Uno lava i piatti. L'altro gioca con il pupo. Un altro stura il lavandino dai mille schifosissimi ominidi che puzzano terribilmente.
E' un omino secco, secco, una mezza sega che solo uno così, evidentemente per loro, potrebbe stare in casa a sturare i lavandini!
E anche gli altri sono tutte mezze seghe.
Mai si vede un bel figaccione muscoloso che tira a lucido il pavimento.
L'unico mega macho che ci viene concesso è un imbecille ovviamente, che con tutte le segretarie lì davanti che si sbrodolano solo a guardarlo lui, a che pensa?
Ma a farsi una lattina di Coca Cola… naturalmente!
Hanno tutti gli occhiali e sono pure pelati. OK che ora va di moda, ma una chioma fluente alla Raz Degan ogni tanto fa sempre piacere!
Senza contare che sono pure un poco effeminati.
Ma che razza di messaggio vogliono far passare?
Non mi sembra giusto!
Mica per noi donne, che si scompare dall'immaginario pubblicitario maschile.
Ma per loro, le mezze seghe, o quelli più di qua che di là, perché anche loro andando avanti così saranno ghettizzati alla pulitura dei cessi e delle cucine.
Perlomeno noi eravamo la tradizione.
E se ora se ne comincia un po' a parlare di omosessuali, una volta che saranno messi lì davanti a tutti, con i loro problemi di emorroidi e di pasta da scegliere per la cena alternativa, chi li prenderà più sul serio?
Gay palesi e non RIBELLATEVI!
O finirete come noi.
Noi con i tampax e voi con l'hatù super protettivo, finirete così finirete.
ASCOLTATEMI chi vi parla è una donna.