Cristiana
Paolini
toscana, vive a
Roma.
Segnalazione Speciale
con il racconto "I semprevivi" al Concorso Letterario Nazionale
"Il senso puro della parola", (1998).
Premio Selezione
Autori Italiani '99, di Andrea Livi Editore, con il racconto "All'improvviso
nelle scarpe". (1999)
Seconda classificata
al Concorso "Il senso puro della parola" con il racconto "La
canna". (2000)
Terza classificata
al Premio letterario "Idea donna" con il racconto "Stream
of Consciousness". (2002)
Nello Spazio Autori
(2003), è stata pubblicata la raccolta "Controcanto" e (2004)
i racconti "I semprevivi", "Clorina", "All'improvviso
nelle scarpe", tratti dalla raccolta I Racconti della Versilia.
- www.pedro.it/webs/spazioautori/
Della Raccolta "Photogrammi"
sono stati pubblicati :
"Tentata fuga
dall'incomprensione" sulla Rivista Letteraria Storie. (Ottobre
2002)
"Spot",
sulla Rivista Letteraria Fermenti (Luglio 2003)
"Fuga nella
morte" e "Fuga dalla vita" (Dicembre 2003)
"Fuga nella droga" e "Fuga dalla noia" (Marzo 2004)
"Fuga dalla città", "Fuga dal corpo" e "Fuga
dal paese" (Giugno 2004)
"Fuga dall'amore", "Fuga nell'alcool" e "Insicurezza"
(Settembre 2004)
sulla Rivista Letteraria
TamTam,
Proposte Editoriali editrice.
La medesima Raccolta
è arrivata finalista al Premio Letterario "Elsa Morante" (organizzato
da Proposte Editoriali, e dalla Rivista Tam Tam, 2003) insieme ai "Racconti
della Versilia " ed è stata recensita su Storie n.51 dicembre (2003).
Con il racconto
ADELINA si è classificata sesta al concorso letterario Les Nouvelles
2003.
Il racconto è stato pubblicato sulla Rivista Letteraria Prospektiva
N. 25, Prospettiva Editrice.
Sulla Rivista on
line www.Rottanordovest.com sono stati pubblicati i Photogrammi n. 1
e n. 54 alla sezione poesia. (ottobre 2004)
Alla sezione narrativa il racconto "All'improvviso nelle scarpe".
Dicembre 2004
Sul sito della Rivista
www.Laballata.net
è stato pubblicato il racconto Gli occhiali tratto dalla raccolta Racconti
della Versilia, e sulla medesima Rivista cartacea (n.4) è stato pubblicato
il Photogramma n. 56. (Novembre 2004)
La Rivista Percorsi,
ha pubblicato nella Raccolta antologica, letteraria, annuale, il racconto
"Terremoto". Novembre-Dicembre 2004
Sul n. 55 della
Rivista Storie è stato recensito il racconto "La canna", Gennaio
2005
Nella raccolta antologica
"Plaza de Toros" immagini e parole, Edizioni Librati, è
stato pubblicato il racconto "La Corrida". Novenbre 2005
Pubblicato on line anche
sulla Rivista on line www.Rottanordovest.com OTTOBRE 2006
Menzionata tra i "meritevoli"
la Raccolta "Racconti di donne" al Premio Elsa Morante,
-organizzato da Proposte
editoriali, e dalla rivista TamTam- Roma, 2005.
Sulla Rivista di cultura
e libri on line, www.Scriptamanent.net , della Rubbettino Editore, Marzo
2006, è stato pubblicato il racconto breve "Il poeta muto",
a cura di Marco Gatto.
Sul n. 57-58 della Rivista
Lett. Storie sono stati recensiti i racconti "Il poeta muto",
e "Asia" Aprile 2006.
Sul n. 59 della Rivista Lett.
Storie è stato recensito il racconto "IL", maggio-giugno
2006
|
Il poeta muto
Decise così da un
giorno all'altro. ma non decise solo lui, furono proprio le parole che
cominciarono a diradare la loro presenza.
Non riuscivano più a passare dalla bocca.
Gli si spezzavano così, a metà, fra il palato e la lingua
come se l'aria le dissolvesse al contatto.
La corposità di un tempo era diventata irreale, come si dice:
non avevano più senso.
E così a poco a poco, giorno dopo giorno cominciò a diminuire
il volume, gli articoli arrancavano su per la gola.
Poi fu la volta degli avverbi e poi dei verbi e gli aggettivi.
I sostantivi puri furono i più duri a morire ed invece il pronome
personale IO si annullò per primo.
Le parole dunque, per Arturo, non avevano più significato e quindi
furono annullate, morirono, defunsero.
Aveva capito che la loro funzione ormai era andata persa.
La gente le usava da troppo tempo e la verità delle cose, la
verità dei fatti, la realtà, non era più nascosta
fra le pieghe di un avverbio come "orrendamente" o di un participio
come "massacrata".
La realtà era là, davanti ai nostri occhi, nell'orribile
matricidio o infanticidio che si era appena compiuto, ma nel momento
stesso in cui quelle parole venivano pronunciate entravano nelle orecchie
della gente e si perdevano nei meandri del cervello, e poi nei neuroni
e poi nelle particelle infinitesimali fino ad assottigliarsi a tal punto
da sparire nel nulla pur entrando a far parte di noi.
Non irrompevano più come un'onda anomala nella testa delle persone.
Non procuravano più scosse elettriche alla nostra percezione
cosciente.
In un primo momento stentò a capire se era colpa della bocca
che non operava più con la giusta tonalità, con il giusto
timbro o se fosse stata colpa degli orecchi che non accoglievano più
con l'adeguata ricezione.
Rimase ad arrovellarsi su questi due apparati per mesi poi arrivò
alla conclusione che quelli erano solo dei mezzi.
Il problema non era la bocca o l'orecchio che, poveretti, assolvevano
alla loro funzione, malgrado le mille difficoltà quotidiane che
un orecchio e una bocca devono sopportare.
Il problema, il vero problema era lui, il cervello.
Il cervello elaborava tutti questi elementi.
Era lì che andavano ad infrangersi i suoni, a depositarsi le
emozioni.
Ma il cervello per essere ripulito da tutte le scorie di anni ed anni
di bombardamenti tossici doveva cadere nel silenzio.
Doveva recuperare la capacità di pensare senza l'interferenza
esterna.
Aveva bisogno di tacere, tacere per sempre.
La parola, il rumore assordante della caotica vita di tutti i giorni,
avevano perso d'effetto perché si parlava troppo, perché
si faceva troppo rumore.
Fu portato a prendere questa decisione proprio dagli oggetti stessi
di questo disagio.
Era come se la sua capacità di parlare si fosse personificata
e avesse deciso in modo del tutto autonomo di ripulirsi.
La catarsi doveva avvenire in lui, era stato deciso così e cominciò
creandogli non pochi problemi.
Le frasi senza senso che ormai balbettava, spiazzavano in modo inequivocabile
l'interlocutore e la dissolvenza totale fu un punto d'arrivo irrinunciabile.
Le persone attorno cominciarono a naufragare in un mare di congetture
spietate, o stravaganti, alcune facevano anche ridere e, Arturo, più
volte dovette trattenersi dal farlo.
Ma la verità, la realtà della cosa, ancora una volta andava
persa.
Lui, non voleva semplicemente più parlare. Tutto qui.
E nella decisione irreversibile che prese per potersi concedere una
purgazione totale, la scrittura, che fino a quel momento aveva preso
poca parte della sua vita, assunse il ruolo più importante.
Arturo si sarebbe espresso, d'ora in avanti, solo attraverso di essa,
perché solo così avrebbe potuto recuperare la realtà
delle cose, la veridicità dei fatti, la spontaneità in
tutto e per tutto.
Ciò che era brutto e ciò che era bello sarebbe stato recuperato
solo in questo modo.
Cominciò a lasciare bigliettini a destra e a sinistra.
Per fare la spesa non era più necessario dire la marca preferita
di un prodotto, o citare la pubblicità che lo reclamizzava, o
la miriade di aggettivi che affogavano ormai la sostanza.
Una lista della spesa aveva tutta la semplicità della lista della
spesa, doveva essere spartana, veloce, immediata: il pane era il pane,
fatto di farina, acqua e sale e non la "tartaruga" o la "ciabatta"
o la snobistica "baguette".
E poi c'era l'acqua che era semplicemente H2O e non la frizzante, la
liscia, la gassata o quella a poco contenuto di sodio.
L'infinita molteplicità dei significati e delle parole non aveva
allargato la possibilità di comprendere meglio gli oggetti o
le situazioni, ma li aveva completamente annullati.
La sua non era una battaglia contro il punto di vista, no assolutamente,
ma un recupero, un recupero totale del significato e del significante
nella loro essenzialità.
Voleva spogliare la realtà di tutti quegli orpelli che ci si
affanna a mettergli addosso.
Perché aveva capito, aveva compreso che non si arrivava mai al
dunque, mai al dunque.
Il suo intento era sincero. Non era un allontanamento dalla realtà
che lo circondava, ma un tentativo disperato di recuperarla quella realtà.
Non fu capito.
Il suo mutismo divenne malattia, nevrosi, pazzia, non rimase "mutismo".
Assunse tutte le tonalità deviate più impensabili, si
vestì delle forme più pazzesche, bizzarre e più
lontane dalla naturalità della cosa, ancora una volta.
La tendenza era la solita, attribuire mille diversi linguaggi ad un
solo concetto: il silenzio.
In fondo era la forma più pura della parola, ma se ne era persa
la semplicità appunto.
Un giorno aveva visto un film ed una frase aveva colpito la sua attenzione:
"c'è bisogno del silenzio per vedere le cose" e lui
l'aveva assaporata nella sua linearità, l'aveva accolta e l'aveva
messa in un cantuccio.
Evidentemente ora, era necessario ritirarla fuori ed era lì,
fatta apposta per quel momento e per la sua necessità.
"Sono le espressioni nette, semplici, quelle che arrivano al cuore,
sono i concetti puri quelli che colpiscono. Come le prime parole dei
bambini scandite nella loro solida corposità, sono quelle e basta,
e si fanno intendere." pensava Arturo.
Così, cominciò la sua avventura verso il silenzio e verso
la scrittura.
Così, divenne, il poeta muto
..
..
La Corrida
Già gli affondava
la lama nel collo, nel punto esatto dove non c'era dubbio sull'esito
finale.
Il sangue schizzò fuori a fiotti con la massima irruenza.
Aveva eseguito quel gesto senza indecisioni perché il colpo fatale
dev'essere preciso, quasi un atto dovuto dopo tanto stillicidio.
La morte non poteva che essere una liberazione.
Si erano preparati per uscire,
la colazione che li aspettava era abbondante.
Erano usciti dalla stanza con aria di chi negli alberghi ci passa la
metà della vita.
Scendevano le scale che dalle camere portavano alle sale del ristorante
con evidente dimestichezza, camminando sui tappeti rossi sempre con
andatura lieve, di chi si è appena alzato e non ha voglia di
svegliarsi nemmeno con il rumore dei propri passi.
I vestiti, immancabilmente chiari, davano loro un fascino particolare:
si capiva che non avevano bambini a cui badare, che non avrebbero attraversato
a piedi la città nella canicola estiva sudando e sventolandosi
per un minimo di refrigerio, si muovevano sempre in taxi.
Nessuna fatica avrebbe sgualcito le camicie color crema di lui, né
il bianco kaftano di lei, leggermente trasparente, giusto il tanto per
intravedere le forme piene, di carne soda e ancora ben tenuta.
Avevano scelto un tavolo piccolo proprio per restare soli vicino alla
finestra, per guardar fuori e non incrociare gli sguardi degli altri
clienti, indugiando a volte in silenzio e con gli occhi chiusi, il volto
rivolto all'esterno, ma tenendosi sempre per mano sotto quei primi raggi
di sole che, dopo, non sarebbero stati più sopportabili.
Si sarebbero detti due sposini alle prime armi, alle prime tenerezze
come accadeva anni fa, quando solo dopo il matrimonio ci si poteva conoscere
in maniera più intima.
Ma ormai non avevano più vent'anni, anche se le loro persone
belle e forti di anni vissuti nell'agio dimostravano dieci anni di meno.
Era una vita che andavano in quell'albergo, erano diventati quasi un'istituzione
e, da sempre, avevano assistito alla corrida estiva almeno una volta
all'anno, tutti gli anni, da sempre.
Tutte le mattine svuotavano con cura maniacale ad una ad una le marmellatine
ai gusti di prugna, albicocca, mora ed arancio.
Anche il burro veniva spalmato con precisione, un velo sottile, attenti
a non rompere la fetta biscottata che si frantumava al minimo contatto
con la lama del coltello: erano gli unici al cui tavolo non restavano
mai briciole da raccogliere.
Certo le quantità consumate in quelle colazioni rivelavano una
fame non indifferente, quasi un compenso a una carenza di qualche genere.
Erano i primi ad arrivare al tavolo, e gli ultimi ad andarsene, forse
per non avere l'obbligo di salutare chi si alternava nella sala, lui
con il giornale e una pipa, lei un libro di poesie: passavano così
le due ore della colazione.
Poi uscivano come due angeli un po' démodé, sempre con
quell'aria evanescente fra le vesti fruscianti e profumate che li avvolgevano:
lui un panama alla Hemingway, lei un cappello dalla falda larga, entrambi
con occhiali da sole scuri.
Due anime bianche che scomparivano nel caotico e festoso traffico di
Barcellona per andare a vedere i magnifici "castelli di sabbia"
di Gaudì come li chiamavano loro e recarsi infine alla corrida.
E quel giorno si sedettero nella tribuna d'onore come sempre e, al solito,
mano nella mano, aspettarono l'inizio nel fremore evidente di tutti
gli spettatori.
Quelli abituali, ansiosi per uno spettacolo che evidentemente li affascinava
e quelli che, per la prima volta, assistevano eccitati e dalla curiosità
e dal timore di rimanerne, magari, disgustati: il dubbio era comunque
esaltante.
L'ardore e la crudezza di quella giornata non erano stati preannunciati
da nessun particolare anomalo, che facesse solo sospettare eventi tragici
in agguato.
Il torero entrò nell'arena con un'eleganza innata, si poteva
capire da come avanzava.
Alto e magro girava lo sguardo agli spalti cercando il plauso ma con
un'indifferenza palese, tronfio, com'era, della sua posizione di attore
già affermato.
Una scossa percorse il braccio
dell'uomo sugli spalti, la mano mollemente adagiata in quella della
sua compagna ebbe una contrazione improvvisa, e lei lo guardò
sorpresa, cogliendo, in contemporanea, che lo sguardo fisso in avanti
di lui aveva un batter di ciglia in più, che gli fece sgranare
gli occhi in un'espressione anomala di stupore.
Lei, allora, gli strinse a sua volta la mano, dolcemente però,
come di complice intimità, e si accostò l'avambraccio
muscoloso ancora di più al corpo quasi a sfiorarsi il seno.
Il toro ancora non entrava, e il torero come un pavone che fa la ruota
per attirare l'attenzione roteava su se stesso, alzando le mani in segno
di saluto.
Un attimo ed è rivolto
verso la loro tribuna e lì l'inchino classico con alzata di cappello,
uno sguardo più prolungato e lui si scosta dal corpo di lei e
lei avvertendo quel distacco si gira ancora, ancora lo guarda.
Osserva: lui, con un gesto insolito, si toglie il panama e si tira indietro
il ciuffo che in modo scomposto era venuto in avanti, un insolito modo
accurato che non gli appartiene pensa ancora lei, quasi femminile nella
sensualità còlta, e si sente improvvisamente a disagio,
il contatto adesso è un fastidioso strusciare di due corpi sconosciuti.
Il viso dell'uomo è diventato paonazzo, piccole stille di sudore
brillano sulla fronte all'attaccatura dei capelli brizzolati e leggermente
lunghi, che in modo quasi automatico continua a tirare indietro, indugiando
a volte sulla nuca come in una sospensione pensosa, il cui contenuto
lei avverte istintivamente essere una minaccia.
La lotta nell'arena ha inizio ma, quella volta per lei, non è
la solita corrida.
Le sensazioni contrastanti
che imperversavano adesso nella sua anima quieta e nel suo corpo sopito,
da anni ormai, la turbarono a tal punto che fu costretta ad alzarsi
scusandosi, e a uscire dalla tribuna.
Si allontanò perché per la prima volta, dopo tanti anni,
si sentiva un'estranea vicino a quell'uomo che, folle a dirsi, nel giro
di pochi secondi era diventato un'eco anomala nella sua testa.
Restò in disparte per tutto il tempo, e lui non si curò
di cercarla preso com'era dalla lotta dell'uomo con la bestia, là
in quel cerchio, al centro dell'attenzione di mille e passa persone.
L'entusiasmo represso forse da una vita, esplose in quel palco, come
se una forza bruta avesse risvegliato, non si sa per quale perverso
meccanismo, una bestialità nascosta.
Così le appariva adesso quell'essere sconosciuto che si alzava
gridando e agitandosi.
I gesti, consueti ai suoi occhi, dopo anni di vita insieme, ora avevano
una connotazione insolita, sempre ricercata, ma con una sfumatura impercettibile
che lo facevano apparire
. diverso: il tenere il mignolo leggermente
scostato dalle altre dita, il portarsi la mano alla bocca nei momenti
più pericolosi, tutto
sotto una nuova luce.
Continuò a guardarlo come un mistero improvviso: le mani sventolavano
adesso davanti al viso con fare mellifluo, la pelle, che ora appariva
avvizzita attorno agli occhi, veniva asciugata con il fazzoletto bianco,
con modi affettati, e la lingua passava e ripassava sulle labbra insistente,
quasi maniacale.
Le dava fastidio adesso quella bocca tanto bramata, quelle mucose fini
adesso le facevano senso, e si chiedeva come avesse potuto vedere in
lui altro da quello che vedeva in quel momento.
Il massacro era quasi al termine, il sangue colava dalla pelle squarciata
del toro verso cui provò, per la prima volta, un forte senso
di pietà.
La folla urlava, eccitata, e lui con loro, non con lei, ma con loro,
e d'improvviso lo vide là, il corpo esangue sotto la fatica dei
colpi inferti, un viluppo di corpi sudati che lottavano verso un'esaltante
perdita.
La loro prima notte, dopo
il matrimonio, era stata un fallimento.
Le venne il dubbio, in quella serata così deludente, di aver
decisamente frainteso le proprie aspettative.
La sussurrata esaltazione dei sensi in un turbinio di sensazioni meravigliose
non ci fu o meglio, ci fu un timido tentativo iniziale, ma dopo poco
l'umiliazione della mancata riuscita ebbe il sopravvento, e la sua nascosta
sensibilità materna venne in soccorso di quell'uomo perso nell'incapacità
dei primi approcci, pensò allora, e fu solo tenerezza uno nelle
braccia dell'altro.
Da quel giorno per sempre.
Non ci fu mai più la capacità di cambiare le cose, la
voglia sì, tanta, ma tutto si assestò in un platonico
matrimonio fatto di dolcezza e rispetto reciproco.
E adesso si vide in tutti quegli anni, dedita all'attesa che prima o
poi qualcosa sarebbe cambiato.
Si era sì placata la sua passione mai espressa, ma in fondo in
fondo, bramava ancora quel desiderio rimasto sepolto fra le pieghe delle
sue vesti accattivanti e della sensualità manifestata ad ogni
piccolo accenno di attenzione da parte di lui.
Solo adesso capiva.
Solo adesso vedeva, là, in quell'arena ciò che forse era
palese a tutti, da tempo, ma che lei aveva accortamente rimosso per
non soffrire di una scelta sbagliata.
Avevano creato insieme un connubio perfetto, erano una coppia impeccabile,
bella a vedersi tanto era l'affiatamento che scaturiva dai loro occhi,
complici.
Una coppia da invidiare nello scatafascio generale dei matrimoni dei
loro conoscenti, da prendere a modello per qualcosa che forse era possibile
raggiungere, credendoci, come loro ci credevano.
Ma a questo punto capì.
Capì che a crederci era stata soltanto lei: una vita a mettere
da parte i sensi come una cosa troppo terrena da sembrare sporca nel
loro rapporto idilliaco che si nutriva di arte e cultura.
Una vita a lottare contro quegli sconvolgimenti viscerali che ogni tanto
si presentavano a riscuotere la loro parte di soddisfazione, lì
al basso ventre dove la testa non comandava più, ma che venivano
regolarmente messi a tacere come realtà appartenenti al mondo
degli uomini quando loro, invece, erano Dei.
La parola sesso era sconosciuta alle loro orecchie malgrado un sensuale
alone avvolgesse le loro impeccabili figure.
Tutta quella celestialità rovinò in un giorno, nel più
profondo dei baratri e lei vide il suo arcangelo alle prese con le più
gravi bassezze dell'inferno.
La rosa rossa portata per l'occasione fu lanciata con impeto e baciata
prima, e il torero la raccolse e la baciò a sua volta, incrociando
ancora lo sguardo con lui nel toccarsi la fronte a mo' di congedo.
Quanto avrebbe voluto ricevere lei quell'ardore: l'offesa fu fugata
per un secondo dal pensiero di quella lascivia tanto sospirata e si
sentì persa, come una bambina al primo bacio.
Rientrarono come sempre in
albergo, per il consueto aperitivo serale, con l'immancabile levità,
anche se lei distava di un passo rispetto a lui e, per la prima volta,
non entrarono mano nella mano aveva osservato incautamente l'uomo della
reception.
Si sedettero nella veranda inondata dal sole ormai grondante arancio.
Il grosso del caldo ora era svanito e una lieve brezza spirava tra le
fronde del vecchio glicine abbarbicato alle colonnine stile impero.
Lui, perso fra quegli intrecci, adagiato fra i grappoli lilla.
Lei che continuava ad osservarlo, fingendo di guardare, finalmente,
i clienti che si avvicendavano ai tavolini accanto.
Sorrise anche a qualcuno di loro accennando un saluto col capo mentre
pensava a tutte le volte che dopo cena, quando lei sprofondava nel suo
libro di poesie, lui regolarmente usciva
a farsi una passeggiata
lungo Las Ramblas, con la cara vecchia pipa fra le labbra e non tornava
se non
non lo sapeva, quando tornava, perché cadeva regolarmente
addormentata nel cuore della notte.
Forse chissà
allora
tutte le estati
quando
sarà stata la sua prima volta
quanti toreri aveva "matato"
in tutti quegli anni
quello, era stato una delle ultime conquiste
!?
Non riuscì a chiudere
occhio quella sera, aspettò fino a vedere le prime luci dell'alba.
Quant'era vera quella luce, quanto tempo sprecato.
Si dice che i sogni della mattina siano quelli più veri e lei
lo uccise così il suo sogno, sprofondato nel sonno del loro letto
dopo una notte insonne.
Gli affondò la lama nel collo con precisione, senza indugio come
tante volte aveva visto fare al torero.
OLE' gridò
e sentì, in
risposta, l'urlo di approvazione, eccitato ed eccitante, della
follia!
L'UOMO NELLO SPECCHIO
Lo vide così per caso,
in un giorno qualunque della sua esistenza che lenta e noiosa si trascinava
ormai da diversi anni.
In quel periodo la staticità degli avvenimenti si era acuita.
Forse per questo motivo ogni ben che minimo cambiamento veniva colto
per appropriarsene con disperazione cercando così di acchiappare
frammenti di vitalità dove poteva.
Quel giorno vide riflesso nello specchio se stesso mentre si vestiva
come tutte le altre volte.
Né più né meno che la sua immagine magra e allampanata
di pacifico impiegato del catasto.
Ma a un certo punto con la coda dell'occhio mentre si girava per prendere
l'impermeabile appoggiato sul letto, si accorse che la sua figura specchiata
non si era chinata con la stessa identica precisione di sempre.
Lì per lì non diede peso alla cosa. Pensò che la
solitudine cominciava a giocargli brutti scherzi e se ne andò
come tutte le mattine al lavoro.
Ma nel corso della giornata ripensò più volte a quel fatto
e la convinzione che qualcosa di diverso fosse veramente avvenuto cominciò
a rafforzarsi, fino a che alla fine aveva chiaro davanti agli occhi
quell'impercettibile differenza di tempo che c'era stata fra lui e la
figura nello specchio.
La sera stessa tornato dall'ufficio fece diversi tentativi davanti al
medesimo, ma mai, mai una volta notò l'incredibile avvenimento
di cui si era persuaso durante tutto il giorno.
Se ne andò a letto dopo aver preso il solito bicchiere di latte
caldo e aver ascoltato le notizie del telegiornale della sera.
Ora aveva di nuovo cambiato parere: sì, era stata solo suggestione.
Una di quelle fantasie che la disperazione a volte alimenta per dare
una scossa d'urto a una vita monotona.
La mattina dopo si alzò come tutte le altre allo strepitare di
una vicina di casa che buttava giù dal letto il figlio che si
sarebbe alzato dopo un quarto d'ora di quel vociare.
Le urla di quella donna scuotevano pure lui, come un ricordo infantile
che lo torturava anche da grande pur avendo sostituito la mamma con
una radio sveglia ben sintonizzata su piacevoli programmi musicali.
La sua levata molto probabilmente coincideva con quella del ragazzo
del piano di sotto perché quasi sempre gli strilli si interrompevano
e cominciavano i memorandum: "il latte brucia...i denti...pettinati...torna
subito a casa dopo la scuola!"
Ma l' uscita di casa dell'impiegato non combaciava con quella del ragazzino
che mai aveva incrociato sulla scala, dove di certo si sarebbero scambiati
uno sguardo di compassionevole comprensione.
Quel giorno però fece più tardi del solito. Si lavò
la faccia con molta cura ricordandosi, nel momento stesso in cui si
vide riflesso nello specchio del bagno, ciò che gli era accaduto
il giorno prima.
E vedendo l'assonnata faccia si sorrise con ironia quasi prendendosi
in giro.
Che cosa gli aveva fatto balenare l'assurdo pensiero che la sua immagine
non si fosse mossa in contemporaneità con la sua persona?
Prese dalla specchiera il
grosso tubo comprato in offerta al nuovo discount alimentare sotto casa,
lo scartò e cominciò ad agitarlo per far montare bene
la schiuma al suo interno.
Nel frattempo continuava ad osservarsi con l'occhio falsamente distratto
di chi si vuole cogliere in fallo. E continuava a sorridere al pensiero
di quel suo gioco strano.
La schiuma bianca uscì come panna dal beccuccio e con una mano
se la spalmò sapientemente sul viso, massaggiandola nei punti
che ormai sapeva più critici: il mento e sopra le labbra, facendole
rientrare in una smorfia forzata che quasi gliele nascondeva del tutto.
Un minuto e poi con maestria cominciò a passare il rasoio dal
basso verso l'alto, lentamente ma con agilità.
Gli occhi continuavano a seguire precisi i contorni del viso e gli mancava
ormai una piccola macchia bianca sotto l'orecchio quando con stupore
vide che il suo occhio gli faceva l'occhietto dall'altra parte della
superficie argentata.
Un movimento brusco ed ecco che il taglio era fatto e cominciava a sanguinare.
La mente incredula adesso si stava annebbiando, mentre al di là
vedeva chiaramente se stesso che senza alcuna traccia di sangue continuava
a farsi boccacce d'ogni sorta fino a scomparire in una nuvola di risate
che risuonarono nelle sue orecchie con una voce identica alla sua.
Il ragazzo del piano di sotto
uscì dalla porta di casa sbattendosela dietro come sempre, come
a voler stritolare in quella chiusura violenta tutti gli urli e le raccomandazioni
che uscivano a fiotti dalla bocca della madre.
Si caracollò giù dalla ringhiera della scala rischiando
in quella scivolata l'osso del collo come tutte le mattine, ma all'improvviso
un urlo, non materno, dietro le sue spalle lo fece scendere precipitosamente
e un'ombra velocissima lo sfiorò mentre scivolava giù
con perizia maggiore della sua.
Restò sbalordito quando si rese conto che quella freccia umana
altro non era che l'inquilino del piano di sopra.
Diverse volte lo aveva visto rincasare, la sera, e lo aveva osservato
attentamente da dietro le finestre di casa sua: abiti grigi che rattristavano
ancora di più quella figura smilza, capelli brizzolati, precoci
per l'età che doveva avere, e che di certo erano il risultato
della vita squallida che conduceva: non poteva essere altrimenti visto
lo sguardo spento che lo accompagnava ogni volta.
Eppure quella figura agile e svelta era proprio lui! Con un balzo fu
giù dalla ringhiera nell'androne, piegandosi mollemente sulle
ginocchia ed ergendosi poi dritto come un fuso senza indugi, con la
fermezza di un atleta.
Si girò con un sorriso ammiccante e uno sguardo di sfida che
sbalordì il ragazzo: era proprio lui ma...diverso.
"Vieni con me?" chiese brusco e accattivante.
Il giovane con la bocca ancora spalancata per lo stupore annuì
con la testa, senza riuscire ad emettere alcun suono.
Uscirono dal portone del palazzo come se tutte le mattine avessero condiviso
quella fuga, nel modo più naturale possibile, complici da sempre
in un'amicizia profonda.
Roma era stupenda a quell'ora. Il caos cominciava a strisciare fuori
come nebbia da ogni angolo di strada, ma non era assordante perché
ancora imbambolato dal sonno.
Il vicino di casa propose di affittare un motorino e il ragazzo accettò,
già eccitato alla sola idea di passare una giornata diversa con
quello sconosciuto insolito e affascinante.
Il problema scuola non fu nemmeno menzionato e come a cavallo di una
scopa stregata volarono per le strade della città senza una meta
precisa.
Si ritrovarono a Ponte Flaminio sotto quelle grandi aquile e sopra quelle
enormi colonne smozzicate scartarono un bombolone caldo, rigonfio di
crema pasticcera e se lo ingurgitarono guardando il Tevere che scorreva
lento come una grossa vena verdastra di quel corpo che sempre più
si animava e splendeva nella luce viva del sole mattutino.
Il vicino non parlava se non di rado, per proporre una nuova escursione:
ora Fontana di Trevi a guardare le turiste, ora il Pincio e Villa Borghese,
distesi nell'erba con una coca cola fresca presa da una cannuccia e
gli occhi persi nel cielo a seguire i corvi neri e gracchianti.
Oppure alla Bocca della Verità per far ridere le giapponesi mentre
si torcevano nelle fauci di quella faccia tonda, urlando all'improvviso
e strattonando platealmente.
Il ragazzo gli raccontò senza difficoltà la sua insignificante
vita di sempre, lamentandosi delle sue amicizie che niente erano al
suo confronto, e dimostrando tutta la sua felicità e gratitudine
per quella inaspettata botta di vita...era tutto merito suo.
In fondo non era poi così sconvolgente, nel senso che non stavano
facendo "cose turche", ma semplicemente avevano fatto a pezzi
la noia di tutti i giorni e questo lo faceva star bene.
Dopo un gelato incredibilmente enorme al Gianicolo, decisero di andare
ad Ostia parcheggiando il motorino e prendendo il treno molto più
veloce e comodo.
Quel viaggio fu per lui di una bellezza indicibile.
Il sole filtrava caldo dai finestrini sporchi di quel trenaccio mal
messo, ma l'idea di esserci, di essere così presenti a se stessi
in quel momento rendeva tutto stupendo, quasi poetico tanto era vero.
L'estate ormai era nell'aria anche se eravamo alla fine di aprile, e
la corsa sulle dune bianche e selvagge del lido li aveva fatti sudare
tanto da fargli desiderare un tuffo nel mare arruffato che si stagliava
davanti ai loro occhi ebbri di quell'odore e di quella sensazione di
libertà, semplice.
L'acqua non era nemmeno tanto fredda e il gioco degli schizzi continuò
per diverso tempo.
Tornarono e andarono a mangiare un pezzo di pizza seduti su un muro
di fronte ai Fori Imperiali nella luce rossastra del tramonto.
Sestilio, così si chiamava il ragazzo, si ricordò di casa
quando scesero di corsa dalla scalinata di Piazza di Spagna, evitando
in modo scomposto e pericoloso i turisti seduti a godersi la pace della
sera e la musica delle chitarre che suonavano Battisti:"
.come
può uno scoglioo, arginaare il maare, anche se non voglioo torno
già aa volaaree..."
Così rientrarono e sulla porta il vicino guardandolo e vedendolo
gioioso e stanco disse: "...spero di rivederti, per un'altra giornata
da leoni! Chissà, forse, se riuscirò a liberarmi ancora
grazie
della compagnia."
E com'era sceso velocemente la mattina, a grandi falcate salì
per scomparire su per le rampe della scalinata, senza dare il tempo
a Sestilio di salutare.
Urla inumane uscirono dalla casa del povero ragazzo che finì
la giornata buscandole di santa ragione dal padre, infuriato per la
sua scomparsa.
La mattina dopo con la faccia apparentemente contrita dal rimorso per
quello che aveva fatto si alzò presto, fece colazione e salutando
la madre che per la prima volta non ebbe bisogno di urlare di buon'ora
come al solito, uscì di casa con la promessa di tornare appena
finita la scuola.
Scese gli scalini lentamente, e ad ogni gradino alzava lo sguardo nella
chiocciola delle scale per vedere se arrivava il suo amico, ma niente.
Fuori dal portone indugiò ancora e poi siccome vide la madre
che sbirciava dalle tendine, fece finta di allacciarsi le scarpe appoggiando
i libri per terra e chinandosi per far meglio.
Il portone si aprì con leggerezza.
Il suo sguardo colse la punta lucida e nera di un paio di scarpe da
uomo, non erano di certo quelle scalcinate da ginnastica del suo amico
di scorribande.
Alzò lentamente lo sguardo deluso verso l'alto e un sorriso lo
colse di sorpresa nel riconoscerlo o meglio nel vederlo.
Era lui non c'erano dubbi, ma vestito in giacca e cravatta, con la solita
ventiquattr'ore stretta nella mano e uno strano sbercio sulla faccia
magra, che il giorno prima non aveva, però.
Doveva essersi rasato e tagliato.
Il ragazzo lo salutò confidenzialmente, ma la risposta fu gentile
e distaccata.
Lo guardò andar via lento e un po' goffo nei movimenti, restando
anche quel giorno a bocca aperta per lo stupore.
Ma questa volta nessuno gli chiese niente e con la testa frastornata
un po' dalle botte e un po' dalla sensazione di essersi trovato davanti
un estraneo, si incamminò verso la scuola: il pensiero fisso
a quel taglio che era sicuro non c'era sulla sua simpatica faccia, così
diversa quel giorno... eppure era lui.
E scrutando l'immagine di quell'uomo che si allontanava riflessa nella
vetrina del supermercato, gli parve di vedere per un attimo un sorriso
accattivante e un occhio strizzato sulla sua faccia scura.
L'urlo
Un urlo gli si srotolò
nell'esofago partendo dal basso ventre.
Ingoiò saliva acida per cercare di contenerlo, ma capiva che
non c'era niente da fare.Il lucido, controllato comportamento, che lo
aveva sempre contraddistinto, sembrava essersi smaterializzato al contatto
di qualcosa che aleggiava là attorno, impalpabile.Nessuno udì
quella improvvisa esplosione dalle sue viscere, non ci furono sguardi
né movimenti a tradire la meraviglia e l'incomprensione.
Lui solo ne sentì la deflagrazione nelle vene attraversate da
litri di sangue ad una velocità decisamente insolita.
Si mosse, con passo veloce, verso la finestra .
Il resto dell'ufficio continuò ad accalorarsi sull'organizzazione
del progetto in corso.
Guardò fuori perforando con le pupille alterate il vetro quasi
inesistente.
Si voleva, con quella trasparenza, sopperire alla mancanza di spazio
dell'angusta stanza al diciassettesimo piano di quel perfetto parallelepipedo.
Aveva bisogno d'aria. La fissità del condizionatore non aveva
l'esaltante ebbrezza della discontinuità di un soffio di vento
sul viso.
Con un gesto violento allentò il nodo della cravatta, non poteva
aprirla quella finestra, non ce n'era la possibilità a quell'altezza.
Con il tono più affettato che in quel momento riusciva a recuperare
dalla memoria di ormai comprovato self control, bisbigliò a qualcuno
del gruppo che doveva uscire un attimo e si diresse con passo tranquillo
nel bagno.
Là appoggiò le mani sul lavabo percependone la fredda
superficie maiolicata.
Lo tenne stretto quasi fosse una preda appena cacciata, immobile sotto
la sua presa.
Respirò ansimando come avesse fatto uno sforzo immane.
Chinò la testa toccandosi il petto con il mento poi, girandola
di fianco e ancora in avanti con una lenta rotazione, si guardò
nello specchio lucido.
Il viso trasfigurato in quello sforzo evidenziava le piccole rughe attorno
agli occhi che irretivano la sua pelle di quarantenne.
Tutto normale, niente di eccezionale, ma quei solchi sterili sul viso
flaccido, rarefatto e molle, come sgonfiato d'acqua e rigonfiato malamente,
lo facevano sentire precocemente invecchiato.
L'urlo continuava a ribollire dentro e a squassargli il petto che liberò
dal peso della giacca grigia in fresco-lana appendendola all'attaccapanni
d'argenteo
...
Ruotò con frenetica lentezza il rubinetto a stella dell'acqua
fredda.
Lasciando finalmente la presa di quel mite lavandino, ormai esausto
e caldo anche, allargò le mani sotto lo scroscio dell'acqua,
guardandola espandersi e scivolare come fosse la prima volta che vedeva
quel liquido primordiale e puro.
Quella situazione gli cominciava a stare veramente stretta.
Ormai anche il suo fisico oltre alla sua mente già provata, ne
risentiva.
Le cose dovevano, dovevano necessariamente cambiare.
Il lavoro l'aveva portato fin là, nella mitica "Grande Mela",
lui, un cittadino della piccola, piccolissima Forte dei Marmi, il "pomo"
della Versilia e solamente in estate.
Cinque mesi di mare a piene mani; da maggio a settembre.
L'acqua, il sole e l'aria erano stati gli elementi base della sua esistenza.
La mattina si alzava presto facendo una ricca colazione sul terrazzo
di casa al suono dei gridi di decine di rondini nere che sfrecciavano
festose in gruppo nell'azzurro del cielo.
Una gioiosa danza a velocità incredibile, rischiando ogni volta
l'impatto coi pali del bersò ricoperto da glicini.
Il profumo dei tigli aromatizzava interi periodi, al solo ricordo ne
riaffiorava l'intensità, e la stessa cosa accadeva quando a quel
sentore si sostituiva il più dolciastro dei gelsomini bianchi
mescolato a quello del cocco delle creme solari usate a profusione dai
villeggianti.
Un'esplosione di aromi e di colori che stordivano inebriando per sempre
la cartina tornasole della memoria di tracce indelebili.
Tirando a sé la levetta
del dispenser del sapone, uscì una schiuma bianca, asettica,
provò ad annusare ma, l'olfatto, dopo anni di smog era perso.
Provò ad accarezzarla strusciando dolcemente le mani una sull'altra
il
ricordo della sabbia calda fatta scivolare fra le dita o di quella umida
e graffiante rastrellata con le mani per scavare una buca profonda fino
ad arrivare all'acqua, gli percorse i gangli nervosi riportando in vita
tracce di una sensibilità che credeva perduta.
D'improvviso un bussare: "Antonio
..stai bene?!"
"Bene, bene
" ripetè quasi automaticamente e la
sua voce assunse la lucida, controllata tonalità di sempre, moderatamente
pacata.
"Perfetto
.. noi intanto andiamo avanti, sbrigati!"
Questa volta un pugno si srotolò un attimo prima di infrangersi
sulla porta di metallo, ultra lucida e ultra moderna, del bagno.
Non c'era tempo nemmeno per andare al cesso!
Tutto procedeva ad un ritmo insostenibile: lavorare, lavorare, lavorare
..
il resto non contava. Si doveva portare a termine ogni giornata solo
per ricominciare quella successiva con la solita frenesia.
Non potevi permetterti di staccare la spina, di allentare la presa,
distrarti un attimo, non te lo permettevano o sarebbero stati guai,
guai seri,
.. la carriera,
il capufficio,
.. ma ce l'aveva
lui, il bisogno di andare a cagare e, in quell'attimo fuggente, pensare?
pensava, almeno in quell'attimo, alla sua vita?!
Sua madre apparve con il
solito foulard sulla testa ormai imbiancata, i calzini nelle vecchie
ciabatte e il grembiule sulla minuta veste di cotone, bussava perché
doveva entrare, c'erano i panni da lavare, ancora.
Sapeva di crostata d'albicocca e di pane fatto in casa.
Lui invece là dentro era alle prese con la sua chitarra cercando
di imparare meglio i pochi accordi che gli aveva insegnato il fratello.
Un giorno battendo il tempo con il piede mentre ancora indugiava sulla
tazza del water, si accorse della presenza di uno scorpioncino.
Quell'estate raccontò a quell'insolito ascoltatore, ogni volta
che andava in bagno, gli avvenimenti più importanti, tanto per
fargli passare un po' di tempo; immaginava fosse ben poco eccitante
stare là dentro, tutto solo e tutto il santo giorno chiuso in
quel buco.
D'altronde, pensava Antonio, era l'unico posto al sicuro con la luce.
Di notte invece usciva allo scoperto, girava per le pareti della stanza
in caccia di cibo e ogni tanto si faceva una capatina anche fuori, l'aveva
visto più volte al limite della cornice della finestra con il
pungiglione ricurvo all'insù, pronto alla difesa.
Povero scorpione, aveva pensato, così potente con quella sua
arma, eppure costretto a nascondersi per non soccombere sotto la suola
di un'insignificante ciabatta.
Ecco
.in quel momento
si sentiva come quello scorpione: chiuso in un buco per difendersi dagli
ingranaggi di un mondo insignificante, che poteva però con un
colpo solo schiacciare lui, la sua vita, il suo ruolo.
L'arma che lo aveva sempre contraddistinto: l'intelligenza, la prontezza,
la capacità di capire e di migliorarsi, non gli servivano più
a nulla.
Entravano in gioco altre regole che lo spiazzavano, lo impoverivano,
ma non poteva opporsi, non poteva farci proprio niente.
Aveva una famiglia da mantenere, il minimo, un figlio e una moglie,
ma rischiare di perdere il posto di lavoro oggi, era impensabile.
E poi tutti quegli anni di sacrifici: ore buttate sulle carte d'ufficio
invece che su una sdraio in terrazza a leggere un buon libro, o nelle
aree di un parco a giocare con il suo piccolo per conoscerlo meglio,
per avvicinarsi di più.
A qualcosa doveva arrivare, a qualcosa di meglio almeno per una soddisfazione
economica dato che ormai quella lavorativa, s'era capito, languiva nell'entusiastico
stadio iniziale dell' appena laureato, pieno di sogni e di mondi fantastici.
Ma non ce la faceva più.
Non sapeva a cosa appigliarsi per poter andare avanti.
Coltivare un sogno, sì continuare a coltivare un sogno per poter
respirare aria buona, carica di energia rivitalizzante.
Ripensò alla sua vita in Versilia, ora, a settembre, c'era il
rito della raccolta dei funghi.
Da ragazzi scavalcavano i cancelli delle stupende ville dai giardini
perfetti, alcuni dal sapore patinato delle riviste di moda, quasi fossero
delle piccole boutique ultimo grido, altri invece che sapevano di un
classico ormai sfumato, con il fascino dei giardini antichi visitati
da tate francesi o inglesi che accompagnavano al mare i piccoli rampolli
delle casate nobili.
Una mescolanza di passato e di presente dovuto anche ai racconti fantastici
che sua nonna faceva di quei posti e di quelle persone, essendo stata
lei insegnante di lingue, ed avendo così frequentato il jetset
occasionale di quel piccolo paese turistico.
Si avventuravano a cercar funghi rischiando sempre l'osso del collo
e anche i colpi di scopa dei giardinieri che li minacciavano di galera,
se capitava che li trovassero dentro le splendide proprietà.
Raccoglievano i "pinetini", casse e casse portate sulle canne
delle vecchie, sgangherate ma irrinunciabili biciclette.
Arrivati a casa entusiasti e vincenti per quei piccoli tesori che permettevano
loro di vivere quelle magnifiche avventure, scaricavano le casse e assistevano
impotenti alla fine miseranda che quei frutti prelibati facevano
.nella
spazzatura!
Ma non si arrendevano e l'anno dopo erano punto e a capo.
Era la speranza, la speranza che prima o poi quei funghi sarebbero stati
mangiati e loro si sarebbero presi i complimenti dalle famiglie, sarebbe
stato riconosciuto il loro impegno.
La speranza. Anche il solo suono di questa parola era bello.
Sperare che le cose sarebbero cambiate, era quello che doveva fare.
Si riannodò la cravatta con la sveltezza di sempre.
Il suo cervello era già altrove: cambiare vita, lavoro, tornare
a passeggiare sulle spiagge e fra le pinete della sua amata Versilia.
Alimentare un sogno, ecco, già il seme era stato buttato, la
mente defluiva, i pensieri torbidi e ossessivi lasciavano il posto a
cieli aperti, al profumo del muschio e della legna bruciata in uggiose
ma serene giornate di pioggia, dove lo stare soli con se stessi era
una scelta, un piacevole masochistico piacere e non un'imposizione esterna
di quel alienante modo di vivere.
Appoggiò una mano aperta al muro e con l'altra spinse con forza
il bottone dello scarico del gabinetto.
Guardò l'acqua scorrere via in un fragoroso scroscio: tutto il
suo malessere era là dentro e se ne stava liberando in un colpo
solo, facendolo precipitare dal diciassettesimo piano in una delle innumerevoli
fogne di quella fantastica, enorme, città.
Montalcino
Erano abbandonati stanchi morti sulla spiaggia, quando Ernesto si svegliò.
Avevano bevuto fino all'alba, in modo smisurato, senza nessun ritegno
per le proprie persone, né per quelli che li vedevano ondeggiare
scomposti nella notte mondana dell'estate versiliese.
Che cosa avevano da perdere in fondo? La loro condizione sociale era
poco più che niente: "in cerca di prima occupazione"...
ormai da diversi anni, avrebbero dovuto aggiungere a grossi caratteri
sulla carta d'identità.
Quella di Ernesto stava anche per scadere, ma aveva già pensato
di non rinnovarla; che senso ha una identità stampata solo sulla
carta!
"Che lavoro fai?" questa è la prima domanda che ti
rivolgono ogni qualvolta conosci qualcuno, e la tua risposta è
sempre la stessa: "...sto cercando".
E allora, via libera ai soliti discorsi inutili: "ma, possibile?...
eppure, forse qualcosa si trova
adesso."
Ma tu vallo a spiegare che hai perso degli anni e ti sei diplomato più
tardi perché dovevi aiutare tua madre al negozio.
Prova a raccontare a chi ti sta davanti con aria sfrontata, che sembra
dire: chissà questo che vuole?
" sai
mio
padre
ha avuto sempre un vizietto."
"Il vino - diceva- fa sangue!"
E giù un bottiglione a pasto, perché lui di sangue ne
aveva bisogno. Ci diceva che da piccolo era sempre stato anemico, era
giusto che da grande si rimettesse in forze!
E così fra una flebo e l'altra di bianco e di rosso, mia madre
rimaneva sola in mezzo a salami e mortadelle.
E io passavo le giornate a portare i sacchetti della spesa a tutti i
clienti, ma le spese mie chi le faceva?
La notte cercavo di rimediare studiando con impegno, ma crollavo regolarmente
dopo che mio padre smetteva di urlare con la mamma e il sonno della
stanchezza, mentale più che fisica, prendeva il sopravvento.
Al diploma finalmente poi c'ero arrivato.
A quel punto certamente avrebbero chiesto: "...e il negozio?...
potevi lavorare lì dentro."
"Certo... se l'avessi avuto ancora!"
Purtroppo era andato in fumo per colpa della ricerca sbadata di un famoso
vino di Montalcino che mio padre non riusciva a trovare.
Era tornato dopo la chiusura, perché avevamo un suo vecchio compagno
di guerra a cena.
Non appena ricevette la telefonata si ricordò che in una giornata
di "fuoco" gli aveva promesso che se ne fossero usciti vivi
gli avrebbe offerto quel vino, ogni volta che fosse andato a trovarlo:
era il preferito da mio padre e molto costoso.
E così quell'impegno gli costò più del previsto.
Già mezzo ubriaco, dopo una giornata di dose raddoppiata per
la contentezza di quell'arrivo inaspettato, aveva lasciato il ciancicato
sigaro sul bancone e tutto era scomparso nel giro di un'ora.
Ovviamente, l'unica cosa che si era salvata, era quella vecchia bottiglia
di vino.
Non fu mai aperta perché l'amico, che telefonò subito
dopo che mio padre era uscito per la sua impresa, all'ultimo momento
aveva rimandato la visita al giorno successivo.
Venne però al funerale del babbo, che in seguito a quella sciagura
non se la sentì più di annegarsi nell'alcool ma, per l'ultima
volta e in segno di catarsi, decise di bere l'acqua del fiume che attraversava
la città di Massa buttandosi giù dal ponte più
alto.
Consegnai la bottiglia di Montalcino all'amico, il quale la conserva
tuttora sul comò della camera da letto di mia madre che da quel
giorno prese a consolare con sempre più assiduità: chissà
se hanno intenzione di stapparla il giorno delle loro imminenti nozze?
Non avrò occasione di chiederglielo perché me ne sono
andato e da allora non li ho più visti.
In fondo mia madre aveva diritto a rifarsi una vita dopo tanto grigiore.
Una vita color rubino e profumata dopo tanto "secco" di cattiva
qualità, buttato giù a forza giorno dopo giorno, per tanti
anni.
Ma in fondo, avevo anch'io sete di un sorso di attenzione in quel momento,
dopotutto non si smette mai di aver bisogno dell'appoggio della propria
madre
. anche da grandi!
Da quel giorno avevo cominciato ad arrabattarmi in tutti modi, ma non
mi ero reso conto che gli anni erano passati.
Io, un ragazzo bonaccione tutto amici e famiglia, mi ritrovavo improvvisamente
nella strada alle prese con coyotes e alligatori, pronti solo a sbranarti
e a ricordarmi che ero figlio di un ubriacone.
Strano! fino a che mio padre era vivo questo non mi era stato fatto
pesare.
Malgrado tutto era sempre un reduce di guerra e anche un grande lavoratore,
finché le braccia non gli diventavano di burro e lo sguardo di
pesce.
Ma imparai che delle persone si ricorda o tutto il peggio o tutto il
meglio, e di mio padre era rimasta solo l'impronta di quel sigaro che
mi bruciava dentro ogni giorno di più.
Imparai a diventare scaltro e turbolento, cominciai a frequentare le
così dette cattive compagnie, che altro non erano che ragazzi
allo sbando come me, più o meno, tranne qualche raro caso di
naturale scempiaggine.
Se almeno avessi trovato qualcuno che mi avesse dato fiducia con un
lavoro onesto.
Bastava cominciare una vita in sordina e sarei riuscito, ne sono convinto,
a farmi la famiglia che desideravo tanto, e il passato sarebbe veramente
annegato nel mio futuro.
Ma non era andata così!
"Non è così!!!"
Urlò con tutta la forza che solo l'alcool ti dà un attimo
prima di portartela via di nuovo.
A chi aveva parlato fino ad allora?
I suoi amici erano tutti sdraiati sulla sabbia e non si curavano che
dei loro sogni, se ancora ne avevano.
Com'è che aveva iniziato il racconto della sua vita?
Era solo davanti al piatto mare che non si era scomposto nemmeno un
po' e che di sicuro non gli aveva posto domande.
Anzi aveva annegato quelle parole come granelli di sabbia nel suo ventre
profondo, perché in giro c'era solo un muto silenzio.
Continuò a guardare all'infinito con lo sguardo perso che tante
volte aveva visto negli occhi di suo padre.
Ora quello sguardo se lo sentiva addosso come un vestito smesso.
Era il suo vestito, e se avesse tolto anche quello sarebbe rimasto completamente
nudo.
Nudo su quella spiaggia, all'alba di un nuovo giorno: in cerca di un
posto
. soprattutto nella vita.
IL TERREMOTO
Si trovava là da
una vita o almeno da quando la sua era cominciata.
Quella fatiscente figura aveva sempre fatto parte del suo mondo: una
torta di compleanno presa a morsi dalla grossa bocca del gigante che,
gli avevano raccontato, un brutto giorno si era trovato a passare da
lì.
Con le grosse ma invisibili mani, aveva stritolato interi caseggiati
quasi fossero state noci, e con i piedi, enormi, ne aveva schiacciati
altrettanti senza curarsi delle persone che vi abitavano.
Antonio, bimbettino, aveva sentito solo il tremore che quei passi provocavano
sulla terra e il rumore sordo rimanendone terrorizzato.
Tutta la gente del paese urlava e scappava; anche la sua famiglia corse
nel campo di nocciole che aveva dietro casa e non rientrò fino a quando
le scosse non si fecero piccole piccole .... l'orco fantasma, si stava
allontanando.
Una grossa, orribile torta andata a male con le briciole rovinate là
attorno che le davano un aspetto ancora più tetro.
Le travi spezzate spuntavano come monconi di candeline dal tetto accasciato.
Erbacce e muschi la decoravano come umidi e molli disegni di zucchero.
Le porte sembravano pan di spagna rigonfio dal troppo liquore, e i mattoni
di tufo a vista, creavano vari strati ora più chiari ora più scuri,
a seconda di come la pioggia era scivolata su di essi, caramellandoli.
Con un battito improvviso le ciglia scure, che si erano posate lievi
su quel giorno di festa distrutto, si allontanarono veloci svolazzando
qua e là, distolte dal richiamo insistente di cugino Fonzo e così Tonino,
tornò a giocare con il nugolo di piccoli scalmanati di u rione.
Il cielo si scuriva sempre più velocemente e le madri di lì a poco come
tante lucciole, nere e indistinguibili, ma ciascuna con il proprio nido
di calore alle spalle, sarebbero apparse sui balconi per richiamarli
a casa.
Il piccolo quartiere sarebbe ricaduto nella calma di sempre e il silenzio,
come un vecchio signore di campagna, avrebbe intrapreso la sua passeggiata
serale.
Quella presenza,
ormai semi ricoperta da rovi, era diventata parte integrante del paesaggio
e di quel paesotto che nel frattempo si era allargato e rinnovato con
belle costruzioni bianche e rosa.
Antonio era passato davanti a quella casa un' infinità di volte per
tornare alla sua, ma quel giorno si era fermato di nuovo ad osservarla
con attenzione.
Era diventato un ragazzo alto e la barba aveva cominciato ad ombreggiargli
le guance nervose.
Vi rimase a lungo davanti, seduto sugli scalini di pietra bagnati e
scuri per la pioggia appena smessa.
L'aria odorava di fumo, era già tempo di caminetti accesi.
Si chiedeva perché in tanti anni nessuno avesse mai pensato a rimettere
in sesto quel rudere.
In quel posto i bambini si avventuravano malgrado i muri traballanti,
per loro era una sfida continua entrarci quando le ombre si facevano
enormi e il fruscio del vento e lo svolazzare dei pipistrelli creavano
strani rumori.
Era la prova di coraggio per il gruppo di piccoli uomini in crescita.
Tonino l'aveva superata come tutti i ragazzi della sua generazione,
ma gli altri si erano dimenticati di quel posto e lui invece no.
Quel giorno Antonio provava un sentimento diverso: di ribellione e sgomento
insieme.
Non solo era rimasta là, traccia di quel passaggio, ma anche giù in
città, luoghi identici, continuavano ad alimentare il ricordo di quei
terribili giorni.
Non sapeva perché, ma percepiva che quella casa contribuiva all'incubo
che da qualche anno a quella parte lo perseguitava.
Per questo si era fermato ancora una volta: per capire il suo disagio.
Come si addormentava si trovava in un ambiente buio e pieno di ragnatele.
Dopo un po' riusciva anche a vederle: bianche e spesse gli si appiccicavano
su tutto il corpo e in qualunque modo si voltasse erano sempre là.
Nel suo girare a tentoni i filamenti elastici gli si posavano sul viso
insistentemente, le mani si affannavano per strapparli via, ma ne erano
piene anch'esse.
Inutile cambiare stanza, pulirsi, camminare, quelle comparivano sempre
più numerose e appiccicose.
Il rintocco dell'orologio del paese come una folata di vento improvvisa
spazzò via i suoi pensieri carichi di domande.
Si alzò in piedi riprendendo il respiro che si era affievolito nel ripensare
a quell'incubo ad occhi aperti.
Con il passo molle e quel macigno sul petto si diresse a casa prima
che la madre uscisse urlando a cercarlo nella piazza.
Non era più un bambino e quel vociare irrispettoso della quiete altrui
adesso, era insopportabile ma a u rione questa era l'usanza e le sue
proteste venivano regolarmente schernite.
Le mele messe a maturare sui terrazzi riempivano l'aria di dolce e nelle
aie le nocciole come grosse macchie di ruggine contrastavano con le
cataste di granturco sponzato e messo a indorare al sole.
Un altro inverno.
Cugino Fonzo era
partito di nuovo per Modena.
Ormai da diversi anni quella era la sua città e al paese tornava solo
per le ferie.
Aveva trovato un buon lavoro e non ci avrebbe rinunciato per tornare
alle origini come alcuni compaesani avevano fatto.
Non si spiegava come tanti uomini della sua età continuassero a vivacchiare
laggiù pur di rimanere fra quelle pietre consunte dal tempo e dalla
noia.
Non c'era niente in paese, eccetto un bar pieno di gente che si lamentava
di tutto.
Fonzo era sempre stato un tipo tranquillo, anche lui come gli altri
aveva trascinato la sua vita dai giochi nel rione e le sfide nella casa,
al bar con le carte fino a sera quando allegri per i troppi bicchieri
di Grieco, si accompagnavano ridendo nel rientro. Il ragazzo meno problematico
e riflessivo di Tonino, ma molto più pratico aveva colto l'attimo, per
andarsene alla prima occasione.
Tonino invece era restato.
Sebbene più volte fosse andato a trovare il cugino e fosse rimasto entusiasta
della vita che conduceva, sentiva che non era giusto sottrarsi come
molti del suo paese, alle responsabilità che quella terra addossava
loro.
Certo la vita di laggiù era piatta e le cose continuavano nella stessa
e lamentosa apatica indifferenza di sempre, ma ogni volta era tornato,
come se qualcosa lo legasse in modo indissolubile a quel posto.
Si era trovato una donna e aveva messo su famiglia ma le inquietudini
di quand'era ragazzo continuavano anche adesso che era diventato padre.
Il lavoro era scarso e si arrabattava a fare un po' di tutto.
Malgrado i problemi che si presentavano ciò che l'ossessionava di più
era il pensiero fisso che quell'edificio a distanza di anni era ancora
là, e ancora era nei suoi incubi come qualcosa di vivo e d' inafferrabile.
E ogni giorno passandoci davanti diventava sempre più doloroso.
Con la maturità era riuscito a cogliere dettagli che prima con lo sguardo
del bambino non aveva visto o che non era riuscito a notare con quello
distratto e scanzonato dell'adolescente.
Ora in quella casa di bambole, dove la vita era stata bloccata su un'istantanea
e lasciata là alla vista di tutti, scorgeva le mensole: i piatti poggiati
sopra di esse a pile, tazzine da caffè ancora allineate in bell'ordine,
un catinella sotto il lavandino della cucina.
C'era lo squarcio di una porta azzurra scolorita che apriva forse su
una camera da letto, e una finestra ancora intatta che guardava su entrambi
i lati del cielo, sospesa a mezz'aria come il quadro di un pittore d'avanguardia;
una di quelle opere semplici, ma incomprensibili e insignificanti all'apparenza,
che però attirano lo sguardo e lo spettatore ci sta ... per capire.
"Capire" continuava a domandarsi Tonino.
Carmelina veniva
urlando giù per la salita che partiva da urione :"è caruta!"
"è caruta! "
Le mani protese verso il cielo scompigliavano a tratti i capelli come
se volessero arruffarli più del vento, che quella mattina correva forte
fra le braccia seminude degli alberi ormai pronte ad accogliere il riposo
del vecchio, stanco inverno.
Ma a dispetto della stagione l'aria era benevola, calda e inebriante
come quella di una mattina primaverile.
Era il tredici di novembre.
Quella figura lunga e magra che si notava nel paese dove tutte le donne
erano piccole e piene, sembrava un fuscello in balia di quelle folate.
Le calze nere e spesse risaltavano sotto la gonna verde a quadri e sbattevano
dondolando in modo scomposto come quelle di una marionetta .
Anche la voce si perdeva nell'aria, ma l'espressione del viso inequivocabile,
preannunciava messaggi di sciagura: "...è crollata! è crollata
!"
Come grosse pietre quelle sillabe rotolarono giù dalla discesa e si
sparpagliarono nella piazza fino a risalire su, nella stretta e ripida
strada di "Santo Iaco".
Tutte le donne del borgo si affacciarono ripetendo come una eco umana
e le mura ne risuonarono come dopo un'improvvisa esplosione.
La moglie di Tonino si affacciò per ultima e zia Carmelina si fermò
proprio sotto il suo terrazzo.
Non ci fu bisogno d'altro.
Gli sguardi delle due donne si scontrarono.
Ora la madre correva su per la salita e questa volta era lei che prevaricava
il vento per la velocità disperata con cui avanzava.
Arrivò.
Il paese era già là riunito e la polvere ancora alta circondava tutti
come nebbia sopra un paesaggio marino.
La notte come nero
di seppia era scesa viscosa e improvvisa.
Le foglie con il loro giallo acceso illuminavano tratti del selciato,
ma non svolazzavano più al passaggio, perché l'umidità della sera le
aveva rese molli, appiccicate in un morbido e scivoloso tappeto di alghe.
Tonino era là, accovacciato in un angolo della terra.
Sentiva il freddo girargli attorno e toccargli le membra, ma il caldo
che emanava il suo corpo esausto, faceva da barriera.
L'odore della legna bruciata gli entrava nel naso come tante altre volte,
ma quella sera sembrava che le sue narici fossero spalancate sui comignoli
di tutte le case: qualcuno stava arrostendo carne.
Voci di persone e televisioni arrivavano alle orecchie, non ascoltava,
ma riusciva a distinguere perfettamente un telegiornale dalla pubblicità
e sentiva il suo cuore pulsare in tutto quel trambusto, eppure era convinto
di averlo spento proprio quel giorno.
La casa ormai non c'era più, si era dissolta nella polvere della sua
stessa caduta.
Il fantasma a distanza di tanti anni aveva fatto sentire ancora la sua
potenza, perché era rimasto sempre là dentro, in agguato.
Filuccio, suo figlio, era stato portato subito all'ospedale in città,
ma i suoi audaci giochi di bimbo erano finiti per sempre.
Se n'era andato divorato da quella stessa torta che a lui, a differenza
del padre, piaceva tanto.
Nell'orrore di quella notte Tonino viveva il suo incubo.
Tutto, adesso, aveva un significato: la pigrizia, l'indifferenza, il
vivere di sempre…….passato lo sgomento violento dell'incidente, erano
già tornati a far da padroni nel paese.
Ma Tonino nel fragore catastrofico di quell'avvenimento aveva ricomposto
la sua inquietudine.
Prese fra le mani un frammento di quel passato e lo stritolò con la
forza di un gigante.
Poi si alzò lentamente, azzannò l'aria che continuava a punzecchiarlo
e riempiendosene i polmoni con boccate feroci, si diresse verso casa
con una amara certezza: il presente, d'ora in avanti, sarebbe stato………………..
diverso.
La c a
n n a
" Guardala
Eurialo, guardala! "
Le voci provenivano da tutte le direzioni: davanzali delle finestre,
terrazzini scalcinati, stanzoni vuoti in rifacimento di quell'enorme
edificio in via Pitagora.
Era stato messo in vendita parecchi anni prima ma nessuno del posto,
conoscendo lo stato di degrado in cui era stato ridotto da anni di abbandono
totale, aveva osato comprarlo: era troppo malconcio.
Poi una grossa società del nord aveva pensato che sarebbe stato adatto
per un supermercato, lì, nel centro della città vecchia e così erano
ormai due anni che una ditta edile ci stava lavorando.
Ma la struttura era quasi pericolante, gli operai, pochi, e le Belle
Arti non avrebbero mai permesso di rovinare la facciata di quel pezzo
da museo che era palazzo Peripato.
Così i lavori si trascinavano fra le innumerevoli difficoltà che si
presentano tutte le volte che si tenta di inserire un corpo nuovo in
un involucro decadente e chissà per quanto ancora quel quartiere sarebbe
stato inondato da polvere, urla e rumorosissimi trapani.
L'unico contento del trambusto era solo lui, Eurialo, che aveva trovato
in quel cantiere una montagna di amici dimostratisi fin dal principio
simpatici e ben disposti ad accettare la compagnia e le domande insistenti
di quel ragazzone di trent'anni rimasto bambino per sempre.
Eurialo li faceva divertire come matti, lui lo sapeva bene, e si sentiva
veramente felice con quei compagni sempre sporchi e accaldati che gli
davano pacche pesanti sulle spalle curve e lo rincorrevano bestemmiando
quando faceva loro qualche innocente scherzo.
La sua vita era cambiata da quando quella officina era sorta e le sue
giornate adesso erano divertenti.
Con la voce scomposta e la bocca sempre spalancata al sorriso, ma leggermente
bagnata da una bava che non sapeva controllare, continuava a ripetere
a tutti che Giorgio, Beppe, e gli altri si stavano costruendo casa per
andare a stare lì con lui.
E ogni volta che qualcuno metteva in dubbio le sue affermazioni divertendosi
a smontare così quelle certezze, cercava conferma interrogandoli fino
allo sfinimento.
Quelli, senza nemmeno starlo ad ascoltare rispondevano continuando a
smantellare o a rifare un intonaco: "Sì, verremo a stare qui! Sì
Eurialo, è vero!".
Ma era capitato che invece la domanda a volte fosse: "...ma...
Pasquale, mi ha detto che prima o poi ve ne andate!" e alla canonica
e distratta risposta " Sì, Eurialo, è vero!" il povero ragazzo
fosse colto da convulsioni tanto da far fermare il lavoro, caricarlo
sulla prima macchina a disposizione e portarlo di corsa all'ospedale.
La madre andava regolarmente a riprenderlo; solo lei riusciva a calmare
quel figlio nato così strano, un bambino di tre anni ormai uomo fatto,
che Dio le aveva destinato.
Era stato il grande dolore per la perdita del marito diceva lei.
Il padre di Eurialo lavorava su un peschereccio, uscendo ad ogni alba
e qualsiasi tempo facesse perché, con la famiglia che sarebbe aumentata
di lì a poco, non si poteva permettere periodi di inattività.
Un giorno, proprio quando la signora Alfonsina era alla fine della gravidanza,
fu travolto dal mare in tempesta e restituito dopo parecchi giorni,
prigioniero di una rete come uno dei suoi tanti pesci.
Il dolore straziante che sconvolse la povera ragazza aveva avvolto quel
bambino in una campana di vetro per tenerlo lontano dalla vita, "...che
è sofferenza…", continuava a ripetere la puerpera nei momenti di
lucidità dopo un mese di dormiveglia anestetizzata dall'ulteriore triste
realtà che quella nascita le aveva messo fra le braccia.
"Non è infelice il mio Eurialo" ripeteva alle vicine di casa,
"proprio perché é così non conoscerà mai il dolore, Dio ha provveduto...ha
provveduto per il meglio."
E quel bambino crebbe con il sorriso sulle labbra, una luce spenta negli
occhi e l'amicizia compassionevole di tutta la gente del posto.
Da quando quei muratori erano arrivati a sconvolgere la quiete del centro
città, Eurialo era ancora più gaio e giulivo.
La mattina presto si alzava e si vestiva con maniacale precisione.
Qualcuno gli aveva regalato un cappello da vero imbianchino fatto con
il "Quotidiano" di Taranto e tutti i giorni se lo accartocciava
ben bene sulla testa che cominciava a pelarsi alle tempie.
A lui piaceva quella perdita e trionfante portava alla madre i capelli
che ogni tanto trovava sul cuscino come fosse stata una conquista.
Questo perché un certo bell'imbusto del quartiere completamente pelato
sollevava nella sua personcina un'aurea di adorazione.
Mai una volta si era fermato a scherzare con Eurialo come invece facevano
tutti, ma lui aveva sentito raccontare dai ragazzi del circondario le
imprese di quel delinquente, diventate incredibili gesta nella sua immaginazione.
Era considerato, malgrado gli altri non avessero il candore di Eurialo,
un grand'uomo temuto per " le sue forze nascoste " sosteneva
ingenuamente lui: "è tutta nella pelata la sua forza, io lo so,
è così che sto diventando anch'io, anch'io sarò forte nello stesso modo
un giorno!"
La madre annuiva e pensava al marito con la pancia gonfia d'acqua, sfigurato
dalla conoscenza brutale degli abissi di quel mondo che amava tanto,
e per non farsi vedere piangere si metteva a sbucciare le cipolle.
A casa di Eurialo si mangiava spesso cipolle in tutte le salse, crude
o cotte, e lui aveva l'alito pesante ma nessuno lo prendeva in giro
per questo.
Dopo il cappello infilava la tuta da lavoro blu che un ex meccanico
del gruppo gli aveva procurato. Più che blu era celeste ormai, coperta
da chiazze di vernice e di stucco rinsecchito.
Poi prendeva il cestello che la madre gli preparava regolarmente con
il pane, il formaggio, pomodori e qualcosa da bere e partiva per il
suo lavoro.
Come un vero muratore andava tutte le mattine al cantiere e là restava
fino alla chiusura.
Così per due anni. Aiutava a portare un sacco di cemento lì e una cazzuola
là, lo facevano muovere in continuazione e se ne approfittavano anche.
Ma più arrivava stanco alla sera più era felice, così lo facevano trotterellare
e sgobbare tutto il giorno e lui, sempre con il sorriso sgraziato fra
i denti storti, era contento per quel suo ruolo da mascotte.
Ma qualcuno aveva notato che ogni tanto si fermava incantato a guardare
dalle finestre del palazzo, fissava laggiù il canale, che univa il mar
grande al mar piccolo.
Qualcosa o qualcuno, attirava spesso la sua attenzione.
Di colpo dimenticava gli amici, gli scherzi, il via vai continuo con
un mattone in mano.
Si bloccava, immobile, con la bocca spalancata e lo sguardo affondato
nel luccichio vibrante del mare.
Fu così che un giorno qualcuno gli si affiancò e cercò di seguire il
filo dei suoi occhi verso l'oggetto di tanta ammirazione.
Ma non riuscendo a capire, alla fine chiese: " Cos'è Eurialo che
guardi? "
" Laggiù...la vedi? " rispose.
" Cosa dovrei vedere ? " e quello, pensò a una donna!
" La canna laggiù, vedi come è lunga e come diventa fine e poi
si piega a volte fino a toccare il mare e allora succede qualcosa e
d'improvviso il filo si tende e il pesce compare e vola nell'aria come
un uccello! "
L'uomo allora capì. Il ragazzo era attirato da quei pescatori solitari
che stavano ore e ore sul molo con la speranza di acchiappare qualche
piccolo pesce di passaggio in quella lurida acqua vicino al porto.
Qualcuno ne ricavava addirittura la cena e passava così il tempo per
non bighellonare, come tanti facevano a spasso per il Corso.
Certo ci voleva passione per stare tante ore lì ad aspettare, nel silenzio
e al vento che a volte frustava freddo le guance, ma a Eurialo non sarebbe
mancata la pazienza e nemmeno la sopportazione, pensò il confidente.
" Anch'io voglio far volare i pesci! " aggiunse deciso "
come si fa? "
Al compagno sornione che gli stava accanto venne d'impeto un pensiero
maligno e trattenendo in una contrazione delle labbra il sorriso, seriamente
disse: " Te lo dico io come si fa! Ci vuole prima di tutto la canna.
Tu, ce l'hai la canna in mezzo alle gambe? "
Eurialo divenne tutto rosso. Quel coso in mezzo alle gambe c'era, ma
non era come quella là, tutta blu con il filo che luccicava ai raggi
del sole.
Era piccolo e molle quel coso laggiù sotto i pantaloni e quando succedeva
qualcosa per cui cresceva un poco e si induriva non aveva mai raggiunto
quella grandezza, e poi... nessuno gliene aveva mai parlato.
Ma voleva sapere e balbettando fra i denti, si fece coraggio e disse:
" Sì che ce l'ho! "
" E allora guardala Eurialo, guardala e crescerà. Diventerà la
tua canna da pesca. Vedrai! ci pescherai anche una moglie! "
L'incosciente amico di giochi non aveva capito che quella battuta sarebbe
stata presa sul serio da Eurialo nel cui mondo tutto era possibile e
dove soprattutto la malizia non aveva assolutamente capacità di germogliare.
Fu così che Eurialo cominciò a guardarsi la canna con la speranza fiduciosa
di vedersela un giorno tra le mani magari verde e blu come piaceva a
lui, non per pescarci una moglie come aveva detto l'amico, non sapeva
cosa fosse e non gli interessava, ma per poter finalmente far volare
i pesci per aria.
Certo lui non li avrebbe messi nel secchio come gli altri e portati
a casa.
Li avrebbe solo fatti volteggiare in cielo due o tre volte e poi li
avrebbe ancora fatti andare sott'acqua per ricominciare il gioco quando
si fossero di nuovo trovati da quelle parti.
E così i giorni cominciarono a passare diversamente.
La mattina Eurialo non si alzava più con la stessa solerzia perché rimaneva
nel letto a guardare se per caso durante la notte quella sua cosa fosse
cresciuta e si fosse trasformata, ma niente.
Arrivava tardi sul posto di lavoro e poi si appartava per vedere se
era successo nel frattempo.
Così i compagni una volta saputo l'oggetto di tanto interesse e di cambiamento,
cominciarono a prenderlo in giro.
Nella sua ingenuità non aveva tenuto per sé la cosa, ma rispondeva spontaneamente
alle domande dicendo che si guardava la canna!
E loro: " Guarda la canna Eurialo, guarda la canna! "
Fu così che cominciò a guardarsela davanti a tutti lì nel cantiere,
spinto da quelle voci che credeva sincere e senza il pudore che giustamente
non conosceva.
Cosa poteva mai saperne lui di sesso?
Finché il gioco rimase all'interno del palazzo tutto andò per il meglio
perché quei rozzi muratori non si scomponevano ovviamente per quel piccolo
cencetto rosa che ogni tanto ciondolava fuori dalla tuta blu da meccanico.
Ma la faccenda cambiò quando cominciò a guardarsi anche per le stradine
che conducevano a casa.
Fu così che quel giorno si fermò poco prima del cancello perché sentiva
che stava succedendo.
Si tirò fuori il tutto e con un sorriso enorme ammirò soddisfatto il
miracolo che si stava compiendo proprio mentre una vicina di casa passava
di là.
L'amica della madre cominciò a strillare scappando con le mani nei capelli:
" Mio Dio Eurialo che fai, che fai! Alfonsina corri, tuo figlio...
guarda che fa! "
Ma alle grida accorse una volante della polizia.
Caricarono sull'alfetta il povero ragazzo che nel frattempo colto di
sorpresa da quelle urla aveva visto scomparire di colpo il suo desiderio
e aveva attaccato a piangere, tenendosi in mano il piccolo uccellino
dalla testa penzoloni.
La madre questa volta lo raggiunse al commissariato e per difenderlo
dall'accusa di maniaco esibizionista, dopo ben tre ore di colloquio
con il figlio che continuava a piangere per la sua canna persa e a ripetere
frasi senza senso, alla fine riuscì a farsi spiegare la storia per filo
e per segno, fra pesci volanti e canne lucenti saltate fuori da quel
racconto sconclusionato.
Risolta così quella faccenda insolita, madre e figlio tornarono a casa,
e nel percorso lei si sentì stringere il cuore in una morsa e non aspettò
di essere in cucina per dare sfogo al suo dolore.
Aveva visto per la prima volta piangere il figlio ed era stato uno strazio
indescrivibile.
Quella povera creatura aveva conosciuto la sofferenza come tutti gli
altri.
"La vita è amara anche con loro" si rese conto all'improvviso.
Quello scherzo non fu perdonato e malgrado le insistenze, Eurialo non
fece più ritorno al cantiere.
Gli fu inoltre proibito, in maniera categorica, di guardarsi al di sotto
della cinta dei pantaloni, e lui, per la prima volta, provò vergogna
nell'abbassare gli occhi ad una certa altezza anche con chi gli stava
di fronte.
Ora camminava a testa alta e le spalle ben dritte, rigido come un manichino
per paura che qualcuno si mettesse a urlare come quel giorno.
Oltre agli strilli della vicina voleva dimenticare quella sensazione
orribile che si era tramutata in acqua e gli era uscita dagli occhi
e dal naso e che gli aveva fatto tanto male.
Ebbe solo il permesso di passeggiare sul molo dove tutti lo potessero
vedere e dove lui passava ore e ore a sognare, triste ormai, la sua
canna mancata.
" Chissà come avevano fatto tutti quelli laggiù a non farsi vedere
dagli altri mentre se la guardavano. " continuava a domandarsi.
E non c'era altro modo per averla, concludeva sconsolato!
Ma la coscienza
a volte rimorde.
Un giorno venne recapitato un pacco incredibilmente infiocchettato alla
mamma di Eurialo, con un biglietto firmato " gli amici del cantiere
".
La donna lesse a voce alta dopo aver scorso velocemente quella grafia
"pigiata" poco avvezza alla leggerezza di una penna: "
Uno di noi ha finalmente pescato una moglie e ora non ha più tempo per
i pesci. Te la regala con tutto il cuore sperando che sia come la volevi
tu! "
Le parole pronunciate dalla signora Alfonsina non ebbero molto effetto
sul destinatario, che si era messo invece a tendere e mollare, con tutta
l'attenzione di cui era capace, i riccioli dei nastri multicolori del
pacchetto, attirato in realtà più dall'involucro che dal suo misterioso
contenuto, e che il postino Fabrizio teneva fra le braccia quasi fosse
un enorme mazzo di fiori.
Ci fu un attimo di silenzio e la madre di Eurialo sospirò come se con
il movimento del petto spingesse un oggetto pesante.
Questo rotolò via per un attimo verso il fattorino che prontamente respinse
al mittente con una contrazione dei muscoli del viso di rassegnata partecipazione.
La donna fece un cenno di assenso e quello si piegò verso il ragazzo
consegnandogli l'ingombrante e appariscente regalo.
Eurialo si mise a scartare con cautela perché gli dispiaceva sciupare
quella stravagante composizione, ma quella volta fu diverso.
Fu il giorno più bello della sua vita.
Appena scorto il dono inaspettato, un guizzo percorse gli occhi che
riacquistarono il normale respiro, come due pesci che tornano all'acqua
dopo aver passato momenti interminabili fuori dal loro ambiente naturale.
Prese fra le mani quei metalli con una cautela impensabile, li accarezzò
sfiorandoli come fossero stati di carne viva.
Li montò con cura impiegandoci una intera giornata e guardò i vari pezzi
brillare nell'aria della sera, blu e verdi metallizzati: era ancora
più bella di quello che poteva immaginarsi.
Il giorno dopo di buon'ora era sul molo con i vermi e tutto il resto
a osservare le mosse del vicino che lentamente si preparava alle ore
di attesa.
Chissà se anche lui pescando una moglie gli avrebbe regalato la sua
canna gialla e rossa. Così ne avrebbe avuta una di scorta!
"Pescare una moglie" rimuginava ogni tanto nei momenti in
cui lo sguardo fisso alla piatta superficie marina, unito al frusciare
incessante delle piccole onde, lo faceva cadere in un soffice torpore
mentre rilanciava con poca maestria la lenza in mezzo alla corrente.
" A me non interessa pescare una moglie - borbottò risoluto verso
il compagno di pesca, che già tirava a sé la canna che si incurvava
- io voglio solo far volare i pesci! " e uno strattone improvviso
lo fece sussultare.
Il sorriso tornò di nuovo sulla bocca sgangherata aperta al mondo e
i suoi occhi furono illuminati ogni giorno dai " brillini marini
" come li chiamava lui e ogni tanto offuscati, un poco, ma solo
un poco, dalla domanda che chissà se avrebbe mai pescato quel misteriosissimo
pesce che era " una moglie ".
Gli occhiali
L'enorme palla di
lardo li stava vagliando con attenzione.
Lara ed Alì, a loro volta, arrancavano in mezzo alla peluria ispida
e nera che imbrigliava piccole gocce di sudore, poco sopra le labbra
dell'interlocutrice, distese sull'orlo di una domanda trattenuta .
"Oggi giorno, si sa, i ragazzi vanno da soli a fare le vacanze
ma, di solito, hanno la pelle abbronzata o tutt'al più lampadata"
pensava la grassona. "Qui, la cosa è ben diversa..."
I tratti marcati del ragazzo e gli occhi con quelle folte sopracciglia
non erano certo quelli di un terrone in vacanza.
No, qualcosa non quadrava.
La ragazza poi, poteva anche averli diciott'anni, ma la storia del portafoglio
rubato con documento annesso, puzzava di scusa inventata alla bell'e
meglio.
"Aspettate qui, che guardo se ci sono camere libere per il pomeriggio!
" e fra i peli umidicci sibilò "…non voglio cazzi con questi
due mocciosi."
Il tono era così scocciato e il tanfo di sudore rimasto a guardia della
reception talmente disgustoso, che i due se la svignarono non appena
il grosso e deforme culo della ex puttana, ora maitress della pensione
La lucciola, scomparve nell'antro vellutato e polveroso del salone d'ingresso.
L'amore non ha colore, né razza, né cultura, ma lei che ne poteva sapere
?!
I ragazzi girarono al primo angolo favorevole inseguendo il filo senza
capo delle stradine e mettendo quanto più cemento potevano fra il loro
sentimento e quella pensionante di ipocrisia.
Firenze era bollente.
Cominciarono a temere che di lì a poco il caldo avrebbe fatto liquefare
l'asfalto, rendendo così visibili le loro impronte.
Poi, improvvisa, accanto alla locandina del Vernacoliere, che come al
solito esplodeva caratteri neri di fiche e buchi di culo, un volantino
e su quello una foto inequivocabile di Lara in tutta la sua bellezza:
"wanted" lei tradusse subito e brevemente ad Alì, che non
capiva.
Chi, non l'avrebbe notata?! Non c'era scampo.
La città sembrava, d'un tratto, un'enorme edicola: ad ogni angolo i
suoi meravigliosi occhi, le labbra piene, la pelle morbidamente tesa
; in quel modo i genitori cercavano di rintracciarla.
Alì si fermò e tirò fuori dall' immancabile grande, pesante borsa all'Etabeta,
un paio di occhiali scuri, modello finto Armani.
Lara li indossò, con un attimo di esitazione, dopo averlo guardato a
lungo negli occhi senza parlare, e da quel momento la loro fuga assunse
la tonalità deviata che famiglia, polizia e gente le avevano quasi naturalmente
attribuito.
Tutto cambiò nell'attimo stesso in cui quello schermo fu messo fra lei
e il mondo attorno.
Bastò quel pezzo di vetro ad appannare tutti i suoi sentimenti ed il
viso di lui poi assunse una tonalità talmente diversa che lei, per la
prima volta, notò di più, i tratti somatici che lo caratterizzavano.
Le strade attorno presero un'angolatura strana, come se curvassero ora
verso l'alto ora verso il basso, e una sensazione di nausea cominciò
a farsi sentire con sempre maggiore insistenza.
Si sentiva disgustata da quella improvvisa cappa nera, ovviamente degli
occhiali da cinquemila lire non potevano avere che lenti adeguate, ed
era per questo che la sua visione era alterata, ma non solo…..
Per riposarsi un po' dopo tanto correre presero un autobus che saliva
anche su per le colline verso Fiesole e si fecero tutto il percorso
da capolinea a capolinea.
Da dietro quelle lenti adesso osservava le persone che in autobus davano
occhiate insistenti, anche se con apparente casualità, alle loro mani
intrecciate.
Guardavano le mani e poi i loro visi e poi alzavano il sopracciglio
e rivolgendosi finalmente in altra direzione si vedeva, si vedeva chiaramente
il pensiero conclusivo… "finirà…."
Certo finirà, pensava con crescente astio lei, perché questo è quello
che volete, perché questo è quello che ci porterete a fare.
E si odiava, e odiava adesso, quella situazione perché si sentiva cambiare
dentro, perché vedeva adesso quello che vedevano gli altri e non le
piaceva, non le piaceva per niente.
Liberati dal peso della borsa di Alì dopo averla lasciata in custodia
ad un compagno di lavoro che stazionava nella piazza del Porcellino,
camminarono ancora a lungo per la città incantata.
Si mescolarono alle frotte di turisti che ogni giorno affollano il centro,
fecero avanti e indietro per Ponte Vecchio sempre mano nella mano e
in quella mescolanza di visi ed etnie da tutto il mondo, si sentirono
finalmente un uomo e una donna insieme.
Gustarono, quel pomeriggio, il sapore della vera vacanza, l'esserci
per conoscere, per stupirsi senza pensieri, senza timori anche se lei
avrebbe voluto strapparsi di dosso quegli occhiali che continuavano
come due ali scure a lambire quell'ultima giornata insieme.
Raggiunsero il giardino di Boboli, lo percorsero tutto, in lungo e in
largo, si sedettero all'ombra dei grandi alberi, sulle panchine attorno
alle fontane.
Si baciarono percorrendo i viali alberati sotto l'incrocio delle fronde
che formavano una galleria di luci e colori, nella magica atmosfera
di quella giornata estiva.
E poi tornarono a camminare seguendo il placido letto dell'Arno, nel
riverbero aranciato del tramonto.
Al crepuscolo si rannicchiarono in un angolo del parco delle Cascine
e lui decise che non sarebbe tornato sulle spiagge della Versilia.
Lara però doveva tornare, e lui non l'avrebbe lasciata da sola, se non
là, nei paraggi.
Presero il primo treno disponibile e là, chiusi in un vagone con le
tendine tirate sul lato del corridoio, Lara si tolse finalmente gli
occhiali e la sua mente tornò alla pace iniziale.
Il viaggio di ritorno fu triste e passò in un lampo ripercorrendo anni
della loro vita come già avevano fatto durante quei quindici giorni
insieme.
Lui, una famiglia numerosa in un piccolo villaggio.
Un posto impossibile da identificare sull'atlante della memoria geografica
di lei, che pure percepì negli odori, nella polvere e nei colori delle
sue parole.
Un paese povero: la vita annaspata nel mare delle illusioni infantili,
poi la maturità e la comprensione che non c'era speranza e così la decisione
di partire per un nuovo mondo.
Il sogno di tanti catapultato in un'altra terra, altre idee e abitudini.
E trovarsi di nuovo ad annaspare in un'acqua che non era nemmeno la
propria!
Lei, il nuovo mondo.
Famiglia benestante: padre insofferente e madre offesa dall'indifferenza
del marito, i quali però non avrebbero mai macchiato la posizione sociale
raggiunta con una separazione.
Lara li disprezzava per essere così codardamente aggrappati al bozzolo
che avevano costruito attorno alla crisalide incartapecorita del loro
matrimonio.
E loro due? Si erano conosciuti una mattina d'agosto.
Una di quelle giornate roventi in cui anche l'acqua del mare sembra
ribollita con cotiche e fagioli.
Alì sii era fermato per vendere le solite cose di tutti i vù cumprà.
Lara non aveva soldi da spendere, stava pranzando a panini e frutta
e glieli offrì.
Si misero a parlare e da allora, accadde quasi ogni giorno, perché lui
passava sempre, dato che quella era la sua zona di lavoro.
Lei bella, sola, non ostile né timorosa.
Lui dolce, solo e intraprendente per una volta tanto, come se fosse
stato a casa sua con una ragazza della sua terra.
Cominciarono a vedersi anche la sera dopo cena.
Lara lasciava il fratellino davanti ai videogames a Fiumetto e andavano
ad appollaiarsi sul ponte della Versiliana per parlare, conoscersi.
Ma un giorno il bimbo chiese davanti ai genitori se Ali lo avrebbe mai
portato al suo paese.
Evocato quel nome senza accento come un presagio, fu immediatamente
tarpato via dalla vita di Lara.
Così la fuga.
Ora però avevano capito che non c'era futuro per loro, per la loro diversità.
Era quasi buio quando raggiunsero Forte dei Marmi.
Andarono sulla spiaggia e passarono la notte guardando la luna che brillava
sull'acqua: erano lì e da qualsiasi altra parte.
Lara doveva lasciarlo.
La loro storia era comunque stata una realtà.
Nessuno avrebbe mai cancellato la libertà che uno aveva donato all'altro
e l'amore sarebbe rimasto dentro.
Un uomo doveva continuare il suo viaggio e una donna seguirlo rinunciandovi.
Si lasciarono così: all'alba Lara salutò per sempre Alì avvolto nel
kilim che li aveva tenuti stretti tutta la notte.
Il profumo del mare a quell'ora era puro e forte.
Nel silenzioso e dondolante corridoio di pini sovrastanti la strada
del ritorno, il canto delle tortore nel risveglio del mattino le colorò
il cuore di nostalgia.
Quell'uccello moderatamente grigio e dolce le scandagliava l'anima con
un TUuu di cui non aveva mai avuto coscienza: lei sceglieva di scegliere.
Non avrebbe mai dimenticato, e quella nota triste le avrebbe ogni volta
spalancato una porta chiusa, ma nessuno avrebbe più strappato via quelle
ali.
Corse a casa con la polvere, i colori e gli odori di un mondo tutto
suo, che riuscirono a sovrastare le urla della madre e anche lo schiaffo
di suo padre ……..una tortora, lontano, si alzò in volo.
ASIA
L'uomo spense anche
la fioca lampada del salotto.
Il tonfo del buio che improvviso come una cascata li avvolse, attutì
a malapena il fruscio della seta stropicciata tra i due corpi.
Le dita della mano di lui sprofondarono nella luce della sua vagina..
Quello che avvenne fu un rituale ripetuto ormai stancamente.
Non tenevo più memoria adesso dei rapporti con gli uomini.
Non annotavo più nel taccuino della mia fantasia i gesti inconsueti,
le parole strane, le figure dei giochi che accendevano l'immaginazione.
Semplicemente non lo facevo più, perché non accadeva niente di nuovo.
Un disco rotto ripeteva il canto erotico di tutta una vita, diverso
solamente perché nuovo era il cliente che suonava alla mia porta.
Sentì battere forte dentro il corpo.
L'uomo la girò poi a pancia in giù sulle lenzuola, lei, con gli occhi
chiusi e la faccia sprofondata nella federa, respirò a fondo il profumo
fresco del sapone di Marsiglia.
La sensualità di un tempo era svanita come un fiume in un buco della
terra.
Era diventata sotterranea in quel mondo improvvisamente venuto alla
luce dalle vulcaniche annotazioni del diario di Anna: un pegno per l'amicizia
profonda che ci legava.
Un breve periodo di lontananza aveva interrotto il nostro rapporto in
tutti quegli anni.
Io sapevo solo che Anna aveva lasciato la città per seguire un uomo:
"… mi dà vita… " mi aveva scritto un giorno, su una cartolina
con il golfo dei Poeti di Portovenere.
Appesi quel piccolo riquadro di terra vicino al computer in ufficio,
e ogni volta che la nebbia di Milano affumicava la città là fuori, sprofondavo
nella luce del mare di quell'angolo di Liguria, nel giallo dei narcisi
e nel profumo delle violacciocche che spiccavano sulla roccia grigia.
E sentivo la voce di Anna espandersi dall'inchiostro della sua incerta
grafia"… questa volta è per sempre".
L'uomo ansimava sopra i seni appassiti dai tocchi maldestri dei suoi
predecessori.
Era diventata un po' anche la mia storia ormai.
Le cartoline che inaspettatamente arrivavano dai posti più belli del
mondo riportavano fotogrammi di un film che facevo scorrere nella testa
come se ne fossi stata la regista.
Poi più nulla.
La scena si era bruscamente interrotta davanti a un faro, su una scogliera
dell'Algarve battuta dal vento dell'Atlantico, e da quel faro la luce
svanì per sempre.
Anna sparì dietro la Torre Eiffel, le Piramidi, il Colosseo, le Moschee,
i tramonti dei deserti americani, per riapparire dopo diversi anni nascosta
dal calco di una maschera di accesa vivacità sessuale.
Com'era cambiata.
L'uomo le leccava il collo contraendosi sopra il suo corpo.
Le parole umide, sussurrate concitatamente, al contatto con la sua pelle
ghiacciata si solidificavano scivolando via come gocce di sudore.
Non rimaneva più nulla della spensierata ragazza che rideva e beveva
Martini per imparare a ballare meglio, diceva .
Era diventata un pipistrello, lei che adorava fare lunghe passeggiate
anche nel più rarefatto sole della città.
Ora usciva di notte nelle ore più tarde.
La vedevi, avvolta da meravigliose pellicce di volpe argentata, prendere
il taxi e sfrecciare via come una falena verso la luce al neon dei locali
più "in" di Milano.
Rientrava la mattina e spariva nel lussuoso appartamento comprato in
via Monte Napoleone.
Venne diverse volte a trovarmi, ma non mi raccontò la fine del suo amore,
ed io non volli insistere per non vedere lo strazio del suo sguardo
che si lacerava al solo ricordo. Era già abbastanza percepibile.
No, non era più lei.
Quella mattina venne a salutarmi con un pacchetto in mano, annodato
da un fiocco che legava anche una rosa rossa, resa cupa dal tempo, la
quale si frantumò in mille pezzi non appena sciolsi quel nodo.
C'era la sua storia: i giorni belli e quelli brutti e poi, la fine di
quell'amore incredibile, che completò il film lasciato a metà tanti
anni addietro.
Non mi piaceva quel finale e quello successivo poi mi lasciò davvero
senza fiato.
La trovarono in un canale dei Navigli imbottita d'acqua e di psicofarmaci,
forse per paura che anche quella volta non andasse come lei avrebbe
voluto.
Nella foto del giornale si scorgeva solo la pelliccia biancastra che
galleggiava allargata sull'acqua scura: una farfalla dalle ali inzuppate,
pesanti che mai più avrebbe ripreso il volo.
E proprio il giorno del suo funerale rilessi il diario alla ricerca
di un qualcosa che, finalmente, giunse.
Planò leggero come un petalo spinto via dalla corolla di pagine che
andavo sfogliando e, mi finì fra le cosce dato che ero seduta sul letto.
Forse quel segno sarebbe dovuto bastarmi e farmi capire a che cosa andavo
incontro, ma volli anche leggere e così compromettermi: "Mi chiamo
Asia e sono sconfinata come quella terra. Se vuoi, puoi visitarmi a
tutte le ore del giorno, ma solo rigorosamente al buio, basta il ricordo
e l'immaginazione per essere felici."
Il numero di telefono corrispondeva al suo e così spinta dalla curiosità
andai nell'appartamento di cui mi aveva lasciato le chiavi.
Entrai e girai per le stanze silenziose e piene delle sue cose.
All'improvviso il telefono mi fece sobbalzare.
Alzai il ricevitore senza pronunciare parola e la voce chiese:
"…Asia? "
risposi automaticamente: "…Sì! "
"…arrivo. "
Abbassai la cornetta e aspettai ansiosa.
Qualcuno suonò alla porta e poi entrò: sbadatamente l'avevo lasciata
aperta.
Non mi accorsi nella frenesia dei fatti di trovarmi in camera, seduta
sul letto e con le luci spente, ma era tutto prestabilito, doveva essere
così per qualche ragione che ancora rincorro.
Sentivo quel respiro concitato ma pesante, come di chi cerca di controllarlo.
Il passo sicuro percorse il salone, le sue mani mossero oggetti di vetro,
il suono di un liquido scorse veloce ed io deglutii piano per non interrompere
il silenzio che si caricava sempre più di movimenti ben percepibili.
Poi lo sentii avanzare, vidi la sagoma nera nella luce soffusa della
sala e fu così che mi trovò.
Sembrava tutto molto naturale.
Accarezzandomi i capelli rimase in piedi davanti al mio viso e mi riempì
la bocca con il membro già eccitato.
Sì, sembrerà strano ma cominciò proprio così.
D'altronde la nebulosità di quell'esistenza vissuta ai margini della
notte e all'oscuro del giorno mi avevano sempre incuriosita.
Era come se io stessa fossi fatta per quel genere di vita che, ovviamente,
non mi apparteneva, ma che non sarebbe mai stata se lei, lei non mi
avesse lasciata in quel modo, consegnandomi, nell'ultima ora della sua
esistenza, l'eredità di quel diario che segnò il mio destino.
Così diventai… Asia.
Da quel giorno tutti i fine settimana mi recavo nel suo appartamento
e assaporavo il sottile piacere di trasformarmi in un'altra che forse
già esisteva, ma che evidentemente non avrebbe mai avuto il coraggio
di uscire allo scoperto se non con quello stratagemma.
I clienti erano tanti, ma io non li vedevo mai in faccia, come loro
non vedevano mai me, perché il biglietto di Asia era molto esplicito
ed io continuai a pubblicarlo con quella dicitura, senza cambiare una
virgola.
Per alcuni degli uomini che frequentavano quel posto c'era il desiderio,
proprio come per la mia amica, di continuare a far l'amore con la solita
persona che non corrispondeva certo ad Asia, e lei, a differenza di
loro lo era, virtualmente, sempre.
Dunque non era la sua prorompente fisicità ad attrarli, no, non poteva
essere quello, anche se era possibile, nel buio della stanza, percepirla
attraverso tutti gli altri sensi.
Era un gioco molto più sottile che coinvolgeva le loro fantasie in un
rituale sempre uguale a se stesso.
Al contrario, per altri, il buio poteva nascondere donne ogni volta
diverse fra loro e questo poteva essere eccitante.
Ma per Anna no, ne sono sicura era solo e sempre uno.
Poteva sembrare ambiguo un ragionamento del genere, ma la logica di
quel pensiero con l'andar del tempo si fece strada nella mia testa,
come molto probabilmente era accaduto nella mente di Asia.
Non importava chi fosse l'uomo che ogni volta entrava da quella porta,
per lei era come fare l'amore con lo stesso uomo del passato.
Sicuramente era sempre e solo lui, perché anche per me l'uomo che si
stagliava nella luce gialla del salotto diventava sempre quello creato
dalla mia fantasia.
Era una specie di invasamento che all'improvviso mi prendeva e mi faceva
amare come mai avevo fatto prima, convinta che lui fosse sempre Lui,
il mio corrispettivo ideale.
Il rumore della zip che si chiudeva la fece trasalire percorrendole
la schiena in un sussulto finalmente di piacere.
Le spalle dell'ultimo cliente di quella strana serata si stagliarono
ancora nella luce soffusa del salone, anche questa volta non si era
quasi accorta della sua presenza.
Quella sera non risposi più al telefono, mi sentivo strana, avevo ricominciato
a pensare ad Anna con insistenza e ai suoi ultimi giorni di vita.
Sentivo solo le ossa indolenzite dalla violenza con cui avevamo fatto
l'amore, capitava, ogni tanto, che la dolcezza non facesse parte di
quell'oscurità anzi, per alcuni era ancora più incentivante, ma non
mi era mai capitato niente di male.
Chissà se anche lei si era sentita così, chissà se l'incantesimo era
svanito come stava capitando a me.
Nulla era più eccitante come una volta, quella continua clandestinità
mi stava ingurgitando ed io stavo diventando l'ombra della donna che
credevo essere.
Anzi stavo diventando io stessa il fantasma irreale che vedevo riflesso
negli uomini con cui andavo a letto.
Ormai non esistevo più, ero solo una eco della mia immaginazione.
Mi chiusi la porta alle spalle e non rimisi mai più piede in quell'appartamento.
La paura di sparire come Anna dalla mia vita, mi portò improvvisamente
alla ricerca di un'esistenza normale.
Ho cambiato lavoro, ho cambiato città trasferendomi immediatamente.
Ho scelto la Versilia, una delle tante cartoline inviatemi quando ancora
Anna era felice.
Uno di quei posti pieni di luce e di sole in cui tante volte ero sprofondata
per sfuggire al triste grigiore di Milano.
Asia era troppo sconfinata per le mie possibilità e forse lo era stata
anche per Anna.
Un giorno distrattamente leggendo gli annunci di un giornale vidi evidenziata
una scritta:" Asia dove sei?
Il buio che ti avvolgeva ti ha inghiottita?
Ritorna."
Lessi quelle poche parole con il fiato sospeso, poi corsi alla finestra
come a cercarne il respiro.
Era una giornata diafana.
Batuffoli di polline come lana leggera volavano sospinti dal vento ormai
primaverile.
Alzai il viso verso la luce abbagliante e provai a guardare dentro il
cerchio perfetto del sole quasi a captarne tutta l'energia.
Dopo un po' dovetti desistere perché gli occhi si chiudevano da soli.
Ribadii che la mia vita sarebbe stata sempre così: occhi spalancati
alla luce anche a rischio di rimanerne accecata, e scaraventai giù dalla
finestra il giornale che si spiegò lasciando planare i suoi fogli come
petali sulla strada sottostante, disperdendo Asia per sempre.
ADELINA
Strinse la pelle
calda nella sua mano.
La sentiva perfettamente: scivolava ora lenta, ora veloce perché la
mente non era lì, a controllare con la dovuta attenzione quello che
stava facendo.
Sì, questa storia deve finire. Basta.
Era ciò che si ripeteva, seguendo il ritmo del corpo che si piegava
a destra e a sinistra, lasciando che la mente continuasse a vagare,
lo sguardo fisso davanti come a osservare un viso sconosciuto.
Non ne posso più ripeteva dentro di sé e le labbra, inumidite dalla
piccola lingua, si muovevano in sincronia con quelle parole pensate,
come se volessero farle traboccare una volta per tutte.
Tre vite da gestire, ognuna con il proprio destino e nemmeno tanto semplici.
Tre teste da seguire senza porre indugi ai pensieri con la prontezza
e lo slancio che si offre al primo amore, una fatica incredibile da
sopportare ogni volta cambiando zona, casa e amici.
Tutto aveva un limite e lei lo aveva raggiunto.
D'un tratto il suo corpo sussultò, facendola ritornare immediatamente
alla realtà.
Ebbe un fremito, la peluria del corpo le si drizzò e un gemito scivolò
via dalla bocca umida e semiaperta.
Ripreso il controllo della situazione la mano accentuò la presa.
Ora sentiva la pelle leggermente sudata, quasi calda e gonfia.
Non era mai stata brava in queste manovre e preferiva muoversi in modi
diversi, ma le esigenze erano quelle.
Aveva cominciato per gioco.
Una scommessa con un'amica dell'università, tanto per movimentare la
loro piatta routine di studentesse di Legge alla Sapienza di Pisa.
Le condizioni erano favorevoli perché come pendolari avevano la possibilità
di stare fuori tutto il giorno, senza nessun controllo da parte dei
genitori.
La loro vita poi, aveva luogo a Forte dei Marmi e, fino a quel momento,
era stata cullata dal lento dondolare dei pini e inebriata dal profumo
del mare.
Le storie d'amore si erano limitate, per lo più, a passioni estive con
i turisti, che a frotte si riversavano sulla costa da Viareggio a Marina
di Massa.
La maggior parte di loro ben consci che ciò che stavano vivendo, sulle
assolate spiagge della Versilia, altro non erano che storie a perdere,
anche se a volte intense come tutti gli amori che nascono nel temporaneo
accantonamento della quotidianità della vita.
Questo, comunque, non impediva di promettersi amore eterno fino alla
successiva stagione.
Tre uomini… tre uomini in contemporanea, questa era stata la loro scommessa.
E così, con la tenacia e la spavalderia della giovane età, avevano iniziato
queste relazioni, senza minimamente pensare alle conseguenze, né per
sé né per le persone coinvolte.
Per lei, il primo contatto era avvenuto sul luogo degli studi: era meglio
avere, durante la settimana, un punto d'appoggio, anche per motivi logistici,
almeno ci sarebbe stata la possibilità di conciliare dovere e piacere.
La sua scelta era caduta su un ricercatore di lingue, che abitava nella
piccola città universitaria, ma appartenente ad una facoltà diversa
dalla sua, proprio per non dare adito a chiacchiere di nessun genere.
Era un quarantenne bruno, dal baffo accattivante e la capigliatura folta,
occhi scuri e profondi dell'uomo del sud, perché quelle erano le sue
origini, ma con quel parlare italiano dell'inglese tipico, dato che
era madrelingua.
Rinomato fra le studentesse, proprio perché fare il piacione, approfittando
della sua posizione, era ormai una consuetudine, non le era stato difficile
abbordarlo fingendo di essere una studentessa alle prese con una lingua
che proprio non le andava giù, e che lodava senza parsimonia l'ineguagliabile
accento da straniero che tanto lo rendeva interessante.
Lui l'aveva presa subito sul serio come tutti i viveurs convinti, e
poi, quando scoperto il gioco, aveva capito di essere stato preso in
giro, s'invaghì ancor più di quella giovane sfrontata e audace, forse
perché, per la prima volta, si trovava a gestire un rapporto dove non
c'era possibilità di ricatto.
La seconda scelta cadde sul Forte, la zona di casa, dove almeno non
ci sarebbero state battute d'arresto e la passione, per il fine settimana,
sarebbe stata assicurata senza grandi spostamenti.
E, questa volta, scelse un coetaneo soprannominato Roxy per via dei
suoi bellissimi capelli rossi da irlandese, con il quale avrebbe potuto
instaurare un rapporto semplice come tanti, da vivere in tutta tranquillità
fra le pareti domestiche, perché così si poteva dare respiro alla mente
e al cuore con un impegno decisamente minimo.
Poi infine, il terzo uomo, affidato alla casualità del destino.
E il caso aveva voluto che fosse notata da un professore della Sapienza,
un professore di filosofia, che la impegnò fin dall'inizio in un rapporto
faticosissimo, sia sul piano sentimentale che su quello fisico.
Decisa prima a rifiutare il corteggiamento insistente, cedette poi attratta
anche dalla differenza di età - lui aveva cinquantatré anni - che a
sua insaputa la coinvolgeva in un qualcosa di insolito.
Avevano preferito che la loro relazione non fosse pubblica in facoltà
per il fatto che era un professore del suo corso, oltretutto sposato.
Perciò i loro incontri clandestini, avvenivano nella bellissima ma altrettanto
lontana Lerici, terra adorata da Shelley, il poeta preferito dal suo
amante inglese!
Questo era sicuramente il contatto più difficile da mantenere, perché
la sua poca destrezza nel portare la macchina le rendeva veramente arduo
raggiungerlo.
Si vedevano solitamente durante la settimana, la notte prima del giorno
libero di lui dall'università, e poi tutta la giornata seguente, sempre
nel solito albergo dai grandi finestroni aperti, sovrastanti il mare
sulla strada fra Lerici e San Terenzo.
Era lo stesso mare che bagnava anche il suo adorato Forte, ma là, il
blu e il verde smeraldo fra quegli anfratti, fra quelle rocce grigie
dove in primavera sbocciavano le violacciocche dal profumo intenso e
dolciastro, aveva un non so che di diverso che l'aveva sempre affascinata.
Più volte aveva osservato quella landa acquosa dall'alto del castello,
camminando lungo la stradina che lo costeggia, infilandosi fra le piante
di leccio e i cespugli di caprifoglio, per trovare come tutti i frequentatori
del posto, il punto adatto per potersi abbracciare e restare appartati
il più possibile.
Quelle rocce bagnate dalle onde insistenti e schiumose anche nei momenti
di stasi assoluta, davano a quel mare qualcosa di selvaggio, che entrava
dentro, e le mani e i baci seguivano le stesse cadenze con una violenza
e una esuberanza insolite anche per lei, che non si conosceva poi così
focosa come temperamento.
C'era la voglia improvvisa e violenta di farsi quasi del male, le mani
di lui le allargavano le cosce spudoratamente, era difficile tenere
a freno il desiderio che esplodeva.
Era come se la forza con cui le onde penetravano gli anfratti più nascosti
di quelle rocce laggiù invadesse con la stessa instancabile insistenza
i loro sensi, come a voler ripetere l'amplesso eterno che il mare, con
il suo movimento, ha con la terra ferma, passiva ma pronta ad accogliere,
opponendo solo la sua immobilità a quella penetrazione costante.
Lei aveva lo stesso atteggiamento: chiudeva le gambe e si irrigidiva,
perché ogni rapporto doveva essere una conquista ottenuta con la forza.
Il mare sulla spiaggia della Versilia al contrario, era più dolce e
così anche quel compagno.
Le permetteva di rilassarsi all'abbandono di un uomo senza pretese,
ma non per questo meno importante dell'altro, era lo spirito diverso,
il contatto.
C'era la dolcezza che arriva lambendo un poco alla volta, senza irruenza,
come un'onda lieve, in un crescendo continuo, con i preliminari di un
amore che non ha fretta, perché ha davanti a sé un ventre morbido dove
sprofondare.
A Pisa, invece, il fiume non aveva la stessa potenza, non c'erano né
dolcezza né turbamento, ma solo un lento scorrere fra rive sempre uguali,
all'interno di un rapporto che procedeva con la stupida, inconcludente
tecnica della conquista da quattro soldi, come del resto si era presentata
fin dall'inizio.
Adesso era giunto il momento di darci un taglio.
Sì, perché lo sforzo di mantenere tutti questi impegni, era diventato
veramente insopportabile.
La sua compagna di avventure, Dirce, aveva perso la scommessa quasi
subito, mandando a carte quarantotto i tre rapporti avviati, facendo
un casino incredibile perché non era stata altrettanto brava a mantenere
le distanze fra uno e l'altro.
La sbadataggine cronica di cui soffriva aveva fatto fallire miseramente
il suo intento.
E cosa ancora più grave, si era lasciata andare, completamente andare
fra le braccia di uno dei tre, facendosi coinvolgere in un rapporto
morboso ed estremamente passionale.
Insomma, si era davvero innamorata, e così gli altri due si erano accorti
ben presto della carenza di attenzione venuta ad offuscare il loro supposto
rapporto unico e, rivelando rabbiosamente la loro presenza, avevano
fatto affondare anche il grande amore.
E lei naufragò in un mare di sensi di colpa e di nausee, perché quel
cercare di barcamenarsi fra uno studente in filosofia parlando di politica
e uno di botanica percorrendo chilometri in montagna alla ricerca delle
erbe più sconosciute, le avevano procurato un'ulcera allo stomaco, a
cui aveva provveduto il terzo uomo, futuro medico, consigliandola sugli
ultimi preparati per poter contenere i terribili crampi che, puntualmente,
le si presentavano quando la situazione si faceva più pressante.
La scommessa, dunque, era stata vinta da Adelina ma non per questo,
allora, era giunta alla conclusione di dover interrompere quei rapporti.
Ma adesso non ce la faceva proprio più e dato che lei tirava le fila
di tutte e tre le relazioni, avrebbe dovuto trovare senza difficoltà
il modo giusto, veloce e indolore per troncarle.
Improvvisamente il telefonino……
Con uno scatto strinse le dita, volse lo sguardo di lato a individuare
il suono dilagante come un allarme insistente, allungò il braccio a
frugare nella borsa buttata a casaccio sul sedile accanto, poi, non
trovando che centomila altre cose, decise: aumentò la presa sul cambio,
ingranò a scalare e accostò….guidare e telefonare in contemporanea non
faceva per lei!
Il nome sul video era ……del bello di lingue.
"Ciao, dove sei?"
"Sto preparando un esame, lo sai che ne ho uno a breve….che c'è?"
L'accento inglese sembrava prevalere, anzi la prima parola sembrava
non decidersi fra le due lingue "mh….shit….devo parlarti….è successo
un casino…..quando puoi venire?"
"Non posso te l'ho detto ho uno stramaledetto esame da preparare….dimmi
brevemente….cos'è successo?!"
"…..non così per telefono….."
" bene, vengo a Pisa la prossima settimana, prima non ce la faccio…"
" ma io… sono in un guaio ……non so come…..she falls pregnant…."
E l'accento italiano fece sentire la prevalenza.
Deglutì piano quelle parole per capirle meglio "…she cosa?!"
"….. pregnant….. pregnant……" urlava lui riacquistando l'aplomb
solo nella pronuncia di quelle che sembravano sillabe mostruose, ma
che risuonavano nel ricevitore piene e quasi calde.
"…..no guarda, ripeti e in italiano per favore, non ho voglia di
spremermi ora, risparmiami l'inglese sono già abbastanza fusa…"
Attimo di suspence tanto per creare intimità e poi l'italiano arrivò
forte e chiaro"…….è incinta…..quella cretina mi aveva assicurato
che non c'erano problemi e poi ha saltato la pillola e ora cerca me."
Se il cellulare può rappresentare un erotico oggetto di piacere, in
quel momento, la sua mano lo strinse con tanta violenza che l'orgasmico
flusso di parole che ne seguì ne fu la giusta conseguenza.
"…incinta….. ma chi?….cosa…..pillola…..saltata……"
"Sì e vuole tenere il bambino, mi devi aiutare…..dare un consiglio….lo
sai che… non voglio inguaiarmi!"
" e quando….!?"
" sai… è capitato… ti cercano… si propongono…..è difficile per
un uomo….."
"….brutto inglese di merda!… dunque, tutti i discorsi sulla correttezza
britannica e la chiarezza e …..fanculo tu e la tua studentessa troia….."
Buttò il cellulare sul cruscotto senza nemmeno chiudere la comunicazione,
ingranò la prima e ripartì, senza freccia e senza guardare, così che
da dietro le arrivò una strombazzata e un moccolo irripetibile dal finestrino
dell'Audi in transito.
Accolse quello sproloquio col sorriso sulle labbra perché……meno uno!
E chi se lo sarebbe immaginato…incinta……povero trombatore da strapazzo…mica
ci aveva dato su alle matricole…ben gli sta, è la giusta punizione per
uno così.
Il viaggio, che fino ad allora aveva avuto le tonalità grigie del cielo
che incombeva sulla riviera ligure, si aprì in un raggio evanescente,
illuminando di un bagliore traslucido la strada che lieve scendeva verso
il mare e da cui apparve il castello in tutta la sua rocciosa e massiccia
presenza.
Un imprevisto come quello dava a tutta la faccenda l'iniziale avvio
verso una risoluzione positiva e liberatoria.
Intanto un rapporto si era risolto da sé, quindi scuse in meno da inventare,
e poi questa casualità era sicuramente un segnale che dava fiducia,
e lei credeva a queste cose.
La sua filosofia di vita le aveva insegnato a valutare con la giusta
importanza i fatti imponderabili del destino e le strane congiunture
che si vengono a creare.
Potrebbe sembrare strano in una persona che aveva studiato a tavolino
come far seguire alla sua vita una certa direzione.
Eppure, dopo aver dato il via a quelle tre storie, si era lasciata andare
ad una sorta di flusso quotidiano che dava spazio alle diverse implicazioni
senza forzare mai i rapporti in un certo modo.
Questo ovviamente da parte sua ché, dall'altra sponda, le direttive
venivano impartite eccome!
Infatti era da loro, e dalle loro esigenze che partiva tutta la marea
di emozioni ed impegni giornalieri a cui non sapeva più porre limite.
Avevano avuto il sopravvento.
Figuriamoci se lei si fosse impegnata con ognuno in un rapporto normale
e, come succede, a dare anche delle dritte riguardanti le proprie esigenze:
sarebbero esplosi nel giro di poco tempo.
La guida della macchina in quel momento non era più un problema, le
sue mani sul cambio non sudavano più.
Arrivò sollevata al solito appuntamento con il professore, come ogni
tanto scherzosamente lo apostrofava.
La giornata iniziò e si dipanò senza ardore, strano per lui, ma lei
non ci diede peso dato che, quel giorno, orientata verso nuovi orizzonti,
pensava alla scelta da fare.
Così non si pose domande su quel calo improvviso di desiderio ma si
chiedeva, invece, se quell'inizio particolare avrebbe deviato fin dalle
fondamenta il prescelto rapporto futuro.
Era un aspetto su cui riflettere e a cui dare la giusta importanza:
in fondo mesi di vita a tre non erano cosa da poco nella riscoperta
di una storia normale.
Anche quel giorno passò.
Ma dopo una settimana un fatto sconvolse letteralmente i suoi propositi
sul come cominciare il lento e inesorabile dissolvimento del secondo
rapporto.
La svolta fu inevitabile e, questa volta, davvero inaspettata.
Il professore le disse, con tutta la calma che può derivare solo da
una persona che ha fatto della professione una formula di vita, che
la moglie, dopo averlo lasciato mesi prima, era tornata a casa e lo
aveva perdonato.
La loro storia perciò, doveva avere un termine, non voleva rischiare…
ancora……
"Tornata….perdonato?!" esplose, come se la sua anima fosse
esente da qualsiasi frammento anche piccolo di coscienza sporca.
"Ti aveva lasciato!!! Questo volevi dire con …… non ci sono più
rapporti……."
"Sai sono sempre suo marito …..devo….non posso…. esentarmi….d'altronde
non ho mai detto di non avere più feeling con lei."
Quella parola stonò nel contenuto e pacato scorrere delle parole italianissime
che lo avevano sempre contraddistinto, rendendolo così affascinante
e convincente.
Quanta importanza aveva dato alle parole, fino ad allora, e non ai fatti……sì,
adesso, se ne rendeva conto.
Il silenzio si fece sentire implacabile fra di loro e lui, per la prima
volta, stava davanti a lei, muto.
Quel giorno il rientro verso casa non le sembrò poi così tortuoso.
Il volante girava lento, ma con precisione fra le mani che lo facevano
scorrere, lasciando che la strada lo indirizzasse con la giusta inclinazione;
non lo forzava più di tanto rendendo faticose anche le curve più lievi.
Si ricordava che proprio per una errata tenuta del volante era stata
bocciata all'esame di guida: una guida troppo tesa e quindi poco sicura.
Ora lo sterzo seguiva l'andamento della strada, agiva quasi da solo
sull'impronta dell'asfalto, i suoi movimenti avevano acquisito una scioltezza
decisamente insolita.
Lo stacco inaspettato da questo secondo uomo, le aveva dato un imprinting
diverso.
Forse era proprio lui quello, fra i tre, che più la dominava.
Il suo carisma, l'età, l'esperienza, ne avevano fatto una figura quasi
paterna, ma con l'ardore di un amante vero, irraggiungibile.
Forse la scelta sarebbe caduta su di lui.
Se solo avesse tenuto nascosto quell'evento sarebbe rimasto sul piedistallo
su cui inconsapevolmente lo aveva messo.
Lei in fondo ne aveva di segreti!
La loro storia era stata tenuta nascosta, vivevano nella bugia fin dall'inizio.
Che fine misera per un futuro insieme. Che desolazione! Che cosa ne
sarebbe stato di lei se quello fosse stato il suo grande, unico, vero
amore!?
Non osava pensare, nemmeno per un attimo, a ciò che avrebbe provato
se fosse stata abbandonata in tali condizioni.
In fondo, l'impostazione che aveva dato al rapporto le permetteva di
prendere il giusto distacco, eppure ci stava maledettamente male, lei,
che per mesi se lo era diviso con altri due uomini!
Stava soffrendo le pene dell'inferno, stava piangendo, sì stava piangendo,
si stava asciugando con la manica del vestito le lacrime che grondavano
giù dagli occhi rendendole la vista appannata.
Si fermò ad una curva dove la strada si allargava sul fianco del monte,
in una piazzola creata dalle infinite fermate delle auto per godere
dell'incantevole paesaggio.
Guardò là, oltre il castello, guardò il mare vasto e lucido, si chiese
se in quel momento qualcuno pensasse a lei…..
Vide la sua vita che doveva ricomporsi da lacerazioni di cui lei era
stata la causa, ma quegli uomini, in definitiva, erano poi così diversi?
Il loro amore che aveva di unico come davano ad intendere?
Lei era entrata in un gioco con la stessa spregiudicatezza che si ha
quando si fa una scommessa: sapeva cosa metteva sul tavolo.
Certo partiva avvantaggiata, perché consapevole di quello che stava
facendo.
Ma gli altri no, gli altri non stavano giocando, a detta loro stavano
tutti facendo sul serio! Sul serio, si erano messi con lei.
Non riusciva più a comprendere la realtà delle cose.
Le sembrava quasi una enorme roulette a cui aveva solo dato il via,
ma di cui aveva perso i giri successivi.
Seguì il volteggiare di un gabbiano nell'organza del tramonto che si
apprestava a dare all'atmosfera intorno i toni aranciati e languidi
intravisti, tante volte, fra le sue ginocchia piegate e sulle natiche
di lui, che accompagnavano il ritmo finale di un amplesso fra caprifogli
e lecci.
Vide il corpo dell'uccello, nero in controluce, allungarsi e, con una
veloce torsione su se stesso, buttarsi giù in picchiata, sprofondare
nel mare, e per un attimo sentì battere contro le pareti della sua vagina,
avvertì ancora il peso del suo corpo esausto sopra il seno.
Si alzò il bavero della giacca, stringendolo attorno al collo e, tirando
su con il naso, rientrò in macchina.
Agguantò il cambio, questa volta quasi con rabbia, e riprese a scendere,
buttando ad ogni tornante, lo sguardo assente alla luna che bianca ed
enorme sorgeva dalle Alpi.
Arrivò a Forte dei Marmi che la luce, ormai, era solo un biancore sfumato
sulla distesa marina e, dalla strada, si vedevano le luci a palla del
pontile che si allungavano sul nero profondo più vicino alla spiaggia.
Si stupiva di se stessa.
Era stupefatta più dalla sua reazione che dalla sconvolgente rivelazione
ricevuta quel giorno, proprio perché la giudicava sconvolgente; era
quella la parola che le caracollava nella testa e che esprimeva bene
la palla di cannone sparatale dall'unico che riteneva, in fondo, l'uomo
giusto per lei.
Per lei che non credeva nelle relazioni infinite, monogame e routinarie.
Alla fine si era ritrovata invischiata in un amore come tutti gli altri,
ed ora pagava pure lo scotto di un tradimento ancor più feroce, in un
certo senso, perché la fedifraga di partenza era lei, ma questo fatto
non esisteva più alla resa dei conti.
Scese dalla cinquecento che aveva parcheggiato un po' di sbieco sul
lungomare, ma a quel punto una multa poteva essere un dolce ritorno
alla normalità.
Non capiva. Cominciò a camminare, guardando distrattamente il marciapiede
e scansando i pochi passanti che in quella sera ventosa si affrettavano
a tornare ognuno dai propri amori.
E il suo? Dov'era? Credeva di averlo trovato almeno in una scommessa,
in un congegno dove lei aveva dettato le regole, ma poi tutto era andato
avanti a sua insaputa, e se ne erano create di nuove.
Proprio come nella vita: tutto era legato al destino e lui aveva deciso
la partita, e ora non comprendeva più qual era il gioco e quale la realtà.
Le veniva quasi da ridere mentre allungava il passo sul pontile verso
il mare e il vento le appiccicava i capelli alla bocca e la gonna alle
gambe, come vele sbattute allo stesso albero.
Si sporse dalla balaustra, affacciandosi alla prima che dava sulla spiaggia,
allungò lo sguardo a cogliere i bagliori sparsi della terra in lontananza,
di cui le sarebbe rimasto solo il profumo della salsedine e delle violacciocche,
in un turbinio di colori sfavillanti.
Quel promontorio sembrava una nave in procinto di partire verso lidi
che non erano certo i suoi.
Si ritrasse socchiudendo gli occhi, quasi non volesse far vedere al
mare la sua sofferenza.
Un fruscio da sotto i piloni e parole improvvise come conchiglie portate
da un'onda, glieli fecero riaprire.
"Dai Roxy… c'è qualcuno!? Ci vede……!"
" …e allora!? sarà capitato anche a lui o lei di trovarsi all'imbrunire
con il proprio amore sulla spiaggia….non ti fermare…"
La mano della sconosciuta affondò nel rosso folto dei capelli spingendo
la testa di lui sul proprio collo per tacitarne così i gemiti.
Solo questo, intravide e sentì Adelina,………………………………………………..
………………..mi ricordano la sabbia dei deserti americani in certe ore del
giorno……………………………aveva detto una volta all'amante senza troppe pretese,
del fine settimana.
Era una sera in cui i raggi obliqui del sole mettevano in risalto i
bagliori fulvi della sua capigliatura, mentre le lunghe dita delle mani,
accarezzandoli, ne ricordavano anche la stessa sensazione tattile………………………………..
no, qua no, ci potrebbe vedere qualcuno che conosciamo e non mi va di
finire nelle battute idiote dei nostri compaesani…………………………
E così, dopo quell'attimo di fugace abbandono sul lettino del bagno
Annetta, si erano diretti a casa sua, nel solito garage, freddo e scomodo,
perché questo si ostinava a ripetere lui, ogni qualvolta lei gli proponeva
un amplesso a cielo aperto.
L'uomo
con il violoncello
Avevo preso la metro
per l'ennesima volta nel tentativo, ormai diventato quotidiano, della
ricerca di un lavoro.
Il disagio che provo ogni volta nell'entrare in quel treno sotterraneo
mi porta automaticamente ad andare lontano con il pensiero, per distogliere
la mente dal fatto che si è chiusi dentro ad un tunnel nero e stretto
sotto la superficie della terra, a volte di parecchi metri, e dove un
black-out momentaneo sarebbe sufficiente a mandarmi in apnea.
A ben pensarci è come entrare in un incubo dei più classici, con la
differenza che lo si fa in maniera cosciente e automatica, come a volte
succede per tante altre cose nella vita, senza renderci minimamente
conto di quello che si subisce o si sopporta, a meno che poco poco ci
si fermi a riflettere.
Così per distrarmi mi sposto sulle persone attorno, ché altrimenti il
terrore claustrofobico che si scatenerebbe, altro non potrebbe portarmi
se non a scappare via il più velocemente possibile da quella macchina
infernale.
Ci sono persone di qualsiasi genere, età e ceto sociale racchiusi là
dentro, ognuno con una storia alle spalle da cui si potrebbe trarre
racconti per ogni genere letterario conosciuto.
Mi piace pensare alla vita di queste persone, a quello che potrebbero
essere o a quello che mostrano in quel momento nello spazio ristretto
di una locomotiva e nel tempo ridotto di una corsa.
Dopo un po' di tempo che si frequenta questo mondo su rotaie capita
di vedere gli stessi personaggi che prendono il treno a quell'ora tutti
i giorni.
Vi parlo di personaggi, così amo definirli, perché non sono anonimi
passeggeri della metropolitana ma persone che si caratterizzano per
qualche loro peculiarità.
E quel giorno notai l'uomo col violoncello.
Era di spalle: i capelli un po' lunghi, radi e brizzolati sfioravano
il bavero sollevato di un giaccone blu scuro di un cotone spesso, pesante,
che calava un poco sgualcito sopra un paio di pantaloni a coste larghe
di velluto grigio, forse un po' troppo grandi per l'esile persona che
si intravedeva dalle caviglie sottilissime, che spuntavano come fuscelli
dagli scarponi grossi come quelle di uno scalatore di montagne.
Le mani si aggrappavano al "manico" di quel particolare strumento
musicale dalla pancia paffuta che stava dritto in piedi al suo fianco
quasi fosse un angelo custode.
Ne parlo in questi termini perché la prima impressione fu che fosse
uno dei tanti suonatori metropolitani che spesso si incontrano ai piedi
della scala mobile o in qualche corridoio per raccogliere pochi spiccioli
per la giornata.
Cominciai a pensare alla sua vita da ambulante della musica.
Sicuramente aveva visto più mondo lui di me e data la sua età avanti
con gli anni, avrebbe avuto chissà quali esperienze da raccontare.
Me lo immaginavo per le strade di Londra o di Parigi con accanto un
cappello a forma di coppola dentro cui arrabattava il pranzo del giorno.
Chissà con quali temperature aveva combattuto nel dormire sotto un ponte
o con quali individui era venuto in contatto nelle più svariate situazioni
di pericolo in cui ci si può trovare quando si abita per strada.
Tutta la vita in compagnia del suo strumento musicale alla ricerca chissà
di un qualche, improbabile ingaggio fortuito, all'incrocio con via Pigalle,
o a piazza di Spagna.
Una vita di stenti, ricca però della libertà, ogni giorno, di scegliere
una strada su cui incamminarsi alla ricerca di un momento in più da
ricordare, senza padroni sul lavoro a cui rispondere, senza famiglia
a cui "dovere" un impegno, senza una meta da perseguire se
non quella della più semplice sopravvivenza, come un uomo di tempi arcaici,
privo di regole o di formalismi.
Erano le sette del mattino e chissà da quale pertugio sotterraneo era
uscito e chissà in quale strada si sarebbe perso quel giorno sulle note
della sua musica.
La metro si era fermata ed io, nel girarmi per far spazio ad una donna
che non si era accorta di essere arrivata perché presa dalle chiacchiere
con un' amica, persi di vista l'alzarsi del violoncellista e nello sfrecciare
via di nuovo veloce attraverso i finestrini, vidi solo la parte finale
dello strumento ondeggiare lento fra la folla: molto probabilmente se
l'era preso in braccio come un bambino, per evitare gli urti.
Mi capitò più volte di intravederlo con il suo fedele compagno fra la
gente di quell'ora e pensai che evidentemente aveva fatto di quella
fermata, la sua, quotidiana.
Il caso volle che mai riuscissi a vederlo in faccia e quindi la mia
immaginazione poteva lavorare a più mani plasmando un volto nuovo a
seconda del mio umore o della mia giornata.
Poi un giorno me
lo trovai davanti mentre distrattamente e in corsa come al solito, scendevo
le scale alla stazione dei treni locali, sulla Tuscolana.
Le mani affondate nelle tasche sbiecate davano alle spalle un aspetto
curvo, di disattento abbandono come se non fosse presente con la testa
sul luogo dove camminava, ma vi fosse semplicemente di passaggio.
Rallentai l'andatura perché al di là di qualsiasi impegno volevo quel
giorno dare un viso al mio "closchard" e così, con attenta
indifferenza mi misi sulla sua scia come ad inseguire la bava lucente
di una lumaca cittadina.
Il passo leggero non aveva particolari cadenze, sembrava però aumentare
mano a mano che ci si avvicinava ai locali della ferrovia.
Ad un certo punto si arrivò ad una zona interdetta al pubblico, dietro
l'entrata della stazione, e lui senza indugio, si infilò in una porticina
dove campeggiava a lettere rosse in segno di stop la parola : p r i
v a t o.
Aspettai seduta su una delle fredde panchine in travertino e pensai
che la mia curiosità, non trattenibile, era motivo sufficiente per rischiare
di perdere l'appuntamento della giornata.
Certo il mio era un grosso rischio, perché proprio quello, nella casualità,
avrebbe potuto essere il lavoro della mia vita: ma niente, l'istinto
del raccogli storie quel giorno aveva la prevalenza e ben sapendo che
altro che quel mestiere avrei voluto fare, mi arrischiai ad assecondarlo.
In fondo girarci intorno era inutile, il mio sogno era diventare una
scrittrice, dedita più alla fantasia che alla realtà per arrivare ad
una verità consolatoria, più o meno, del mio stato d'essere, in questo
mondo.
Aspettai poco a dire il vero e, dall'uscio semiaperto, ad un certo punto
sentii saluti a più voci ed una in particolare molto bassa, che precisava
il turno assegnatogli il giorno successivo.
Sicuramente quella era la voce del mio personaggio perché, prima di
lui, scorsi il manico del suo violoncello spuntare dalle assi brune
della porta.
Ancora una volta di spalle continuai a seguirlo, stavolta però le idee
nella testa si erano rimescolate, quel timbro di voce gli dava una connotazione
diversa, non appariva più la figura resa dura dalla vita di strada,
forte e decisa, ma lasciava spazio ad un animo più caldo, una differente
personalità cominciava ad emergere dalle corde della sua gola.
Questa volta si diresse al binario 4 della stazione, al solito schivò
le persone reggendo fra le braccia il suo bene prezioso, ed io con lui,
in una un'anime condivisione di stato quasi esaltato, tanto la camminata
era adessso lunga e decisa.
Forse essendo sabato rientrava a casa dopo una settimana passata in
città, d'altronde quel treno portava fuori Roma verso la campagna della
Sabina.
Salii anch'io sul treno per Orte, senza il minimo dubbio che quella
fosse la cosa giusta da fare.
Finalmente trovò un posto al secondo piano del treno che doveva averlo
convinto: i sedili erano tutti e quattro vuoti, e lui si mise vicino
al finestrino rivolgendo finalmente la faccia al mio sguardo che sostava
poco più in là, al centro del corridoio.
Gli occhi grandi, sotto una fronte larga solcata da rughe vizze di anni,
si sgranarono come a volersi aprire il più possibile, soffermandosi
nei miei che lo scrutavano attenti.
La bocca si sistemò in uno stringersi di labbra accennando un mezzo
sorriso e le mani dopo aver abbandonato la presa del violoncello, che
aveva adagiato con particolare cura su uno dei sedili di fronte, si
distesero a raggiera su una cartellina blu che non avevo mai notato
prima.
Dopo averla aperta ne tirò fuori dei fogli rettangolari con delle righe
nere sottilissime, che sistemò sul tavolinetto estraibile lisciandoli
con maniacale, lieve pressione.
Estrasse anche una matita dalla borsa e una gomma bianca che sembrava
un panetto di burro caldo.
L'espressione del volto assunse un'aria sollevata, quasi di estatico
godimento e con la testa cominciò un mimico movimento musicale.
Ed io allora scoprii un nuovo personaggio……..
Adesso il mio pensiero faceva da scorta ad un'anima completamente diversa.
Davanti a me un'artista come prima, ma questa volta, accanto a lui anche
la figura del ferroviere, una sfumatura nuova accanto a quella già esistente.
O meglio il ferroviere nascondeva nella sua ombra l'anima di un artista
e questo particolare adesso gettava una luce diversa sulla considerazione
che mi potevo fare di lui, in questa diversa prospettiva.
Tutto adesso cambiava, non più vita avventurosa a rischio di chissà
quali pericoli, ma una vita normale, scandita da orari di turni da rispettare,
impegni e responsabilità impensate, la vita di centinaia di persone
sotto il suo vigile controllo da guidatore del treno, dove il suono
poteva essere solo un annuncio e diventare segnale di vita o di morte.
Come cambiava la mia prospettiva in quell'ottica, come la visuale portava
nuovi sfondi e nuove fantasie.
E adesso la visione che mi ero fatta di lui era più o meno romantica?
che cosa ci perdeva o guadagnava, al contrario?
Ero eccitata all'idea di poter riprogrammare un mio personaggio sull'onda
nuova che questa scoperta mi portava a cavalcare.
Scesi alla prima fermata utile, lo lasciai ai suoi fogli dove molto
probabilmente aveva segnato una nuova sinfonia, un motivo in più da
dedicare alla sua anima, vista la luce estatica degli occhi.
La mia mente lo immaginava ritirarsi in una piccola casa di campagna,
dove lo attendevano una moglie ed un figlio e, dopo aver atteso ai suoi
doveri di padre e di marito, isolarsi in una stanza, ricavata da un'angolo
della cucina, profumata di legna e lavanda messa ad ardere nel camino.
Là, abbandonarsi all'abbraccio del suo violoncello, in un amplesso di
ricercato piacere, e trasformarsi ancora, nella sua fantasia questa
volta, in un famoso concertista in giro per il mondo, al seguito di
un'orchestra importante e con lui anch'io, nell'abbandono di una realtà
alla ricerca di un'altra sempre possibile ed intrigante, nella affannosa
corsa alla verità.
CONTRASTI
Era finalmente da
sola in camera sua.
Stava dietro alla porta, appiccicata al termosifone acceso quasi fosse
lei a riscaldarlo, in quella tiepida ma assolata giornata d'autunno.
Aveva da quel punto la visione completa della sua camera da letto, collocata
all'estremo opposto del corridoio dove si trovava anche quella dei genitori.
Si riscosse bruscamente, sentendo il bruciore del ferro, dall'attimo
di isolamento totale che l'aveva come estratta dal tempo, fermandole
il cervello, che non connetteva più, e il cuore, che in qualche punto
si era fermato malgrado tutte le preghiere ed imprecazioni.
I pensieri rollavano nella testa incapaci di fermarsi.
Da dentro, attraverso lo sguardo, si catapultavano fuori ma poi improvvisamente,
ecco che si ricomponevano in una massa unica, come bianco d'uovo che
non trabocca dal guscio, tornando ad affollare e a scontrarsi intatti
nella testa.
La sua mente non si era impossessata della realtà circostante e anche
se gli oggetti avevano su di lei una funzione ipnotica catalizzatrice
e catartica necessaria, in quel preciso momento per sopravvivere, e
gli occhi ne erano pieni, la mente non riusciva ad appropriarsene.
E quel continuo ricomporsi non dava scampo.
Il brusio al piano di sotto era aumentato.
Le parole servivano a riempire un silenzio che da poche ore era dilagato
in tutta la casa con l'impeto soffocante della sabbia che entra improvvisa
dentro una piramide sotterranea riempiendola, o dell'acqua all'interno
di un sottomarino, affondandolo.
C'era stato lo stesso panico: avevano spinto e chiuso le porte e le
paratie con tutto il corpo, ma i granelli si erano infiltrati, le gocce
si erano insinuate ed erano andate a coprire, a lambire tutto lo spazio
disponibile fino allo sfondamento totale, ineluttabile dopo tanto travaglio,
ma comunque, sempre e comunque, inaspettato.
Aprì lo sportello dell'armadio per scegliere il vestito da indossare,
quello più adatto all'occasione: una gonna lunga al polpaccio, una maglia
con il collo appena accennato, un giacca pesante ché, malgrado la temperatura
mite, sentiva, quel giorno, un gran freddo.
Forse covava qualcosa, certo di lì a poco si sarebbe ammalata, lo sentiva
nelle ossa quel gelo: le saliva su per la colonna vertebrale e si concentrava
alla base della nuca.
Non c'era verso di farlo passare, si poteva anche stracoprire quando
le succedeva così, poteva anche mettersi in una stufa e ardere con tutta
la legna dentro, ma non le sarebbe passato.
Tanto valeva vestirsi in maniera appropriata.
La casa rosa…dovevamo andarla a vedere insieme era il nostro progetto
prossimo…informarci se era possibile comprarla….
Quel tipo di gonna le era sempre piaciuto, stile anni trenta, l'intrigava
perché ci vedeva la giusta composizione di femminile e di sportivo che
caratterizzava le donne di quell'epoca.
La gamba si scorgeva quel tanto che bastava per mettere in risalto la
caviglia sottile, ben delineata, le calze scure l'avrebbero accentuata.
La giacca con i fianchi leggermente segnati mettevano in evidenza i
suoi, sottili, e gli davano quel poco di femminile senza scadere però
nella smaccata prosperità che talvolta è richiesta ad una donna.
Il suo aspetto longilineo acquistava in sensualità con queste piccole
accortezze, ma il suo essere non si doveva mai trovare in imbarazzo
sotto lo sguardo indagatore di un uomo, perché lei, era, prima di tutto,
una donna.
Avevamo finalmente trovato un punto in comune: la passione per la natura
tramandata come un gene caratterizzante una specie, quel feeling particolare
con gli animali, un atavico retaggio mai perso.
I capelli ……come pettinarli….sciolti forse, non avevano una bella piega
quel giorno.
No, forse era meglio un ciuffo….basso……sì basso, elegante, composto,
le stava molto bene, le metteva in evidenza gli zigomi, poi il trucco
già…..il trucco.
Si mosse di nuovo verso il termosifone e attaccò i vestiti all'attaccapanni
posto là sopra, lo fece in modo meccanico come faceva con il pigiama
ogni notte prima di andare a letto.
Li sentiva freddi, si sarebbero un poco riscaldati e forse anche lei.
Non mi accompagnerà più…
Rimase ancora un po' lì, ferma; la sorella che vide la sagoma immobile
dietro il vetro della porta, le fece fretta.
Si ricordò che pure suo padre si lamentava perché era sempre in ritardo:
anche giorni addietro si era arrabbiato prima di accompagnarlo nelle
insolite passeggiate mattutine che la malattia imponeva.
Come si era infuriata! Che importava….possibile che lui, in quel momento,
mettesse in evidenza quella stupida, insignificante mancanza, e non
vedesse altro, non notasse invece ciò che sua figlia stava passando!
Ma era abile a far credere che le cose andassero sempre nello stesso
modo, aveva imparato a bleffare bene.
Comunque, fu una giornata memorabile: un gruppo di cicogne arrivate
dal mare si posarono sul campanile della chiesa.
Un evento ripreso dai fotografi e dai numerosi turisti che affollavano
il paese, ma soprattutto un segno di buon auspicio e lei quel giorno
ci credette, ci volle credere con tutte le sue forze, ne aveva bisogno…..
Indossò i vestiti che aveva scelto, era quasi pronta, doveva solo truccarsi….vediamo
un po'.
Labbra tenui sì, colorate appena per non dare l'idea dello sciatto e
poi un po' di mascara waterproof così non si scioglie ed appena una
riga di matita sfumata, anche perché le palpebre sono gonfie, senti
come sono gonfie!
E le pigiò più volte quasi a cacciare dentro l'orbita tutto il bulbo.
La porta si spalancò d'improvviso spingendola contro il termosifone.
" Sei pronta!? Sei sempre la solita, anche in queste occasioni!".
Il rimprovero della sorella entrò con lo spostamento d'aria mescolato
al profumo dei fiori che avevano invaso la casa.
I colori erano bellissimi, ma l'olezzo di alcuni gigli stava impregnando
tutta l'aria che cominciava a diventare nauseabonda, era dolce troppo
dolce, se lo sarebbe ricordato così, per sempre.
Le scarpe, dove avrò messo le scarpe…eccole, sono da lucidare…pazienza,
le spolvero, è sufficiente… ora vado in bagno, devo andare in bagno
mi viene da vomitare.
Aprì la porta della camera.
Dal basso il brusio era aumentato: una festa…. continuavano a parlare
e a parlare.
Dalla camera dei genitori ombre si stagliavano silenziose dietro la
porta a vetri: movimenti lenti, impercettibili e bagliori sinistri;
entrò nel bagno lì accanto.
Chiuse a chiave.
Non vomitò, ricacciò tutto dentro perché la sola idea di quell'atto
contro natura le ripugnava.
Non voleva vomitare, ce l'avrebbe fatta fino a sera?….forse sì, forse
quella giornata sarebbe passata come tutte le altre: sole, crepuscolo,
buio….. il buio, voleva solo il buio, nei pensieri, sulle cose, attorno
alle persone.
Dormire ecco cosa desiderava.
Ecco di cosa aveva bisogno, solo dormire e sognare un'altra realtà sperando
che quella non la raggiungesse anche nei sogni.
In una giornata come quella, cominciata con una corsa folle alle cinque
di mattina verso una città dove non era mai stata, su una strada in
mezzo ad una campagna verdissima, con un sole che avrebbe fatto invidia
alla primavera ancora lontana da venire, lei…. pensava al buio, al sonno!
Uscì dal bagno.
Anche gli altri erano usciti di casa, tutti.
La cagnolina di famiglia guaiva chiusa da qualche parte, forse in garage.
Gli aveva fatto festa anche quella mattina quando era rientrato su una
barella ormai semi incosciente, ma la fedelissima compagna di caccia
lo aveva voluto salutare con la gioia di sempre, muovendo freneticamente
il fondo schiena dove si intravedeva un mozzicone di coda.
Il feretro era partito
e lei continuava a rimandare.
Lo faceva apposta, voleva far tardi perché avrebbe voluto non arrivare
mai.
Guardò il cielo diafano a contrasto con i grandi abeti verde scuro:
aspirò forte.
Erano tutti alberi di Natale che poi, messi in giardino, erano diventati
giganteschi.
Si rivide bambina mentre ci girava attorno e rivide suo padre, altissimo,
che preparava la buca indossando grossi stivali di plastica verde: com'era
bello!
Proprio adesso… che avevamo ritrovato un dialogo…
Si guardò i piedi e dalla caviglia vide una sottile smagliatura che
saliva: la pelle bianca a contrasto la inorridì.
Non c'era tempo, non c'era più tempo ormai ……..e un singhiozzo soffocante
le esplose in gola.
I Semprevivi
L'orologio segnava
le ore 17,30 del 7 luglio 1967 e l'autista a voce alta disse "eccoci
arrivati all'hotel Niagara!"
Scrosci d'acqua inondarono selvaggiamente le orecchie dei presenti,
allagando cavità e protuberanze dei loro corpi e delle loro menti con
un impeto di vitale freschezza.
"Strano nome per una casa di cura per anziani" commentò l'autista
del tassì seguendo l'onda che defluiva mentre Marta e Grazia si apprestavano
a pagare la corsa.
Con quell'ometto gentile solo per interesse, avevano intrapreso la solita
conversazione sul tempo, questa volta non distrattamente come di solito
avviene, dato che quello era il tempo della loro vacanza.
Avevano commentato con educazione ma arditamente l'espressione da lui
usata per definire la temperatura insolita, quasi fredda, per quel periodo
dell'anno.
"Come si fa ad accettare un'aria simpatica quando si è in vacanza?!"
avevano obbiettato.
Poi, lasciandosi polemiche e mare alle spalle, scesero dalla macchina
e varcarono il cancello del rigoglioso giardino.
Vestite con eleganza
come di consueto, indossavano abiti firmati e numerosi gioielli che
davano la giusta vivacità al loro fossilizzato stile "signora".
L'abbronzatura leggera e dorata illuminava quei visi appassiti, che
erano sempre stati così, senza età, fin da quando erano ragazze, come
fossero state destinate a una perenne giovinezza o vecchiaia non si
capiva.
Signorine da sempre; sembrava che quell'appellativo le conservasse in
qualche modo intatte con il trascorrere degli anni, per quando non lo
sarebbero state più.
Ma il tempo passava e loro continuavano a rimanere "le signorine."
Erano venute a trovare un'amica di gioventù ormai vedova e ospite di
quel posto dalla primavera precedente, a causa del suo precario stato
di salute.
Sedettero sul terrazzo all'ombra di un enorme abete carico di carnose
pigne verdi che penzolavano dai rami come tanti membri a testa in giù.
Quella vista se pur piangente, aveva fatto fremere i loro corpi essiccati
dalla mancanza di amore, e si misero proprio là sotto, per godere almeno
l'ombra di ciò che il loro inconscio e più intimo pensiero aveva tramutato
in oggetti del desiderio, ormai solo sognati.
Sotto quei grappoli osceni e quasi spudorati nella loro esuberanza,
cominciarono la conversazione di rito con la cara e malandata amica.
Fra un tè al gelsomino e numerose sigarette ebbe inizio il consueto
scambio di notizie: una con l'altra e con l'altra ancora alla ricerca
della più esplosiva e dirompente, in quella rappresaglia di pettegolezzi
e storie infinite.
Il resoconto dei morti batteva tutto il resto per il loro numero esorbitante
che aumentava di anno in anno, dato che il giovane Carlo, o la "treccina",
o quello con il naso a maiale: "...maialino, ricordate?!",
avevano ormai varcato da un pezzo la soglia dei settanta e quindi le
loro gesta erano alla resa dei conti.
Di quelli risposati si conosceva già tutto, era difficile trovarne di
nuovi, poi c'erano i divorziati e i malati che andavano
di pari passo, come se facessero parte della stessa categoria.
Nonostante gli argomenti, nelle loro parole c'era sempre contegno; i
sorrisi erano accennati anche quando si slanciavano in azzardati commenti
ironici o battute pungenti.
Ma ecco che nel calderone gorgogliante di fatti e persone, un nome esalò
improvviso come un folletto fra quelle fate riunite a convito.
Un nome che sapeva di primordiale e che evocava fra le donne un qualcosa
di proibito e di virile: Adamo.
"Già...Adamo...il bell'Adamo...di lui che si sa? chiese Grazia
alzando lo sguardo come se avesse rivisto qualcosa di caro imbrigliato
tra quelle fronde.
"S'è deciso a sposarsi?" incalzò Marta con un sospiro di inequivocabile
nostalgia "...e chi ha scelto fra le due sorelle in attesa...Olga
oppure Elsa?"
"Ah, ma allora non sapete proprio niente!" esordì misteriosa
l'ospite.
Le palle dei quattro occhi rotearono velocemente verso la sua bocca
come se, colpiti contemporaneamente dalla stessa stecca, si dirigessero
in buca.
"Siete totalmente all'oscuro delle ultime nuove!" rimarcò
solleticante l'amica che già si sentiva meglio,"...certo, è dall'estate
scorsa che mancate. Non è possibile che siate al corrente dei risvegli
primaverili di Adamo dopo un così logoro e ormai autunnale rapporto
a tre!"
La bomba era esplosa!
L'amica d'infanzia, ringalluzzita da una nuova energia fino ad allora
lamentata, si aggiustò meglio sul dondolo a fiori.
Sgranando gli occhi sulle bocche semichiuse delle amiche, in attesa
del cibo come uccellini, si apprestò a raccontare la novella con l'indice
sfiorante il naso arricciato, come ad annusare l'imminente profumo della
narrazione.
E questa ebbe inizio in una girandola multicolore di particolari piccanti,
fra labbra socchiuse allo stupore, sguardi strizzati ed esclamazioni
variopinte, per concludere nella scoppiettante sorpresa finale "...
ebbene, le ha lasciate per una che ha trentadue anni e dicono sia bellissima!"
Il pranzo era stato servito.
"...e loro?" chiesero come "amaro" le due signorine
per concludere.
"Ah, di loro non si sa più nulla. Si sono chiuse nella villa e
non se ne sa... niente! Sparite! Una tragedia... dopo una vita passata
a rincorrerlo così, da un giorno all'altro,...se n'è andato! L'ho saputo
poco prima che entrassi qui alla fine dell'inverno."
Le due ascoltatrici nascosero dietro il dispiacere una punta piccola,
ma soddisfacente di compiacimento: era andata male anche a loro, a Olga
ed Elsa appunto, a quelle rivali di vecchia data e si sentirono per
un po' ringiovanire.
Chi era dunque l'amato traditore?
Adamo era un compagno di gioventù che l'amica stessa aveva presentato
loro durante le vacanze estive.
Uno di quei ragazzi che nel paese affascinava le donne per i suoi capelli
fluenti e corposi e la voce pronta sempre ad accarezzare accattivante
ogni movimento timido dell'interlocutrice.
Inseguito da tutte ma abbrancato da poche elette, si diceva fosse diventato
il fidanzato fisso di due sorelle del posto soprannominate "le
dame".
Si diceva che una non sapesse dell'altra. Ma si diceva anche che sapessero
entrambe e che tutti e tre vivessero in ambiguo accordo
questo amore impossibile e scandaloso.
Gente ricca e al di sopra della moralità corrente, che si godeva la
vita e i soldi fra amore e liti furibonde nell'attesa di un matrimonio
supposto ma mai concluso.
La visita volgeva al termine.
Le ombre della sera avevano allungato le pigne a dismisura tanto che
sembravano toccare il suolo come un fuoco d'artificio che si spegne.
L'aria s'era fatta via via pungente, quasi antipatica.
Così fra mille convenevoli si salutarono con la promessa di rivedersi
d'inverno, sapendo già che non sarebbe avvenuto, come negli anni precedenti,
ma proporlo era ormai anch'essa una consuetudine quasi di buon auspicio.
Se ne andarono lievi com'erano venute dal terrazzo ancora accaldato,
lasciando una scia di buon profumo intrappolato nelle gocce di resina
lagrimate lungo il tronco del vecchio albero.
Andarono e si moltiplicarono.
Storie e storie girarono per il paese in un crescendo di notizie e di
fatti nuovi ogni volta più stuzzicanti: fughe, liti, rappacificazioni.
La vita di Adamo era un vulcano che eruttava donne, viaggi, amplessi,
e figli naturali.
Una lava ardente dentro la quale veniva fatto viaggiare a sua insaputa,
seguendo l'onda fantastica e dirompente della diceria, sulle sue funamboliche
storie d'amore.
Le tre amiche lo avevano conosciuto perché era impossibile che una donna
in paese, nativa o turista, potesse sfuggire al suo carisma; e sicuramente
avevano fatto molto di più che conoscerlo.
Il parlare della sua rigogliosa esistenza che ancora continuava come
se per lui il tempo non fosse passato, contribuiva a tenere giovani
oltre ai ricordi anche le sensazioni, facendole sentire ancora ragazze
nelle vacanze forzate della loro esistenza. Certi miti resistono al
tempo!
Così di lui si continuava a saper tutto e si continuava a raccontare.
E di loro..."le dame"... niente.
Elsa si dondolava
sulla scolorita seggiola sotto il portico, con lo sguardo avvolto nello
scialle violetto dei suoi occhi stanchi. La testa minuta, reclinata
leggermente, sembrava muoversi al ritmo della ninna nanna dei ricordi.
Olga tardava a rientrare quella sera, ma a un certo punto si udì il
cancello della villa cigolare e i tonfi sordi del bastone sul fiume
di lastre in pietra serena, lungo il prato.
"Ormai fa troppo caldo e i fiori seccano presto." disse la
donna mentre avanzava verso casa. "Iride, la fioraia, mi ha consigliato
una specie che dura tanto, si chiama..., sì, ha proprio detto i... Semprevivi!...facile
da ricordare. Hanno petali che sembrano di rafia."
Si sedette di fronte alla sorella sull'altra sedia a dondolo, spossata.
Allungò le braccia scarne e raggrinzite scostando il cartoccio di giornale
che teneva in braccio sul petto floscio, come se ci fosse avvolto un
bambino, e lo appoggiò sulla terza sedia che si trovava al centro, fra
di loro, e che leggermente oscillò sotto quel piccolo peso.
"Te ne ho portati alcuni per farteli vedere, perché tu non ti sbagli
la prossima volta. Sono coloratissimi guarda, e non hanno bisogno di
acqua per vivere... gliene ho messo un mazzo intero!", e subito
dopo puntando gli occhi in quelli della sorella e cambiando improvvisamente
tono di voce come se una belva ferita si fosse impossessata di lei,
aggiunse: "ovviamente la bellissima da quel giorno non c'è più
stata!"
Elsa raccolse quello sguardo e lo accarezzò come avrebbe fatto a un
gatto dal pelo arruffato; poi si sporse per vedere e aprire l'involucro,
dando nuovo impulso al movimento della seggiola.
"Hai fatto bene, " convenne "domani comunque andrò e
controllerò che siano come ti hanno detto... semprevivi."
Adesso le due donne e la sedia al centro dondolavano tutte e tre simultaneamente
nella luce brunita della sera.
L'estate era nel
pieno.
Frotte di vacanzieri si aggiravano per il paese sommerso da improvvisati
ciclisti tremolanti e sbandati.
Un bambino pensò che una semplice bicicletta non gli bastava più e guardandosi
intorno cercò qualcosa per trasformarla il più velocemente possibile
in un rombante motorino.
Per terra un logoro pezzo di carta bianco e nero poteva fare al caso
suo. Lo prese e accuratamente cercò di stirarlo per poterlo piegare
con più facilità.
Mentre le sue mani agivano come un ferro da stiro, lesse:
" 21 marzo 1967,...damo, scomparso improvvisamente all'amore dei......
i funerali fra pochi intimi si svolgeranno...".
... e pensare che
a settembre si sarebbe raccontato che l'eterno amante fosse addirittura
in viaggio di nozze, in un fantastico giro attorno al mondo.
All'improvviso
nelle scarpe
Si rotolò all'improvviso
nelle scarpe, indirizzando lo sguardo in un'altra direzione, e con quei
barconi ai piedi uscì da casa senza salutare nessuno, non se la sentiva.
Erano giorni ormai che navigava la vita in quel modo. Giorni di ore
naufraghe, passate a svicolare chiunque, anche gli sconosciuti, che,
solo con la loro presenza, potevano riesumare un passato in quel momento
ancora così lacerante.
Il suo olfatto non si sbagliava, la sentiva nell'aria con quell'odore
dolciastro.
Si trascinò sulla spiaggia, certo che là avrebbe trovato almeno un cane,
sbandato come lui, in cerca di un ramo secco arrivato da chissà dove.
E solo, come un bastardo rinnegato, vagava sulla battigia, cercando
di indovinare fin dove l'onda sarebbe arrivata e se quella successiva
gli avrebbe inzuppato i piedi.
Un tempo, quel gioco gli procurava la gioia della sfida; ora, era un
modo per occupare la mente che continuava a rollargli nelle scarpe.
Lei, all'inizio con il suo aroma particolare, gli aveva lambito l'anima,
proprio come quell'onda, non continuamente, ma a tratti.
Così come l'acqua del mare gli bagnava i pantaloni e l'orlo più scuro
a poco a poco saliva verso le ginocchia, nello stesso modo lei aveva
impregnato di sé la sua vita, senza che lui se ne rendesse conto.
Pensava che l'acqua si sarebbe fermata alla cintola. Nel giro di pochi
mesi invece gli era arrivata alla testa, ma non aveva più paura di affogare.
Si lasciò trasportare dalle correnti, ora tempestose, ora placide dell'oceano
amoroso.
D'un tratto però un giorno, quel maledetto giorno, l'alta marea si ritirò
e lui era rimasto là, afflosciato sulla riva e quell'ossigeno che gli
entrava violento negli occhi e nella bocca gli perforava i polmoni,
facendolo boccheggiare.
Il suo respiro si era fermato quando con freddezza gli aveva annunciato
la sua partenza per Torino.
"E' la mia vita, - scrosciava - il mio futuro, e la carriera poi
..."
Prevedeva che la distanza avrebbe inaridito il loro rapporto.
E allora capì:...che lei, proprio lei, aveva messo quell'immenso mare
di emozioni in un catino e aveva deciso di svuotarne il contenuto nel
tombino che si trovava a pochi metri da loro, e lo stava facendo in
quel momento.
Se ne stava liberando lì, accanto a lui, su quella fredda panchina del
lungomare di Forte dei Marmi.
Vide tutta la sua vita con lei, rovesciarsi in quella grata arrugginita
che i suoi occhi, improvvisamente velati, avevano cercato di mettere
a fuoco da dietro la salmastra lacrima che li inondava suo malgrado.
"Mettere a fuoco" pensava, continuando a nuotare per rimanere
a galla.
Un modo per distrarsi e non ascoltare più le sue parole, conchiglie
disabitate.
Ma il fragore dello scroscio aumentava e non riusciva a vedere più nemmeno
quelle sbarre: era un tutt'uno d'acqua e ferro.
Ora, sulla spiaggia, solo.
Un gabbiano squarciava qua e là con il suo grido tagliente il cielo
grigio uguale al mare, uguale a lui.
Ora, i pini, lontano.
Grandi ombrelli neri, si stagliavano alti dondolando mollemente.
La loro storia era cominciata proprio là sotto: nell'odore muschiato
e fresco di quelle pinete, contro i tronchi appiccicosi di resina.
Come seme di pigna, aveva volteggiato leggero nell'aria, roteando su
se stesso in una girandola di emozioni sempre più eccitanti fino a quel
giorno, in cui cadde al suolo fragorosamente, a sua insaputa, ma non
per mettere radici.
Si guardò le grosse scarpe nere ora completamente imbiancate e le sentì
pesanti come la testa.
Erano piene di sabbia, come la mente, imbottita di imprendibili grani
di ricordi ormai non più componibili in un unico e solido castello.
Cominciò a urlare come un delfino alla deriva e tirava calci alzando
folate compatte di quella materia inerte che seguendo il capriccio del
vento gli si rivoltò contro, entrandogli ancora, ancora negli occhi
e nella bocca.
La avvertì ruvida e graffiante sul viso, il dolore era sempre là.
Coprendosi la faccia cercò di scuoterla via il più possibile, poi tornò
sui suoi passi con le mani sporche in tasca.
Seguiva ora le sue orme al contrario, e come faceva da bambino cercò
di rintracciare quelle ormai cancellate dall'acqua.
Tracciandone di nuove su quella scia frammentata in attimi irrecuperabili,
fece rotta verso casa.
CLORINA
Il seno bianco e
leggermente sceso sfumava dalla camicetta sgualcita di seta rosa.
Clorina scosse la sabbia che a chiazze impolverava quella parte rimasta
in lei adolescenziale nell'acerba conformazione.
Era stata sempre orgogliosa di quei piccoli capezzoli che affioravano
da sotto i vestiti che, come gocce di melassa, le piovevano addosso.
Magra ma ben fatta non aveva mai invidiato le forme piene delle amiche.
L'esuberanza e tutta la sua bellezza esplodeva da quel corpo esile ma
fortemente sensuale.
Gambe lunghe e ben delineate, spalle larghe e ossute ma che le incorniciavano
il viso con grazia.
Le mani affilate si muovevano sempre come se stessero suonando una melodia.
La guardavano, la guardavano donne e uomini da sempre, come si guarda
un animale raro.
Lei si accorse presto di quegli sguardi che le rimanevano appiccicati
addosso come insetti sulla carta moschicida.
Ne era appagata come se la sua persona ne traesse energia vitale.
Più la guardavano e più lei era bella, lo poteva percepire e così, anche
gli altri.
Dalla Capannina provenivano i ritmi sincopati della musica latino americana.
Erano passate "Le mille bolle blu" e "Sapore di mare"
cantate dalla viva voce di Mina e di Gino Paoli.
Erano passate le lunghe ore di caldo sul lungomare ad aspettare l'arrivo
dei vip che d'estate venivano nelle ville dai prati all'inglese, disseminate
fra i pini muscosi dove d'Annunzio si era bagnato di pioggia.
Il locale più amato del Forte era ormai un ricordo stantio di voci e
di note.
Un tentativo mal riuscito di una proposta indecente: far rinascere gli
anni 60 come se si potesse clonare il tempo, le emozioni e perfino gli
odori di quello che fu un periodo di svaghi e di sogni.
La dolce vita della Versilia era passata per sempre.
Clorina allungò il braccio verso lo zainetto di pelle rimasto afflosciato
su se stesso, e tirò fuori il pacchetto delle Malboro.
Lo aprì alzando il coperchio e guardandoci dentro come a uno scrigno.
Prese uno dei tanti bastoncini gialli e bianchi, se lo portò alle labbra,
increspate da una lieve tela di rughe e ancora umide e odorose di sesso,
e lo accese cliccando sull'accendino.
Lo sguardo tuffato nelle onde a pochi metri con il pensiero di chi ancora
una volta era riuscito a ferirsi.
Lo aveva accolto ancora una volta.
Sì, ancora una volta aveva cercato nel corpo di uno sconosciuto uno
sguardo….quello sguardo.
La luna piena sbiancava tutto il paesaggio attorno.
La spiaggia deserta alle tre di notte poteva anche non essere quella
di Forte dei Marmi e lei poteva non essere lei.
Questo pensiero come un aquilone volteggiò per pochi secondi davanti
ai suoi occhi poi crollò con un tonfo nell'acqua.
Un pesce affiorò per un attimo provando ad assaggiare l'ossigeno.
Lei continuò ad aspirare quello che la mano automaticamente le offriva.
Il pollice lento sfiorava steso le labbra socchiuse che cacciavano via
il fumo.
Gli occhi accennarono un sorriso beffardo e malinconico insieme tornando
sulla spiaggia.
Lo sconosciuto accanto si era addormentato: i pantaloni calati fin sotto
il sedere e la bocca semiaperta emanava fumi d'alcool.
Chissà se si sarebbe ricordato di lei al risveglio, di lei per come
veramente era.
Clorina rivide la sua prima volta proprio su quella spiaggia.
Pantaloni tirati giù alla rinfusa….. la gonna, la sua più bella, color
glicine, messa apposta per l'occasione, lunga e annodata su un fianco.
Sotto il golfino d'angora un corpetto ricamato San Gallo, con maniche
tagliate all'americana che da bianco candido diventò poi di un incancellabile
grigio sporco.
Lo buttò via come tutto il resto.
Era il suo primo appuntamento vero: Gianni.
Lui, proprio lui, l'unico che non la guardava mai.
L'unico che riusciva a nascondere l'attrazione per quella splendida
diciassettenne.
Ma bastò un biglietto con una piccola rosa canina, sfumata rosso arancio,
e poche parole: "…aspettami, domani, dietro la Capannina alle 16.Ti
voglio."
Quel ti voglio così inaspettato l'aveva inorgoglita. Era felice.
Di ritorno da Viareggio, quel pomeriggio dopo la lezione di musica,
l'autobus ebbe un guasto per strada, persero più di un'ora.
Andò all'appuntamento ma alla spiaggia ormai non c'era più nessuno:
era settembre e cominciava a far buio presto.
Girò tutt'intorno al locale pensando che forse era ancora seduto là,
da qualche parte.
Non vide nessuno.
Si girò per tornare indietro dispiaciuta ma non delusa: il ritardo era
suo.
Lo avrebbe rivisto l'indomani, comunque.
D'improvviso una zaffata d'aria calda la avvolse e si trovò scaraventata
per terra.
Le gambe aperte, il glicine strappato oscenamente.
Sfiorì nel giro di mezz'ora.
Qualcuno poi, raccolse quella corolla calpestata.
La portarono in una clinica a Genova e lì rimase per anni.
Gianni si sposò.
Clorina non rispose mai alle lettere che lui le mandava ogni mese con
una rosellina all'interno.
Non lesse mai quelle lettere.
Raccoglieva tutto il giorno fiori. Li adagiava fra le lenzuola bianche
di un diario che le davano ogni mese i dottori, diario dove poter dar
sfogo ai pensieri che affollavano la sua mente, ma che non traboccavano
mai dalle interminabili sedute di cura.
Anni di torpore e di silenzio necessari per dimenticare.
Soffocò l'ultimo
bagliore della cicca nella sabbia fresca di quella notte estiva.
Dalla discoteca la musica andava e veniva come le onde del mare.
Le sembrò che l'universo la guardasse attraverso la luna.
Ma non c'era pupilla in quell'occhio, era solo un enorme bulbo bianco
senza vita, che non le dava più la sensazione di un tempo.
Né aveva più avvertito, da allora, la sua bellezza come se non ci fossero
più stati occhi ad ammirarla: li aveva persi tutti quella sera, nello
sguardo spento di un ubriaco qualunque.
Aveva cominciato così, quasi inconsapevolmente, a ricercare quell'ebbrezza
negli avvenenti ospiti della Capannina.
Frugava nei loro sessi alla rinfusa, ogni volta con uno diverso, ed
anche con più, nelle lunghe notti versiliesi.
Aveva quarantacinque anni ma sembrava che la sua figura si fosse cristallizzata
in una persona dall'età indefinita e giovanile.
Chiuse la lampo dei jeans con vigore sollevando il petto e trattenendo
il respiro.
Si alzò incespicando fra le gambe dell'uomo che ancora giaceva scomposto
sulla battigia.
Raccolse i sandali dai tacchi a spillo e si incamminò a fatica e barcollante
verso le luci dei tavoli all'aperto.
Non aveva ancora trovato quegli sguardi cancellati così improvvisamente
dalla sua vita.
Ma forse chissà….. uno, …uno qualunque, là dentro, avrebbe potuto restituirglieli.
Controcanto
(Che cosa penano
- o pensano - le donne dato che di loro non si sa niente.)
VIDAL
Controcanto a Woobinda
Anche a me piaceva
la pubblicità del bagnoschiuma Vidal.
E mi piaceva perché quel bianco cavallo correva libero in mezzo alla
natura.
Era libero e bello. Anch'io volevo essere libera e bella.
Il momento più bello quando a dieci anni aiutavo mia madre nello sbrigare
la casa e i miei sette fratellini era quando dovevo lavare i piatti
e tutti i loro panni.
Ogni volta pensavo che quella era la schiuma del Vidal e mi sentivo
libera e bella.
Io non ho ammazzato i miei genitori.
Non avrei avuto la forza fisica di tirare calci nei coglioni di mio
padre. Non sapevo allora nemmeno dove si trovassero i coglioni e poi
mi avrebbe fatto troppa impressione vedere il sangue. E non strillavo
se non lo comperavano tanto poteva essere tutto il mio Vidal.
Solepiatti o sapone di Marsiglia tutto era Vidal bastava vedere la schiuma
bianca ed io mi trasformavo nel bianco puledro che correva libero nei
prati.
Così quando vidi per la prima volta la bianca schiuma che usciva dal
cazzo di mio padre pensai a Vidal e sentii anche il suo profumo.
Fu allora che individuai le palle di un uomo e in seguito ogni volta
che la sborra mi riempiva la bocca o mi schizzava sulla pancia sentivo
il profumo di Vidal e il suono degli zoccoli del bianco stallone che
correva nel vento delle praterie o sulle onde del mare.
Un giorno poi provai a berlo il Vidal, ma cominciai a schiumare tanto
dalla bocca e dal naso che mi portarono in ospedale e da allora mi chiamano
Vidal.
Oggi sul lungomare di Rimini sono chiamata anche la puledra bianca perché
la zona mia è invasa dalle negre ma io resisto, e di bagnoschiuma me
ne posso comprare a litri.
Mi cercano tutti perché profumo di Vidal.
Il mio è il profumo della libertà.
PIPPICALZELUNGHE
Come mi piaceva.
Con quello stallone sotto al culo tutto il giorno.
Bellissimo, muscoloso, bianco a chiazze nere. Com'era grande.
"Pippicalzelunghe che nome, fa un po' ridere", ma io ero convinta
che la canzone dicesse "che non me fa un po' ride" e infatti
mi domandavo sempre perché doveva fare un po' ridere.
O se fa ride tanto o non se fa …ride.
Non si fa ridere un po',… no…manco per niente.
Poi da grande me l'hanno spiegato.
Me l'ha spiegato un camionista che aveva la mia stessa età all'epoca
in cui lo trasmettevano e che vedeva Pippicalzelunghe perché la sorella
strillava come un'oca se non gli facevano vedere la rossa (che poi chi
lo sapeva che era rossa, il televisore era ancora in bianco e nero!)
dalle buffe trecce all'insù.
Me l'ha spiegato mentre lo cavalcavo con grande destrezza nella cabina
letto del suo mega camion "Stallone 97".
Così si chiama e mi è rimasto impresso quel giorno. Anche perché faceva
un gran caldo e non mi è venuta molto bene, proprio con lui, Stallone
97, e ci sono rimasta un po' male ma è successo solo la prima volta.
Mi sarebbe piaciuto andare a cavallo e i miei clienti dicono che ho
un talento naturale.
Era il sogno della mia vita possederne uno ed essere libera come Pippi
senza genitori a romperti i coglioni tutti i giorni ma per fortuna di
quelli mi sono liberata scappando di casa a quindici anni.
Anche la scimmietta mi sarebbe piaciuta anche lei era un piccolo sogno.
Adesso frequento "Tarzan 69", "Stallone 97", "Falco
Selvaggio" e così via, e faccio lunghe cavalcate con loro.
Dicono sia la mia specialità.
Sentire sotto il culo quei muscoli scattanti mi fa sentire libera.
Non sono mai andata a cavallo ma penso che sia proprio così.
Certo Pippicalzelunghe è proprio un nome strano ma non mi fa comunque
ridere e poi perché calze lunghe?… non mi ricordo. Chissà se Stallone
97 mi sa spiegare anche questo. Glielo chiederò alla prossima.
Certo che oggi non li danno più certi film.
Che sognano le bimbe oggi? La mia guarda Beautiful con quel mascellone
di Ridge che cambia moglie ogni volta che cambi canale.
Non sogni certo la libertà che avresti sognato con il Signor Nelson!
Ed io quella libertà invece ce l'ho nel cuore. Me la sento nel cuore
e dentro il culo ogni volta che ci penso.
E ci penso sempre, ogni volta.
MAGNUM
"Certo"
mi ha detto "senza preservativo non si fa"
"Certo" gli ho risposto io, con il lavoro che faccio non è
possibile non usare il guanto è una questione di rispetto.
Ed io ho tanto rispetto soprattutto per lui.
Lui che è diverso dagli altri. Lui che è comparso così all'improvviso,
una faccia pulita e a cui regalo ogni volta che viene, perché viene
solo una volta al mese da un anno, il profumo dell'uomo che non deve
chiedere mai.
Un messaggio preciso ho pensato, capirà ne sono sicura.
Perché lui non dovrà chiedere mai e nemmeno lo faccio più pagare da
qualche mese a questa parte. Anche se qualcosa da allora è cambiato,
sì qualcosa è cambiato e non capisco perché.
Così è andato a comprare i preservativi quelli ritardanti per lui, usa
sempre quelli.
Io non ho bisogno di stimolanti o ritardanti. Io ormai so anticipare
o ritardare o prolungare tutto alla perfezione.
Sono anni che faccio questo mestiere e capisco al volo il cliente. Quello
che vuole. Quello che apprezza.
Ma con lui no. Con lui è diverso. Mi lascio andare e con lui godo veramente.
Chissà se l'ha capito che non faccio finta. Chissà.
"Allora vado a comprare i preservativi."
"Allora vai" gli ho detto guardandolo dritto negli occhi.
Ora tra noi era tutto chiaro.
Glielo avevo detto. C'ero riuscita. Per la prima volta in vita mia avevo
dichiarato il mio amore.
All'inizio non ero sicura. Con tutti gli uomini che si frequenta capita,
capita spesso di innamorarsi specie di quelli abituali, di credere che
esista davvero il principe azzurro che ti porta via da quello schifo
di vita.
Specialmente quando una è all'inizio e giovane e inesperta come lo ero
io. Ma poi ci si rende conto che non è quello giusto o che ha una moglie
che non lascerà mai o che è troppo giovane per legarsi.
Certo si capisce tante cose facendo questo lavoro molte di più di una
donna normale. Senti i loro racconti, le loro lamentele. Quanta tristezza
nella vita degli uomini!
Io invece adesso ero felice.
Lui aveva ascoltato in silenzio tutto quello che gli stavo dicendo.
Ed ho visto una luce nuova nei suoi occhi…che occhi!
E gli ho spiegato perché non lo facevo più pagare, perché compravo io
i preservativi (che invece faccio portare sempre ai clienti) perché
gli regalavo sempre Denim a volte il musk oppure il fresh, ma era sempre
lo stesso, lo stesso messaggio ovviamente. E perché in quell'unico giorno
in cui veniva lui non fissavo altri appuntamenti… volevo essere tutta
e solo sua.
E lui mi guardava e quello sguardo cambiava o sì che cambiava aveva
cominciato a capire. Quanto l'amavo.
Mi sono scusata ma quel giorno la mia scorta era finita e non ero scesa
per potermi preparare con tutta calma.
Lui disse." …non ti preoccupare…vado io. Non ti preoccupare. Vado."
Ed era uscito di casa, diverso, sì… decisamente …diverso.
Mi sono seduta davanti alla televisione aspettando il suo rientro.
Eravamo finalmente una coppia.
Ora lui sapeva quanto l'amavo.
Aspettavo
Davano Miseria e nobiltà quella sera, di Totò, era divertente.
Aspettavo
…lo vidi fino alla fine.
Aspettavo
Poi improvvisa la pubblicità.
Aspettavo
…come uno schianto,
Aspettavo
…lacerante.
Aspettavo
La pubblicità del Magnum,
Aspettavo
…con lui che va a prendere i preservativi.
Aspettavo
… lei che rimane sola.
Aspettavo
…in riva al mare.
Aspettavo
E una risata esplose… improvvisa… istintiva.
Aspettavo
Da allora non ho più smesso.. aspettavo... di ridere …aspettavo…e poi
mi hanno portata qui.
Stamani dottore
vede anche me diversa vero?
Certo.
Sono diversa.
Ho acceso il televisore stamani, sa mi fa tanta compagnia.
Posso parlare con Castagna o con la Gruber, ogni tanto, è una donna
che sa ascoltare.
E mentre la guardavo… la televisione non la Gruber… la guardavo in silenzio,
perché stamani non avevo voglia di parlare, hanno fatto di nuovo la
pubblicità.
Quella pubblicità.
E allora ho capito.
Ho capito tutto dottore.
Non ho più bisogno delle sue spiegazioni, finalmente ho capito.
Che cosa bella la televisione.
In un attimo ti risponde a cento domande.
Ora so che devo ancora aspettare.
Ma soprattutto perché sto aspettando.
Si è solo fermato a mangiare un gelato!
E' questione di tempo…non si preoccupi dottore… arriverà.
WONDERBRA
Oggi sono depressa.
Vorrei avere le puppe della Barale e il culo della Anna Falchi.
Mah…proviamoci 'sto reggiseno Lepel appena comprato, e guardiamoci allo
specchio.
Uhh che strazio…a malapena riempio le coppe taglia seconda ché la prima
mi vergognavo anche solo a chiederla alla commessa.
Proviamo un po' a tirare dentro la pancia…, avviciniamo stè braccia…pieghiamoci…
ecco così…noo, l'effetto non c'è… l'effetto Barale non c'è cazzo!
Bah…passiamo all'Infiore… ma che palle quest'anno sono proprio peggiorata!
Guarda quiii… un Infiore su fianchi che non esistono e un culo piatto
senza la verve che invece ha quello della Falchi che per giunta ha anche
il seno tipo Barale.
Ma come fanno ad essere così!
Faccio ore di ginnastica estenuanti.
Gite da sola in bicicletta perché le amiche, quelle! che ne avrebbero
più bisogno di me ci hanno rinunciato.
E poi pesi su pesi nei punti giusti e i risultati nndò staaanno!!!
Sì oggi sono proprio depressa. …tiè… è la seconda volta che vomito dalla
rabbia.
E chi ci si mette in costume quest'anno ? Io no di sicuro. Mi toccherà
passare l'estate con l'asciugamano sui fianchi. Ma pperché io!!! proprio
io ?! …
(voce dalla cucina)
"ALBERTO !!!"
"Siii ?!"
"ALBERTOOO!"
"COSA vuoi ??"
"Sceeendi, è pronta la cena."
"Arriiivo ………… uffa… vabbè,… Wonderbra lo provo dopo.
Chissà che la Erzigova non sia la svolta della mia vita."
CAREFREE
Asciutta e pulita
tutto il giorno.
Così dice la pubblicità.
Asciutta e pulita e tu amore mio non dovrai preoccuparti per questo.
Penserò io a tutto.
Ogni giorno mi impegnerò perché la tua personcina precisa e ordinata
così rimanga.
Ho comprato Carefree, è il migliore, lo abbiamo sempre detto.
Poi ti laverò ogni giorno con il tuo bagnoschiuma preferito e ti passerò
l'olio profumato che un mese fa abbiamo comprato insieme a Parigi, ricordi?
Che giornate!… via Pigalle… il quartiere Latino… Montmartre …finalmente
libere in una città splendida, dove tutto acquista un particolare significato.
Non come a Roma dove anche l'ombra viene inesorabilmente schiacciata
dal preteso sole della grande metropoli con un idiota di vicino di casa
che continua a guardarti con occhi da… "te lo farei vedere io che
cos'è un uomo!"
Non c'è rispetto. Non c'è proprio rispetto.
Ma tu almeno tu, non dovevi adeguarti.
Questo no, non me lo dovevi fare.
"Sai, dobbiamo evitare di dare nell'occhio… sai, in ufficio mi
hanno fatto pesare la cosa…"
"Più contegno, signorina, più contegno, non si faccia venire a
prendere tutti i giorni, più contegno!"
Così ti ha detto quel finocchio del tuo capufficio, chissà che non si
sia preso una cotta per te il cretino!
E tu…"per un po' è meglio vivere ognuno a casa sua".
Proprio in questo palazzo e per giunta, su questo pianerottolo doveva
venire ad abitare la mamma del tuo stronzo di capufficio, quel bigotto
rotto in culo che non è altro.
Se non fosse che mi farebbe vomitare glielo farei io un bello scherzetto.
Ma lasciamolo perdere lui e quella stronza della madre.
In fondo sono solo merde e puzzano, solo questo faranno in tutta la
loro porca vita.
Ma noi, no.
NOI… siamo un'altra cosa!
E tu.
TU tesorino …TU, non dovevi umiliarmi in quel modo.
Tu non devi ridurmi ad un'ombra nella tua vita.
Io sono stata il tuo sole fino ad oggi, ho scaldato le tue giornate
e le tue notti con tutto l'amore che potevo….
(Voce sul pianerottolo)
DRIIN….DRIIIN…mamma
sono io…
……..lo senti il
pedofilo? È venuto a trovare la mamma! Povero piccolo è appena uscito
dall'ufficio….
Mamma ciao, scusa
un attimo…vado un momento qui accanto, a casa di Fides.
Vado a sentire perchè non è venuta in ufficio… sono giorni ormai, è
strano… non risponde al telefono e lei non ha chiamato per avvertire…
….vieni… vieni…
tanto non ti apro, non ti faccio entrare nella nostra vita brutto stronzo.
DRIIN…DRIIN…Fides…apri…sono
io…sono Giovanni mi senti?!
Certo che no, non
ti ascolterà più…
Ora poi… è l'ora del bagno… lo devo preparare per la cena il mio amore,
fa sempre la doccia dopo l'ufficio.
Allora… biancheria pulita sullo sgabello, musica new age per rilassarsi
e poi le tue piccole manie, sei ossessionata dalla biancheria sporca
non la puoi vedere.
Certo le perdite sono aumentate e poi hai anche uno strano odore malgrado
ti lavi come facevo prima.
Forse devo farlo più spesso, in effetti ad agosto fa molto caldo…ddio
come sei ghiacciata… e poi, magari devo comprarti un anti odorante di
quelli a lunga durata.
Domani esco e vado a fare la spesa, tanto… tu mi aspetti qui… vero amore?
Eccolo il tuo amatissimo e profumato Carefree… per noi donne è proprio
una manna dal cielo.
Sono perfettamente d'accordo con te, io posso comprenderti purtroppo.
Un uomo non ha di questi problemi di perdite e cose varie ma… consoliamoci…
se lo fossi stata non ti avrei mai conosciuta.
Avrò cura di te piccola mia… per sempre.
(DA ascoltare al
suono di:"La petite fille de la mer"from the album:l'apocalypse
des animaux..)
LA FAMIGLIA IN T.V.
Confusione televisiva
Io a canale 5 non
ci andrei mai.
Io lo scherzo al programma di Castagna non lo farei mai.
Io ci porterei una storia vera, ci porterei.
Io a Castagna non lo dico ma mio marito la troia ce l'ha davvero e ci
va a letto ogni volta che vuole.
Se la porta nella casa al mare quella puttana.
Ogni volta che ha un viaggio di lavoro si guadagna anche delle scopate
incredibili sul lungomare romano perché è lì che abbiamo la nostra casa
estiva.
Se portassi mio marito da Castagna gli verrebbe un coccolone a lui e
a quella baldracca della moglie del suo migliore amico, a Stranamore
li faccio andare in onda, vedreste che facce!
Lui pensa che io creda alle favole e ai fiori quando me li porta.
Ma perché non me li porta anche quando va a Torvaianica?
E perché trovo sempre dei capelli biondi quando scopo nella casa al
mare.
Io non ci scopo più da tempo nella casa al mare, e una sera di queste
quasi quasi telefono a Castagna e gli faccio portare la troupe alla
villa e lo voglio proprio vedere quando saltano fuori da dietro le pareti
e inquadrano la sua faccia porca e quella maiala della sua amica.
Lì su canale 5 a Scherzi a parte.
Tutti lo devono sapere altro che scherzo, tutto vero tutto assolutamente
vero!
Sì telefono, telefono prima che tolgano il palinsesto a Castagna, con
quegli occhi azzurri e quei riccioli morbidi.
Forse potrei farglielo io uno scherzo se Castagna ci stesse, io ci starei
di sicuro!
Nella camera da letto al mare io con Castagna.
Ecco di chi sono i capelli biondi potrebbe controbattere il cornuto,
già ma lui non scopa mai, come fa a vedere se ci sono dei capelli biondi!
Chissà… chissà se Castagna accetterebbe…
MULINO BIANCO
Io, guardo sempre
la pubblicità dei biscotti e delle merendine perché sono le pubblicità
più belle, sono quelle che ti fanno sognare.
C'è sempre una bella cucina sicuramente modello Cuccarini, non lo dicono
perché altrimenti sarebbe una pubblicità nella pubblicità, ma di sicuro
è quella che tutti gli italiani amano perché anch'io me ne innamoro
ogni volta che la vedo.
E' sempre piena di luce, con oggetti e fiori come su una rivista alla
moda, ordinata e spaziosa e la famiglia si sveglia sempre tutta insieme.
E scendono sicuramente da un altro piano, che la casa è bella anche
quella, grande e a due piani.
Lei è in vestaglia anzi no, sempre in camicia da notte, è bella da sogno,
e la tavola è già pronta, apparecchiata perfettamente e i bambini sono
allegri e il marito, bello anche lui, ti fa pensare a notti indimenticabili,
è sorridente e tutti mangiano insieme ridendo e scherzando.
Tutte le volte mi incanto e la gioia mi riempie il cuore.
Quando la telecamera poi inquadra l'esterno con quel giardino verde
e addirittura la pala del mulino beh, mi vengono le lacrime agli occhi.
Io vivo in uno scantinato a Roma ma qua, non lo chiamano così, lo chiamano
seminterrato perché solo in parte è sotto terra, infatti le finestre
sono ad altezza marciapiede.
Quando entrai la padrona mi disse che era luminosissimo e questo, effettivamente,
c'era scritto sull'annuncio di Portaportese…… "Seminterrato luminosissimo"
è per questo che lo scelsi, sugli altri mica c'era quella magnifica
parolina.
Solo che la luminosità cambia se sei ad altezza scarico macchine.
Ma non ci si poteva permettere altro.
Accettammo.
E da allora ho cominciato a sognare la pubblicità del Mulino Bianco.
Io non mi alzo mai con la mia famiglia, sono sempre la prima.
Faccio colazione da sola, guardando l'unico spiraglio di sole polveroso
che entra fra le gambe di passaggio di quelli che si svegliano presto
come me.
In effetti a quell'ora c'è il sole, ma alle sei di mattina e solo d'estate.
Poi c'è tanto caldo o tanto freddo.
I miei bambini litigano sempre a colazione, e mio marito poi, in canottiera
e mutande, a malapena sveglio, non saluta nemmeno, sbadiglia, si beve
il caffè ed esce fino all'ora di pranzo.
Questo la domenica, ché gli altri giorni lavora al mercato e prende
il caffè con gli amici di banco al bar della Iole……la odio quella bionda
tinta e sfatta!
Sono contenta che ci sia la pubblicità.
Per me non è odiosa anzi, mi fa star bene.
Se non ci fosse sarei più triste perché non potrei sognare anch'io una
famiglia così, in un posto così.
Se non ci fosse la pubblicità in questo schifo di film che è la mia
vita come potrei andare avanti.
Abolirla!?
Non ci penso proprio, è l'unica realtà bella che mi rimane.
ED ORA…LA PUBBLICITA'
Il genio della casa
Il marito te le
bacia quelle mani dopo che con Svelto hai lavato i piatti e forse chissà
baciandole pensa alle seghe vellutate che ne verranno fuori.
Il pavimento splende e tu tutta felice, truccata e ben vestita esci
di casa e poi rientri, e tuo marito rientrando pure lui a casa dall'ufficio,
sorride perché è tutto così splendente e viene accecato da quel pavimento
che brilla come un diamante.
E da dove sei rientrata? Da una festa con le amiche, da teatro dal cinema?
Ma no! da fare la spesa ovviamente, perché hai guadagnato tempo con
Mastrolindo per andare a fare la spesa!
E così hai la possibilità di girare di più e risparmiare andando al
Sidis dove i biscotti li fanno 10 lire meno che alla Spesa e alla Standa
dove la carne è in offerta e alla Coop dove i succhi di frutta costano
meno che da Topdì dove però la carta igienica la trovi a tre veli anziché
due, a cento lire in meno.
E tu genio della casa, hai così risparmiato.
I tacchi delle scarpe sono da rifare, le braccia pure, forse hai speso
ventimila per la benzina e ti sei incazzata con il posteggiatore abusivo
di turno, a cui hai dovuto mollare duemila lire su specifica richiesta
perché oggi le offerte non si fanno più, nemmeno in chiesa, ma si ordinano,
però hai fatto una spesa oculata.
Ma torniamo a te!
Tutta in tiro passi Vaporello aspettando gli amici che si meravigliano
di come la casa sia uno specchio, perché di solito è un merdaio indicibile
quella casa schifosa.
E tu li fai sedere al tavolo e porti quello che tuo marito ha preparato
cinque minuti prima che arrivassero con il forno sforna tutto: pizzette,
tartine, torte in crosta che verranno elogiate ampiamente perché di
solito quando cucini tu donna, fai della merda.
Sempre e solo la solita merda senza fantasia, e mettendoci per giunta
un pomeriggio intero e sporcando decine di pentole e piatti.
Ma eccola è lei, che alla fine della tua esilarante giornata da merdaccia
ti risolleverà il morale.
Perché te hai scelto. Perché te hai lei, hai Candy.
E pensi già alla mattina dopo, quando ti alzerai felice perché comincerai
la giornata a pulire il cesso con Viacal.
Quel bagno pieno di incrostazioni da far schifo anche al più lercio
dei bagni turchi.
E così dicevo, pulirai il tuo schifosissimo bagno e poi ti comparirà
l'omino dalla finestra o attraverso la porta come se fosse lui il padrone
di casa, e tu dirai, felice di questa visita inaspettata, con voce soave
"…è lei…" e noi penseremo "ecco che si fa pure l'amante
la troia".
E lui ti prenderà per mano e invece di farti saltare da dio sul letto,
come non fa più tuo marito da tempo, perché tutte le sere si appaga
con il cibo pensando meglio stò tronco di gelato Algida che la fica
sudata di mia moglie, ti fa saltare dentro la tovaglia e ti fa notare
quante macchie ci sono e che i tuoi amici avranno sicuramente notato
perché non hai usato Dash.
E continua a illustrarti i prodigi che può fare quel sapone senza minimamente
notare che pezzo di figa sei ancora, se poco poco ti mettessi in lingerie.
No, non ti vede ma ti chiede un pezzo di torta quella allo yogurt, ovviamente!
Ma te la vogliamo far finire questa giornata!?
Ma sì dai, anche un genio ha bisogno di riposo ogni tanto… e allora
beccati stà camomilla, Sogni d'oro naturalmente, che ne hai proprio
bisogno.
TAMPAX
Facile da usare.
Facile un corno.
Ti devi mettere lì, a gambe aperte e piegate, cercando di centrare e
poi, infilalo bene, altrimenti ti senti questo coso su e giù tutto il
giorno, almeno facesse godere… un fastidio unico, come le mutande piccole
sempre nel culo.
E poi sto male. Ma perché alla televisione ti fanno vedere queste ragazze
tutte sorridenti che vanno magari in bicicletta quando io sto male da
cani!
Due Sinflex da 500 almeno i primi due giorni se tutto va bene, occhiaie
tipo fanale Station Wagon e loro invece si lanciano con il paracadute.
Ed io, dio che palle! altro che gita in bicicletta in quei giorni, perché
così si chiamano quei cazzo di giorni da giro di utero a trecentosessantacinque
gradi al minuto, e poi ti dicono che sei isterica!
Ma perché ogni tanto non facciamo a cambio e provate voi, voi con i
vostri bei coglioni asciutti! Forse certe stronzate non le pensereste
nemmeno più.
E non sottovalutate le perdite, quelle di tutti i giorni, come se avessimo
sempre queste perenni perdite non ben definite e incontrollabili, e
tutti, tutti i santi giorni!
Come se questi fossero i nostri problemi esistenziali.
Ma delle nostre DIARREE MENTALI parla mai nessuno?!
Per le VOMITATE che ci facciamo ogni giorno dopo esserci bevuta questo
schifo di vita che a volte ci viene fatta scolare a forza, avete un
rimedio da offrirci?
No.
Perché solo delle cagate e delle pisciate dei nostri bambini parlate.
Perché dopo le mestruazioni sono quelli i problemi più grandi.
Le cagate puzzolenti e le alluvionali pisciate dei nostri mocciosi e
…dagliela di nuovo con i pannoloni!
Peccato che non hanno ancora inventato gli assorbenti interni per il
sederino e il pisellino dei nostri bambini, chissà potrebbe essere una
novità non da poco nella nostra squallida vita e cambiarcela …anche!
CAMBIO DI PUBBLICITA'
Ultimamente nelle
pubblicità di prodotti per le donne, non ci sono più le donne.
Adesso ci hanno messo gli uomini.
Ma non gli uomini uomini. Ma gli uomini di oggi che non sanno più se
sono uomini o non lo sono.
E noi donne non si capisce che cosa vogliono da noi.
Uno lava i piatti. L'altro gioca con il pupo. Un altro stura il lavandino
dai mille schifosissimi ominidi che puzzano terribilmente.
E' un omino secco, secco, una mezza sega che solo uno così, evidentemente
per loro, potrebbe stare in casa a sturare i lavandini!
E anche gli altri sono tutte mezze seghe.
Mai si vede un bel figaccione muscoloso che tira a lucido il pavimento.
L'unico mega macho che ci viene concesso è un imbecille ovviamente,
che con tutte le segretarie lì davanti che si sbrodolano solo a guardarlo
lui, a che pensa?
Ma a farsi una lattina di Coca Cola… naturalmente!
Hanno tutti gli occhiali e sono pure pelati. OK che ora va di moda,
ma una chioma fluente alla Raz Degan ogni tanto fa sempre piacere!
Senza contare che sono pure un poco effeminati.
Ma che razza di messaggio vogliono far passare?
Non mi sembra giusto!
Mica per noi donne, che si scompare dall'immaginario pubblicitario maschile.
Ma per loro, le mezze seghe, o quelli più di qua che di là, perché anche
loro andando avanti così saranno ghettizzati alla pulitura dei cessi
e delle cucine.
Perlomeno noi eravamo la tradizione.
E se ora se ne comincia un po' a parlare di omosessuali, una volta che
saranno messi lì davanti a tutti, con i loro problemi di emorroidi e
di pasta da scegliere per la cena alternativa, chi li prenderà più sul
serio?
Gay palesi e non RIBELLATEVI!
O finirete come noi.
Noi con i tampax e voi con l'hatù super protettivo, finirete così finirete.
ASCOLTATEMI chi vi parla è una donna.
|