Mario Bellina

pur essendo nato a Palermo nel 1979, ormai da quattro anni studio Comunicazione a Bologna (ma tra qualche mese mi laureo). Ho scritto varie cose semplicemente per il piacere di farlo o perché mi sembrava il modo più opportuno per esternare certi pensieri e certe sensazioni. Da poco mi sono dato al fumetto, provando a tramutare le idee in disegni e provando un grandissimo interesse nel vedere le mie idee tinteggiate da amici e da essi trasformate. Lo scritto che voglio mostro in questi spazi è un breve monologo teatrale essenziale e, perché no, incompleto. Vorrei lo leggeste perché sono contento di averlo scritto pur se dimentico sempre di averlo fatto. La mia email è spaziomario@tin.it per tutti coloro che vogliano contattarmi.

Un conte di poco conto!

La storia tragicomica di un nobile naufragato in sala da pranzo

 

Stanza da pranzo nobiliare sfarzosa e piena di mobilia. Vi sono librerie e credenze e una grande tavola al centro della stanza in cui è stata consumata da poco una ricca cena.

Entra un uomo elegantemente vestito, con un sigaro in bocca. Spegne il sigaro in un posacenere e  si siede sul divano ridendo. Mentre ride si guarda attorno e comincia ad incupirsi.

 

Adesso ve ne siete andati anche voi ultimi amici ed io sono rimasto solo in questa enorme villa a parlare al vuoto… sì, a parlare al vuoto.

Le persone sane di mente non dovrebbero parlare a voce alta senza nessuno ad ascoltarle ma a questo punto non mi rimane altro. Nessun “amico” ascolta più le mie parole. Che sdegno che sarebbe rivolgere il discorso verso un nobile in decadenza! Allora preferisco parlare da solo. Preferisco dialogare con la mia casa, con i miei mobili, con i miei libri, con le cose con cui sono cresciuto.

 

I libri sì!

 

Si alza e va verso la libreria più grande.

 

Vi prego raccontatemi le vostre storie! Vi prego, vi sto ascoltando!

 

Prende un libro in mano e se lo pone all’orecchio.

 

Parlami! Racconta ciò che in te è scritto!

 

Silenzio.

 

Rispondimi!

 

Silenzio ancora.

Prende altri libri e se li pone all’orecchio ad uno ad uno con fare nervoso.

 

Maledetti! Nemmeno voi mi volete parlare. Voi che siete latori di storie, non ascoltate le preghiere di quest’uomo!

E voi quadri…

 

Indica alcuni quadri di antenati appesi alle pareti.

 

Voi, illustre zio! E voi, nonna! Parlatemi voi che siete effigi reali. Vi scongiuro! Non abbandonatemi voi che mi siete progenitori! Non lasciatemi in questa vuota desolazione dell'anima!

 

Silenzio.

 

Vedo che anche per voi non esisto più! Sono il discendente ultimo di una casata che si è disfatta e impoverita. Ho perso anche al vostro cospetto il blasone?

 

 

Isterico

 

Che sia colpa del nasone?

Come quel Cirano della tradizione?

Oppure di cosa?

 

Non mi reputate degno di voi, nobili mobilie, perché non ho più rendita e vivo lavorando? Un professore di lettere classiche non è degno di essere parte della nobile casata? Dovrei morire per voi perché non posso vendervi per clausola contrattuale? Dovrei morire di fame nel baldacchino? Come un tacchino?

 

Ma io vi odio tutti, mobili nobili!

Voi che mi fate chiedere e domandare. A me che sono il vostro proprietario. Io che vi sono schiavo.

Vi odio!

 

Rompe qualcosa qua e là.

 

Io odio il mio essere conte.

Odio questi mobili, odio questi libri e voi cari antenati dei miei stivali,  e odio tutte quelle amicizie alte a cui mi avete legato, tutti figli di nobili… di stronzi che vengono a scroccarmi la cena soltanto per guardare la casa blasonata rimasta nelle mani di un pezzente.

 

Grazie tante! Grazie a tutti voi gattopardi! Ma anch’io ho questo sangue blu nelle vene, il vostro stesso… anche se più che blu, il mio è violetto, colpa del rosso plebeo con cui vuole mischiarsi. Io sono il “mattopardo”, ecco cosa sono.

E da matto già mi comporto, in questo momento, stando così a parlare con voi, oggetti virtuosi o da solo.

 

Pausa. Respira affannato.

 

Ma voglio essere ancora più matto, matto come un gatto!

 

Miagola e si mette carponi a fare il gatto.

 

O come un ratto…

 

Adesso squittisce.

 

O come tutti e due, schizofrenico: gatto e ratto… mi acchiappo!

 

Miagolando e squittendo si graffia le mani e si attorciglia su se stesso tentando di prendersi e di liberarsi nello stesso tempo.

 

Eccovi il mio titolo nobiliare. Ve lo regalo per non rimanere a vita come voi, immobili, fissi oggetti impolverati in una casa enorme. Così vi ricompenso per la solitudine che mi avete donato e per l’infelicità! La solitudine e l’infelicità (inizia a piangere). Solitudine e infelicità! Solitudine… 

 

Irato.

 

La solitudine che mi avete dato, cari “amici”, io la distruggo!

Non la voglio e, se non riesco a liberarmene, farò in modo che vi si leghi addosso! Proprio questo farò!

 

Solo e disperato. Chi è solo e disperato? Chi oltre me?

 

Pensa.

 

Colui che è solo e disperato per antonomasia. Ci sono! Il naufrago è solo e disperato. Un naufrago perso nell’oceano, senza viveri e senza speranza di sopravvivenza.

Così adesso mi sento io e così mi trasformerò adesso, in questo mare immobile.

 

Prima di tutto devo costruire una zattera. Mi serve come appiglio affinché la speranza di salvezza dalla solitudine e dalla morte non mi abbandoni mai. Non devo essere rassegnato ma disperato che è ben più terribile poiché chi si rassegna accetta il dolore come ineluttabile e anzi potrebbe anche desiderarlo come ultimo rimedio alla sofferenza. Chi si dispera invece è destinato a soffrire in maniera sempre più grande mentre il supporto che lo tiene ancora in vita si disgrega sotto il suo corpo.

 

Tu, tavolo, sarai la mia imbarcazione!

 

Mette sottosopra il tavolo e tutto quello che vi stava sopra finisce per terra. Ruzzolano giù anche delle mele e altri frutti. Poi strappa tre piedi al tavolo e, salito sulla neo-zattera,  si rivolge verso il piede rimasto per parlargli.

 

Fermo qui tu! Sarai l’asta per il mio vessillo nobiliare!

 

Va a prendere un quadro dalla parete. Vi è dipinto sopra lo stemma della sua casata e, strappata la tela del dipinto dalla cornice, lo inchioda al piede del tavolo con una puntina da disegno che prende in un cassetto che sta sotto la superficie del tavolo capovolto.

 

Così va bene! Cosa mi manca adesso? Ho la zattera, ho il mare. Ho tutto, mi sembra, ma qualcosa non torna. Ma sì! È il mare! Sono i flutti! Non possono rimanere immobili! Un mare che si rispetti deve essere mosso e pieno di sorprese!

 

Va verso la grande libreria e la spinge per terra  con tutti i libri. Il mobile si spacca in mille schizzi di legno e i libri finiscono ovunque sopra e ai lati della “zattera”.

 

Che mare interessante mi sto costruendo!

 

Getta per terra altri mobili e oggetti!

 

Che beltà… Oh, ma sono fra i flutti! Che incosciente!

 

Salta d’un balzo sulla zattera e, facendo ciò, prende un pezzo di legno lungo da terra e lo porta con sé su questa.

 

Ho pure un remo. Sono pronto ad andare.

 

Inizia a remare fischiettando e sorridendo ma poi ci ripensa.

 

Ma che sto facendo? Sono un naufrago disperato e fischietto contento come se fossi al lago in canoa? Devo disperarmi! Devo essere me stesso e non un simulacro.

 

Piange

 

Ahimè, ahimè che destino terribile! Solo e senza cibo, sono rimasto l’unico della mia famiglia. Nel naufragio sono morti i miei genitori ed i miei fratelli e non ho mogli né figli ancora…

Povero me, senza speranza di vita e senza navi in vista. Forse potrò mangiare il legno di questo mio appoggio per saziarmi e potrò bere delle mie urine come ormai è uso fare nei paesi civili per motivi di principio. Ah, ma adesso che mi sovviene, potrei pure pescare per sopravvivere e se non riuscissi a prendere alcuna preda avrei sempre la possibilità di mangiare i miei vestiti che mi sono d’impaccio.

 

Sta un po’ a pensare.

Si guarda i vestiti.

 

Oh, che idiota!

Un naufrago che si rispetti non può mica essere così lindo e così pettinato e ben vestito. Ho dimenticato di preparare la mia persona fisica all’evento. Innanzi tutto via i vestiti!

 

Si strappa giacca e pantaloni e rimane con frammenti di questi ultimi e una camicia sporca di vino.

Osserva la macchia.

 

Guarda che macchia rossa sulla camicia… capita proprio a fagiolo. Un po’ di sangue non guasta mai in questi casi e ci vorrebbe anche qualche livido…

 

Si sbatte il remo improvvisato sulla fronte con violenza e  gli viene fuori del sangue dal naso.

 

Adesso sì che sono un naufrago perfetto. Un naufrago marino in una stanza di un palazzo nobiliare ma naufrago senza dubbio. Naufrago della vita cosiddetta “normale” per eccessiva inadattabilità di tutto ciò che ho attorno alla mia persona.

“Naufrago di questa vita puzzolente che mi lascia senza niente…”. Che rima eccelsa ho fatto! “E tutto questo per voi antenati e oggetti blasonati… quanta tristezza mi siete costati…”. Un'altra rima, avrei potuto fare il poeta invece del professore. Dopotutto un poeta è nobile d’animo e può esserlo anche di stirpe; un professore né l’uno né l’altro.

 

Torna a fare il naufrago del mare.

 

Me derelitto, sperduto in questo mare privo di conforto! Tutto mi manca e non so come salvarmi. Solo sono e solo il senno mi rimane che è l’unica cosa che darei via volentieri. Almeno la pazzia mi sarebbe compagna e mi renderebbe meno amara questa coppa. Vorrei che fosse la follia ad essermi accanto in questi ultimi momenti mentre le onde combattono contro la mia volontà di governare la zattera e piango questa sorte. Vorrei almeno qualcuno con cui parlare un po’ prima di spirare, qualcuno che mi spieghi perché muoio e che mi conforti. Qualcuno accanto a illustrarmi con parole convincenti perché ho vissuto.

 

Montaigne lodava la solitudine, diceva che l’uomo doveva contentarsi di se stesso e che ogni altro era un affanno e un peso. Era forse pazzo anch’egli di quella follia benevola di cui parla Erasmo, a causa della quale ogni afflizione è snaturata in dono? O sono io che invoco la follia già pazzo di quel bene che chiedo e che in me porta solo male?

Qualcuno risponda! Chi ha il coraggio di sciogliere i miei dubbi?

 

Urla.

 

Ancora nessuno risponde?

 

Silenzio.

 

Mare, siamo soli io e te. So bene che non hai colpa per le tue colpe, tu che hai distrutto la mia nave solida e adesso aspetti per finirmi.

 

Guarda un angolo della stanza.

 

Che onde sono quelle? Aiuto! Aiuto!

 

Si aggrappa alla zattera urlando.

 

Non ancora! Non ancora! Fammi comprendere ciò che è incomprensibile! Non ancora!

 

Poi sembra calmarsi e si risiede affannato.

 

Sono passate.

 

Ma cosa vedo lì? Forse non sono proprio solo in queste acque.

 

Indica l’ornamento a forma di delfino di un mobile.

 

Un delfino! È un delfino quello! Delfino! ehi! vieni qui... vieni delfino!

I delfini sono famosi per aver portato a riva tanti naufraghi. Vieni delfino, sii mio amico e ridammi alla vita!

 

Sta immobile con le braccia tese verso il delfino. In silenzio.

 

Mi snobba anche lui.

Delfino! Anche tu snobbi un nobile decaduto? Anche per te non valgo nulla?

 

Esce dal perimetro del tavolo/zattera e va a prendere il delfino ma non riesce a staccarlo dal luogo cui è attaccato.

 

È così oggetto. Sei così pieno di te da non aiutarmi nemmeno in questa finzione, quando sono in punto di morte su una zattera senza nessuno!

 

Ritorna alla zattera.

 

Nemmeno tu mi degni di uno sguardo! Sei una creatura atroce di questo altero mare atroce! Anche per te morirò, io che sono stato educato al “mare vestrum” anzi al mare “nostrum” e per questo rimango in bilico su un legno fradicio!

 

Si abbraccia, gemendo, alla gamba del tavolo. Poi si accorge di star stringendo il proprio vessillo e si allontana di scatto.

 

Io ti abbraccio maledetto vessillo. A te che sei la causa della mia solitudine, a te che mi guardi fiero e rimani immoto mentre gli uomini si sgretolano innanzi. Piangi anche tu la mia morte piangi l'ultimo discendente del tuo casato che finisce in un mare di nulla la sua vita! Perché la mia scomparsa sarà la tua vacuità e rimarrai ricordo che sfiorisce.

 

Si calma e si siede a remare in silenzio. Si sente il rumore del mare.

La finestra della stanza si apre di scatto con un botto!

 

Ah, le onde, i venti!!!

Mare, perché vuoi uccidermi? Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Mi levi da questo fortunale! Qualcuno mi aiuti!

 

Più calmo.

 

Ma chi voglio che mi aiuti, sperduto in queste acque senza cognizione della mia posizione. Non vi è più neppure la servitù in casa. Sono partiti quando non potei più pagarli. E mi rubarono l’onore per onestà. Squali!

Quanto avrei voluto che i domestici non fossero andati via! Vi avrei voluto al mio fianco nella povertà e nell’indigenza. Forse voi vi sareste arricchiti. Sareste potuti rimane al mio servizio rubandomi l’argenteria e la mobilia, non me ne sarei neppure accorto e comunque non vi avrei rimproverato per questo. Ma voi avete preferito allontanarvi per altre correnti, alla caccia di altri pesci… di spigole, le regine dei mari e di nobili pescispada.

Maledetti pescecani buoni! Avreste potuto divorarmi a pezzi, che per me non sarebbe stato doloroso avervi attorno ladri, e invece, dandomi la grazia, mi avete condannato alla morte d’inedia. Fra libri che diventano onde e mobili che turbinano come venti.

Corto Maltese incontrò un tempo uno squalo buono, accompagnatore di uomini, un amico dei selvaggi e come Pratt anche Buzzati parlò un tempo di un Colombre, il pesce terribile che voleva rendere ricco l’uomo ma che vecchio e sfinito lo incontrò soltanto alla fine del viaggio. Avessi avuto io una servitù avida, magari mi avrebbe ucciso nella notte quando ancora qualcuno avrebbe pianto la mia morte, quando qualcuno sarebbe venuto dietro alla mia bara al cimitero. Ma gli squali buoni mi hanno graziato e mi hanno lasciato nel vuoto vivere.

 

Come se si risvegliasse d’improvviso dal discorso.

 

Ma devo pur procurarmi il cibo! Devo pur mangiare per Bacco e gli altri dei e vedo pochissimi pesci attorno!

 

Salta giù dalla zattera e fa cadere a terra altri mobili che si sfasciano distribuendo sul pavimento tutto ciò che contenevano. Fra queste cose vi è dell’uva e delle castagne col riccio che cadono poco distante dall’imbarcazione.

Poi risale sul tavolo.

 

Proverò a pescare col mio remo vediamo cosa riuscirò a tirare su!

 

Inizia a dare colpi di qua e di là cercando di attirare a sé più cose possibili. Porta così sul tavolo delle mele e dei libri e le castagne con il riccio.

 

Ah che fortunato sono! Quanto ben di Dio ho pescato con il mio remo!

 

Prende in mano le mele.

 

Questi non so come si chiamano ma devono essere buoni.

 

 Alza in mano un libro e indica con la mano lo spigolo della copertina.

 

Queste sono spigole.

 

Trova un paio di occhiali e li indossa.

 

Questa è un occhiata!

 

Toglie gli occhiali e prende le castagne ma si punge e le getta lontano.

 

Quelli erano scorfani! Mi sono punto sulla loro spina velenosa, maledizione!

 

Si succhia il sangue dal dito e comincia a mangiare le mele.

 

Come sono buoni! Buonissimi!

 

Si accorge che un libro è aperto accanto al tavolo. Si lancia per prenderlo.

 

Ecco! Sei mio!

Ma cos’è? Un libro! Un libro di biologia, mi sembra. Accidenti! Sì, lo riconosco! È uguale a quello che facevo usare io ai miei alunni. È il migliore per studiare gli esseri degli abissi!

Vediamo un po’!

 

Sfoglia il libro.

 

…Scilla e Cariddi… l’Idra… le sirene… i centauri…

 

Si guarda attorno. Sul muro vi sono dei quadri appesi. In uno è rappresentata Medusa che allunga i suoi capelli/serpenti verso un unicorno. In un altro vi è una sirena.

 

Mmm…

 

Indica il primo quadro.

 

Lì… Quel che vedo è incredibile! Senza questo libro non avrei mai riconosciuto uno spettacolo simile. In lontananza vedo una medusa orrenda e ammaliante. È enorme e viscida e sembra minacciare… minacciare… non sbaglio, è proprio lui… sta minacciando un narvalo.

Che spettacolo! Non pensavo che avrei mai visto una cosa del genere! Quella medusa così grande pronta ad attaccare, a ghermire un narvalo, un cetaceo.  Non è intimidita neppure dal suo lungo dente né dal colore bianco della sua pelle. Bianco… che a memoria d’uomo, tranne rari casi, quando si parla di balena bianca si pensa subito a Moby Dick.

 

Pausa. Rimane incantato a guardare poi si volta verso l’altro quadro.

 

E lì, dall’altra parte, che fortuna in questa mia sfortuna…

 

Guarda la sirena.

 

 Quello è un lamantino! Ma che ci fa così lontano dalla costa, in questo mare profondo, un essere così dolce e pacifico. Un lamantino, che spesso i marinai scambiano, invaghiti di sogni, per sirene… per quell’aspetto dolce e per il seno antropomorfo, sul petto, nel quale adagia i piccoli e magari anche qualche marinaio. Anch’io vorrei assopirmi su quel corpo grosso, su quella Venere classica per addormentarmi fra i flutti, ma resisterò ancora. Resisterò al dolce richiamo della morte stretto all’albero della zattera imbavagliato del mio vessillo.

 

Si abbraccia al legno e morde il suo stemma. Tutto rimane immobile.

Poi lancia sopra i quadri qualcosa ed essi cadono per terra.

Urla.

 

Animali! Miti di un passato che non è più accetto e che deve morire affinché io sopravviva!

 

Sta a guardare il pubblico.

 

Non ho più la forza per parlare da solo

 

Comincia a singhiozzare.

 

Ho bisogno che qualcuno arrivi. Non voglio più discutere con gli elementi ma che qualcuno domandi e altri rispondano… ed io possa parlare come a uomo tra uomini si addice.

 

Si sdraia in silenzio a guardare il cielo e poi intona un canto.

 

Questa è la ballata del solitario

che si accontenterebbe per compagnia

persino di un dromedario

 

Questa è una ballata triste

che fa piangere uomini donne e bambini

singoli e coppie miste

 

Un naufrago della vita vaga solo

in mare per la strada fra le nuvole

senza alcun tesoro

 

Cerca qualcuno con cui parlare

qualcuno che lo capisca…

 

Trova solamente chi gli spara a vista…

 

Comincia a parlare lentamente senza muoversi dalla posizione di prima.

 

Che malinconia che mi prende in certi momenti… sarà questa stanza piena di ricordi vuoti o questa stanza vuota di ricordi pieni…

 

Mi sento veramente stanchissimo adesso. Forse il mare mi vuole per sé, forse è l’ora di cedere alla tristezza. Il tempo di morire…

 

Calano in parte le luci.

 

Sento già le tenebre scendermi addosso. Che sia questo l’addio alla vita nel mare?

Forse così muoiono i pesci. Non ho mai pensato a questa cosa.

Di solito si pensa che i pesci saranno mangiati da qualcuno ma non che muoiano per cause naturali. Tutt’al più concediamo loro di morire dopo il parto, in modo in qualche modo giustificato, eppure… eppure ci dimentichiamo di tutti quelli che si riuniscono per morire assieme in certi luoghi, come le anguille che da ogni angolo del globo si raccolgono nel Mar dei Sargassi per darsi l’ultimo addio, in quel cimitero di moribondi… moribondi provenienti da ogni anfratto del mondo.

Perché questo avviene? Cosa spinge tali animali a andare nel luogo ultimo… il luogo ultimo.

Comprendo adesso cosa accade. È come in questo momento! Sento la morte che arriva, si annunzia e vuole solo che io mi prepari per lei. Eccomi pronto! Eccomi per te!

 

Le luci si spengono del tutto per qualche secondo, poi si riaccendono poco per mostrare l’uomo che zampetta nella stanza e raccoglie il grappolo d’uva da terra, togliendone gli acini che distribuisce sulla zattera. Toglierà persino un cassetto da una credenza e distribuirà attorno al tavolo tre paia di pantaloni a mo’ di triangolo. Poi si sdraierà ancora una volta sulla zattera e, postosi addosso alcuni dei chicchi presi prima, rimarrà così, mentre la luce si spegne ancora una volta del tutto.

Silenzio.

Sentiamo la sua voce spaventata.

 

Che succede? Chi va là?

 

La luce si riaccende debolmente. Lo vediamo alle prese con gli acini che lui afferra e lancia in aria e torna a prendere in modo confuso.

 

Ma cosa sono questi?

Ho capito! Pesci volanti!E questi sono calamari! Devo essere passato sopra il branco con la zattera. Ah ah ah! Si mangia! Mi avranno preso per un predatore e sono saltati fuori dall’acqua per salvarsi. E invece sono finiti proprio sulla mia imbarcazione. Ah ah ah!

 

Mangia voracemente i chicci d’uva succhiandone rumorosamente la polpa.

 

Avevo proprio una gran sete e non c’è niente di meglio, in mancanza d’acqua, del succo d’uva per bagnarsi la lingua.

 

Aspettavo la mia dipartita ma, contrariamente alla mia previsione, la morte preannunziata dal mare era quella dei pesci che mi sono saltati sulla zattera. Questa vorrei proprio raccontarla.

 

Mesto e arrabbiato.

 

Ma a chi raccontarla?

 

Di scatto.

 

Ma certo! Scriverò una lettera e la manderò così come si conviene a un naufrago, dentro una bottiglia!

 

Va verso la credenza e prende tre bottiglie con sé. Le porta sulla zattera.

 

Che casualità! Ho appena trovato tre bottiglie vuote che galleggiavano in mare. Adesso potrò mandare la mia lettera.

Carta e penna dovrei averle in tasca e… ma, cosa vedo? Dentro due bottiglie ci sono dei messaggi… Chissà cosa c’è scritto!

 

Apre le bottiglie in questione e dopo aver scritto due brevi messaggi li pone dentro queste.  Poi fa di tutto per tirarli fuori nuovamente.

 

Vediamo cosa c’è scritto! Vediamo cosa ha scritto qualcuno prima di me!

 

Prende in mano i due messaggi e li legge a voce alta.

 

“Non vi è più speranza per me che non ho nessuno fuorché queste onde malefiche e cedo al sonno eterno con la serenità di colui che non può più perdere alcuna cosa”

 

Ecco cosa dice il primo messaggio. E il secondo?

 

“I vermi non mi divoreranno mai ma sarò cibo per i pesci. Dite a chi mi voleva bene che anch’io lo riamavo. Se esiste ancora qualcuno che si ricordi di me lo saluto con affetto.”

 

Lancia lontano i messaggi.

 

NOO!

Perché questi messaggi da uomini che ancora vivono? Perché queste terribile testimonianze di macerazione? Io ho scritto questi messaggi! Io li ho scritti quando ero senza speranza, quando avrei accolto l’annullamento piuttosto del vivere. Come adesso che scrivo il mio terzo messaggio, l’ultimo che leggeranno i vivi quando io sarò già negli abissi.

 

Scrive un ultimo messaggio e lo mette nella bottiglia vuota. Poi lascia rotolare la bottiglia lontano e, inginocchiatosi nel centro della zattera, sta immobile ad aspettare gli eventi.

 

Mi sono trovato naufrago nel mondo e senza appiglio e ho voluto costruire il mio essere in questa stanza. Adesso sono lontano da ogni rotta, in un posto misterioso nei mari.

 

Suona il campanello.

 

Una nave! Una nave si avvicina per salvarmi!

 

Suona ancora il campanello.

 

Sono qui! Sono il conte Giovan Battista Lon… No! Non devo parlare così! Saranno creditori oppure qualcuno che cerca il conte. Ed io come conte non conto più nulla. Andate via!

Non devo aprire!

Andate via tutti dalla mia vita! Siete su una rotta pericolosa! Pochi di quelli che qui si avventurano hanno la fortuna di salvare la propria anima.

 

Indica ad uno ad uno i pantaloncini che aveva sparso attorno alla zattera.

 

Lì vi è un paio di pantaloncini, lì un altro e lì un altro ancora! Non capite? Questo è il triangolo delle Bermude e non si ha speranza di salvezza. Questo è un viaggio senza ritorno!

 

Si alza in piedi di scatto e urla.

 

Perché in questa vita devo essere così solo?

 

Prende da dietro il tavolo un detonatore attaccato ad una miccia che percorre la stanza fino al fondo. Il detonatore è stato nascosto fino ad ora.

 

Perché in questa vita devo essere così solo?

 

Si spengono le luci e si sente un gran boato.

Si riaccendono le luci e si vedono parti della stanza franate sull’uomo e sulla zattera. Da sotto le macerie viene fuori la  voce flebile.

 

Perché in questa vita dovevo essere così solo?

Alla fine soltanto la casa ha compreso il mio dolore e la bufera e le onde mi stringono finalmente in modo così amichevole. Perdo il mio ultimo appiglio e naufrago ancora e definitivamente nelle acque…

 

La bottiglia con il suo ultimo messaggio gli rotola vicino. Egli la prende in mano e, faticosamente, toglie il messaggio da dentro e lo legge.

“Uccisi alla mia nascita ogni mio fratello potenziale e migliore fra tutti nella lotta fui il peggiore. Solo venni al mondo nudo con nobili parenti e senza congiunti vivo. E senza amicizia tranne questa casa e questi oggetti muoio.”

 

Le luci si spengono e si sentono forti rumori di mare e venti in tempesta. Poi le luci si riaccendono fortissime ed entra il nostro uomo con un’aureola in testa e una canna da pesca in mano. Cammina per tutta la lunghezza del palco con fare indifferente ed esce dall’altro lato. Mentre cammina parla tra sé e sé.

 

Chissà come mai al mio funerale c’era così tanta gente.

 

Pausa.

 

Dopotutto un conte è sempre un conte!

 

Finale di tromba e trombone.