Viviana
Scarinci
· Conseguita la maturità scientifica
nell'anno scolastico 91/92
|
Fame L'avevano vista fare l'amore da prestissimo con Pasquale, e da subito avevano previsto per lei un futuro da zoccola. Poi con Pasquale s'erano fidanzati a casa e quella verginità sicuramente lacerata al primo sguardo, per l'opinione pubblica, s'era piano piano risaldata. E dire che Pasquale, per prendersela, tanto aveva patito. Non perché lei aspettasse il matrimonio, come la madre e la nonna con minacce, improperi e predizioni di infelicità quasi quotidianamente consigliavano, ma perché aveva paura. Si trovava a pensare alla meccanica della cosa a pugni stretti e denti serrati. Anche quando si trovava lì, e aveva deciso che quella volta l'avrebbe fatto, le si rinserrata tutto, il suo corpo diveniva di pietra e Pasquale bestemmiava. Arrivò il giorno delle nozze. C'erano i soldi che non c'erano, i debiti per pranzo e vestiti eppure quel giorno, tutti si divertirono. La musica, i balli, il vino e due che pur sempre si sposavano. E gli sposi, tutti e due con la strana fiducia che quel matrimonio avrebbe tramutato il poco in tanto, l'incertezza in certezza. Non andò così il primo anno, Pasquale non lavorava eppure lui era tra quelli che volevano, ma niente, non lavorava e sapeva perché: non godeva delle simpatie giuste. Pur non essendosi mai inimicato nessuno, perché l'inimicizia segnava i destini, dalla sua faccia, dalla sua corporatura esile, dal passo svelto, spirava lontananza da quello che succedeva nel vicolo appena dietro la piazza, nelle macchine parcheggiate a ridosso dei giardinetti, nella sala biliardo di un certo bar. L'avevano avvicinato ragazzino, ma per strane coincidenze, per una magica forza svincolatrice ne era uscito prima ancora di entrare nel giro. Nemmeno i figli erano venuti in quel primo anno, perciò Pasquale decise di andarsene al nord e di portarci pure lei, anche se di quelli che andavano, le mogli se le tiravano dietro davvero in pochi. Quando Pasquale glielo disse, lei pianse senza sapere di preciso il perché. Non è che non volesse, aveva paura. Anche in quel caso Pasquale bestemmiò, ma giusto così, per fastidio di quelle lagne superflue, dato che sapeva che non gli si sarebbe mai posto il problema di un rifiuto da parte della moglie. Piangente e spaventata la portò in stazione, la mise sul treno ed il treno partì per il nord. Lei lo ricordava benissimo quel viaggio. Mezza Italia le era corsa accanto per quasi un giorno intero. Avevano mangiato un panino scartato dalla carta trasparente e imbottito con un prosciutto pure quello scartato da un confezione sigillata in un vagone in cui potevi star seduto e vedere quel correrti a fianco di case, gente, vite, modi tutti diversi di arrangiarsi la giornata. Quale sarebbe stato il loro, arrivati a Torino? C'erano delle indicazioni vaghe su un posto in cui andare a dormire, ma se fossero risultate sbagliate, dove avrebbero dormito? E quel lavoro che avevano promesso a Pasquale, davvero gliel'avrebbero dato? E quando Pasquale sarebbe uscito per lavorare come avrebbe trovato il coraggio di metter il naso fuori casa? Pasquale sembrava contento, ma come si può essere contenti così lontani da tutto ciò che si conosce, così incerti su cosa occorra per vivere? Ma quanto l'ammirava a Pasquale per questo. Dritto seguiva quella strada sconosciuta anche a lui che pure sembrava avere disegnato in testa da sempre, come se fosse la strada che seguivano tutti, invece no era solo la sua, perché tutti pensavano che era strano Pasquale, ma non era così, lei lo sapeva bene. Anche se Pasquale bestemmiava tutte le sue lamentazioni, rimaneva nel modo di fare con lei, qualcosa che c'era stata dal primo giorno e non si era affievolita: lasciarla alle sue cose senza obbligarla ad altro, perché quelle sue cose, lei lo sapeva a Pasquale piacevano; erano le cose che aveva sempre fatto così perché la facevano sentire bene. Sembrava una cosa semplice ma aveva visto tra quelle che s'erano sposate, quasi tutte non essere più quelle di prima, cioè ragazze. Da ragazze bionde o brune, che girassero coi motorini certe, o qualcuna a leggere tutto il giorno riviste, a chiacchierare allegre e maliziose, diventavano in pochissimo tempo donnoni cattivi e tristi carichi di figli e intente a fiutare segreti altrui. Lei sapeva che Pasquaea questo non lo voleva. Lei era una ragazza bella, molto bella e da dopo il matrimonio s'era fatta ancora più bella, e aveva continuato oltre a leggere le riviste femminili, a farsi i piedi e lunghe passeggiate da sola. Anche se delle sue passeggiate, la gente ne diceva di male, lei stava tranquilla, Pasquale era contento così. A Torino trovarono da dormire in quella casa di parenti che gli avevano promesso al telefono un cameretta addirittura tutta per loro, visto che il loro figlio, s'era laureato ed era andato a fare il dottorato in America. Bella soddisfazione per gente del paese, trasferita da trent'anni a Torino. A vederli parevano torinesi, pure lei lavorava, magra e sorridente sembrava torinese pure dall'accento. Passarono in quella casa quasi sei mesi, tanto ci volle a Pasquale per avere, dopo il periodo di prova e lungaggini varie, il posto fisso. Dopo il posto era venuta la casa, piccola umida e con la carta da parti ammuffita, la vita a Torino, gli autobus. Aveva imparato parecchie strade ed era bello, per una camminatrice come lei, uscire ed avere mete diverse, non come quando stava giù, sempre al cimitero, dal pizzicagnolo del paese, a casa di sua madre o per la campagna, ma poco, per la campagna, perché era pericoloso. Pure Torino era pericolosa … e nebbioso, infatti in tante giornate non è che ti incoraggiasse ad uscire, ma a volte usciva uguale, col giaccone e con l'ombrello, così per camminare, se no si annoiava. E poi Pasquale era morto, un giorno in cui la nebbia pareva non voler mai salire. Una telefonata, c'era da andare all'ospedale, di corsa. Un mezzo pubblico poi l'altro, la corsia d'ospedale, infondo i colleghi che ormai conosceva, con certe facce. Un incidente sul lavoro. I parenti torinesi si occuparono di tutto, lei non dovette fare niente fuorché quattro giorni dopo salire su una macchina che seguiva il carro funebre fino al paese. Dalla macchina non sembra che l'Italia ti scorra accanto, ma sembra che sei tu a correre così veloce che non vedi proprio nessuno, niente. E Pasquale lo avevano portato proprio qui, in questo cimiero con i sassolini per terra che dopo la nevicata parevano sporchi. L'avevano seppellito per terra, in un lotto del comune perché Pasquale certo non aveva avuto il tempo di comprarsi un loculo visto che era morto all'età di ventisei anni. Se Pasquale fosse stato ancora vivo, quel giorno, mentre lei camminava affondando in mezzo ai sassolini sporchi avrebbe avuto vent'otto anni ed un giorno. Lei invece ne aveva venticinque ed ancora era sposata con quel poco di materia e panni, infilati in quella buca, con la foto fuori, la più brutta che avessero di Pasquale, non sembrava nemmeno lui, ma l'aveva scelta la madre. Essere sposata ad un morto vuol dire, primo, che lui col tempo acquista in bellezza, in bontà, in prestigio, secondo, che la relazione non è mai più turbata da qualche nuovo fatto che potrebbe farla deragliare da suo andamento sereno, terzo …terzo, vuol dire sentire freddo ed entrare nel buio delle notti con la bocca asciutta di parole e la testa carica del vuoto che c'è al posto della persona che la riempiva. Era questo che l'aveva fatta scappare da Torino. Erano soprattutto le sere, a guardare le macchie della carta da parati del cucinino senza avere la consolazione di cucinare per un uomo che sta per tornare, che sta per divorare il cibo, la casa, lei, con una stanchezza febbricitante e famelica che la faceva sentire giusta, al suo posto. Stremata, in quelle sere di paura, smarrimento, non piangeva, lei che prima piangeva sempre. Non c'era niente adesso per cui piangere, niente di niente. Niente era quel lavoro che le avevano trovato i parenti Torinesi, in quel palazzone dove c'era da pulire, molto prima o molto dopo che fosse pieno di gente, con quello che quando c'era rimasta sola, le era cominciato a correre dietro, come in un filmaccio di italiano degli anni settanta, finché lei non aveva strillato e lui gli aveva detto stronza. Era tornata al paese con la sensazione che con il ritorno non perdeva nessuna occasione, perché Torino era l'occasione di Pasquale e Pasquale era l'occasione che lei aveva perso per sempre. Uscendo dal cimitero quasi la sfiorò un vecchio motorino, con sopra un ragazzone lungo, abbarbicato sulla sella, che passando girò la testa, involontariamente e involontariamente continuò a guardarla finché non fu necessario guardare davanti per evitare di sbattere addosso al muro del cimitero. Non era la prima volta che lo vedeva. Lo aveva notato subito tornata da Torino, perché era uno che prima che lei partisse non c'era o era diverso o aveva altri giri che non fossero quelli solititi del paese. Anche lui l'aveva notata subito al ritorno, perché sapeva quello che sapevano tutti, cioè che erano partiti in due e lei era tornata da sola. Non se l'aspettava così bella, così giovane, così ragazza e in più per niente torinese, come se Torino le fosse girato intono tenendosi alla larga e lei avesse evitato di mischiarcisi. Se la ricordava vagamente quand'era partita, perché era il periodo che era fatto tutto il giorno e che quando non era fatto aveva fretta di farsi. Ma si ricordava il marito che gli era quasi coetaneo. Si ricordava un fatto in particolare, il marito faceva la terza media, lui ripeteva per la seconda volta la prima, uscendo da scuola, c'era la solita macchina, tutti ci andavano a girare intono, qualcuno poteva anche entrarci perché li conosceva, a volte erano quelli della macchina che chiamavano i ragazzini per nome e quel giorno avevano chiamato a Pasquale, gli avevano dato uno schiaffetto amichevole sulla nuca, fatto qualche domanda così parlando del più e del meno ed andandosene gli avevano lasciato in mano qualcosa. Pasquale s'era avviato verso casa, lui lo sapeva perché la strada che dovevano fare era la stessa e Pasquale gli camminava davanti. Lontano dalla scuola Pasquale s'era fermato, aveva scartato quello che aveva in mano e l'aveva buttata dentro il cassonetto, ma bene in fondo perché lui poi quando s'era sporto per vedere cosa fosse, non era riuscito a vedere niente. L'anno dopo aveva capito. Avevano preso a chiamare pure lui dalla macchina, con un tono che pareva conoscessero da sempre il suo nome. La prima volta gli avevano messo in mano per provare la stessa cosa che avevano dato a Pasquale, che poi, se gli piaceva, poteva comprare oppure no, potevano diventare amici e scambiarsi i favori. Quando ne volle ancora, ma non aveva i soldi, scoprì che i favori consistevano in lavoretti che dovevano esser fatti prevalentemente di notte, di nascosto, non sempre lì al paese, anzi, più spesso a Salerno. Quando andava bene c'era da andare a prendere qualcosa per portarla a loro a o qualcuno che dicevano loro, ma senza rischio che con quella faccia da ragazzino chi vuoi che ti ferma. Poi col tempo, con l'aumentare delle richieste, una merce di scambio tipo per una dose, era incendiare un negozio di uno che non pagava o convincerlo a pagare minacciandolo con una delle ultime siringhe che aveva usato, meglio se lo faceva già in crisi, già disperato, così gli facevano tirare il collo, la tiravano per le lunghe, prima di dirgli chi, dove. Dopo la galera, la comunità, il male fisico che l'aveva squassato fino alla radice, giorno dopo giorno s'era concepito, s'era pianificato, come si fa per una nascita tra coniugi assennati. Era cresciuto lentamente nell'utero della comunità e adesso era rinato da poco, pochissimi mesi. Da pochi mesi era tornato a casa dopo tre anni di comunità. Aveva cominciato a cercare lavoro. Da prima tra i reclutatori di braccianti, ma non serviva niente a nessuno e poi era inverno. Era andato quindi a Salerno, nei grandi negozi, nei mercati, finché lo presero in prova in un panificio. Doveva attaccare di notte e lo stipendio, almeno finché fosse stato in prova, una miseria, ma aveva un lavoro e poi fare il pane era una bella, bellissima cosa. La prima cosa che aveva sentito tornando al mondo era la fame, quella fame gli faceva sentire più acutamente gli odori dei cibi, dei posti, delle persone, delle donne. La fragranza del pane lo euforizzava almeno quanto l'odore prepotente di certe ragazze da discoteca che ormai aveva imparato a distinguere già dalla prima fiutata. La gioia acida di quelle che la felicità credevano di prenderla per bocca e quelle in cui agiva come la sua stessa fame, un felicità naturale, vigile, lucida, autentica che spandevano intorno a loro coi movimenti, lo sguardo e che erano un segnale per lui così intenso che quasi lo tramortiva. Le assaporava, guardandole, ne assorbiva il colore dei capelli, della pelle, lo stato naturale o alterato della traspirazione e loro si sentivano inspiegabilmente attratte da quello spilungone, neanche bello, che le sapeva guardare e poi anche prendere, nei bagni o fuori, in macchina, come volevano loro e come pochissimi maschi davvero sapevano: prenderle come se fossero un cibo indispensabile, con lo stesso rispetto venato della sottile prepotenza del bisogno, senza volgarità alcuna e con molta, molta gratitudine. Era Fabio il panettiere ormai per tutti, per se stesso era Fabio il miracolato, ne era uscito senza portarne la stigmate, era sano e sano nella profondità dei pensieri e nella risposta immediata del corpo si sentiva, finalmente; e quanto gli piaceva Adele, quanto non poteva fare a meno di guardarla, di passarle il più vicino possibile con il motorino. Quanto non gli fregava niente di quella sua strana storia di vedova con cui volevano camuffarla, volevano dissimulare il fatto che fosse una ragazza. Lui invece la vedeva davvero. Vedeva che Adele aveva la stessa fame di tutti ma che non poteva e non doveva far vedere che anche lei era ancora come le altre, perché era donna, perché c'era un morto di mezzo e dei segreti torinesi che dovevano essere sostenuti col pudore della vedovanza senza età. Lui non poteva avvicinarla, non voleva. Non voleva che lei pensasse che si sentiva in diritto di farlo, come si sentivano in diritto quelli che la cercavano, propensi a credere che a Torino lei ne avesse fatte più di Bertoldo in Francia. Ma per fortuna, quel giorno, fuori dal cimitero, sterzando bruscamente per evitare il muro, la ruota del motorino slittò sulla neve e lui cadde, lei accorse e cominciarono ad amarsi. Si vedevano di nascosto, e quando non si vedevano, rimanevano pieni della gioia dell'incontro fino all'appuntamento successivo. Al paese ci volle un giorno e mezzo dalla caduta dal motorino per immaginarli impegnati nelle pratiche più turpi, lui che se ne portava a presso di sozzerie dalla droga, dal carcere dalla comunità che come tutti sanno è luogo promiscuo in cui la mescolanza della sessualità deviata dei drogati, prolifera in chi sa quali pratiche, per non parlare di lei che pare facesse la zoccola a Torino fino a rimanere incinta, spingere il marito al suicidio e rimanersene a Torino giusto il tempo di sgravare per poi tornarsi a fare la vedovanza al paese come se niente fosse. . Un giorno, Fabio, tornando a casa, trovò il suo cane sgozzato. Il pelo annerito di sangue, la lingua penzoloni e lo sguardo vuoto. Quel cane si chiamava Barone, come il cane che aveva accompagnato i giorni dell'esilio di Carlo Levi e i suoi, passati a leggere quel libro in comunità, con la sensazione di essere un po' in esilio anche lui. Il cane aveva acquisito il nome come il conferimento di un titolo, dopo anni, per merito. All'inizio non aveva un nome, Fabio lo aveva trovato per strada, il cane gli era andato dietro, nei momenti di lucidità Fabio si era ricordato di farlo mangiare. Era rimasto nei dintorni di casa sua anche negli anni della comunità e tornando a casa se l'era ritrovato sullo zerbino, pronto a fargli le feste. Da quel momento il cane era diventato Barone e aveva preso a mangiare regolarmente il pane vecchio inzuppato nel latte che Fabio portava a casa tutti i giorni dal panificio. Fabio sapeva solo che doveva cercare la persona che la sera prima gli aveva proposto un affare. Cercò nella sala da biliardo, tra le macchine parcheggiate davanti ai giardinetti per giorni ma era inutile cercarli perché l'avrebbero trovato loro quando avessero ritenuto che l'offesa fosse maturata in un inclinazione alla maggior ragionevolezza, se non proprio, come succedeva nei casi migliori, in un piena intimidazione del soggetto che tutto per niente avrebbe fatto, visto il sangue, pure che fosse sangue di cane. E più prudente, più mite Fabio si mostrò davvero, al principio a dirgli che non se la sentiva di ricominciare con la vita di prima, poi piano a lasciarsi convincere dai soldi che mica è detto che ti devono rientrare in vena, che ti fanno più comodo di prima ora che ti sei fatto la femmina. Lui a dire non saprei e loro a convincerlo con le buone. All'ultimo Fabio si convinse, disse che voleva fagli un bel regalo ad Adele e forse i soldi di quel lavoro, che al forno gli ci sarebbero voluti sei mesi, gli facevano comodo. Del resto che doveva fare? Come al solito andare a Salerno, prendere la roba e tornare al paese, recarsi alla possessione, lasciare il pacco a Cicero e andarsi a godere la vita con la zoccola torinese. Un femminiello, non c'era voluto niente per riprendere per le palle quel drogato di merda e ancora di meno ci sarebbe voluto per sparagli in vena la prima, la seconda, tutte le pere che servivano per fargli portare pure l'acqua con le orecchie dove e quando dicevano loro. Fabio andò a Salerno, passò dove dicevano loro, si fermò dove dicevano loro, aspettò chi dicevano loro, prese il pacchetto avvolto in un bomber grigio, andò a lavorare come gli avevano detto, tornò al paese, si recò in località possessione dove Cicero, stranamente solo (che chille è femminiello) lo stava già aspettando fumando una sigaretta appoggiato al cofano della macchina. C'era la luna che illuminava le foglie degli ulivi che circondavano la strada sterrata, era una notte da innamorati quella in cui Fabio tese con una mano il pacchetto a Cicero e Cicero rise con la bocca impastata di fumo poco prima di realizzare che con l'altra mano Fabio gli affondava il coltello da cucina sul ventre gonfio e peloso fasciato di cachemire. La notte che si dissolveva velocemente nell'alba continuava ad essere una notte da innamorati, Adele forse dormiva o era insonne, divorata dal presagi, mentre Cicero era addossato al cofano e il sangue era già arrivato ad impastare la terra. Fabio restò un po' li in quell'alba di quasi primavera a fianco all'agonia di Cicero che piano s'accasciava biascicando qualcosa di incomprensibile. Fabio si accese una sigaretta, appoggiato alla portiera della macchina con Cicero ormai steso poco più in là. La campagna era bellissima ma non più silenziosa, gli uccelli avevano iniziato i canti, il fumo che aspirava aveva un altro sapore. Fabio pensò che non si era mai sentito così. Arrivò a casa e si mise a scavare, dissotterrò Barone avvolto in una coperta e con quel fagotto in decomposizione andò alla caserma dei carabinieri. Passarono giorni. Adele rimase in casa a lungo spaventata. Dopo che Fabio s'era costituito, i carabinieri erano andati per recuperare Cicero ma non c'erano più, ne il cadavere ne la macchina, ne il sangue. I giorni passavano, le indagine proseguivano farraginose, sonnolente, rassegnate. Una mattina Adele uscì, doveva camminare. Si diresse al cimitero, una macchina l'affiancò. Chi disse che era targata Torino, chi disse che era di una marca, chi di un'altra, su quale fosse il coloro dell'auto poi, c'era un assoluto disaccordo. Tutti i testimoni dichiararono ai carabinieri comunque qualcosa di diverso. L'unico cosa su cui pare tutti concordassero era che Adele fosse salita su quella macchina di sua spontanea volontà. Non era un casolare di quelli diroccati, in mezzo agli uliveti di lì, quello in cui fu portata Adele era un casale di campagna costruito abbastanza di recente, c'era un cucinino, un piccolo bagno e molti attrezzi agricoli sul pavimento, sul pavimento c'era pure Adele, con la guancia schiacciata su una mattonella rossa, opaca, così impregnata di polvere e terra che le pareva di soffocare, incaprettata con una cerotto sulla bocca aspettava li da un tempo che non sapeva più calcolare, però sapeva che s'era fatta notte o tardo pomeriggio, l'interno del casale era quasi buio, si vedevano come ombre gli attrezzi agricoli buttati sul pavimento e fuori un grillo che s'era sbagliato, cantava come se fosse estate. Più tardi, molto più tardi, arrivarono due persone e poco dopo una terza. Adele percepiva il dolore che da tre punti diversi del corpo si espandeva come una pulsazione che amplificava parossisticamente fino a farla sentire completamente in fiamme, non pensava, non capiva le parole che dicevano quelli all'ultimo. Al principio aveva sentito nel buio la voce di Cicero, possibile? Poi avevano cominciato, ridendo insultando, dicendo oscenità, allora aveva pregato di morire subito, che si sbagliassero e la uccidessero immediatamente. Ma erano pratici loro, lei non sarebbe morta prima di scontarla tutta la ribellione di Fabio. Poi svenne. Qualcosa di gelido sul viso, sul corpo, la riportò in mezzo agli attrezzi, sul pavimento, immediatamente, l'odore di benzina le penetrò le narici e prima di capire, i capelli, la pelle, le ossa, i pensieri, i ricordi, Pasquale, tutto, si accartocciarono in una fiammata che la cancellò, insieme al terrore e alle sue speranze, la cancellò da quel posto. |