Valeria
Marchi scrivo per necessità,
anche se affermarlo è altezzoso non m'importa: ogni tanto cerco di
consolarmi in questo modo e fingere di essere poetessa rassicura le mie
nevrosi. Scrivo per noia, i miei mondi paralleli sono più reali di quello
in cui vivo, e certamente più interessanti. Scrivo da una vita intera,
come se la mia esistenza si nutrisse di anni d'esperienza e di vecchiaia
cumulata sulla schiena. Scrivo dai miei 19 anni, insicuri e spavaldi,
affogati in desideri di poesia e meraviglia del mondo.
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TERESA
Teresa avrebbe dovuto prendere l'autobus blu delle
sette, quella mattina, ma non aveva avuto la forza di alzarsi, scattata la
sveglia, sul comodino. Decise così di inforcare la bici trafelata, arrivare
con largo anticipo per il bus successivo, che partiva dalla stazione ed
aspettare.
Quella mattina, nel letto, in quella casa a cui avrebbe già dovuto
abituarsi ma nella quale si sentiva ancora in affitto, Teresa non si voleva
svegliare. Ciononostante, attendeva da settimane quel giorno, il Giorno
della Liberazione, lo stesso che lei chiamava, evangelicamente, Giorno di
Pietro. Non le sembrava, tuttavia, che il gallo avesse cantato tre volte,
prima di tradirsi, come lei stava per fare.
Ricordava soltanto un congegno meccanico urlante che le strillava, accanto
al letto, di gettare all'aria le coperte e correre fuori casa, in attesa di
un autobus dal quale farsi salvare o sotterrare.
La nebbia ingrigiva i tetti e le strade. La stazione, buia e fumosa. La
panchina sulla quale non sapeva se sedersi, umida ed incrostata.
Teresa si lasciava cullare dal chiacchiericcio assonnato dei passeggeri sul
bus, ma non era divertente come una volta ascoltare le loro storie banali.
Fortunatamente viaggiava sola.
Nessuno le aveva rivolto parola, quella mattina.
Ormai conosceva molto bene la fermata, la sua, non lontano dalla piazza
centrale, non lontano dall'ospedale.
Teresa indossava pantaloni marroni di velluto e scarpe sportive. Lo zaino
era ben ancorato sulle spalle, nel caso avesse voluto farsi affondare, aveva
posizionato sulla schiena il macigno che la poteva tener ferma, sul fondale.
Entrò.
L'edificio era uguale alle altre volte, da fuori, anonimo, cemento annerito.
L'ospedale era uguale alle altre volte anche dentro, nessuna differenza.
Teresa sapeva perfettamente dove andare.
Era in ritardo. Avrebbe scoperto, poi, che non aveva alcuna importanza.
La sua stanza era lunga e stretta, il suo era il letto vicino alla finestra.
A destra il posto era occupato da una donna di colore, il telefono squillava
ad intermittenza e lei parlava senza interruzioni. Si era infilata vestita
sotto il lenzuolo.
Quelli, erano gli unici abiti che aveva, aveva pansato così distrattamente.
Aveva seguito tutte le istruzioni muta e seria, Teresa, ma non le avevano
detto quanto lunga sarebbe stata l'attesa. Allora, se ne stava sdraiata.
Vicino a lei, in piedi, impaziente, Carlo.
Non avevano molte parole, quella mattina, da regalarsi, così iniziarono a
metterle all'asta. Non restava che porle in fila, una dopo l'altra, in un
gioco vano e sciocco, ma che ingannava il tempo e li illudeva entrambi.
Erano bimbi in un mondo immaginario che costruivano fantasie per riempire i
loro vuoti di realtà.
Ad un certo punto l'orologio segnava l'ora di pranzo. Poco dopo Teresa
scendeva con l'ascensore, in pantofole, come le altre. Seduta davanti ad una
porta che mai si apriva per lei, Teresa le osservava.
Erano tre o forse quattro. Un uomo passeggiava nervosamente. Un altro
sussurrava all'orecchio di una ragazza dai capelli ricci e lunghi. Lei
ridacchiava, portandosi l'indice alla bocca e guardava Teresa, sorridendo:
"A quanto sei?"
"Quattro settimane circa"
"Io quasi a tre mesi" disse, spostandosi la vestaglia dal ventre,
come per far posto a qualcosa di penosamente ingombrante.
Si ritrovò in una stanza con una donna in bianco che le ordinava di
spogliarsi e rivestirsi di verde, da capo ai piedi. Teresa lo fece, con
gesti misurati ed obbedienti. Sporse la testa oltre se stessa e vide i suoi
piedi incappucciati: l'ambiente doveva essere sterile.
Ad un tratto qualcuno dagli occhi belli le chiese se tutto andava bene e le
spiegò con parole dolci e precise quello che stava per accadere.
Una vertigine di leggerezza si tramutò in affluente che, lento, si
mescolava nelle vene e la trasportava molto lontano. Almeno all'apparenza.
Invece era in un semplice letto d'ospedale, in una sala operatoria che
odorava di scantinato e lei, Teresa, una ragazza a gambe larghe che
stringeva la veste color foglia sullo stomaco, sperando che quell'autunno si
decidesse a morire.
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La penna non ha carta per scrivere e l'inchiostro è
secco.
Il buio offre stelle che scompaiono in silenzio
dietro grigiori di nubi statiche. Cerco di prestar voce ai tumulti liquidi
che scorrono sotto i soliti oscuri gusci di cartongesso, che mi sono decisa
attorno, ma mi riesce a metà.
Le condizioni di una fredda notte di luglio, come questa, me lo vietano.
Ogni cosa, qui, pare esser dove sta senza domande, come se indossasse un
abito sartoriale su misura e ci si muovesse con disinvoltura, senza grinze
sulla stoffa.
Mi limito ad osservare la tonda perfezione che avvolge ed è già morte per
me.
Dove dorme il rantolo di forza che mi inebria, quando di giorno alzo gli
occhi in alto e vedo veloci mandrie nebulose che si rincorrono?
La penna non ha carta per scrivere e l'inchiostro è
secco, ma sto scrivendo.
Dove dorme il tepore caldo della coperta che mi
spetta, alla fine del giorno, dopo aver raccolto nel bosco interrogativi
vibranti_ more acerbe_ e bacche velenose di risposte sempre sbagliate?
Conficcata nel centro della notte potrei urlare, senza confondere il sonno
di questa armonia in attesa del sole. Conficcata nel centro della notte
potrei addormentarmi e congelare, per non essermi meritata ricompense
morbide e accoglienti che possano scaldare.
Ho fatto troppi viaggi a vuoto, riempiendo cesti di frutta e veleno che si
destinano ogni volta ad imputridire.
Conficcata nel centro della notte, smetto di scrivere e sorprendo il giorno
prima che sorprenda me, con una lama di taglierino a decidere la risposta
corretta all'ultima domanda.
La penna ha perduto le parole da scrivere e le vene
sono secche, ma sto finalmente vivendo. |