Luciano
Sala
nasce a Milano nel 1967 dove si laurea in scienze politiche con una tesi sui rapporti tra Francia ed Europa tra le due guerre. Nel frattempo fa già un lavoro che non c'entra nulla, ma che lo porta a girare un po' per l'Italia. Nel 1995 infatti è a Cagliari, dal 1997 a Genova. Si occupa anche di politica e di sindacato, trovando purtroppo appetiti di potere e sottopotere che sperava di non incontrare. Quando gli impegni e il figlio piccolo lo lasciano respirare (cioè di rado) scrive. |
PROSPETTIVE
Pof. Le palpebre a tenda da sole, la voce del relatore vivace come una giornata d'estate nell'ora dopo mezzogiorno, la massa grigio scura dell'uditorio assorta in un grande pensiero multiforme formato da tanti pensieri singoli staccati uno dall'altro, ma uniti dalla tacita e timida indifferenza alle parole del relatore. Pof. La testa ciondolava all'improvviso, crollava a tradimento e sarebbe rotolata fino a terra senza lo scomodo impedimento del collo. Ed anche la massa grigio scura di tanto in tanto si sfaldava e rinsaldava per un crollo, per un cedimento, per una resurrezione. Pof. Non c'era verso. Nemmeno il magro pasto fatto di fette di torta fredda alla cipolla, salatini secchi e tartine molli al salmone da ingoiare in un sol colpo (onde prevenirne lo sfaldamento in mano) era stato utile alla causa dello star svegli. Né si poteva fissare continuamente lo sguardo sull'inspiegabile valletta, perché restar desti con pensieri lubrichi comporta purtroppo facili effetti collaterali. Valletta (inspiegabile forse, ma non indegna): vestita di giallo e blu come la bandiera di Verona, i capelli neri mossi come un Mar Ligure appena acconciato da una parrucchiera in giornata di libeccio, lo sguardo intenso da pubblicità di dado da brodo, la gonna dritta come una strada di pianura stesa sopra due ginocchia illogicamente valghe. Insomma, una cosa così, di gentile aspetto ma non proprio un'esplosione di sensualità aggressiva. Ma di aggressivo, d'altronde, in quel pomeriggio sonnolento c'era solo un'insidiosa arroganza travestita da semplicità Numeri numeri numeri. Righe righe righe. Grazie allo strenuo impegno di voi tutti. Bene bene bene. Ma non ci possiamo fermare. Bisogna andare oltre. Proseguire. Primeggiare. Indagini fatte all'estero ci confermano che la redditività di ogni singolo uomo, di ogni singolo professionista (pro-fes-sio-ni-sta!) può e deve aumentare. Seguono: presentazione di statistiche, idee, abitudini del consumatore medio (fortuna che non mi riguardano, io sono consumatore minimo: vivo in due locali e peso 58 chili), stili italiani, europei, mondiali. Cosa si studia negli Stati Uniti e flessibilità del lavoro (cioè posso essere estratto per una vacanza a tempo indeterminato a mie spese). Traguardi. Prospettive. Improvvisamente: pof! Si può fumare? Alla pausa. Alla pausa mancano quasi due ore. Facce nervose nell'uditorio. Quelli della prima fila serrano i volti in sguardi ferocemente interessati. Sono arrivati per ultimi ed ora sono costretti a barare. Oppure sono arrivati per primi e ci tengono a fare bella figura perché non si sa mai. Bevono, obbligatoriamente assorti, lezioni sulla "necessità di adeguamento al Mercato e limitazione dei salari". Ce ne sarebbe abbastanza per organizzare una rivolta. Invece gli astanti applaudono. Avvolto nel mio invincibile torpore penso: è come un gruppo di conigli che applaude le virtù delle carni bianche. Mi correggo: peggio, siamo agnelli contenti di saper che presto sarà Pasqua. Sono iscritti a parlare tutti i capi di divisione. Chi promette lacrime, chi sangue. Chi lacrime e sangue (più classico). C'è spirito di gruppo, voglia di emergere. Ci sono interessanti prospettive per il futuro. Ci sono vaghe minacce. I colonnelli tengono per se stessi l'ingrato compito di brandire i manganelli. I generali hanno già parlato con verbo di pace e toni d'usignolo. Intervallo. Le vallette distribuiscono caffè. Quella dalle ginocchia valghe ha tette da vendere. Mentre un collega che non vedevo da anni mi tampina con la sua modesta carriera, cerco di concentrarmi su quelle tette chiedendomi quanto ci sia di vero e in quale misura abbiano eventualmente contribuito tecnica e medicina. Decido che è tutto vero, ma la frenetica distribuzione del caffè mi spazza via quando le sono a un passo. Addio sogni. Quanto al collega che continua a tampinarmi, la sua modesta carriera è tuttavia superiore alla mia e capisco che questo particolare non me lo rende affatto simpatico. Per cui mi dileguo e raggiungo i miei pari al fondo della scala sociale. Ci si risiede. Il brusio termina presto. Ancora qualche intervento, ancora meno interessante. Ancora qualche ovvietà, qualche sussurrata e inevitabile banalità mentre si veleggia da tempo oltre le barriere del sonno e del normale orario di lavoro. Poi: dibattito. Ora le teste non cadono più. Passata quasi indenni l'ora dell'abbiocco, ora le teste ondeggiano nervose in attesa di qualcosa, di qualcuno, di un segnale; del momento di andarsene. Perché treni, autobus, métro sono già partiti verso case dove mogli mariti figli computer - e biciclette - attendono invano. Colleghi testardi alzano le mani per intervenire, mostrarsi, dire la loro. Uno rosso di pelo, non tanto giovane, si allinea con l'azienda; uno grigio ormai vicino alla pensione si balocca coi bei tempi andati e il capo del personale ragiona automatico su quanti giorni dovrà tenerlo ancora a libro paga. Chi spera in un sorriso dell'amministratore delegato, chi cerca l'aureola ambigua della contestazione. Si assiste, assenti irosi rassegnati, al consueto spettacolo di ammaestratori e ammaestrati che si esibiscono al circo degli inutili. Le vallette si muovono agili gialle e blu e valghe con i loro microfonini tra velluti e concorrenti. Di tanto in tanto uno dei presenti fa una smorfia, una mossa: il vibratore del telefonino gli ha dato un'emozione. Una pausa. Pausa che si allunga. Silenzio un po' teso. Scrutare d'occhi e di mani e di sorrisi. E' ormai tardi, fuori è buio. Finisce la splendida giornata. Qualche tram ci sarà ancora. Molti poi han la macchina al garage del centro, che certo è un po' costoso ma tanto comodo. E' andata. Ci si precipita in corridoio, si approfitta dell'occasione per salutare un qualcuno più potente, il più potente che si può raggiungere. L'aria si fa di festa, di complimenti, ringraziamenti, pacche sulle spalle, strette di mano. Trilli allegri di telefonini riempiono l'aere. Le vallette sparecchiano la scena. Si sciama fuori. Finalmente. L'aria è frizzante, piacevole. Ho ancora nelle orecchie parole discorsi minacce promesse. Avrei potuto disertare, stare a casa, in ferie, fingermi malato. Ma son contento così. Mi è piaciuto vedere per l'ultima volta tutte quelle facce messe assieme, assistere a quel bel teatro, incontrare soprattutto quel collega che ha fatto modesta ma onesta carriera e che ne è tanto fiero. E' stato, lo riconosco, un po' rischioso. Ma, davvero, non potevo farne a meno. Era l'ultima occasione. Quando fra qualche giorno scopriranno il buco, io sarò già via. Con interessanti prospettive per il futuro. |