Pietro Moretti

 trentanove anni insegnante (precario e al momento disoccupato).

il libro più venduto al mondo

Il giorno dell'uscita, registrò il primo dei primati che avrebbe strabiliato, nelle innumerevoli ristampe susseguitesi senza soluzione di ubiquità.
Quel giorno vendette un milione centoundicimilacentoundici copie.
Ne avrebbe vendute sicuramente di più, se in ognuna delle un milione centoundicimilacentoundici librerie distribuite per il globo civilizzato (?), decine, centinaia, migliaia di lettori, accorsi fin dalle prime ore del mattino, avessero potuto acquistarlo.
Ma, da ognuna delle un milione eccetera librerie, solo il primo dei lettori accorsi ne sarebbe uscito lieto, quasi felice come un bimbo che sbaciucchia una nuvola di zucchero filato. Perchè l'unica possibilità per giungere in tempo, nella libreria più vicina, era arrivare primi, per poter acquistare l'unica copia del libro, in bella mostra su uno degli scaffali al centro della sala.
Era lì, all'insaputa dello stesso commesso che ricordava dove avesse posizionato tutti gli altri titoli. Ma quello no, non lo ricordava affatto.
ll lettore, che paziente aveva saputo attendere l'apertura della libreria sotto casa - c'era chi, per incontrollata avidità, non aveva saputo attendere, macchiandosi di effrazioni e provvedimenti giudiziari, di poco conto, è vero, ma sempre giudiziari -, il lettore che invece s'era appostato proprio davanti alla vetrata dell'ingresso della libreria, avrebbe goduto appieno il frutto della sua pazienza. Se fosse riuscito però a conservare calma e forza necessarie a domare una folla scomposta. Tutti lettori ritardatari, che lo incollavano alla vetrata della libreria prossima all'apertura.
Appena il libraio, ringobbito o aitante, stile top manager o ottuagenario con fiatella epatica, appena avrebbe aperto, il lettore, scattante e attento a non farsi sorpassare, si sarebbe diretto, salutando cortese, verso uno scaffale. Proprio quello in cui avrebbe trovato il libro che cercava. Come se il libro lo avesse richiamato senza equivoco.
Sorridendo al cliente mattiniero e per la folla delusa, che a gran voce ordinava una copia del tomo ambito, il libraio valutava le condizioni promettenti fauste speranze per il prosieguo quotidiano, e incassava il prezzo della copertina, che in verità non riconosceva.
Dando un'occhiata al titolo e una al cliente, chiunque lui o lei potesse essere - Romualdo il farmacista, Gesualdo il portiere del palazzo di fronte, la nuova fidanzata del fratello, Aldo, o chiccessia altrao mai vistao -, il libraio malcelava un sottile stupore, dovendo ammettere che il libro era per lui inedito ignoto, sconosciuto ne era l'autore, come pure l'editore.
"Opus", di tal tale, edizioni mai nemmeno sentite nominare. No, veramente mi è del tutto nuovo, avrebbe detto a sè in un muto pensiero, il tacito libraio.
Doveroso supporre che "Opus" sia il successo editoriale più clamoroso dall'invenzione della stampa, in virtù delle profondità che le pagine hanno saputo ascendere, negli spiriti che a quelle pagine si sono accostati.
Ma.
Menti malevoli affermano che il successo abbia in qualche modo a che fare con spot subliminali, insinuantisi nelle menti di potenziali lettori, attraverso milioni di televisori accesi.
Secondo codeste malelingue, spettatori ignari subivano, fra talk show e sequel, manipolazioni cerebrali.
Nascosto alle coscienze, "Opus" prendeva posto fra gli altri desideri, più desiderato di tutti. Perché tecniche di persuasione
inconscia mostravano un'efficacia fino allora mai provata.
Mission e target erano stati studiati per garantire il massimo. Equipe di psico-filoso-periti erano stati consultati per ottenere esiti ottimali.
Teledipendenti digitali e parabolizzati, zappingheggiando fra le centinaia di canali satellitari, potevano incappare, in una sola notte, in reclame criptate di televisioni bulgare, della Repubblica Popolare Cinese, del Bangladesh e di Andorra. L'inconsapevole visione causava irrefrenabile desiderio di possedere "Opus" in lingua bulgara, in cinese, in bengalese e in catalano.
Ma una campagna che si rispetti punta ad occupare ogni spazio, visibile e invisibile. Ed ecco allora che, una settimana prima dell'uscita, mega cartelloni tre per sei, sei per nove, tredici per ventiquattro, tappezzano le capitali del mondo, le province e persino villaggi sperduti in regioni nascoste e dimenticate.
Quotidiani in ogni pagina pubblicizzano la prossima pubblicazione. Rotocalchi, fanzine, pamphelet e volantini svolazzanti da aerei roboanti, diffondono l'imminente uscita di "Opus".
Volontari megafonizzati scorrazzano per le strade, diffondendo la vitale notizia.
Avvalora questa diffamante tesi una doverosa considerazione?
Di cosa tratti il libro è per tutti un mistero.
Perché sia un mistero, non è un mistero.
Nessuno l'ha mai letto.

 

dal barbiere

Ritornavo a casa, dopo una giornata balorda. La strada violarancio per il basso tramonto. Tornavo a casa dopo una giornata di bagordi. Dico così per ricordare una parola che molti esprimono per indicare generose libagioni. In verità, no. Io non avevo brindato tanto. Tanto, quanto basta ancora solo un quanto indefinito per barcollare e vedere quadruplo. M'ero fermato prima.
La mattina, appena uscito di casa, intorno alle undici, m'ero fermato da Lino. M'ha salutato cordiale, ricordando che non mi vedeva da qualche settimana. Lino conosceva le regole della mia dieta. Regole che potevano essere infrante in qualsiasi occasione.
Lino ha versato il primo. L'ho ringraziato e sono uscito, dopo aver pagato. Non prima che Lino m'offrisse il suo bicchiere, come benvenuto - di nuovo e ancora - fra gli spiriti.
Era iniziata una giornata di miracoli. Meraviglie nella propria semplice apparenza. I colori delle cose. Le storie delle persone. La fotografia, presto dimenticata, all'uscita da una galleria.E l'abbraccio, il grande abbraccio della grande madre.
Dopo Lino avevo toccato altre quattro tappe : afterauars, Baratto, il buco, Barabba, sostando un'oretta in ognuno.
Ero brillante come non mai. Importante era non mischiare. Fondamentale. Solo così avrei saputo quando chiudere la bocca.
Ma non è dei miei balordi bagordi che voglio raccontare. Sempre diversi e così tanto uguali. Basta dire che dopo i primi quattro- cinque aperitivi, sono andato a mangiare qualcosa al BuonGustavo. Ho mangiato poco e bene, bevendo vino bianco.
Erano più o meno le cinque e trenta, sulla panchina dei giardini di piazza Surbania, la panchina di pietra sempre all'ombra, sotto un acero secolare, quando ho pensato di ritornare a piedi a casa.
Per strada avrei fatto qualche altra sosta.
Ed eccomi qui. Tornavo a casa. Erano circa le diciannove e il crepuscolo era d'arancio e di viola.
Abito nel centro storico, in un palazzo del seicento, ristrutturato e restaurato l'ultima volta alla fine del secolo scorso.
Mentre percorro uno dei vicoletti che s'inerpicano fino alla piazza della chiesa, mi massaggio la faccia.
Ho una barba lunga di due mesi, sebbene siano anni che non la taglio del tutto. Cammino e infilo le dita della destra fra ciuffetti di barba. Osservo poi sui polpastrelli scagliette di pelle screpolata del viso, seccato per la lunga barba.
Mi fermo a guardarmi in una vetrina d'un negozio. Mi massaggio il mento, mentre mi guardo riflesso e penso che quasi non mi riconosco con quella barba lunga. Sono poi io? Non ricordo il mio viso senza barba. No, non lo ricordo! Ho bisogno di un barbiere. Ho proprio bisogno di una mano rapida che liberi il mio volto nascosto e dimenticato.
L'idea di sbarbarmi da solo m'innervosisce. Troppo tempo, troppi peli sparsi e attaccaticci sulle mani e sul lavandino. Prima forbici, poi lametta. Poi di nuovo lametta. Con schiuma o senza? No. Meglio un barbiere. Veloce, pulito, rilassante.
Non è mai stata mia abitudine ricorrere alle cure di una barbiere per la barba. No. Qualche volta è capitato, ma sempre accompagnato da un taglio di capelli, per il quale mi rivolgo a Mario, il barbiere solitario.
Mario te lo immagini proprio come può essere uno che fa il barbiere e che si chiama Mario. L'hai presente? Già, proprio uno così, come l'hai pensato tu.
A parte l'aspetto esteriore, Mario è una persona discreta e silenziosa. Cortese, pure. Tranne quando urla bestemmie a Dario, il ragazzo che gli dà una mano nel salone. Perché s'è addormentato in bagno o perché è diventato trasparente.
Il negozio di Mario si trova proprio lungo il mio ritorno a casa, in uno dei vicoli che salgono fin sulla piazza comunale. Ma, stupore, quella sera Mario era chiuso.
- Sono dovuto andare a Malgodì - dice il cartello attaccato alla saracinesca abbassata - apro domani.
Io avevo bisogno di un barbiere, e Mario m'aveva abbandonato!
L'idea di sbarbarmi da solo m'innervosisce. Troppo tempo, troppi peli sparsi e attaccaticci sulle mani e sul lavandino. Prima forbici, poi lametta. Poi di nuovo lametta. Con schiuma o senza? No. Meglio un barbiere. Veloce, pulito, rilassante.
E mentre inseguo questi pensieri, tornando indietro senza quasi esserne consapevole, camminando lugo il vicolo in discesa, alzo lo sguardo al crepuscolo arancione e viola e noto, appesa all'ingresso di un portone, una targa illuminata : "Da me, barba in quattro minuti".
Entro nel portone. Mi ritrovo in un cortile. Buio.
A stento riesco a intravedere i balconi della costruzione che cinge il cortile. Ampio. Incredibile che uno spazio così vasto sia nascosto ai vicoli, che s'inseguono, incrociandosi, fin sopra la piazza comunale.
Ma nel buio, scorgo una sottile linea di luce,verticale, sotto il porticato a sinistra. Una porta socchiusa che lascia filtrare una striscia di luce.
Mi avvicino. Gli occhi, già abituati all'oscurità di quel luogo, e grazie alla sottile illuminazione che la porta socchiusa lascia filtrare, leggono sulla porta stessa : Barbiere.
Che faccio? Busso? O entro senza bussare? Starà per chiudere? E' già chiuso?
Apro la porta.
Dalla soglia vedo il barbiere, camice e pantaloni bianchi, seduto a sfogliare un quotidiano, su una panca addossata alla parete, di fronte alla poltrona regolabile, tipica dei parrucchieri. L'unica.
Un solo specchio, quadrato, sulla parete di fronte alla poltrona. Uno solo, circolare, di fronte allo specchio quadrato.
Il barbiere, in camice e pantaloni bianchi, stava sfogliando un quotidiano.
Appena mi vede sulla soglia, si alza. Sorride. Lascia cadere il giornale sulla panca. Continua a sorridere e dice
- Buonasera.
seguito da
- Si accomodi.
Distolgo lo sguardo dal grigiore di quel negozio, la cui aria sapeva di stantìo e dimenticato. Gli specchi erano graffiati e, soprattutto quello circolare, in certi punti opaco.
Rivolgo lo sguardo al barbiere già pensando di ricambiare il saluto e uscire dal suo squallido e tetro negozio. Ma il suo sguardo immobilizza per un istante i miei propositi. Così rimango. E siedo alla poltrona che mi indica. L'unica di quel luogo inquietante.
Perché sia rimasto è semplice, anche se non deve certamente giustificare il mio comportamento. Potevo assicurarmi - perché poi avrei dovuto? -, potevo sincerarmi che il barbiere, il suo sguardo, il suo volto, erano proprio lo sguardo e il volto che temevo di aver dimenticato. Per questo avevo deciso di rivelare il mio volto nascosto dalla lunga barba. Perché non ricordavo più il mio volto. Ma una volta che l'avevo ricordato, guardando il volto e lo sguardo del barbiere, potevo anche fare a meno di sedermi sulla poltrona.
Avrei potuto ancora alzarmi, dopo aver rivisto il volto riflesso del barbiere, nello specchio quadrato con gli angoli opachi, ed essere ormai sicuro che il suo era il mio volto nascosto. Dal momento che mi ricordavo, potevo anche andare.
E invece sono rimasto. Seduto, mentre il barbiere mi guardava negli occhi, fissi negli occhi del suo riflesso, e veloce - come assicurava l'insegna - mi sistemava un telo attorno al collo. Impugnava già il rasoio, anche se non aveva ancora insaponato il volto che non ricordavo. Uguale al suo, se glabro.
- Netto? - chiede in un sorriso ghigno, gli occhietti cattivi fissi nei miei riflessi. E senza aspettare risposta, col rasoio mi taglia la gola.

 

in viaggio

Credevo fosse stato un caso fortunato, imbattermi in un tale che andava a Urbara. Sembrava anche aver fretta, come me. In più, lui stesso aveva detto al cellulare, che avrebbe preferito viaggiare in compagnia. Io l'ho sentito dire così. Ero a un passo da lui. Io, i gomiti poggiati al bancone del bar dell'autogrill la Belva, fra Malgodì e Urbìa. Lui, a un passo da me, di spalle.
Vestiva un lungo soprabito scuro e un grosso cappello a tesa larga, scuro come il soprabito. Parlava sottovoce, ma riuscivo a sentirlo, fra il brusio degli avventori, centinaia in quell'ora di punta. - "Sì…, sì. No, un leggero ritardo, ma ora riparto. Sarò a Urbara tra poco… Sì, va bene. No, magari. M'avrebbe fatto piacere, viaggiare in compagnia".
Ora, dato che mi trovavo all'autogrill la Belva, dopo aver camminato per tre, quattro chilometri (più o meno a quella distanza avevo dovuto lasciare la mia Bruma millequattro blu scuro, con la temperatura prossima a fusione testata); considerato che dovevo arrivare a Urbara, avrei dovuto trovare una soluzione. Quale poteva essere migliore di quella che il generoso caso mi offriva, senza mio sforzo alcuno? In verità, quando sono entrato al bar della Belva, non avevo ancora deciso se, uno: chiamare il soccorso stradale per recuperare l'auto, e avvertire chi di dovere per annullare l'appuntamento a Urbara (era alle undici e trenta, erano le nove e cinque); due : chiedere per trovare un passaggio. Ecco, mi son detto, il caso è generoso. Io stavo coi gomiti poggiati al banco, immerso nel brusio dell'ora di punta, lo sguardo a galleggiare sul ghiaccio nel bicchiere, gli orecchi allo scuro signore col cappello, che mi volgeva le spalle, parlando al telefonino, invitandomi, a sua insaputa, a fargli compagnia fino a Urbara.
Nel momento in cui aspetto che si volti o che comunque si muova, dopo aver riposto nella tasca del soprabito il cellulare, come è mio solito immagino di non riuscire a pronunciare parola. Come sempre mi succede d'incepparmi quando ho necessità di parlare ad uno sconosciuto. E già mi ripasso a mente la domanda e l'affermazione che la introduca - "Ho sentito, mi scusi, che è diretto a Urbara. Mi darebbe un passaggio?" E ripasso, a mente ripasso nei secondi in cui lo scuro signore non accenna alcun movimento, né gesto.
Poi si volta e io lo guardo in viso. Non negli occhi, perché inforca lenti scure. Tra l'altro, il bavero alzato fin sotto il naso - che pure è nascosto nell'ombra -, e la tesa larga del cappello poggiata sulle scure lenti, mi impedisono di vedere la sua faccia. Alla vista di quella faccia che non vedo, già mi pento di poter decidere se chiedergli di aiutarmi a risolvere il mio problema. Quindi decido di non dire nulla a quella faccia nascosta. Ma lui, lo sconosciuto con la faccia nell'ombra, appena si accorge di me
- "Salve - mi anticipa con voce di naso, ma cordiale - ha bisogno di un passaggio fino a Urbara? - poi si presenta - Piacere, Moldovàn".
Mi allunga la mano destra, guantata in pelle nera.
Allungo d'istinto la mia alla sua, mentre mi dico : " Guarda un pò! Abbiamo lo stesso cognome".
Le nostre mani si sfiorano appena, perché appena gliela sto stringendo, la sfila dalla mia - timido il mio omonimo, penso - mentre mi rivela anche il suo nome.
- "Petre. Petre Moldovàn".
Coincidenza, penso ancora : abbiamo anche lo stesso nome.
In questo breve frangente, ancora indeciso se accettare la sua generosità, mi sento smarrito. Poi penso che il signor Moldovàn deve soffrire di qualche malattia della pelle. Ecco la ragione all'accurato riparo d'ogni centimetro quadro della sua persona. Mani comprese.
Dato che ancora non gli ho risposto, mi rinnova l'invito
- "Se ha bisogno di un passaggio, io arrivo fino a Urbara. Avrei piacere di dividere con lei la strada".
- "Bene - accetto senza perdermi in inutili pensieri -, la ringrazio. Per me possiamo andare".
Uscendo dalla Belva, gli spiego, già più rilassato, che ho avuto problemi con la mia Bruma millequattro blu scuro. L'ho lasciata, fortunatamente, in una piazzola di emergenza. Lì mi ero fermato, accortomi che l'auto aveva problemi al raffreddamento.
- "Ho premura di arrivare per le undici e mezzo a Urbara".
- "Ci sarà - mi assicura con la sua voce nasale, ma cortese -, ci sarà senz'altro".
Arrivati al parcheggio, mi indica l'auto nella quale entrare.
E' una Bruma millequattro, blu scuro. Come la mia. Coincidenza, ripenso. Questo signore che va a Urbara, come me, si chiama come me e ha un'auto simile - sembra identica, anche all'interno! - alla mia.
Prima di salire sono stato tentato di controllare il numero di targa. Ma, sorridendo al mio fantasioso pensiero, apro la portiera e salgo. Il signor Moldovàn mette in moto. Partiamo.
Abbiamo appena imboccato il raccordo all'autostrada, all'uscita dell'area di servizio, che il mio sguardo si poggia sul tagliando dell'assicurazione dell'auto, sul parabrezza. Leggo i dati come riflessi in uno specchio. Il numero di targa, letto come in uno specchio, è uguale al numero di targa della mia auto, letto al contrario! Quello della Bruma millequattro blu scuro del signor Moldovàn è : A Esse novecentoquattordici Enne Emme. Quello della mia Bruma millequattro blu scuro è : Emme Enne quattrocentodiciannove Esse A. Non è vero, mi dico, non può essere. Questa su cui viaggio verso Urbara, in compagnia di uno sconosciuto mio omonimo, non può essere la mia auto! Sicuro! Che scemo! Deve esserci un errore di dati, sul tagliando dell'assicurazione. La mia auto è, come si dice, "in panne". Già a più di quaranta chilometri da qui!
Già! Posso affermarlo con certezza. Perché appena salito in auto, prima di dare uno sguardo al tagliando dell'assicurazione, ho dato uno sguardo al contachilometri. E ora, nel momento in cui lo osservo di nuovo, segna quarantatre chilometri in più rispetto alla partenza. Ora quarantaquattro. Abbiamo già percorso tutta questa strada! E già. Perché il signor Moldovàn sembra avere più premura di me. Schiaccia il piede sull'acceleratore. E come lo schiaccia! E' vero che la strada è deserta, ma correre a centonovanta mi sembra un po' eccessivo.
Rapida, l'ebbrezza per la velocità si trasforma in ansia. Guida bene il signor Petre Moldovàn, ma va comunque un po' troppo veloce. Per la mia ansia.
- "Come mai tanta fretta? - chiedo cercando di sciogliere il nodo alla gola che mi strozza un po' la voce - Se non sono indiscreto, ha importanti impegni a Urbara?"
Il signor Petre, la faccia sempre nell'ombra, non replica subito alla mia riflessione. Guarda la strada. Bene che sia concentrato, mi dico, ma potrebbe almeno proferire una sillaba, mi dico pure. Ma lui continua a tacere. Allora io, cercando di ingoiare il nodo che quasi mi strangola
- "Ha molta fretta - ridico -, più di me!"
A questo punto, forse perché ha capito che ho paura, o forse per altre ragioni, comunque, finalmente parla
- "Non credo", dice.
Solo queste due parole, dice. Tre sillabe. Poi nuovo silenzio, nell'ovattato roboare del motore. Settemila giri. Centonovanta chilometri all'ora. Quasi duecento.
Poi è successo tutto all'improvviso. Non ne ho avuto consapevolezza.
Forse la strada in quel punto era viscida per la pioggia recente. Oppure l'angolazione della curva, secondo leggi dinamiche certe, non consentiva la velocità a cui viaggiavamo.
Viaggiavamo?
Forse solo perché il signor Moldovàn, prima nascosto nel suo soprabito scuro, la faccia nell'ombra del cappello e degli occhiali neri, forse solo perché l'invisibile signor Petre Moldovàn è svanito, lasciando solo il soprabito, il cappello e gli occhiali, sul sedile di guida.
Non è stato per la strada viscida o per la curva improvvisa, che la Bruma millequattro blu scuro è andata dritta. Non ha seguito la curva, ma è andata dritta dritta, a schiantarsi, a centonovanta all'ora, quasi duecento, contro il pilone in cemento armato. Un arco del ponte sull'autostrada che stavo percorrendo. Verso Urbara.

 

è tutto un gioco

Finalmente. Il momento è arrivato. Da mesi aspettavo la lettera. Una semplice lettera. Non speravo in una telefonata, anche perché nella mia di lettera, quella sulla quale avevo riportato i miei dati e il mio ultimo indirizzo, non avevo annotato il numero di telefono. Ma io ce l'ho il telefono? Scherzo! E' tutto un gioco, no? E allora scherziamo pure. Comunque, il telefono ce l'ho.
La lettera era arrivata. Mi invitava a mettermi in contatto, al più presto, con l'ufficio relazione esterni, telefonando al zeroquase'-ci ze zéro, e chiedere del signor Losca.
Il postino aveva citofonato da appena pochi minuti. Meno. Io ho risposto domandato chi è e chiesto se per me aveva posta. Perché era il postino. Ha detto di sì, e sono sceso. Dopo aver aperto il portone col grilletto del citofono.
Sono risalito. Avevo già aperto la busta, mentre richiudevo la porta e guardavo il telefono, in fondo, di fronte al suo riflesso nello specchio quadrato accanto alla finestra del balcone. Sulla sinistra.
Il signor Losca in persona ha risposto al mio
- Pronto, buongiorno. Sono - e il mio nome e cognome - Ho ricevuto una lettera in cui mi si informa di mettermi in contatto con il signor Losca.
- Sono io - voce voce, di quelle che senti proprio vere - Ho gaudio sentirla - serio e severo - Avremo piacere di poterla incontrare al più presto, per definire le modalità - serio, severo e senile - grazie alle quali poter realizzare una collaborazione proficua e interessante.
Bene, mi son detto, posando il ricevitore e la lettera. E' ora di partire. Già, perché erano le nove e quarantadue, e alle dieci e quindici partiva un intermilan per Urbara. Ce l'avrei fatta.
Ricordare tutti gli orari delle partenze doveva avere un senso! Perché mai avrei dovuto ricordarli, tutti quegli orari, se non per servirmene nel momento stesso in cui mi si fosse presentata la necessità?
Il treno è partito in orario. Sarei arrivato alle dodici a Urbara.
Alle dodici e trenta avrei incontrato il delegato del signor Losca, il responsabile dell'ufficio nuove registrazioni : il signor Bisca. Con lui avrei preliminarmente discusso dei termini in cui avremmo affrontato le pratiche di rito. Gli accordi sarebbero succeduti in un secondo colloquio, in presenza dello stesso signor Bisca, del signor Losca e del presidente incaricato : il dottor Giullari. Ernesto Emilio Efisio Giullari.
Di lui avevo letto, su un rotocalco di tendenza - quale non rammento -, nella sala d'attesa dell'analista di Mestesso, al quale facevo compagnia perché si sentiva un pò smarrito. L'articolo riferiva che il dottor Giullari discendeva da una vera genìa di buffoni di corti medievali e poi della rinascenza. Giocolieri, funamboli, saltimbanchi, clowns di tempi remoti.
Ernesto Emilio Efisio Giullari, pluricentenario, era a capo delle due multinazionali che monopolizzavano l'industria mondiale del giocattolo. Così diceva l'articolo che ho letto : " Giullari, il signore dei giochi ".
Avrei conosciuto, probabilmene stretto la mano, del signor Giullari in persona! Il favoloso, leggendario dottor Giullari, Ernesto Emilio Efisio Giullari. Già, proprio lui! Un'emozione. Irripetibile. Una tachicardia adrenalinica.
Il mio gioco, il gioco che avevo ideato e realizzato, in modo artigianale, il mio gioco aveva destato l'interesse del dottor Giullari. Quale premio migliore, per i sacrifici e la dedizione in cui avevo speso, fino a consumare, i miei tanti anni. La sola notizia di avere l'onore di poter fare sì alta conoscenza, mi ripagava di ogni
sudore e disperazione. Nelle lunghe ore in cui ero travolto dalle voragini che si spalancavano all'insuccesso. Che rideva nei miei pensieri, iena o avvoltoio delle mie aspirazioni, della mia stessa ragione di vita.
L'incontro con il delegato del signor Losca, il responsabile dell'ufficio nuove registrazioni, il signor Bisca, è stato un incontro
davvero cordiale. Molto. Troppo forse.
M'ha fatto accomodare nella sua stanza. Accogliente e profumata. M'ha offerto da bere e da mangiare. Cortese, ho rifiutato. Di mangiare. Lusingato dalla considerazione del signor Bisca, per la stima che mi aveva confidato di avere, del mio lavoro e della mia persona, ora che m'aveva conosciuto e aveva sentito dalla mia viva voce cosa pensassi del mio gioco, io, irretito dal suo garbo, ho firmato, in calce a un foglio, senza saper cosa stessi firmando.
Il signor Bisca ha detto - Le dispiace?, porgendomi una biro blù e indicandomi il punto da cui partire per firmare. In calce al prestampato in duplice copia che aveva fatto scivolare furtivo. Dalla tasca della sua giacca al tavolo, e dal tavolo, dopo che avevo scritto il mio nome e cognome, una copia nelle mie mani e l'altra di nuovo nella stessa tasca della sua giacca.
- La sua copia può firmarla quando vuole - ha detto, sempre sorridente. poi si è congedato - Lei rimanga pure comodo. Fra un minuto tornerò col dottor Giullari e il signor Losca.
E' uscito. Sorridente e convenevole, il signor Bisca, del quale, a dire il vero, non ricordo affatto né l'aspetto, né la voce.
Rimasto solo, ho letto la copia del prestampato di cui avevo firmato l'originale. Che il signor Bisca aveva portato via con sé, nella tasca della sua giacca, di cui, a dire il vero, non ricordo né il taglio, né il colore.
Leggo una serie di : clausole, condizioni, avvertenze, prerogative,
taciti consensi, esenzioni di responsabilità, assoluto scioglimento delle registrazioni in atto, qualora fossero inadempienti alla soluzione della trattativa ancora in corso. Cioè?
Sopra lo spazio per la firma, che su quel prestampato non c'era, c'era però nella copia originale che il signor Bisca..., sopra lo spazio : quattro righe. Trentadue parole, tra articoli e preposizioni comprese : Col presente contratto cedo ogni diritto della mia persona in cambio dei profitti, in misura dello zero per cento, ricavati dalla commercializzazione del gioco, di cui il sottoscritto è ideatore e realizzatore. In fede.
Il signor Giullari è entrato, regale come l'avrei potuto immaginare.
Vestiva un abito scuro. La bianca barba lunga di decenni. Gli occhi ritratti nelle rughe profonde. Gli zigomi taglienti.
Dietro di lui Bisca e Losca. Entrano e uno dei due richiude la porta. Siedono. Giullari resta in piedi, di fronte a me, in piedi di fronte a lui.
Mi guarda. Non parla. Io nemmeno parlo. Ma mentre io avrei detto, se avessi parlato, avrei detto, che ne so - Piacere, dottor Giullari! Quale onore per me, strigerle la mano!, e cose del genere lui, secondo me, con l'espressione che aveva, avrebbe detto
- E' sicuro di aver fatto la scelta giusta? Ha interpretato correttamente i termini del contratto? Ha valutato le condizioni? Sa cosa la aspetta?
A quel punto gli avrei chiesto di fare in fretta. Perché, se è vero che è tutto un gioco, quel gioco m'aveva stancato.