Fabrizio Ulivieri Pantani la distruzione di un mito

 

Agli incubi
Che rendono impossibile la felicità

 

Nel mondo c'è un sotto-mondo, un mondo sotterraneo. Un mondo sconosciuto ai più. Un mondo che talora si rivela. Paurosamente, orribile viene su. Viene su per fare del male.
Nelle fogne, nei tombini, nelle cloache, nei ristagni d'acqua, nelle tubature s'insinua e viene in superficie questo mondo sotterraneo. Viene su per rapire, distruggere, uccidere. E' lì in attesa di una nostra debolezza per infettarci col morso dei suoi esseri notturni, delle sue creature, dei suoi incubi della notte.
E' come se sotto la superficie di questo nostro mondo se ne movesse un altro.
Come se dei tiranti percorressero le nostre città da una parte all'altra muovendo inconsapevoli le sue pedine.
Qualche volta il Male opera in modo violento, qualche volta si sostituisce al Bene. Opera come se fosse Bene, ma opera nella sua direzione: quella del Male.
E forse questa è la figura più alta e più raffinata del Male. Il modo più sofistico di colpire ciò che lo disturba: il Male che si camuffa da Bene.

Il Male non ama i miti. I miti insegnano, additano la direzione verso ciò che è positivo.. Ispirano i giovani, le masse, verso la positività del Bene.
Il Male ha paura dei miti. Il Male sa già in anticipo, pre-vede la nascita di un mito. E già da lontano inizia a combatterlo.Il Male ha paura dei miti. I miti hanno la forza di allontanarlo dalle città, dagli angoli sporchi, dai rifiuti del mondo, dal buio della mancanza di speranza.

Ma il male ha un punto di vantaggio: conosce la mappa del nostro corpo. Sa dove colpirci. Sa dove siamo più deboli. E di lì inizia spietato..







Città di T*** 17 agosto del 199***

Ancora una scossa? Ma è incredibile! Che stia per succedere il finimondo?
Ma quante scosse saranno state oggi?
Quindici? Venti? Tutte piccole…ma uno stillicidio....Oddio è già le 19,30! Sarà meglio che smetta di lavorare. Sto perdendo la testa. E' tutto il giorno che lavoro. Basta!!!
Vado a casa…ma…no! Devo andare a casa. No!!! Ho detto no…non voglio farlo ancora…

Fu così che il procuratore P. spense la luce del suo ufficio e decise di andarsene a casa quella sera del 17 agosto 199***. Un'estate calda, torrida. Con gli abiti che ti si appiccicavano addosso per il continuo sudare.

"Buonasera Dotto'! Che se ne va?"
"Sì Esposito sono piuttosto stanco. Me ne vado è tutto il giorno che lavoro! Mi gira la testa…"
"Le chiamo la scorta Dotto'."
"No! No Esposito grazie…stasera no. Ho bisogno di una boccata d'aria…ho la testa che mi scoppia…meglio di no. Vado a piedi: so Badare a me…

Sapeva che mentiva. Mentiva anche a se stesso. Ma no…in verità aveva davvero bisogno di camminare, di vedere un po' di gente…di sentire le voci della gente, gli odori…No! Non ci sarebbe andato lì. Ne era sicuro…

…Grazie Esposito non disturbare i ragazzi. Me la cavo da solo!"
"Ad ogni modo Dotto' stia in campana! Oggi è un brutto giorno…"
"E perché mai…? E' una così bella giornata!"
"Dotto' non mi dica che non ha sentito il terremoto?"
"E come no! Mamma mia sembrava la fine del mondo!"
"Ecco, appunto Dotto': s'è revortat 'o monno! Sa quante scosse sono state esattamente Dotto'?"
"Una ventina Esposito"
"Dicìotto per l'esattezza Dotto'! Dicìotto! E sa quanto fa dicìotto diviso tre?"
"6 Esposito! Ma che domande fai?"
"No dottore fa tre volte sei: 6 6 6 !!!"
"Certo 6 x 3 = 18. E' così! Che c'è di strano?"
"Ah Dotto' si vede che Lei non è di Napoli: 6 6 6 è il numero del Diavolo Dotto'!"

Il Procuratore P. rimase un po' interdetto.
"E poi oggi è anche venerdì 17 Dotto' non lo dimentichi!"

Dio ma che strana coincidenza! Non aveva tutti i torti Esposito.
Troppe coincidenze per non stare attenti. In fondo anche lui, sebbene nato a T***,
un pochino superstizioso lo era…ma…ma l'aveva vista l'altro giorno passando in macchina…e quelle gambe non le aveva dimenticate…l'idea di toccare quelle gambe fino a…
Non ci andare! Non ci andare! Oggi non è il giorno giusto. Anche Esposito ti ha avvertito. No, non ci andrò non è…il…giorno...giusto…

Uscì dal palazzo di Giustizia e fece la solita strada lungo Corso*** che avrebbe fatto per andare a casa in macchina.
Non ci andrò.
Si ripeteva per la strada.
Non ci andrò.
Ma quando arrivò all'altezza di Corso*** le sue gambe andarono in una direzione che non sarebbero dovute andare.
Ormai erano quasi le 20,30 e la luce cominciava a mancare. Si disegnavano le prime ombre. Ma l'ombra che lui cercava la conosceva bene, sapeva bene dove trovarla.

Quando la vide per un attimo gli mancò il respiro. Era appoggiata al muro dietro un cassonetto della spazzatura, con una minigonna cortissima che faceva risaltare le sue gambe lunghe affusolate. Alta, con due spalle da scaricatore di porto. Un trucco estremamente marcato. Due labbra rosse che sembravano l'anticamera dell'inferno.

"Va bene seguimi!" gli disse.
Lei si diresse verso il cancello di una villa in stato di abbandono.
Aprì il cancello.
Si intravedeva la vegetazione di un giardino ormai inselvatichito. Abbandonato a se stesso e preda di erbacce.
"Vieni" gli disse "vieni che ti mostro il paradiso". E gli soffiò una nuvola di fumo in faccia.
Lo portò nei pressi di un piccolo stagno. Lì c'era odore di acqua marcia. Come se vi fosse morta dentro una carogna.
Ma lei si avvicinò a lui. E il procuratore P. sentì solo il suo odore. Un odore forte come di muschio e di antico. Un odore che gli penetrò in tutti i pori. E lo portò in un altro mondo.
Lo baciò leggermente sulle labbra.
Poi lei lo accarezzò leggermente fra le gambe.
"Ehi niente male bell'uomo!"
Si voltò e volgendogli le spalle si piegò leggermente in avanti.
"Dài entra dentro di me" gli disse.
E lui entrò dentro di lei.
Sentì un calore, un fuoco bruciargli dentro. Un fuoco irresistibile che cominciò a divorarlo.
La sua vista si annebbiava e lui si rese conto che qualcosa non andava.
Ma troppo tardi.
"Dài " disse suadente l'animale che si prostituiva dinanzi a lui " resta dentro di me. Non andartene. Ormai non puoi più andartene. Resta dentro il mio mondo. E'un altro mondo lo sai. Qui è il mondo di sotto. Dove tutto galleggia. Dove tutto muore. E' il mondo infinito delle ombre…presto anche tu sarai di questo mondo."
Lei si voltò. I suoi occhi erano bianchi e freddi come quelli di un morto. Si divincolò dall'amplesso e si gettò agile come un gatto selvatico su di lui.
Due denti canini, aguzzi, che lo mordevano al collo fu l'ultima cosa che il procuratore P. vide. L'ultima che sentì fu l'alito di lei: sapeva ora di carogna come quella sepolta nello stagno.



Tour de France 1997 Alpe D'huez

Un respiro.Un respiro che diviene sempre più affannoso.
Un piccolo punto. Un piccolo punto giallo-blu va su come un missile fra mille altri colori ai bordi della strada.
Il respiro diviene assordante. Insopportabile.
Il puntino giallo-blu passa velocemente.

Ritornerò quello di prima? Devo ritornare quello di prima! O salto io o saltano loro!
Oh se mio nonno fosse qui a vedermi…oh nonno!…ma vincerò vincerò per te! O salto io o saltano loro…ritornerò quello di prima?Devo ritornare quello di prima…ce la farò…?

La testa pelata sale su come un automa a una velocità impressionante fra due ali di folla che lo toccano, lo spingono, lo picchiano sulla schiena…Sale! Sale! Sale su come un missile!
La strada è una bolgia. Il rumore esplode in modo infernale. Motociclette. Clacson. Macchine. Urla. Marco sale su fra un tributo di folla e di gloria.
Sale su verso la vittoria.

Agrigento 1999

Un gruppo di giovanotti svitati vestiti di nero si avvicinano seguiti da una telecamera con lo stemma di un serpente. Il gruppetto s'insinua tra la folla. Botte spinte. Si fanno largo.
"E' vero Marco che ti dopi?" chiede uno di questi pazzi vestiti di nero sbattendo il microfono sui denti di Pantani.
Marco ha una brutta reazione. Dice qualche parola irripetibile. Reagisce violentemente.
La telecamera con il serpente filma. Il suo occhio spietato inizia l'opera di demolizione. Un'opera che è già partita da lontano, nell'estate del 199***.
Marco rientra in albergo.
Gia prima dell'inizio del Giro la maldicenza si era messa in opera. Qualcuno aveva definito questo ottantaduesimo Giro d'Italia come il "il tour delle stazioni sciistiche". Un Giro costruito su misura per lui.
Marco rientra in albergo. Sente il peso della responsabilità sulle sue spalle.
Ora sa che c'è un nuovo nemico da combattere. Ancora non sa spiegarsi quello che hanno fatto i gendarmi francesi al Tour l'anno prima.

Li hanno presi come bestie. Li hanno trattati come bestie. Li hanno maltrattati come si maltrattano i cani bastardi. Ma questa è gente che lavora, che si allena tutti i giorni. Non sono ladri, non sono banditi. Solo la fatica, tanta fatica li fa arrivare. Ma come si può trattare così uno che lavora!

Rientrando in albergo s'imbatte in A.: "Ma come cavolo è possibile?" gli urla in faccia Marco "Ma te che ci fai qui? Questi sono arrivati fino a me con il microfono in mano: ma te che ci conti qui se non li sai gestire? Da me non ci devono arrivare! Lo capisci? Ci devi pensare te a loro non io! Chiaro!!!"

Che ti succede Marco perché ti arrabbi così con lui? In fondo è uno dei tuoi migliori amici.

D'un tratto i suoi occhi (per caso?) s'imbattono in quelli di un tizio vestito in modo strano. Sta in piedi vicino al bar dell'albergo, vestito quasi fosse uscito da un ballo in maschera. Indossa un paio di scarpe da charleston, un paio di pantaloni a righe da cerimonia, e sopra un frac con tanto di cappello a cilindro.

Ma chi è quello?

Stranamente nessuno sembra accorgersi di lui. Anzi pare che solo Marco lo veda.
Quel tipo gli sorride. Ha dei denti bianchissimi, con dei canini aguzzi come un doberman.
La sua faccia è scura come quella di un marocchino. Ma i suoi occhi sono impressionanti: verdi come il fondo di una bottiglia.
Il tipo continua a fissare Marco e a sorridergli.
Si avvicina.

CIAO MARCO

Lo saluta il tipo con una voce mielata, quasi stucchevole.

Ci conosciamo?,

Risponde Marco un po' intimorito.

NO MARCO. NON ANCORA. MA PRESTO CI CONOSCEREMO. IO HO MOLTO DA OFFRIRTI MARCO. ANCORA NON LO SAI…MA LO SCOPRIRAI, LO SCOPRIRAI MARCO…

Marco è confuso dal suo modo di fare equivoco e taglia duramente, com'è solito fare con la gente che non gli piace.

Scusa ma non voglio comprare niente. Scusa ma ora devo andare…ho avuto una giornata proprio terribile

NON TI PREOCCUPARE. CI RIVEDREMO MARCO

E gli sorride mostrandogli ancora i suoi denti candidi e aguzzi di lupo.

I MORTI PESANO MARCO. RICORDATELO!

Gli grida quel figuro mentre la porta dell'ascensore si chiude e la faccia del figuro si eclissa.
Marco rimane lì perplesso.

I morti pesano? Che avrà voluto dire?

Firenze, ristorante La Grotta del mare

Rocco 23 anni. Labbra carnose e piene. Sorriso dolce. Capelli nero-pece lunghi, ondulati.
Occhi grandi e marroni. Naso leggermente camuso. Faccia fiera.
Una tipica faccia meridionale.
Rocco cameriere.
Rocco respira dentro.
Doloroso e sofferente respiro interno.
La testa ondeggia su e giù.
Dietro di lui solo colori.
I colori vanno su e giù.
La testa sembra stare ferma.
Corre leggero, agile come una gazzella fra i tavoli.
Musica in sottofondo.
Leggeri mormorii dei clienti.

"Rocco per favore mi porti il sale?"
"Eccolo signor Grandi!"
"Grazie Rocco!"
"Prego! Ci mancherebbe"

"Rocco questo vino sa di tappo!"
"Glielo cambio subito Baronessa!"
"Grazie Rocco! Sei sempre così gentile tu!..." e gli fa gli occhi dolci, lei di sessant'anni.

Rocco, ragazzo gentile e sorridente, giostra con i piatti in mano che sembra volare. Veloce, snello, una saetta che sfreccia fra tavoli e teste dei clienti.




Interno cucina

Rocco con una pedata apre la porta d'ingresso della cucina.

Sempre da destra! Sempre da destra mi raccomando! Non dimenticarlo mai altrimenti ti cozzi con l'altro che esce da destra!

Entra in cucina.
Uno scoppio violento e improvviso del rumore di pentole, piatti, padelle che friggono.
Il luogo è un caos infernale. Il rumore esplode in modo orribile, esasperato.

"Ehi ricchione! Prendi questo piatto e portalo all'11. E non ci mettere le mani dentro. Va 'bbuono!" gli fa Rollenscheiße, il cuoco terroncello che più sta sulle palle a Rocco.

"Sucamelo!" gli risponde Rocco.

"Che hai detto testa di cazzo? Sucamelo a chi? A sorate!"

Rollenscheiße prende un mestolo e glielo tira dietro. Rocco evita il mestolo.
Gli altri cuochi ridono.
Rocco scompare.
Sinuoso come un gatto.





Il sogno di Marco Modica 1999

La notte dopo la prima tappa, dopo l'arrivo a Modica, Marco è agitato.
Qualcosa sembra ancora non andare come lui voleva.
Il suo maniacale perfezionismo lo ossessiona anche nelle cose minime in corsa.

La sella non va bene, due millimetri su allora…no meglio solo un millimetro…lo scarponcello è troppo stretto devo cambiarlo…il cambio è troppo duro…il cardiofrequenzimetro mi disturba me lo tolgo…

Marco sogna. Sogna quel figuro strano che ha incontrato nella hall dell'albergo.
Gli sembra di essere in una cripta di cui non riesce a vedere le pareti ma solo colonne altissime. Tutto è immerso nel buio. Ad un certo punto sente quella voce melliflua e sibilante. Si gira e si trova quei canini affilati, davanti all'altezza del collo.

MARCO QUESTO È IL MIO REGNO. E' IL TUO SE VUOI. E' IL REGNO DEL SOTTOSUOLO. E' UN REGNO STRAORDINARIO MARCO. TU NON SAI LA POTENZA DI CHI GOVERNA QUESTO REGNO. QUESTO È IL REGNO DELLE OMBRE. MA LE OMBRE MARCO APRONO A TUTTO. NON È VERO CHE LE OMBRE NASCONDONO: LE OMBRE RIVELANO MARCO.
SE VUOI, TUTTO QUESTO SARÀ TUO.
IO TI DARÒ TUTTO. VINCERAI TUTTO. TUTTO QUELLO CHE NESSUNO HA MAI VINTO. SARAI IL PIÙ GRANDE CAMPIONE DI TUTTI I TEMPI.
MA IN CAMBIO TI CHIEDO UNA COSA SOLA.

Cosa? Cosa vuoi mostro?

VOGLIO L'ANIMA DI TUO NONNO

L'anima di mio nonno?

SÌ, LUI È ANCORA NEL TUO MONDO. E' ANCORA VICINO A TE. NON VUOLE LASCIARTI. VUOLE STARE VICINO A TE ANCORA. VUOLE PROTEGGERTI, DICE LUI.
MA LUI DEVE VENIRE GIÙ. GIÙ CON NOI MARCO. PERCHÉ QUI DEVE STARE. QUI CON NOI!
ACCETTI MARCO?

NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Tutto svanì di colpo e Marco si ritrovò su una salita a cavallo di una grande bicicletta, mentre nevicava.
La neve era strana. Non era neve. Era polvere. Polvere bianca, con un odore penetrante.
E cadeva, cadeva continuamente senza fine ma strano a dirsi non si attaccava in terra: scompariva.
Anche la bicicletta era strana. Aveva la ruota anteriore molto grande e quella posteriore piccolissima.
Marco fa fatica a pedalare. Ma poi si accorge di avere un paio di ali sulla schiena e allora comincia a muoverle e la bicicletta prende velocità lungo una salita tutta tornanti come quella dello Stelvio.
D'un tratto gli si avvicina uno dei tifosi, che stanno al bordo della strada e lo incitano.
E' un uomo dall'aspetto scuro..
Gli si avvicina con eleganza, leggero come una piuma, e quand'è a un palmo gli sorride.
La sua faccia di uomo si trasforma d'un tratto in quella di una ragazza bionda bellissima, ma anche dalla bocca di lei spuntano improvvisi orribili canini bianchi.
Neanche il tempo di accorgersene che quella gli pianta un coltello nella schiena all'altezza del cuore.

Marco si sveglia nella notte tutto sudato con la bocca aperta come se stesse per urlare. Ma non urla. Non riesce a urlare.
Tutto è tranquillo. Neanche il rumore di una macchina che passa.
Solo un odore strano e pestilenziale, come quello di una carogna putrefatta, sembra entrare dalla finestra.



Città di T*** 30 maggio 1999

"Mannaggia a' morte! Scusate ma che me vulite fa' ndurato e fritto? Ma avvocato gliel'ho già detto oggi il procuratore non può ricevere sta occccupaaato! Oh sant'Antonio…e finalmente avete capito. Oggi non riceve e non parla con nessuno!" Esposito riattaccò in malo modo il ricevitore.

Mannaggia che iuornata! E questo santuuomo del procuratore! Mannaggia com'è cambiato negli ultimi tempi. Sempre più strano! Non sempra chiù chillo e' primma. Isso a me mme pare un altro A me mme pare cagnato! Boh?
E poi 'sta mania del Giro d'Italia…

Il procuratore P. era cambiato negli ultimi anni. Non ancora quarantenne e aveva già tutti i capelli bianchi.
Sotto gli occhi gli erano venute delle borse nere. E i suoi occhi avevano come per incanto cambiato colore. Da neri che erano, erano divenuti verdi.
In procura si mormorava che avesse messo delle lenti a contatto di quelle colorate, come mettono gli attori.
Il suo carattere era divenuto taciturno e irascibile. Esposito non ce la faceva più a sopportare tutte le sue isterie quotidiane e difatti aveva già inoltrata la domanda di prepensionamento. Avrebbe perso qualcosa in soldi ma ci avrebbe guadagnato in salute.
Il procuratore si era incupito e invecchiato insomma. Ma nel giro di pochissimo tempo. In quattro e quattr'otto.

Eh avrebbe bisogno di una mugliera o' guaglione!

Ma il procuratore P. non sembrava inclinare da quella parte e allora erano cominciate piccole, sottili ma allusive insinuazioni.

Fesserie!!!

Lo difendeva Esposito. Ma pure a Esposito qualche dubbiarello era cominciato a venire.

Il procuratore P. era chiuso nella sua stanza dalla mattina. Neanche era uscito per mangiare.
Esposito origliò alla porta.
Si sentiva solo gracchiare il televisore.

Eh! l' ha presa con quel povero criaturo, che ce vulimm' fa' ?

Ma se Esposito avesse visto il ghigno del procuratore in quel momento che scopriva due aguzzi canini in una chiostra di candidi denti stiracchiando due labbra livide, mentre al Pelato saltava la catena sulla salita di Oropa, forse a Esposito i capelli gli si sarebbero rizzati e la pelle accapponata.
Esposito viveva a contatto con il baratro del mondo e pazziava., senza la minima coscienza di quel male che l'avrebbe infettato giù giù fino alla terza o quarta generazione.


Marco ha una nuova visione

Marco se ne stava in un bar di C. con la testa bassa appoggiata sui gomiti. Con le mani si massaggiava la pelata, e facendo leva sui gomiti ondeggiava in avanti e indietro come cullato da un ritmo che si fosse impossessato di lui.
Indossava una maglietta a righe simile a quella di un carcerato. Sembrava volesse anche nel modo di vestire manifestare la sua condizione di spirito.
Ancora rivedeva quelle quattro facce, bianche come tazze di porcellana, che gli alitavano davanti.

La vedi questa provetta? E' la tua, vero?
La vedi? Non ci sono dubbi è la tua! D'accordo?
E' la tua! E' la tua! D'accordo!

I quattro "vampiri", mandati dall'Uci, erano arrivati la mattina presto. Avevano bussato alla porta in malo modo. Gli avevano urlato di muoversi ad aprire la porta. Erano nervosi, agitati. Gli avevano prelevato il sangue in modo arrogante, cinico.
Poi era stato il finimondo…

Il corpo di Marco tremava.
Gli altri clienti davano occhiate interrogative al padrone del bar.
Quello rispondeva con un'alzata di spalle.
Come dire che Marco era così non ci si poteva fare nulla. Andava solo lasciato in pace.

Quasi che Marco avesse percepito quegli sguardi, tirò su la capoccia e si guardò intorno.
I suoi occhi a forza di stare a capo basso non mettevano bene a fuoco.
Allora si alzò e andò alla toilette per sfuggire la loro curiosità.

Si chiuse nella toilette e cominciò a orinare.
Poi scoppiò in un pianto dirotto. Piangeva Marco. Piangeva per la disperazione.

Perché avevano voluto fregarlo? Perché proprio lui? Lui che al ciclismo aveva regalato tanta gente. Che aveva riportato sulle strade giovani, bambini, donne e non più solo vecchi!
Perché proprio lui?

CIAO MARCO, CI RIVEDIAMO. CHE TI AVEVO DETTO?

Marco pensò di aver sognato.
Aprì la porta della toilette: nessuno!

SONO QUI MARCO!

Ma chi cazzo sei? Dove sei?

SON QUI MARCO, QUI DOVE HAI PISCIATO

Marco abbassò gli occhi nella tazza maleodorante di pesce marcio.
Nel giallo dell'orina scorse.
Fece un salto indietro e gli si accapponò la pelle.

Ma chi sei?

Urlò Marco con la voce che gli fece cilecca per la paura.

MA COME MARCO NON MI RICONOSCI? GUARDAMI MEGLIO

Marco si fece coraggio e guardò evitando di respirare per l'odore di marcio che veniva su.
Dentro l'acqua giallognola e fetida scorse una faccia. Non si distingueva bene ma era una faccia che lui aveva già incontrato.

I MORTI PESANO MARCO. TI RICORDI?

Disse la voce come se leggesse nel pensiero di Marco.
Marco fece un salto indietro.

La stessa voce mielata!

CHE TI AVEVO DETTO MARCO?IO POTEVO DARTI TUTTO…MA TU NON VUOI. E' L'AMORE CHE HAI PER TUO NONNO CHE LO TIENE ANCORA VICINO A TE: MA QUESTO AMORE TI PESERA' MARCO, ROVINERA' LA TUA VITA, PERCHE' NOI LO VOGLIAMO GIU'. O TU O LUI. SCEGLI

Io!

Vide ancora quei denti aguzzi scoprirsi fra labbra carnose.
Poi l'immagine scomparve.
Marco tirò lo sciacquone per cancellare ogni traccia di quell'essere schifoso.


Firenze spogliatoio del ristorante la Grotta del Mare, ore 00,45

"Ah Fabbrì, l'ho dovuto fa'! Che altro potevo fa'. Io non ce la faccio più con questo lavoro. Io m'ammazzzo se non smetto. Ma ti rendi conto: cominci la mattina alle nove e mezzo, finisci se va bene alle quattro del pomeriggio. Alle cinque e mezzo ricominci…e guarda qua a che ora finiamo! Tutti i giorni è così. Poi il sabato e la domenica, quando tutti fanno festa tu dove sei? QUI!!! Natale? QUI!!! Pasqua? QUI!!! . E poi 'sto stronzo di Uncino. Le mance se le prende tutte lui. Ma ti rendi conto un direttore che si prende tutte le mance! Non ce la faccio più Fabbrì…E poi anche Marco l'unico mito che c'era…anche lui ce l'hanno rovinato! Tutta colpa di quello stronzo del procuratore P. Che si bombasse o no alla gente che gliene frega? Tanto si bombano tutti. Tanto bombato o no se non vai non vai…se non ti alleni tutti i giorni e ti fai un culo così non arrivi, né con i primi né con gli ultimi. Cazzo se ci faceva divertire! Cazzo quanto mi ha fatto divertire! Ma ti ricordi che spettacolo sull'Alpe d'Huez. Che sballo! Cazzo come andava! Ti ricordi quel corridore francese quando se l'è visto passare davanti che pareva in motocicletta e ha allargato le braccia come per dire 'Madonna ma che è in moto questo?'. E De Zan? Ti ricordi che quando parlava di Marco gli scappava da piangere…Dio che mito! Ce l'hanno voluto rovinare! Ora Marco non va più una sega…ora non ho più nemmeno lui! Se non prendevo un po' di roba come facevo ad andare avanti?"
Gli occhi di Rocco che quando parlava di Marco si erano illuminati, tutta la sua faccia si era illuminata, era ritornato il Rocco che Fabrizio aveva conosciuto diversi anni fa quando Rocco, giovanissimo, era venuto lì a lavorare…prima della "cura Uncino".

Che uomo quello! Che schifo d'individuo! Se ti faceva fare un extra ci prendeva addirittura una percentuale…

"Mah!… Rocco non so che dirti…Anch'io non ce la faccio più. Prima o poi mollo. Questo è davvero un lavoro di merda…Ti capisco. Anch'io sono incazzato con quel P. Ma perché cazzo ce l'ha tanto così con Marco? Non capisco. Quello lavora e lavora duro! Anch'io ho corso in bici. E so che è una fatica bestiale. Se non ti alleni tutti i giorni non arrivi. Stai dalle quattro alle otto ore in bici tutti i giorni, mica scherzi! Ma per esempio…a te Rocco, che prendi la coca per andare avanti nel tuo lavoro…perché ti aiuta, perché quando la prendi vai come un treno…perché migliora la tua prestazione sul lavoro…ma mi domando…se un operaio della Fiat prende della coca per migliorare le sue prestazioni sul lavoro…nessuno va a rompergli il cazzo, nessuno va a fargli l'antidoping…a te nessuno verrà mai a farlo. Anzi Uncino è contento perché gli lavori meglio!
E se ti beccano i carabinieri puoi sempre dire che è per uso personale…cazzo ma hai visto come hanno trattato i corridori della TVM al Tour de France?...Boh? A un tossico gli permettono l'uso personale a un ciclista no! Ma un tossico è socialmente pericoloso…o no?"
"Ma che ci vuoi fa' Fabbrì. Fanno come cazzo vogliono. Che ci possiamo fare.
Ce l'hanno rovinato…Ci vediamo domani Fabbrì. Sono fuso, vado a letto, non vado neanche al pub stasera. Sono stanco morto. E domani è sabato e ci aspetta una giornata di merda. Bona Fabri'!"
"Buonanotte Rocco. A domani"



Città di T*** Palazzo di Giustizia

"Dunque Lei che mi dice?"
Marco lo guardò. Quell'uomo aveva qualcosa di strano. Quell'uomo gli ricordava qualcosa, qualcuno. Quell'uomo non gli piaceva. La sua voce era artefatta. Troppo melensa. I suoi occhi verdi avevano qualcosa di sinistro.
Marco era venuto lì con le migliori intenzioni. Ma l'atmosfera in quell'ufficio non gli piaceva. Meno male che con lui c'erano i due avvocati altrimenti avrebbe avuto paura.
"Io sono pulito. Non so perché mi si perseguita. Proprio non lo so! Non capisco di che mi si accusi!"
"Di illecito sportivo. Molto semplice. Lei ha fatto uso di sostanze che hanno alterato i valori in gara…"
"Hanno alterato cosa?" lo interruppe Marco "Nel ciclismo non si altera proprio nulla. Se non ti alleni non arrivi. Dopato o non dopato chi va più forte va più forte: sempre. Con il doping o senza doping. Io non avevo bisogno di doping. Andavo forte. Più forte degli altri. Tutto qua!"
Il procuratore P. sorrise appena, compiaciuto. Scoprendo dei denti candidi.
"Allora come spiega che alla Milano - Torino del 199*** Lei aveva l'ematocrito al 60%?"
"Io non spiego proprio nulla. Io mi avvalgo della facoltà di non rispondere."
Gli avvocati assentirono.
"Bene! Allora in tal caso non credo che io e Lei abbiamo altro da dirci. Ma ci rivedremo ne stia certo. Lei ha delle colpe e noi le colpe siamo usi a farle pagare.
Io credo che Lei abbia sbagliato tutto fin dall'inizio. Avrebbe potuto essere un grande campione. Ma ha fatto un'altra scelta. Avrebbe potuto venirci incontro e NOI L'avremmo aiutata. Ma Lei crede troppo nelle sue forze. Ha mai pensato che nel mondo possono esserci forze che hanno più potere delle Sue?"
Marco non capiva che gli volesse dire. Quale fosse il messaggio. Guardò perplesso gli avvocati. E quelli fecero finta di niente.
Il procuratore gli si avvicinò. Gli venne a pochi centimetri dalla sua faccia.
"Stia attento. Lei potrebbe prendere una brutta strada. Potrebbe anche non farcela più a riprendere a correre. Stia attento. Il serpente non tentò direttamente Adamo ma lo fece attraverso Eva. La Sua potrebbe essere una mela molto velenosa!"
Marco provò un senso di disgusto a sentirsi il fiato del procuratore in faccia.
Sapeva di marcio. Di un marcio che lo stava attanagliando da tutte le parti ormai.


Città di M*** carcere di SV***

B. ha capito che deve parlargli. Gli fa cenno di sì con il capo. L'altro annuisce e lo aspetta fuori della cappella del carcere.
Finita la messa B. esce e cammina a diritto, l'altro lo affianca e tutt'e due camminano spediti facendo finta di niente.
"Dimmi!" fa B. "Su chi devo puntare?"
"B., lo sai che ti voglio bene. Senza di te qui dentro mi avrebbero aperto un culo così" e fece il gesto con le mani " In tutti i sensi. Tu mi hai sempre protetto. Tu mi hai sempre voluto bene. Io ho un grosso debito con te. Tu sei un bravo ragazzo che merita tutto il mio rispetto non fosse altro che per il mare di galera che ti sei puppato. Quindi, vorrei farti un regalo... Se hai qualche milioncino da impegnare giocalo sul Giro d'Italia. Puntalo su Gotti, Jalabert o chi meglio credi. Non so dirti con certezza chi vincerà, ma certo non sarà Marco. Ho appena saputo che al Pelato andrà male. E tanto più forte pedalerà in questi giorni, tanto più potrai prendere scommettendo su un altro…"
"Ma chi vuoi prendere per il culo! Io l'ho visto quello lì l'altro giorno quando gli è saltata la catena, e certo non è stato un caso…quello... l'unico modo per fermarlo è sparargli!"
"B. ma come cazzo puoi pensare che io ti prendo per il culo? Qui lo sanno tutti chi sei! Se io ti facessi uno sgarro…se tu ci rimettessi qualche milione…so bene come andrebbe a finire. Se ti do una dritta vuol dire che la dritta c'è. Lo sai com'è radio-carcere. Quando c'è la dritta vuol dire che la dritta c'è!"
B. lo guardò dritto negli occhi. A B. non si poteva mentire. L'ultimo che gli aveva mentito l'avevano trovato con le budella in mano.

Che fosse vero? Ma chi poteva aver fatto tanto?


Ginevra

Marco in quei giorni si allenava in Toscana da solo, come sempre. Si allenava dalle parti di Grosseto.
Si era spinto verso S. perché aveva sentito parlare di una strega.
Una strega atipica. Una strega che gestiva un ristorante. Ma pur sempre una strega.
Marco anche lui era un atipico, soprattutto per quel mondo bigotto che era il ciclismo.
Che un po' aveva contribuito a svecchiarlo.
Ma a quanto pare gliel'avevano fatta pagare.
Aveva sofferto molto. Ma finalmente ora gli pareva di aver imboccato la strada giusta.
Finalmente aveva ripreso la bicicletta e ripreso ad allenarsi.
Aveva sentito tanto parlare di quella strega, in quei giorni che si allenava sulla costa della Maremma.
La voleva conoscere.
E se Marco diceva di fare una cosa non c'era niente da fare. Si doveva farla.

Dunque c'era una volta in un piccolo paese della Maremma una strega.
A differenza di tutte le altre streghe lei era una bella donna, la cui bellezza dei quaranta l'aveva resa ancor più affascinante e intrigante. Abitava in una casa colonica della sperduta Maremma in un paesino il cui nome comincia per S.
La casa non era grande. Come tutte le case delle streghe il tetto era pieno di buchi. Il comignolo era storto e sul punto di crollare giù. Le persiane sgangherate.
E sul davanti, a destra della vecchia aia, v'era l'immancabile forno occultato alla vista da alti cipressi. Non vi cuoceva bambini, diciamolo subito. Non era quel tipo di strega. Lei era una strega speciale. Una strega che non sapeva di strega.
Non preparava pozioni o filtri magici, ma fantastici piatti.

Come tutte le streghe viveva sola, in compagnia di un merlo. Un merlo parlante, naturalmente.
La cosa straordinaria del merlo era che il merlo, oltre a saper dire "Buongiorno", "Buonasera", "Buonanotte", "Come stai?", "Come ti chiami?" come si conviene ad un merlo parlante, era il depositario dei segreti culinari della bella strega.
Il merlo passava ventiquattrore su ventiquattro in compagnia della strega. Le stava sempre su di una spalla durante il giorno: dormiva appollaiato sul bandone del letto la notte. Per cui, siccome Ginevra amava ripetere a voce alta gli ingredienti delle sue ricette e declamava ogni atto della sua preparazione nell'atto stesso, Abramo (il merlo) aveva imparato tutto a memoria
E se a Ginevra capitava, qualche rara volta, di dimenticare un ingrediente o saltava un passaggio nella preparazione, subito gracchiava: "Rafano!!!, Rafano!!!, Rafano!!!" oppure "Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!!"

Ma se tutti preferivano pensare che fosse più cuoca che strega lei una strega lo era, eccome.
A tutti gli effetti.

E qualcosa diceva a Marco che doveva conoscerla.

Marco arrivò davanti l'aia verso le una. Non c'erano macchine. Ancora non era iniziata la stagione. E poi era un lunedì.
Appoggiò la bicicletta alla parete vicino alla porta d'ingresso.
Entrò.
Dentro era piuttosto buio. Non c'era neanche un cliente. Sui tavoli dei lumini accesi davano un'atmosfera surreale.
"Oh che onore! Abbiamo il ciclista più famoso del mondo!" sentì una voce calda sensuale alle sue spalle. Marco si voltò trasalendo.

Dio quant'è bella!

"Vuoi davvero mangiare?"
"Sì certo. Ho fatto un bel po' di chilometri per arrivare qui. E un po' di fame ce l'avrei!"
"Bene siediti. Ci penso io. Io lo so che ti piace. A me i miei clienti basta vederli un attimo e già li ho capiti!"
Gli occhi di Marco incontrarono quelli di Abramo.
"Vuole mangiare! Ha fame! Ha fame il ciclista più famoso del mondo!" gracchiò Abramo
"Ehi ma parla!" disse Marco
"Ma parla! Ma parla! Ma parla…"
Marco scoppiò in una risata, ridendo come da tempo ormai non rideva più.

"Tu vivi in un mondo difficile", gli disse quand'ebbe finito di mangiare "E hai bisogno di aiuto. Hai bisogno di qualcuno che ti spieghi quello che ti sta succedendo. Vero?"
"Vero! Io non ci capisco più nulla. Tutti ora ce l'hanno con me. Io sono diventato il capro espiatorio. Ma io ho fatto solo quello che hanno fatto tutti. Questo è un mondo schifoso. C'è una facciata. Ma poi c'è come un altro mondo parallelo. Un mondo che non si vede ma c'è. E che tutti sanno che esiste. Ma tutti fanno finta di non sapere. Come quel grassone di Immacolato Incannato che scrive su quel maledetto giornale viola. Ma tu l'hai mai visto quando arriva alle corse. Arriva con i suoi novanta chili di peso. Arriva in macchina, circondato da un codazzo di scagnozzi…e poi oggi ti osanna…e il giorno dopo, se le cose non girano come dovrebbero girare ti pugnala alle spalle…ma ti sembra giusto?"
"Ma questa è la vita Marco. E' la vita di tutti i giorni…"
"E poi ho strane visioni…"
"Lo so Marco"
"Lo sai?"
"Vedi Marco non c'è un altro mondo. Ci sono tanti mondi. Ma il più potente è quello di sotto. E quello non ti ama. Vedi, ancora tu non sei crollato…e sai perché?"
"Perché?"
"Perché vicino a te c'è qualcuno che ti vuole bene e ti sta vicino. E finché ce la farà a starti vicino tu non crollerai. Ma stai attento Marco. Stai attento perché qualcuno ne è geloso e farà di tutto per allontanarlo da te."
"Chi?"
"La ragazza bionda!"
"No. Ti sbagli. Lei mi ama."
"No Marco…lei non ti ama. Ti sfrutta. Lei non è l'angelo che pensi. Lei è stata mandata per tirarti giù. Laddove ha fallito il diavolo potrà il serpente. Il serpente cambia pelle ma non natura."
"E come farà?"
"Nel tuo corpo Marco c'è una mappa. E' come se ci fosse scritto come si entra e come si esce. E il Male ha già capito la strada. E tu gli hai aperto quella strada! Tanti anni fa, senza saperlo. Di lì il Male salirà su e stenderà il suo cancro. Non credere alle parole della bionda: lei ti dirà no ma sarà sì; ti dirà sì ma sarà no. E ti spingerà a non chiudere più quella porta che il male si è già aperto dentro di te. E tu l'aprirai, la spalancherai e allora sarà la rovina tua, e di quelli che hanno creduto in te! Non ascoltare le parole della bionda!"
Marco incontra il Demonio?

Quando stava male andava sempre a passeggiare in un giardino vicino casa sua. A lui piaceva andare lì perché c'era un laghetto. Si sedeva, chiudeva gli occhi e pensava, pensava…dimenticando tutto.
Quella sera era tardi, e già abbuiava. S'inoltrò nel boschetto.
A quell'ora cominciavano strani movimenti. Si vedevano uomini entrare e uscire da dietro cespugli. Si vedevano dei tizi in disparte accendersi una sigaretta e aspettare.
Ma lui nessuno l'avrebbe mai disturbato. Tutti lo conoscevano e lo lasciavano in pace. Era troppo noto per provarci. E poi tutti lì gli volevano bene. Nessuno l'avrebbe importunato.

Si sentiva tranquillo lì.

Si sedette su un muretto in riva del lago con le gambe penzoloni.
Guardava l'acqua ma con la mente era lontano.
Sentì un tonfo. Distrattamente rivolse gli occhi verso quel punto. Forse un pesce.
Guardò lontano in direzione del mare. Oltre i pini era tutto rosso. Una palla di fuoco stava calandosi giù nel mare.
Di nuovo un tonfo.

Che sarà?

Nell'aria si sentiva un odore forte di acqua marcia, come l'acqua che ristagna nei canali e nei porti e marcisce sotto il sole cocente.
Marco cominciò a sentirsi come osservato. Gli pareva che da sotto l'acqua qualcosa lo stesse osservando.

Come si può descrivere un presentimento?
Ma c'era un presentimento. Il presentimento che qualcosa stesse per uscire proprio da quell'acqua marcia.

Non si sentiva più un rumore. Né si vedevano più quegli strani movimenti di prima.
Tutto taceva.

Solo il presentimento che qualcosa stesse da un momento all'altro per uscire dall'acqua.

Cominciò a dolergli quella cicatrice che si era fatta quel maledetto giorno, che aveva tirato un pugno in un vetro e si era profondamente lacerato le carni dell'avambraccio destro.
La cicatrice gli faceva davvero male. Quasi gli bruciava.
Ciò lo inquietò ancor di più. Allora si alzò per andarsene.
Non capiva che stesse per succedere. Sapeva solo che voleva, doveva andarsene
subito di lì.

Saltò giù dal muretto.

Qualcosa stava per succedere.

Scese dal muretto e..

CIAO MARCO!

Marco sgranò gli occhi incredulo.

MI RICONOSCI!

Sì era proprio lui. Come avrebbe potuto non riconoscerlo. Come avrebbe potuto dimenticare quegli occhi sbarrati, che gli urlavano davanti

LA RICONOSCI? LA RICONOSCI? E' LA TUA PROVETTA VERO?

Come avrebbe potuto dimenticare quel giorno in cui tutta la sua vita era cambiata!
Ora gli stava lì davanti e di nuovo gli sbarrava il cammino.Come quella mattina a Madonna di Campiglio.

PENSAVI CHE NON MI AVRESTI PIÙ RIVISTO?

Come avrebbe voluto non rivederlo più quell'incubo!
Ma ora era lì di nuovo. Con quella faccia bianca come il ventre di una trota.
Alto quasi due metri gli stava lì davanti tutto sporco, coperto di fango e di erba del fondo del lago.

IO SONO QUI PER AIUTARTI, NON PER FARTI DEL MALE! NOI NON VOGLIAMO PIÙ FARTI DEL MALE. ABBIAMO AVUTO QUELLO CHE VOLEVAMO. LUI NON È PIÙ VICINO A TE. LA DONNA BIONDA È RIUSCITA DOVE NOI NON SIAMO RIUSCITI

Marco sentì il suo cuore diventar piccolo come una noce.
Si sentì un verme. Un verme schifoso. Un vigliacco.

Abbassò il capo.

GUARDA MARCO QUESTO È PER TE. E' UN REGALO. PRENDILO. LÌ DENTRO C'È UNA COSA CHE TI AIUTERÀ. TU PRENDILA E LA TUA VITA DIVENTERÀ UN PARADISO. PRENDILA CON LA DONNA BIONDA. E SARETE FELICI. SARETE SEMPRE INSIEME."

Ma lei se n'è andata. Non vuole più stare con me.

TU CHIAMALA. LEI RITORNERÀ. LÌ DENTRO C'È UNA COSA CHE HA UN GRANDE POTERE. ANCHE LEI NON SAPRÀ RESISTERE AL SUO POTERE. PRENDILA!

Marco allungò la mano.




Tour de France 2000, Mont Ventoux

Ce l'ha lì davanti. Lo guarda da dietro.

Com'è possibile che uno scenda all'inferno e poi risalga?
L'inferno rigenera?
Potevo accettare anch'io quel giorno ad Agrigento?
Potevo scendere anch'io all'inferno e risalire?
Ma l'inferno mi ha buttato giù…

L'americano allunga. Il gruppetto si assottiglia. Marco sente che le gambe tengono. Prende fiducia.
L'americano allunga ancora e stavolta fa male. Vede Ullrich alzarsi sui pedali, cosa strana per lui. Vede la smorfia di dolore di Virenque.
Ma tengono. Anche Marco tiene.
L'americano pedala su con un'andatura indemoniata.
Gli altri soffrono ma tengono.
Marco sente che quell'andatura non è più sostenibile.

Perché deve sempre vincere il male?
Perché il male sembra sempre più forte del bene?
O salto io…o saltano loro!
Nonno ci sei?

Marco comincia a perdere terreno.
Da dietro vede i culi di Virenque e Ullrich allontanarsi.
Quello è il momento più brutto per un ciclista: quando pedali e vedi gli altri che si allontanano da te e vanno via su, sempre più su.

O salto io o saltano loro!
Nonno ci sei?

Stringe i denti. Sbuffa. Si alza sui pedali. Stringe i denti.
Si alza ancora sui pedali.
E' un boato.
Gente che gli corre di lato. Gli urla in faccia e non capisce cosa.
Vede le loro facce urlargli, alitargli sul volto.
Gli urlano. Ma che gli urlano?

Ti urlano il loro amore Marco!

Marco riconosce quella voce.

Allora ci sei! Allora ci sei!
Allora io non salto, saltano loro!

Si alza ancora sui pedali.
Intorno è un nugolo di moto, di flash, di telecamere. Un inferno di gente che urla, salta. Gli dà pacche sulle spalle. Lo spingono, lo spingono con il loro amore!
Uno gli corre davanti con uno striscione: We want Pantani back!

Pantani is back!

Ormai ha ripreso il gruppetto. Li passa e si mette in testa.
Vede la faccia sofferente di Ullrich. Vede quella di Virenque che è una maschera di dolore.
Vede l'americano sorpreso.

Pantani is back!
L'inferno questa volta non ce la farà.

Imprime delle accelerate spaventose. Terribili. Micidiali.
Si volta e vede Ullrich che arranca a trenta metri. Virenque ormai lontano.
L'americano gli sta sulla ruota, ma è una maschera enigmatica.
Marco sente la gamba che gira. Si alza e questa volta la rasoiata è tremenda. L'americano vacilla. Tentenna. Arranca. Ha subìto. Comincia a perdere terreno. Si stacca.
Marco si volta. E' sicuro di staccarlo.

Non crede ai suoi occhi:

c'è qualcosa dietro la schiena dell'americano. Qualcosa si trasforma nell'americano.
Sente di nuovo quell'odore di marcio che lo perseguita da quel giorno.
E' una cosa informe. Nera. Che avvolge il corpo dell'americano e sembra proteggerlo. E' come un mostro che gli nasca di dentro. Che provenga da dentro, che gli fuoriesca dal sudore, dalla pelle, dalla carne…dall'anima.

Oggi il male non vincerà Marco. Oggi vincerai tu!
Oggi sono troppo pulito perché tu possa vincere maledetta bestia!


Un'email

Ogni tanto Marco quando tornava dagli allenamenti dava un'occhiata al suo sito.
Tra le tante email che aveva ricevuto lo colpì quella di un ragazzo di Firenze: Rocco.

Io faccio il cameriere Marco. Lavoro dodici/quindici ore al giorno qualche volta. Non ce la faccio più ad andare avanti col mio lavoro. Io ti ringrazio per quelle vittorie al Tour De France. Hanno ridato luce, senso alla mia vita. Tu sei stato un raggio di sole nel mezzo della mia vita buia. Tu devi continuare a vincere. A vincere per me, per la gente come me, che hanno il coraggio di alzarsi la mattina e fare una vita che non gli appartiene più. Che vivono nel buio di un mondo che non è più il loro.
Non scomparire Marco. Fallo per me…per noi che crediamo in te.

Marco pianse. E tra le lacrime gli rispose.

Caro Rocco le tue parole sono bellissime. Ma io non me le merito. Voi vedete un mito in me. Ma io so di vivere sopra un profondo baratro. Io dovrei scendere in quel baratro. Dovrei andare là sotto. Affrontare quei demoni che si sono impossessati della mia vita. Dovrei andare lì e ucciderli. Allora potrei guardare in faccia te, e quelli come te che continuate a credere in un mito che loro hanno distrutto.
Ma ti sembra giusto che ci abbiano spiato, ci abbiano filmato, nudi, nelle nostre camere d'albergo. Ma perché?
Qualche volta ho la sensazione che il male mi stia divorando. Qualcosa mi brucia dentro e non so che sia.
A Cuba ho incontrato un coreano che mi ha detto che tutto nel mondo è una condizione del cuore.
Io non capivo e allora mi ha raccontato una storia di un monaco buddista, Samyong De Sa, vissuto 500 anni fa.
Lui organizzava la resistenza contro le incursioni giapponesi. E addestrava i monaci alle arti marziali. Quando fu catturato dai giapponesi, fu chiuso, vivo, in un forno.
Si accese il fuoco. Si aspettò. Alla fine, si aprì di nuovo il forno, per prenderne i resti carbonizzati. Ma quando si aprì il forno si trovò Samyong De Sa completamente congelato. E ai suoi carnefici, aprendo gli occhi, disse: "Perché in questo luogo è così freddo?"
"Vedi" mi ha detto raccontandomi questo aneddoto " tutto è una condizione di cuore. Una volta fu trovato uno morto congelato in una cella frigorifera. Ma perché era morto congelato? Per una condizione del cuore.
Si scoprì infatti che la spina della cella era staccata, e dentro la cella c'erano sì e no 16 gradi. Ma lui si era convinto di dover morire, perché uno che rimane chiuso in una cella frigorifera non può che morire congelato."
Il cuore mi è stato strappato Rocco, e io farò come quello che è morto nella cella frigorifera. Qualcuno ha strappato il mio cuore e se l'è mangiato.
Qualcuno che è entrato profondamente dentro di me, un po' per volta. E io non so perché. Ho solo fatto quello che sapevo fare. Ho sbagliato e non ho saputo reagire ai miei errori.
Un giorno qualcuno mi ha regalato della polvere bianca e da quel giorno non ho più avuto il cuore.
Ora è troppo tardi Rocco.
Tu non fare i miei errori. Io non sono il mito che tu vedi.
Il mito lo hanno distrutto.


La fine

Ormai il Male lo aveva completamente penetrato. Aveva interamente devastato il suo corpo.
Se ne stava sdraiato sul letto respirando a fatica.
Da cinque giorni era chiuso lì in quella camera. Disteso sul letto.
Le sue gambe non ce la facevano più a camminare e la sua mente era incapace di pensare.
Gli venne in mente Ginevra.

Com'era bella quel giorno che l'ho incontrata.
Perché non ho ascoltato le sue parole?

Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. C'era ora un profumo diverso nella stanza. Non era più quell'odore fetido, di marcio, che ormai da anni l'attanagliava e con cui quotidianamente conviveva dopo quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio.
Era un odore buono. Di pelle fresca. Morbida. Come i seni di una madre.
Di un alito caldo che gli respirava accanto.
Aprì gli occhi.

Ginevra! Sei qui!
Anche tu Abramo! Ci sei anche tu Abramo!

Sei contento di vedermi Marco?

Sì Ginevra. Tu sei stata l'unica buona con me, in questi ultimi anni.
L'unica che mi ha detto quello che avrei veramente dovuto fare.
Purtroppo non ti ho ascoltato. Ora è un po' tardi. No?
Mi dispiace…ti ho deluso…

Ormai non conta più Marco. Quello che è stato è stato. Riposati Marco.
Chiudi gli occhi ora. Dormi.
Io starò qui vicino a te. Non ti lascerò più. Dormi Marco! Dormi…

Marco allora chiuse gli occhi.
Vide un campo, sotto il sole cocente di un agosto torrido.
L'estate più calda che avesse visto.
Non sapeva dove andare.

Un po' d'ombra. Ho bisogno di un po' d'ombra. Ho bisogno di sdraiarmi due minuti all'ombra. Non sopporto questo caldo.

Si voltò a sinistra. In cima a un monte vide una querce. Alta. Enorme. Ai suoi piedi un'ombra fresca.
Prese allora la bicicletta e pedalò fino ai piedi del monte. Guardò su in alto. La salita era ripida, scoscesa. Sorrise. Sentì forza nelle gambe, come quel giorno all'Alpe d'Huez.
Attaccò la salita. L'attaccò fortissimo, in modo violento. Alla Pantani. A scatti. Scattava e rilanciava l'andatura. Scattava e rilanciava l'andatura.
Uno scatto. Poi un altro. Un altro ancora.
Delle rasoiate micidiali, da stroncare un toro.
Si voltò e vide il gruppo indietro, che si era staccato. Nessuno aveva retto alle sue accelerazioni, improvvise e violente.

Scattò. Scattò ancora. Scattò. Scattò senza fine…
Si voltò e vide il gruppo giù in basso. Un piccolo puntino colorato che arrancava, quattro cinque tornanti più sotto.
Era felice. Nessuno poteva resistergli. Quando lui decideva di andare via nulla e nessuno poteva stargli sulla ruota.

Arrivò in cima alla collina.
Solo.
Un profondo silenzio e un alito di vento.
Posò la bicicletta e andò verso l'ombra.
Era tutto sudato, e sotto quell'ombra si sentì meglio.

Sì adesso riposo un po'. Ho tanto di quel vantaggio che posso riposarmi almeno cinque minuti.

Si distese. Appoggiò la testa sull'erba verde e sentì un gran sollievo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto.

Mo' sto bene…nonno!

 

Storia di Pelo, il ragazzo che vinse la Milano – Sanremo

Piero Chechi era un ragazzino di quindicianni. Come il padre, come il nonno, come il bisnonno… faceva il boscaiolo. Nessuno lo chiamava Piero ma tutti “Pelo”: Pelaccio il nonno, Pelone il babbo, Pelona la mamma, Pelina la sorella, Peluccio, Peletto, Pelino i tre fratelli.

Tutti i giorni estate o inverno inforcava la bicicletta e via per le viottole dei campi, per i sentieri scoscesi e impervi, con il biciclettone di ferro del nonno con tanto di gomme piene. Salite, discese, torrentelli, broti…e via su e giù per quei poggi accidentati. E quando pioveva via…con le ruote che affondavano dentro il pantano, ritto sui pedali per chilometri e chilometri con la pioggia che gli picchiava sugli occhi mezzi chiusi.

E quando passava per l’aie, tutti i ragazzini gli correvano dietro e gli facevano la pipinara. “C’è Pelo, c’è Pelo! Dài Pelo! Dài Pelo che sei il primo!”

E allora sì che ci dava dentro, Pelo. Pareva un fulmine su quelle stradine bianche, tutto impolverato. Partiva con il buio e tornava a casa con il buio.

Abitava in località i Sassi Bianchi, fra San Gemignano e il Castagno.

La sera gli piaceva andare all’osteria, perché lì c’era gente che aveva girato il mondo: chi era stato a Volterra, chi a Cècina; i più azzardosi a Livorno, qualcuno addirittura a Grosseto.

E lui ascoltava con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Si parlava di tutto, ma soprattutto di bicicletta. Si parlava di Petit-Breton, di Girardengo, di Ganna, di Gerbi “il Diavolo Rosso”. Della terribile Parigi- Roubaix, su quell’inferno di strada tutta pietra. Del Giro d’Italia, del Tour de Françe. Ma i racconti che più l’appassionavano erano quelli sulla Milano-San Remo. Perché era corsa quasi sempre con un tempo terribile, perché c’erano le mitiche salite del Turchino e della Cipressa. Perché si correva vicino al mare, che Pelo aveva visto solo una volta e ne aveva un ricordo impressionante.

Così cominciò ad andar matto per le corse in bicicletta. Si mise a seguire tutte le gare che si facevano nei dintorni. Prese ad allenarsi di brutto sui saliscendi tra San Gemignano, Certaldo, Gambassi e il Castagno: giro questo che faceva anche due volte al giorno.

C’aveva preso davvero gusto.

Il babbo, Pelone, cominciò però ad imbestialirsi con quel figliolo che invece di andare nel bosco a spaccar legna se ne stava tutto il giorno su e giù per quei poggi. E per di più mangiava come un pescegatto.

Ma Pelo non sentiva ragioni e, testardo com’era, continuava ad allenarsi. “Domani babbo vò a fare una ‘orsa a Montignoso . E gliel’è la festa di’ Patrono e fanno una ‘orsa in bicirettta. Mi ci sono iscritto e ci vò.”, disse una sera a cena Pelo al babbo.

“Tu’ se’ matto! T’ha dato di vorta i’ cervello! E’ l’ora di falla finiaa. E’ l’ora che tu’ metta i’ capo a posto. Da lunedì si torna a’ i’ lavoro ni bosco e basta con questa storia della biciretta, che tutti mi pigliano pe’ i’ culo. ‘Pelone, ho visto i’ tu’ figliolo ieri in biciretta…ma che vò ffa’? Un laora più con te…o che s’è messo a fa’ i’ cicrista?’ ”

Quella notte Pelo fece un sogno. Gli pareva di essere una locomotiva. “Com’ è bello essere un treno !”, pensava. Correva all’impazzata lungo la rotaia che gli sembrava infinita. Correva, correva lungo quella strada senza fine.

D’improvviso finì la rotaia e davanti vide una salita tutta bianca per il ghiaino, ritta e scoscesa da far paura.

D’un tratto si trovò a metà di quella salita. Guardò in giù e vide che veniva su pian piano un omino tutto nero. Sudicio, imbrattato di fango, con un biciclettone di ferro, nero anch’esso, enorme tanto che quell’omino vi pareva davvero piccolo lì sopra. Gli passò davanti a Pelo. Gridò qualcosa. Ma la voce gli mancò a Pelo. L’omino gli sfrecciò di fronte come un razzo. Pelo si girò e lo vide lassù in cima alla salita perso in mezzo a un chiarore che accecava a guardarlo.

La mattina Pelo si alzò presto che nemmeno si ricordava più del sogno.

A Montignoso vinse. Sull’ultima salita partì lui con il biciclettone del nonno e non ce ne fu per nessuno. Gli altri avevano tutti la bicicletta da corsa, ma non vi fu nulla da fare. Pelo parve un missile. Arrivò a Montignoso con venti minuti sui primi inseguitori.

Quel giorno fece anche amicizia con Giovannino.

Giovannino, che tutti chiamavano Giovannin senza paura, perché era ardito e amava ficcarsi nelle imprese più temerarie fu l’ultimo ad arrivare.

Pelo era sul palco, in attesa d’essere premiato, quando vide arrivare Giovannin senza paura. Pelo lo guardò: “Come dev’èsse triste arrivare utimo, da solo, quando gli attri son bell’arrivai!”. E non si sentì più felice d’aver vinto.

Quando gli portarono i fiori per la premiazione Pelo disse: “I fiori un si mangiano. Portatemi piuttosto una bella pastasciutta a me e a qui’ ragazzo laggiù!” , indicando Giovannin senza paura, e gli corse incontro.

Da quel giorno diventarono grandi amici. Si allenavano insieme, insieme andavano all’osteria.

Il babbo di Pelo, che sotto la scorza dura era tutt’altro che cattivo, a veder quel su’figliolo vincere, non vi dico che provava. Non stava più nella pelle, e fu il primo e il più accanito tifoso di Pelo: “I’ mi’ figliolo è davvero forte. Lo dicevo io! Diventerà un gran corridore!”, andava dicendo a chiunque gli si parasse davanti.

Pelone non era molto alto, e poco più di lui lo era Pelo, il figliolo: 1;60 l’uno 1,55 l’altro. E qui viene il bello: a quel che si dice, un certo giorno Pelo prese uno di quei corbelloni da boscaiolo con le cinghie.Vi mise dentro il suo babbo, se lo caricò sulle spalle, e salì in bicicletta e via su e giù per quei saliscendi ad allenarsi.

Così faceva ogni volta che il babbo era libero. Quando invece il babbo non poteva nel corbello ci metteva dei mattoni. Oppure quando c’erano le fiere nei paesi vicini ci metteva le palle da bocce per noleggiarle alle dette fiere.

Pelo continuava a vincere una corsa dopo l’altra. Ormai Pelo era un vero corridore. Allora il babbo lo portò dal Gazzarrini a Volterra e gli comprò la sua prima bicicletta da corsa.

I suoi avversari facevano di tutto per fermarlo. Una volta un certo Pandolfo da Montaione, scommesse con Pelo che non ce l’ avrebbe fatta a mangiarsi una gallina lessa intera, e che tantomeno ce l’avrebbe fatta a partire. “Vuoi scommettere Pelo?”, gli disse Pandolfo. “Scommettiamo. Tanto vinco io!”, gli rispose Pelo. E fu di parola. Mangiò tutta la gallina, e vinse addirittura per distacco.

Un’altra volta ci fu uno, Carletto da Castelfiorentino, che durante la corsa gli fece bere la famosa acqua purgativa di Pillo. Ma anche qui nulla da fare. Pelo vinse, come sempre. “Vi vò in culo a tutti!”, gli rifilò a Carletto al traguardo

Lo picchiarono perfino. In una corsa di trecento chilometri, passando in località Asciano, all’inizio di una salitella – Pelo era da solo, in fuga, come spesso succedeva – lo aspettò una masnada di furfantelli che lo legnarono ben bene.

Già da un pezzo si mormorava che Pelo avesse un patto col diavolo.

Tutti cercavano di scoprire il segreto per cui lui andasse così forte. Qualunque cosa facesse prima, durante o dopo la corsa, subito tutti lo imitavano sperando di aver carpito il segreto della sua forma.

Si sapeva ad esempio che Pelo metteva nella borraccia un biberone d’acqua, vinsanto e tuorlo d’uovo sbattuto. Immediatamente molti, saputolo, lo imitarono. Risultato: tanti, s’era nel periodo del solleone, o per il gran caldo o per il vinsanto o per tutt’e due, si sentirono male e finirono all’ospedale.

Un giorno Pelo si presentò alla partenza di una corsa a tappe con un bel sigaro toscano in bocca; fumava che pareva un turco. Il giorno seguente così, alla firma prima della partenza, s’aveva la sensazione d’essere ai soffioni di Larderello. Metà del gruppo, o forse più della metà, fumava che parevano dannati. Andò a finire, al solito, che a mezzo della corsa più della metà dei corridori si ritirò, perché accusavano forti difficoltà respiratorie.

Ormai Pelo era un mito.

Ma una cosa in quei giorni lo preoccupava molto: il suo amico Giovannino.

“Giovannino sta’ attento ai fascisti”, gli diceva spesso Pelo. Ma quello duro, ostinato, sprezzante del pericolo continuava a parlar male del regime e a far propaganda comunista. Giovannino aveva più volte ricevuto avvertimenti. Un giorno gli avevano bucato tutt’e due le ruote della bicicletta; un’ altra volta, durante una corsa – Giovannino s’era staccato dal gruppo – una macchina gli s’era avvicinata e aveva cercato di farlo finire in una fossa.

Uno di noi avrebbe cercato, a quel punto, di mettere la testa a posto, o quantomeno sarebbe stato più prudente. Figuriamoci Giovannin senza paura! Nulla. Sapete cosa fece? Una notte, saranno state le due o le tre di notte, piglia e va al Castagno; scassina la porta della sacrestia, sale sul campanile della chiesa e ci mette un grammofono e dài a tutta càllara “L’Internazionale”, e via a gambe levate. Dopo neanche due minuti è lì una squadra di fascisti (“Dàgli al comunista! Dàgli al comunista!”, urlavano), che per dieci minuti prende a fucilate la cima del campanile, finché alla fine non ne vien giù il grammofono e si rompe in mille pezzi.

Per sua sfortuna, qualcuno aveva visto Giovannino e fatta la spia ai fascisti. Giovannino, avvertito, si dette alla macchia.

I fascisti vanno a casa sua, non lo trovano e allora pigliano la sua bicicletta a martellate e gliela disfanno. Non contenti prendono il suo povero babbo e lo portano alla Casa del Fascio. E lì a bottiglioni d’olio di ricino lo purgano ben bene.

Quel pover’uomo del suo babbo per poco non ci lascia le penne e ci rimane secco: “Son bell’e morto! Son bell’e morto!”, piagnucolava il poveraccio mentre tornava a casa, sbombardando quasi avesse mangiato fagioli per un mese.

Da quel giorno Giovannino la giurò ai fascisti. E quando poteva entrava nelle case dei più ricchi e gli rubava tutto, per poi darlo alle vittime del fascio.

Ma la passione della bicicletta era grande e Giovannino soffriva molto a star lontano dalle gare. Allora prese a travestirsi e a mischiarsi tra la folla per andare a vedere il suo amico Pelo. Pelo lo sapeva, gliel’aveva fatto dire Giovannino che andava sempre a vederlo vincere.

E ogni volta che Pelo saliva a prendere i fiori si guardava intorno (“Giovannino, dove sei?”), per vedere se riusciva a distinguerlo fra la gente attorno al palco.

 

E venne il giorno della Milano – San Remo

E venne il giorno della Milano – Sanremo. Il sogno di Pelo fin da bambino. L’aveva affascinato la vittoria di Ganna, che fuggito sul Turchino, sotto il nevischio, caduto in discesa e ripreso da Georget ne fu infine superato. Ma buttatosi caparbiamente all’inseguimento lo riacchiappò a Savona per poi proseguire da solo e vincere.

Se Ganna era il corridore di quegli anni, come poteva dimenticare il mitico “Diavolo Rosso”, Gerbi, così chiamato perché indossava sempre maglia rossa, berretto rosso e scarpette rosse, con cinghietti rossi. Una specie di Mefistofele senza barba e baffi che, primo fra tutti, si depilò le gambe. Un matto da legare, un astuto, uno scaltro, duro e individualista afflitto da uno strano complesso di superiorità, che solo nella sete di fuga solitaria riusciva ad esaltarsi e ad appagare il suo senso mistico della corsa. Correre era vivere per lui. Correva quasi si trattasse di vita o di morte.

Una volta alla Corsa Nazionale, presso Asti – Gerbi era in testa – un ragazzo gli tagliò la strada e lui cadde a terra. Svenuto e sanguinante lo trasportarono in una farmacia. Qui gli suturarono la ferita alla bell’e meglio. Si mandò a prendere del ghiaccio per scongiurare la commozione cerebrale in attesa di essere trasferito all’ospedale. Gerbi si risvegliò, si ritrovò tutto fasciato – “E’ morto, è morto il Diavolo Rosso !” si diceva fuori -; “Che è successo?” domandò lui .

Quando gli spiegarono che era caduto per colpa di un ragazzino e che nel frattempo erano già passati alcuni altri corridori, tutto malconcio, terreo in volto, risalì in bicicletta e pedalando raggiunse il gruppetto di testa e poi Gajoni che era al comando, in fuga solitaria. Lo staccò e fu primo a Milano.

Si scrisse allora che aveva pedalato come un incosciente, sudicio di sangue e di polvere; con la febbre martellante e mille faville davanti agli occhi; il profilo glabro e tagliente che spuntava a tratti fra le bende, come un diavolo. Le gesta di Gerbi, sentite all’osteria , gli erano rimaste fitte nel cuore a Pelo. Sentiva di assomigliargli al Diavolo Rosso, per temperamento e per coraggio. E se Gerbi si allenava con i mattoni legati alla sella della bicicletta, lui si allenava con il babbo nella cesta. Se Gerbi si era guadagnato il soprannome di Diavolo Rosso, Pelo si prese quello di Campione della Tripolitania. Correva con una bicicletta senza parafanghi, e all’arrivo era tanto sudicio e infangato da sembrare un africano.

 

“Babbo son emozionato. Mi tremano le gambe. Mi tremano le gambe solo a pensarci. Domani un ce la fò !”, disse Pelo al suo babbo la sera prima.

“Ma và ‘ia, coglione!”, fu il commento del babbo.

Quella notte Pelo stette male.

Il sonno fu agitato. La notte rifece quello stesso sogno. Gli pareva di essere una locomotiva che filava all’impazzata sui binari. D’improvviso s’arrestò ai piedi di una salita impervia. Questa volta però c’era un bivio. A destra la strada saliva ampia e larga verso la cima del monte dove un bagliore accecante impediva la vista. A sinistra si dipartiva una stradicciola buia e nera.

Lui fece per prendere a sinistra. Ma un vento fortissimo cominciò a soffiargli sul fianco sinistro, costringendolo allora a prendere la strada di destra. Mentre saliva, vide giù Giovannino che solo solo aveva imboccato quella stradina buia. Era triste e gli pareva piangesse. Urlò. Non gli venne niente alla bocca. Stranamente non era più sulla bicicletta. Era a metà salita, in piedi, come un tifoso ai bordi della strada. Guardò verso il basso, ed ecco che di nuovo veniva su quell’omino tutto nero e sozzo, su quel biciclettone di ferro.

Guardò l’omino e poi guardò in basso verso la stradina. Giovannino non c’era più.

Il vento ricominciò a soffiare violento sul fianco sinistro, e gli piegò il volto verso la cima del monte, nell’attimo che l’omino spariva nella luce abbacinante.

Quando Pelo si risvegliò era tutto sudato e agitato. Fece per rizzarsi sulle gambe: non gli ressero e gli ronzava la testa. Sentiva di avere un febbrone da cavallo.

“Vatta! Vatta!”, urlò.

Dalla camera accanto comparve il fido Vatta, massaggiatore.

“Aiutami, sto male. Ho la febbre.”

“Ci penso io!”, rispose Vatta, e andò di là in camera.

Ritornò con un boccettino in mano:”Bevi questo!”, gli disse.

E Pelo senza far domande l’ingoiò:”Che è?”, chiese.

“Nulla, una cosa che fò io con l’erbe! Bevi e starai meglio!”.

Meglio lì per lì stette. Ma le gambe tremavano, e l’emozione gli tagliava il fiato.

 

 

Alla partenza il tempo era da tregenda. Erano in centocinquanta alla partenza. C’era Binda, Girardengo, Piemontesi, Guerra…

Milano era fredda e nebbiosa.

Si indossò la giacca. Cominciò a piovere. Verso Pavia smise di piovere ma il cielo era sempre minaccioso: riprende a piovere a Voghera. I corridori sono irriconoscibili per il fango, Ai centottantasei metri di Ovada ci sono i primi scatti, e va in fuga un gruppetto, tra cui Girardengo.

Si supera i confini del Monferrato e si entra nella collina ligure. Si attacca i cinquecentotrentadue metri del Turchino. Nevica. Tutto è gelato. La strada appare ricoperta di quindici-venti centimetri di neve ed è battuta da una bufera di fiocchi impazziti, che ferisce le carni dei corridori, che non sembrano più figure umane ma strani addobbi natalizi.

Pelo sta male. Le gambe non girano. Si sente gelato. Sbuffa. Sgrugna. Ansima. Ma sale con il biciclettone. Ma ormai sta per mollare. Le lacrime gli vengono agli occhi. Vede tradito il sogno di bambino. Guarda su in alto e vede la cima avvolta da un chiarore abbagliante, impossibile quasi a guardarsi. “E’ Troppo lontana. Non ce la faccio più. Mollo!”

Ma d’improvviso sente una pacca, due pacche…sulle spalle. “Vài Pelo.Vài!Vài!”, gli urla una voce familiare. Si gira. E’ Giovannino. “Vinci Pelo!Vinci per me!”: gli urla in faccia ancora.

Pelo fa appena in tempo a voltarsi che vede due figuri vestiti in abiti borghesi scuri scendere da una macchina che era dietro di lui, acchiappare Giovanni e a forza di legnate lo caricano sulla macchina. “Vai Pelo! Vai! Vinci per me!...”, gli ribolle ancora nelle orecchie.

Il sangue gli sale alla testa, un calore improvviso gli entra nel corpo. Guarda in alto. Vede la cima chiara, ora, calma e placida. Ora la cima è più vicina.

S’alza sui pedali, Pelo. Scatta. Scatta. Scatta…scatta a ripetizione. Ora pare il Pelo di sempre. Riacchiappa il gruppetto, riacchiappa Girardengo in fuga e lo stacca e scollina da solo. Si butta giù a capofitto nella melma della discesa e zig-zagando sparisce fra le curve.

Tutti si aspettavano il crollo di Pelo sul Berta, ma i muscoli di Pelo non fanno scherzi e continua la sua fuga solitaria, e alla media straordinaria di 29,485 km all’ora taglia tutto solo il traguardo di Sanremo.

Quando Binda e Piemontesi arrivano sono già passati venti minuti. Girardengo a venticinque. Guerra a trentadue. Il gruppetto dei migliori a quaranta.

E Pelo?

Di Pelo allora si perdono le tracce.

A quel che si narra Pelo sparì. Alla premiazione uno gli mormorò in un orecchio che Giovannino era morto, ammazzato dai fascisti a suon di legnate. Allora si dice che pianse, buttò da una parte i fiori. Prese la bicicletta e se ne andò verso la Cipressa.

C’era uno strano chiarore lassù in cima alla Cipressa: forse vi nevicava. Qualcuno racconta di aver visto un omino nero, come un negro, tutto sudicio che saliva, con un biciclettone anch’esso nero, sù verso quel chiarore lontano lontano.

 

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La favola di Hon- gu e Nor-bu

 

A Silvia (Chan-pa) a Claudia (Sat-tva)

 

Hon- gu incontra un’ombra

 

Hon-gu camminava quel dì solo solo per ritornare a casa, come un piccolo puntino sotto quel cielo coreano di un blu profondo e terso che raggiunge il suo apice solo in autunno. Un color indaco

( tchok, come lo chiamano i coreani ) che solo a vederlo fa aprire il cuore di gioia e illuminare gli occhi di una profondità senza limite.

La viottola di campagna sembrava condurlo nei pressi del ponte di Ch'ônggyech'ôn che tutt’oggi attraversa un ben noto fiumiciattolo dall’acqua sonora, che porta il suo stesso nome.

Alla vista del ponte gli venne in mente, chissà perché, il ricordo di un’antica usanza che aveva sentito raccontare da suo padre. Che durante il periodo Chosôn i coreani di allora avevano la non comune usanza di punire chiunque infrangesse la legge o rubasse fondi governativi facendolo bollire in un pentolone d’acqua.

Questo tipo di punizione lo chiamavano p'aenghyông e veniva eseguita su uno di quegli stessi ponti che cavalcano ancora il Ch'ônggyech'ôn.

Secondo la leggenda a metà del ponte si costruiva un alto focolare, e un calderone grande abbastanza da contenere una persona era posto su una catasta di legna. Il colpevole, strettamente legato con funi, lo si ficcava poi nel calderone. Si chiudeva il coperchio e si accendeva il fuoco.

Certo, pensò Hon-gu, la crudeltà degli esseri umani è davvero senza limiti. Da tutt’e due le parti: di chi ha torto e di chi ha ragione. Avere ragione non significa agire del pari, o anche peggio, di chi ha commesso il torto. Altrimenti si entra in una catena senza fine…

Se ne stava dunque immerso e sperso in simili pensieri il buon Hon-gu, quand’ecco che vide innanzi a sé un’ombra. Guardò meglio: era come l’ombra di uno shramana.

Eppure gli ricordava qualcuno… ma sì, suo padre! Il vecchio Hon-gu-pa!.

Stava quasi per mormorare “Padre!”ma l’ombra svanì di colpo.

Hon-gu mosse ancora dei passi. Ed ecco che l’ombra si rimaterializza più in là alla fine del ponte. L’ombra apre il palmo della mano. Gli mostra dei semi. Poi con il bastone scava un piccolo buco per terra e vi getta dentro i semi. Con il piede destro ricopre la piccola buca. Ci sputa sopra. Si volge infine a Hon-gu e gli sorride benevolo.

E’ proprio lui, il vecchio Hon-gu-pa!

Il vecchio padre apre le braccia per accogliere il figlio. Ride. Ma dai suoi occhi calano dei grossi lacrimoni. Hon-gu, intenerito, corre incontro al vecchio per cercare di abbracciarlo e appena gli sembra di averlo fatto, niente! solo aria. Aria! Aria! Aria! Come una manciata d’aria e fra le braccia come del vapore

Ora l’ombra non v’è più.

Hon-gu è disorientato e irrequieto. Ha davvero un brutto presentimento.

Allora corre verso casa con il cuore in gola. Ma quando ci arriva, il sangue gli si ghiaccia.

 

 

 

Chan-pa.

 

La prima volta lo scoprì per caso. E fu per lui una grossa e inaspettata sorpresa.

Era sdraiato per terra. Fra l’erba alta di un prato di montagna. Era tutto calmo. Fresco. Solo una leggera brezza. E sopra di lui l’immenso e sterminato agli occhi blu del cielo coreano. Un cielo altissimo. Impenetrabile. Irraggiungibile. Immisto.

D’un tratto cominciò a ronzargli d’intorno un’ape.

L’ape lo infastidiva. E così il piccolo Chan-pa cercò di scacciarla.

Ma l’ape ritornò all’improvviso e all’improvviso gli si parò d’innanzi.

Gli occhi dell’ape e di Chan-pa si incrociarono.

Fu un attimo. Per un attimo Chan-pa scoprì quel fenomeno incredibile.

Sentì, come dire, l’anima sua trasmigrare in quella dell’ape. E lui fu l’ape e l’ape fu lui.

Sentì volarsi e librarsi in alto. Su giù, di qua e di là, in un volo disordinato e caotico e cieco dapprima.

Poi da lassù si vide: Chan-pa. Lì sdraiato in terra, come morto.

Si posò sul corpo. Stecchito. Ma non provò dispiacere: “E’ bellissimo!”, urlò pazzo di gioia. E volò via come ebbro verso quel nuovo mondo. Volò in lungo e in largo, fin quando, chissà come (per una sorta di coscienza profonda culturale che ci guida, come notte del corpo e anche dello spirito) si ritrovò sopra il ponte, sotto il quale viveva la sua famiglia. Vide Hon-gu, suo padre, ritornare a casa. Vide sua madre e suo fratellino Sat-tva aspettare felici quell’uomo: ecco ora Sat-tva correre incontro a suo padre, a braccia aperte; a braccia aperte prenderlo e portarselo al petto.

Com’era bello da lassù osservare la sua piccola, cara famiglia!

(Pover’ uomo suo padre! Dopo la morte del nonno, il fratello, il cattivo Nor-bu e quella megera di sua moglie si erano presi la casa, tutti i soldi e cacciato, a suon di randellate, Hon-gu e la famiglia.

Ora vivevano sotto un ponte. La mamma e il babbo facevano dei lavoretti per sopravvivere: pulivano le case, svuotavano i fossi dai liquami. Vivevano come passeri sull’albero. E quando non avevano lavoro, c’era sempre la mano di Dio che li aiutava)

Non riusciva più a staccarsi da quella scena. E volò per ore e ore intorno a loro, che neppure provarono scacciarla quella fastidiosa ape tanto amavano gli animali!

A un certo punto si accorse che era quasi buio, perché vide i suoi genitori in ansia aspettarlo scrutando all’orizzonte. Era l’ora della preghiera. Se Chan-pa fosse mancato sua madre si sarebbe arrabbiata moltissimo.

Così via di corsa verso il prato da dov’era venuto.

E lì si ritrovo. Secco come uno stoccafisso.

Di nuovo puntò gli occhi su quel cadaverico se stesso, e…zack! Chan-pa ritornò il roseo e paffutello Chan-pa di sempre e l’ape fu di nuovo ape, libera di volar via.

 

I tre animali

 

Venne l’inverno.Venne il freddo. Nessuno aveva più bisogno dei lavoretti di Hon-gu.

Venne la fame e il buio delle lunghe giornate d’inverno.

Hon-gu passava i suoi giorni nel bosco a cercare bacche e radici per sé e la sua famiglia.

Ma anche quelle scarseggiavano ogni giorno di più.

I figli piangevano per la fame. La moglie piangeva per la disperazione. Nel bosco niente di niente. Era sempre più freddo. Era sempre più buio.

E cadde di nuovo la neve.

Così Hon-gu spinto dalla disperazione capitò a gironzolare davanti alla casa del fratello, il cattivo Nor-bu.

Bussò alla porta. La porta era aperta e poiché nessuno veniva ad aprire, Hon-gu entrò.

Dentro c’era un bel calduccio. Da ogni angolo della casa emanava un senso di opulenza, di una vita grassa, calda e senza problemi. Del domani sicuro e sempre uguale a se stesso.

Si ricordò di quando era un bambino. Del vecchio padre e della madre, la severa I-da-nin: mai un sorriso, mai una carezza.

Giunto davanti alla cucina, sentì il borbottio di un grosso paiolo colmo di riso e verdure cuocere sopra un crepitante fuoco. La porta della cucina era semichiusa, così accostò l’occhio e vi scorse la moglie del fratello. Girava un grande mestolo nel paiolo come una fattucchiera che preparasse una pozione magica.

D’istinto la megera si voltò e lo inquadrò con i suoi occhiacci come di coccio.

“Che vuoi tu, buonannulla! Come ti permetti di entrare in una casa rispettabile! Tu! Pezzente, ladro e vagabondo!”

Hon-gu sentì il suo cuore diventargli piccolo come una noce di nocciola.

“Pietà! Un po’ di riso se non per me, almeno per i miei figli. Ti prego!”

La megera non fece discorsi. Gli sferrò violenta una paiolata, colpendo Hon-gu diritto sulla bocca. Che gli sanguinò.

Hon-gu sentì il sangue caldo colargli, misto al riso e alle verdure che vi erano rimaste appiccicate a seguito della paiolata.

Come un animale cominciò a leccarsi la bocca con la lingua. Come una bestia, spinta dai morsi infesti della fame, si aiutò con le mani.

 

 

La fame crudele donava sempre più la sua immagine ai figli, che deperivano a vista d’occhio.

Quei volti scavati, ossuti, smagriti e sparuti gli imposero ancora una volta di ritornare nel bosco.

Il bosco in quel tempo era un capolavoro di bianco e di macchie scure, di verdi e di marroni. Una coltre spessa di neve lo copriva. E il rumore dei suoi passi suonava morbido, leggero e tuttavia spaesante.Tutto era bianco, come l’ingenuità del cuore dei suoi figli i cui occhi divenuti troppo grandi l’avevano fin lì spinto.

Con le mani gelate principiò a scavare nella candida, soffice neve. Sperava di trovare delle radici di ginsen o di tôdôk, tutt’e due ottimi come ricostituenti. Avrebbero almeno lenito i morsi acuti della fame e dato ai suoi figli la forza di andare avanti ancora un po’.

Cambiò più volte posto. Ma i risultati furono sempre gli stessi: niente!

Lentamente si fece buio. Quel buio invernale che fa paura ai poveri. E nella morsa d’inquietudine che lo attanagliava sempre all’arrivo della sera riprese la strada di casa, quando, silenzioso e improvviso si vide avanzare contro un orso bruno. Enorme. Grosso e grasso come una montagna.

Hon-gu pensò: “E’ giunta la mia ora!” e raccomandò la sua anima a Dio. Ma l’orso invece gli si avvicinò tranquillo. Lo guardò come cosa strana dritto negli occhi. Sembrò quasi sorridergli. Poi emise un urlo spaventoso. E corse via.

Hon-gu rimase lì lì, tramortito.
La prima idea fu che forse sarebbe dovuto fuggire. Ma una voce dentro gli gridò: “No!”. Un “No!” categorico e imperioso che non ammetteva repliche. Così indugiò ancora, senza un motivo. Confuso. Ma ubbidiente all’imperativo.

Passarono sì e no quindici minuti. Ed ecco di nuovo l’orso, tutto bagnato e luccicante.

Si avvicina. E con la bocca gli deposita ai suoi piedi tre enormi salmoni.

Struscia un poco la testa ai ginocchi di Hon-gu e se ne va.

Gli occhi di Hon-gu erano spalancati come quelli di uno che avesse visto un fantasma!

 

Quella sera Hon-gu e la famiglia mangiarono come da tempo non era più. E ne ebbero per quasi tutta la settimana.

Passò una settimana appunto. Ma niente dura a questo mondo, e allora dové di nuovo riprendere la strada del bosco.

Questa volta la neve era scomparsa e rimasta solo qualche chiazza qua e là.

Hon-gu, debole per la fame e stranulato per il freddo, cominciò ad aggirarsi fra le piante scavando al solito, in cerca di radici.

Le mani gli diventarono rosse per il freddo e gli dolsero fino quasi a sanguinare.

Dové fermarsi. Gli erano divenute così gonfie!

Cercò di riscaldarle ficcandosele sotto le vesti. Si rannicchiò sulle ginocchia per farsi calore. Si sentiva perduto e due grosse calde e copiose lacrime presero a scendergli lente, mentre la vista gli si annebbiava.

Chiuse gli occhi.

Passò un tempo che gli parve indefinito.

Poi gli sembrò qualcosa di umido e di appiccicaticcio sul suo volto come leccarlo. Ma caldo! Di un calore vivo come la sua fame.

Si riebbe.

Aprì gli occhi: l’enorme lingua di un lupo stava leccandogli la faccia.

Balzò in piedi terrorizzato e gli si rizzarono tutti i capelli per la paura.

Ma il lupo rimase lì. Bonaccione con la lingua penzoloni, con la bava che colava fumando dagli angoli della sua bocca. Aspettando.

Per un attimo i due si guardarono. Poi il lupo calmo calmo trotterellò via.

Hon-gu fu sgomento. Si guardò le mani. Gli si erano, forse per la paura, un po’ sgonfiate e il sangue aveva ripreso a scorrere.

Attaccò a scavare di nuovo. Passò più o meno un’oretta e Hon-gu, raccolta qualche misera radice di tôdôk, si era ormai rimesso sulla strada di casa con la morte nel cuore. Quando a un tratto, sente un fruscìo dietro di sé. Si volta. E toh! chi vede? Il lupo. Che strascica, tirandolo per la gola, un grosso cervo. Il lupo lascia la preda alla punta dei piedi di Hon-gu. Strofina la testa ai suoi piedi e sparisce.

Hon-gu si gettò allora in ginocchio e piangendo come un bimbo ringraziò Dio, premendo con violenza la testa contro il suolo ghiacciato.

 

 

L’inverno sembrava non finire mai e la fame aumentare sempre.

Il cervo non durò a lungo. E così Hon-gu quale altra scelta poteva avere se non ancora una volta la strada del bosco?

Ma a causa della stagione il bosco era come morto. Oltre al freddo si era aggiunta ora una lunga siccità. E tutto era come privo di vita. Da tempo infatti non pioveva e la neve quell’anno era stata poca e scarsa.

Preso dalla disperazione nel vedere una desolazione simile Hon-gu fu preso anche dallo sconforto, e fu impossessato da un freddo terribile.

Così si fermò ad un certo punto di una radura. Raccolse della legna e si accese un bel fuoco per riscaldarsi.

Mentre se ne stava fermo immerso nei suoi funesti pensieri, gli si avvicinò un grosso coniglio bianco. Bello. Rotondo come un maialino d’india. Hon-gu guardò il coniglio-maialino. Il coniglio-maialino guardò Hon-gu

Silenzio.

La prima e istintiva sensazione di Hon-gu fu di prendere un bastone e ucciderlo.

Ma poi pensò che in fondo anche quel coniglio era un essere vivente, e non era giusto ucciderlo.

Il coniglio continuò a fissare Hon-gu come se ne potesse carpire i pensieri. Poi si voltò indietro, e percorse, muovendo il culo grasso, alcuni metri. Si fermò. Si rigirò e sembrò fissare un punto. Rimase fermo, lì, per alcuni minuti. Poi partì di corsa e si gettò nel fuoco. Si immolò. Lasciandosi bruciare e cuocere come la migliore delle offerte per il migliore degli dèi.

Senza neanche il minimo grido di dolore gli si era offerto come cibo per lui e la sua famiglia.

Hon-gu ebbe gli occhi sbarrati. Un nodo gli serrò la gola. Non una parola, non un pensiero.

Fu poi il nulla. Cadde riverso per terra e svenne.

 

La sera a tavola Sat-tva Gli domandò “Perché onorevole padre Hon-gu il coniglio si è offerto a noi?”

Hon-gu tacque alcuni minuti. Tutta la famigliola pendeva dalle sue labbra.

“Un amore universale credo lo possa aver spinto fino ad offrirsi. Ha provato lo stesso sentimento di sofferenza che io provavo. Per questo ci ha amato. La sofferenza rende uguali tutte le creature: la sofferenza ci può salvare. La sofferenza ci fa riconoscere l’altro uguale a noi. La sofferenza ci prepara a un futuro migliore. Ci mostra la strada per la salvezza. Chi sacrifica se stesso per amore di un altro salva se stesso.”

 

L’ossessione di Chan-pa

 

Dopo la storia del coniglio, Chan-pa, il piccolo Chan-pa, cominciò ad essere ossessionato da un’idea: la morte!

“Perché” si chiedeva Chan-pa “quel coniglio si è ucciso? Un momento prima era vivo. Poi, inspiegabilmente, si è gettato nel fuoco ed è morto. Perché si nasce e si muore?”

Suo padre gli aveva detto che quando si muore chi ha fatto il bene in questo mondo avrà il bene nell’altro, chi ha fatto il male in questo patirà nell’altro.

“Ma tutti moriamo!” si ripeteva sempre Chan-pa “Buoni e cattivi. Egualmente moriamo. Cosa vuol dire morire?”

Un giorno si trovava di nuovo per i prati della montagna, e guardando l’intenso blu del cielo, sentì il cuore aprirglisi, e la possente domanda rimbombare nel suo cuore “Che vuol dire morire?”

Si guardò intorno e vide gli uccelli. Si guardò intorno e vide gli insetti. Si guardò intorno e vide i serpenti. Si guardò intorno e vide gli alberi, le piante… Tutto muore non solo gli uomini! “Devo entrare nel suo cuore!” pensò all’improvviso Chan-pa “Nel cuore del mondo. E così potrò capire che vuol dire morire!”

Puntò gli occhi folgoranti su un grosso uccello che stava appollaiato là su di un ramo. E fu quell’uccello.

E volò via, incontro alla morte.

Volò verso un gruppo di cacciatori esperti che si stavano approssimando. Gli volò intorno per attirare l’attenzione di loro.

Alla fine uno di questi infastidito incoccò la freccia all’arco e con un colpo perfetto lo passò da parte a parte.

Fu come un tonfo. Fu un grande caldo. Sentì come una luce spegnersi dapprima piano piano, poi rapidamente.

Rivide in un lampo tutta la vita dell’ uccello. Come in un lampo che abbracciava la sua vita tutta, dalla nascita fino a quel momento.

Poi tornò un lungo buio profondo. Il silenzio angosciante.

Poi fu il nulla.

Poi, ci fu come… un puntino bianco… che andava crescendo… come una piccolissima luce… farsi incontro…

 

D’improvviso si risvegliò sotto il ramo, e vide l’uccello morto trafitto dalla freccia davanti ai suoi piedi.

“Credo di aver capito, che vuol dire morire!”, pensò subitaneo.

Ma qualcosa tuttavia lo rendeva insoddisfatto, lo tirava da un’altra parte.

Si rimise in cammino e rimuginava.

Ripensò all’uccello morto ai suoi piedi. E allora fu come un’illuminazione.

 

Per entrare nel cuore del mondo, aveva strappato il cuore a uno dei figli del mondo.

Non aveva avuto nessun rispetto per quel povero animale. Per la sete del suo sapere, aveva sacrificato un figlio di questo mondo, quando un figlio di questo mondo si era offerto per amore in sacrificio alla sua famiglia.

Se l’avesse detto a suo padre, il buon Hon-gu si sarebbe di certo arrabbiato.

Era una colpa che l’avrebbe certo accompagnato per tutta la vita. Era una colpa che avrebbe dovuto espiare, un giorno.

 

 

 

L’arrivo della primavera

 

E venne finalmente la primavera. Cominciarono a fiorire gli alberi, l’aria fu mite. E finì il lungo buio dell’inverno. La nuova luce si portò via le vecchie angosce.

Hon-gu e la moglie ricominciarono i loro lavoretti. E così la famigliola poté vivere meglio.

Sotto il ponte anche si viveva meglio.

Chan–pa e Sat-tva passavano i loro pomeriggi a pescare e così alla sera c’era da mangiare un po’ di pesce.

Una volta che Sat-tva prese un pesce domandò a Chan-pa : “Ho preso un pesce Onorevole fratello. L’ho preso perché io sono stato più furbo di lui. Che pensi, è giusto io che me lo mangi?”

“Tu non hai preso il pesce. E’ il pesce che si è fatto prendere da te, perché tu possa mangiare.”
”Il pesce si è fatto prendere da me? Ma che dici Onorevole fratello?”

“Tutto in questo mondo è collegato: ogni cosa dipende da un’altra. Nulla succede per caso. Anche quelle più apparentemente inutili, sono importantissime in questa catena di dipendenza, di vita e di morte.

Prendi una zanzara ad esempio…”

“Una zanzara?”

“Sì, una zanzara. Che c’è di più fastidioso di una zanzara per gli uomini. Si nutrono del sangue degli uomini. Trasmettono molte malattie agli uomini. E qualche volta ne provocano anche la morte. Ma se non ci fossero migliaia di zanzare di che si ciberebbero migliaia di pipistrelli e di rane? Nessun essere in questo mondo potrebbe esistere senza dipendere dagli altri. Se nessuno mangiasse i pesci in questo mondo, i pesci sarebbero i veri padroni. Se gli uomini non morissero, non ci sarebbe più spazio per quelli che devono nascere…Ogni causa ha un effetto e ogni effetto una causa…”

Ma per Sat-tva questi erano discorsi forse troppo difficili. Già aveva lasciato la canna e ributtato il pesce in acqua per correre dietro a una bella farfalla variopinta.

 

L’arrivo delle rondini

 

A primavera arrivarono le rondini. E nidificarono sotto il ponte.

Sat-tva le osservava tutti i giorni a testa in su.

“Chissà quanto mondo hanno visto le rondini? Quanti paesi hanno girato?”

Chan-pa lo ascoltò in silenzio. Si domandava se fosse possibile per lui conoscere i segreti che si portavano con sé le rondini.

Così passò molto tempo a fissare le rondini, che svolazzavano sotto il ponte. Ne individuò una che gli parve un po’ più grossa delle altre ma dava l’impressione di essere piuttosto giovane.

Una mattina che era rimasto solo a pescare, si nascose dietro una siepe e cominciò a fissare le rondini. Finalmente la riconobbe. Gli ci volle del tempo prima che potesse guardarla negli occhi perché, si sa, il volo delle rondini è quanto di meno lineare ci possa essere per via dei loro lunghi volteggi, picchiate e impennate. Alla fine ci riuscì. E zac! Fu la rondine.

Si ritrovò a librar nell’aria, planando lungo l’acqua del fiume con il becco aperto per bere.

In breve fu circondato da altre compagne.

E d’improvviso fu in grado di capire i loro pensieri.

 

Lo pregavano di seguirle perché stava ormai per cominciare l’assemblea.

 

Chan-pa le segue.

Si ritrovano tutte sul cornicione di un vecchio tempio buddista in rovina.

 

Le rondini si erano lì ritrovate per commemorare Osanje. Una di loro.

 

Non capiva come, ma tutto era chiaro. I pensieri fluivano tutti insieme e uno ad uno allo stesso tempo. Così poteva intendere i singoli pensieri di una singola rondine. E allo stesso tempo i pensieri di tutte le altre.

Comparve Oruruka il capo stormo. Tutti i pensieri si dileguarono.

Solo il suo dominava il vuoto degli altri.

Era un vuoto strano quello che si generava nella loro mente, pur pensando non pensavano; mentre Oruruka pensando rifletteva.

 

Erano lì per commemorare Osanje. Non ce l’aveva più fatta nella traversata dell’oceano. Ed era caduta giù spossata dalla fatica. Aveva predetto la sua fine. Sarebbe morta a ottobre durante la traversata. L’aveva predetta cinque anni prima. Come aveva predetto molte altre cose.

Una volta durante un’abbacinante giornata di sole d’improvviso radunò il branco e l’avvisò che presto sarebbe arrivato un terribile uragano, che non avrebbe risparmiato neanche una casa del villaggio.

Di solito le rondini si tengono ben lontane dagli uomini. Ma quella volta erano nel villaggio di Cumba, nelle terre del Djeri in Senegal. E lì gli uomini amano le rondini. Le considerano portatrici del bene. Dileguatrici delle tenebre.

Così piombarono a volo radente sul villaggio più e più volte, come impazzite fuggendo verso la montagna. Gli uomini all’inizio erano disorientati. Ma poi Bacchègga il mago, ammonì gli altri a seguire le rondini perché un pericolo imminente sarebbe di sicuro arrivato.

E così fu. Le case furono rase al suolo dalla furia dell’uragano. Neanche una capanna rimase.

Ma da quel giorno le rondini furono sacre. E la terra del Djeri fu il paradiso delle rondini. Lì da tutto il mondo le rondini convenivano per svernare. Lì erano rispettate e amate.

 

Oruruka muoveva il collo e scaturiva un altro pensiero riflettente.

 

Per commemorare Osanje, che aveva cambiato il rapporto con gli uomini, da quel giorno un uomo buono sarebbe stato scelto prima di partire per le terre del Djeri, a settembre. A primavera avrebbero a lui portato i semi magici del bene che crescono solo nelle terre del Djeri.

Anche un uomo cattivo sarebbe stato scelto. A lui avrebbero portato i semi del male che crescono sulle rive del lago di Kael, dove vivono i draghi feroci che uccidono tutto ciò che si avvicini a quelle acque.

 

Oruruka mosse il becco e un altro pensiero di luce riflessa schizzò.

 

Ognuna di voi segnali l’uomo più buono e quello più cattivo. Andate e cercate. Avete tre mesi.

 

Di colpo risentì tutti gli altri pensieri di tutte le altre rondini. E tutte volarono nelle più svariate direzioni.

 

 

 

C’è qualcosa di più importante dell’Amore,

a parte la morte e il dolore?

 

 

Un giorno Sat-tva se ne stava a pescare solo solo, sotto il ponte dove abitavano. All’improvviso cade giù dal cornicione del ponte un rondinotto. Sicuramente da uno dei tanti nidi che erano attaccati sotto l’arco del ponte.

Il rondinotto si muoveva come scosso da una carica elettrica. Poi si fermava come fosse morto. Poi riprendeva ad agitarsi scalciando e sbattendo le ali.

Sat-tva si avvicinò un po’ timoroso. Senza il coraggio di prenderlo fra le mani. Si mise a osservarlo.

Capì che il rondinotto doveva soffrire molto. Allora gridò: “Onorevole padre Hon-gu! Onorevole padre Hon-gu!”

Hon-gu comparve fuori della casetta di legno in cui vivevano.

“Che succede Sat-tva?”

“Onorevole padre c’è qui per terra un rondinotto, non so se è morto.”

Hon-gu si avvicinò e osservò il rondinotto, prendendolo delicatamente tra le mani.

“Ha una zampa rotta. Dev’essere caduto da lassù. Probabilmente non sa ancora volare, è troppo giovane. E’ un bel problema!”

Hon-gu portò il rondinotto in casa. Sat-tva gli trotterellò dietro.

Hon-gu con tanta pazienza preparò delle sottili striscioline di legno. Poi cercò di riaddrizzare la zampa del rondinotto. Con altrettanta pazienza gli legò intorno, con del filo per cucire, gli steccolini.

Sat-tva con gli occhioni aperti seguiva ogni operazione, senza parlare e batter ciglio.

Alla fine Hon-gu disse: “Ecco fatto. Ora dobbiamo dargli qualcosa da mangiare. Questa è la parte più difficile. Il rondinotto è troppo giovane ha ancora bisogno della mamma.”

Hon-gu prese del latte e con uno stecchino, cercò di fargli ingurgitare delle gocce di latte.

L’operazione fu difficile e il rondinotto non deglutì quasi che niente.

“Vivrà Onorevole padre?” chiese Sat-tva.

“Chissà?” rispose Hon-gu “Gli uccellini, in particolar modo i rondinotti, sono difficili da allevare, se non hanno la madre. Raramente sopravvivono. Questo per di più ha anche una gamba rotta. Rimettiamoci nelle mani del buon Dio e facciamo quello che possiamo.”

In quel mentre entrarono la madre Gim-pa-ma-san e Chan-pa.

Sat-tva le corse incontro a saltelloni per finire nelle braccia della mamma..

“Guardate Onorevole madre e Onorevole fratello abbiamo trovato un rondinotto. E’ caduto dal nido e ha una gamba rotta. Il nostro Onorevole padre gliel’ha fasciata, e gli abbiamo dato del latte. Ma il nostro Onorevole padre dice che morirà”

“Pregheremo il Signore perché ciò non accada” disse la madre.

Chan-pa si avvicinò e osservò a lungo il rondinotto. Non parlò. Non disse una parola.

Lui solo sapeva che una strana sensazione l’aveva preso.

Il seme oscuro e indecifrabile del destino affondò allora le sue minuscole e inalterabili radici.

 

 

 

 

La notte avvolgeva di un silenzio indefinibile tutte le cose. Si poteva udire solo il leggero fluire del fiume. Un quasi impercettibile sciacquio dell’acqua che lambiva l’argine del Ch'ônggyech'ôn . La luna argentea si posava leggera sopra il ponte e rifletteva la sua nitida immagine un po’ sporca di increspature nel fiume.

Tutto dormiva nella piccola casetta di legno.

Chan-pa fu l’unico che udì quel lamento.

 

 

 

 

La visione della Luce

 

Il rondinotto era morente. E Chan-pa fu l’unico a udire quel lamento di morte. Tutti gli altri dormivano profondamente. Tutt’intorno c’era come una nebbia caliginosa che avvolgeva le cose, rendendole insonore e irreali. Sfigurandole. In quel torpore, come se il mondo tutto si fosse addormentato, si avvicinò al rondinotto che giaceva in una scatola di cartone, adagiato su dell’erba secca. Si chinò su di lui e allungando il braccio sinistro sul tavolo posò l’orecchio sinistro sul minuscolo petto cercando di ascoltare il minuscolo cuoricino.

Rimase così forse un paio di minuti. Poi sentì piano piano il suo spirito entrare in lui. Fin nei più remoti recessi.

Fu un lunghissimo silenzio. Fu un buio completo e totale. Un buio che pian piano si punteggiò di piccole microbiche figurette. Come piccolissime formiche bianche.

Lo spirito di Chan-pa si ritrovò avvolto, mescolato, fuso a quelle stesse particelle. A quegli stessi spermatozoi vischiosi.

Lentamente fu un universo di quelle piccolissime particelle. Infinito. Dove l’una si legava all’altra. Gli sembrava di essere in balìa di un immenso oceano. Rotolava di qua e di là senza posa. Ma aveva come la sensazione di essere sospinto verso un punto.

Chan-pa si riscosse. Lottò violentemente contro quella corrente bianca, lattea. Con uno sforzo immane riuscì a trarsi da una parte, al di là del flusso ininterrotto.

Ebbe come la sensazione di essere salito su di uno scoglio altissimo, da cui poteva dominare l’universo.

Lontano notò come una palla di luce. Di un bianco folgorante. Impossibile da sostenerlo con lo sguardo. E vide che il flusso bianco confluiva tutto verso quel punto nel momento stesso che ne defluiva nel senso opposto al flusso affluente.

Fu di nuovo penetrato da quel non-pensiero riflettente che pur non pensando riflette.

 

Tu sei tutto quello, che quando è giunto il momento opportuno rapisce tutti questi mondi. Il mobile e l’immobile. Che quando è giunto il momento opportuno restituisce tutti questi mondi. Il mobile e l’immobile.

Tu sei tutto quello dove ciò che è andato poi ritorna.

Tu sei tutto quello le cui radici si estendono in alto e in basso, ma in realtà non ha un alto e non ha un basso.

Va’ e ritorna, ciò che è in te sarà in tutto. Riporta indietro il tuo spirito.

Tu caduto nel fuoco della rinascita come gli insetti, che con frenetici voli cadono in un falò notturno.

Tu gettato in questo oceano come le correnti dei fiumi che sfociano nel mare immenso.

Tu lambito e divorato da questa luce che, come i raggi del sole, lambisce e divora il mondo.

Prendi una sola scintilla di questa Luce e sarà nuova vita

 

 

Il brutto risveglio di Hon-gu

 

Hon-gu fu risvegliato da uno strepitìo di ali. Uno sbattìo di ali che lo riscosse all’improvviso.

Aprì gli occhi con grande fatica. A malapena riusciva a intravvedere qualcosa. Aveva come perso la cognizione del tempo. La testa gli era pesantissima. Quasi gli scoppiava. Era come se avesse bevuto tanto. Come se una bevanda narcotica lo avesse sconvolto. Come un carro gli fosse passato sopra.

A fatica roteò gli occhi. Un sottile filo di luce penetrava dalle finestrelle della capanna. L’ambiente era scuro. Pesante. L’aria anche.

 

Ricordò di aver sognato male. Di aver visto nel sogno un giovane di rara bellezza e dalle carni bianche pregare davanti al tabernacolo del suo dio. Dietro di lui erano poi spuntati un nugolo di spiriti di morti. Invidiosi della sua devozione l’avevano circondato per strappargli l’anima. Lui era allora fuggito in un tempio buddista.

Lì, disteso per terra c’era un altro giovane bellissimo dalle carni bianchissime, morente. Si era chinato per ascoltargli il cuore poggiando l’orecchio sinistro sul suo petto. Aveva sentito un piccolissimo cuore che batteva debole. Allora aveva preso un coltello e, affondatolo nelle molli e bianche carni, si era reciso i polsi e aveva versato il sangue copioso sul volto dell’altro giovane.

Lentamente l’altro aveva aperto gli occhi e sorriso.

 

A malapena ricordava ancora quell’incubo.

La testa gli era di un grave estremo.

Si voltò a destra e vide il volto calmo e sereno di sua moglie vicino a lui. Poi a sinistra e scorse i piedini di Sat-tva spuntare da sotto le coltri.

Cercò di sollevare un poco la testa per vedere, al di là del fagotto di coperte dove Sat-tva era sepolto, la sagoma di Chan-pa.

Ma la testa gli fece così male che dové ributtarsi giù.

Ma lo sbattìo era insostenibile. E con uno sforzo sovrumano si sollevò.

Guardò il lettino di Chan-pa.

Vuoto.

Fu un tuffo al cuore.

Si girò in direzione del rumore di ali e vide Chan-pa seduto con il braccio sinistro e la testa riversi sul tavolo vicino alla scatola del rondinotto.

La testa era finita proprio ad appoggiare l’orecchio sul rondinotto che sbatteva le ali per liberarsi del peso del capo di Chan-pa.

“Ma guarda un po’!” pensò Hon-gu “si è addormentato seduto, quel birbantello!”

 

 

Chusôk: la festa d’autunno

 

Chusôk letteralmente significa "sera d'autunno". Inizialmente era, come da noi il Ferragosto, la festa del raccolto. Una festività agricola che serviva per riposarsi dopo le fatiche della lunga mietitura. Ma, mentre da noi oggi il Ferragosto significa andare in vacanza al mare o in montagna, in Corea significa far visita alla propria famiglia di origine: ai genitori, ai nonni, ai parenti.

È la più grande festività coreana. Il giorno della riunione delle grandi famiglie.

Una festa che è osservata ovunque, sia in città che in campagna.

Se vi invitassero a trascorrere il Chusôk presso una famiglia coreana, dovreste dare una mano nella preparazione dei dolci di riso tradizionali, i cosiddetti songp'yôn, che vengono cotti a vapore su uno strato di aghi di pino. I songp'yôn sono dolcini di riso che di solito hanno la forma di una mezzaluna. È un dolce che ricorda il sapore di casa e certamente i coreani all'estero in questa occasione provano nostalgia per il loro paese al solo pensiero di queste delizie.

I songp'yôn vengono serviti alla fine di un pasto in cui compaiono piatti di carne e vegetali, come ad esempio il sanjôk (carne e vegetali su spiedini) o i vegetali fritti e conditi con olio di sesamo e sale, o ancora i kalbi chim, uno stufato di costolette di bue. E poi la zuppa di taro, molto nutriente.

Oltre a questi cibi, non manca neppure la frutta appena raccolta: mele, pere e cachi.

Quando il pasto di Chusôk volge alla fine vengono serviti appunto i songp'yôn, che sono consumati accompagnandoli con una bevanda alcolica, il sikhye, ottenuta dal riso fermentato.

 

La sera prima la famiglia si riunisce per preparare i dolcetti di Chusôk. E così aveva fatto tutta la famiglia di Hon-gu.

Il giorno dopo sarebbero venuti, obtorto collo (ma la rigida tradizione coreana non ammette eccezioni), pure Nor-bu e la megera di sua moglie.

La festa di Chusôk va celebrata appunto a casa dei genitori, o, in mancanza di loro, dal primogenito.

Nel caso di Hon-gu e Nor-bu la situazione era un po’ anomala.

Infatti nella casa che sarebbe dovuta spettare al primogenito (Hon-gu) abitava il secondogenito (Nor-bu). Ma la tradizione dice di celebrare la festività a casa del primogenito e il primogenito abitava sotto un ponte.

Così con grande faccia tosta il cattivo Nor-bu si sarebbe presentato a casa del fratello maggiore.

 

 

La sera prima Gim-pa-ma-san, la madre, aveva lavorato da sola e con grande alacrità e passione alla preparazione della cena.

Hon-gu e Sat-tva avevano dovuto aspettare fuori casa. Si dice infatti che i maschi non possano partecipare alla preparazione della cena e nemmeno osservarla. Pena la perdita della loro virilità.

 

Così Hon-gu e Sat-tva aspettarono fuori. E come un’altra tradizione impone, Hon-gu cominciò a raccontare a Sat-tva aneddoti sugli antenati, perché le nuove generazioni non dimentichino le passate. Raccontò a Sat-tva la storia di Hon-zu-cha della decima generazione, divenuto una specie di eroe popolare in Corea, che fin da bambino era cresciuto nell’odio contro gli invasori giapponesi. Già da piccolo si era messo in testa che un giorno ne avrebbe ucciso il governatore. E così sin dalla prima adolescenza si addestrò a lanciare coltelli. L’arma che lui preferiva. Silenziosa e invisibile. Che dà una morte rapida e leggera. Con quell’arma uccise molti funzionari e soldati giapponesi. Ma un giorno lo catturarono. Non lo imprigionarono, ma gli inflissero un’atroce punizione.

Con un pesante martello gli piantarono nella mano destra un grosso chiodo, e così lo lasciarono con la mano destra, attaccata ad una roccia, per un giorno e una notte, nell’impervio bosco di Uljin. Da quel giorno i tendini furono completamente lesionati e perse l’uso della mano.

Non domo, l’eroe, passò anni ed anni ad addestrarsi, in silenzio e con una meticolosità tutta coreana, con la mano mancina. Alla fine divenne più bravo che con la destra.

C’è chi dice che la mancina sia guidata dal lato sinistro del cuore, dal male che in noi risiede. Nella puntigliosità, nella cocciutaggine, nella persistenza il bene può essere distorto verso il male. E certo Hon-zu-cha nella sua missione travalicò il limite del bene verso quello del male. Non c’era niente di buono in quella sua volontà di uccidere. Nel rancore che provava verso chi lo opprimeva. E certamente c’è da sospettare che fosse il diavolo a guidare la sua mano quando finalmente riuscì ad uccidere il governatore giapponese.

 

 

La famiglia riunita commemora i propri morti per la notte di Chusôk

 

Dopo la morte di Chan-pa la famiglia era piombata in un cupo silenzio.

Se non ci fosse stata la fede in Dio, la famiglia sicuramente non avrebbe retto il colpo.

Chan-pa se ne era andato in silenzio. Quasi in punta di piedi. Quasi salutando e sorridendo come se un destino migliore gli fosse venuto incontro.

Chan-pa era stato sepolto proprio davanti alla casetta di legno sotto il ponte. Davanti alla tomba si era preparato un piccolo praticello verde, con un piccolo altarino su cui la notte di Chusôk avrebbero consumato la cena.

 

Il cattivo Nor-bu con la vecchia megera che camminava dietro di lui, arrivarono verso le 10 di sera.

“Buonasera Onorevole fratello e Onorevole cognata!” disse Hon-gu alla testa della sua famigliola, tutta schierata davanti agli ospiti in arrivo.

Nor-bu e la di lui pari moglie neppure si degnarono di rispondere.

Ma direttamente presero posizione davanti al tavolo apprestato e bell’apparecchiato.

Gim-pa-ma-san passò con un bacile pieno d’acqua.

Uno ad uno, a partire da Hon-gu (fratello maggiore), si lavarono le mani.

Hon-gu collocò al centro del tavolo la tavoletta degli antenati, accese l’incenso e poi si prostrò fino a terra andando a toccare il pavimento con la fronte.

Si versò del vino in una coppa e poi si pose la coppa davanti alla tavoletta.

Si accomodarono quindi, tutti, per consumare le offerte.

Nessuno aveva mai parlato fino ad allora. Si era mangiato in silenzio.

Fu dunque alla fine della cena che Hon-gu prese la parola: “Onorevole fratello e Onorevole cognata, per la festa di Chusôk vorrei invitarVi ad abbandonare ogni rancore fra di noi. Dopo la morte di Chan-pa la nostra vita è divenuta tristissima. Proprio davanti alla tavoletta degli antenati, e in nome di nostro padre e del piccolo Chan-pa vorrei invitarVi ad aprire i Vostri cuori e a riconsiderare il Vostro comportamento. Di restituirci almeno una piccola parte di quello che spetta a me e alla mia famiglia, perché io possa far fronte all’educazione del mio ultimo figlio, Sat-tva.”

Nor-bu e la moglie divennero paonazzi in viso. Nor-bu stava per esplodere. Ma Hon-gu fece cenno che gli si permettesse ancora di parlare.

“La morte di nostro padre ha gettato la famiglia nel più grande caos. Quella del mio piccolo Chan-pa ci avrebbe tolto ogni forza di vivere se non avessimo avuto la fede in Dio. Perciò fratello mettiamo da parte ogni rancore e secondo giustizia restituisci a noi non tutto ma una piccola parte almeno di quello che ci spetta per una vita dignitosa e migliore. E Dio te ne sarà riconoscente.”

Nor-bu e la vecchia megera avevano gli occhi dei pazzi, e anche la digestione gli si doveva esser bloccata a giudicare dal color plumbeo delle loro facce. I loro occhi divennero cattivi e simili a quelli dei padroni giapponesi, che occupavano la loro terra da anni derubando e impoverendo i miti coreani.

“Tu serpente a sonagli! Tu, mi costringi a venir qui! Solo perché è la festa di Chusôk. Tu maledetto escremento, razza di seme malato. Tu! E i tuoi pidocchiosi figli osate insultarmi così davanti alla tavoletta degli antenati...!”

Nor-bu aveva afferrato un lungo coltello dal tavolo e si avvicinava minacciosamente verso il fratello.

Sat-tva chiuse gli occhi e pregò il fratello Chan-pa.

 

D’un tratto e per incanto l’aria si profumò, e come neve cominciò a cadere giù dal cielo. Ma cadeva solo sull’altarino. E a poco a poco,in quel farfuglìo, si materializzarono tra la neve due figure bianche, quella del vecchio padre Hon-gu-pa, e poco più in là quella di Chan-pa. Il vecchio Hon-gu-pa teneva in mano un mucchio di piccoli semi. Chan-pa aveva nella sua una rondine svolazzante e guardava suo padre con aria serena. Con un sorriso di chi invece della morte avesse trovato la vita.

A Nor-bu cadde di mano il coltellaccio e la vecchia megera si nascose il volto nelle maniche dell’abito cerimoniale.

 

 

 

Ritorna la primavera

 

Alla meglio l’inverno passò per Hon-gu e la sua famigliola. Alla meglio ce la fecero ad uscire dal lungo tunnel del buio invernale. Le giornate si allungarono e divennero più calde.

Ritornarono le rondini a svolazzare sotto il ponte.

Sat-tva trascorreva le sue giornate estasiato a guardare le rondini.

Un giorno Sat-tva si presentò dal padre con le mani piene di semi bianchi.

“Onorevole padre le rondini per dieci giorni sono passate vicino alla nostra porta e ogni volta hanno lasciato cadere dal loro becco questi semi. Che vorrà dire?”

Hon-gu guardò i semi. Li riconobbe. Erano uguali a quelli che aveva tenuto in mano il vecchio Hon-gu-pa.

Allora si ricordò della visione avuta presso il ponte di Ch'ônggyech'ôn.

“Vieni piccolo Sat-tva, andiamo a seminarli. Credo che questi semi ci porteranno qualcosa di buono.”

E così fu.

Alla fine dell’estate dappertutto era pieno di enormi zucche bianche.

Hon-gu in tutta franchezza si domandava che avrebbe dovuto farsene di tutte quelle zucche.

Si certamente qualcuna l’avrebbero mangiata, ma lì ce n’era per almeno un anno.

Sarebbero di sicuro marcite la maggior parte. Forse avrebbe dovuto regalarne. Ma a chi? Chi avrebbe accettato di mangiare delle zucche cresciute sotto un ponte, e per di più bianche?

Così ne prese un paio e se le portò in casa.

Le mise sul tavolo, pensando che quando sarebbe arrivata Gim-pa-ma-san ne avrebbe aperta una e l’avrebbero cucinata per la sera.

 

Venne la sera.

Tutti e tre erano raccolti davanti al tavolo e sul tavolo giacevano le zucche: l’unica cosa che si avesse da mangiare.

Tutti e tre fissavano le zucche. La prospettiva di mangiarle tutt’al più bollite non era delle migliori, ma di altre possibilità non ce n’era.

Hon-gu si alzò e prese un coltellaccio, quello stesso che aveva brandito il cattivo Nor-bu.

Sferrò la prima coltellata. Il coltellaccio affondò, e vi rimase conficcato. Hon-gu dové fare forza per estrarlo.

Quando finalmente lo estrasse cominciò a colar fuori una schiumetta bianca.

Le facce dei tre furono alquanto deluse, pensando che quella schiumetta bianchiccia, nonostante la fame, non invitava davvero a mangiare la zucca.

“Sarà buona da mangiare Onorevole padre?”, chiese Sat-tva.

Hon-gu stava per rispondere quando all’improvviso dalla zucca schizzò fuori un getto di fumo bianco, violento e fischiante come un geyser.

Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!

I tre saltarono all’indietro impauriti e con gli occhi stranulati.

 

Quale altra disgrazia avrebbero dovuto subire ancora una volta? Non ne avevano sin qui anche troppe sopportate ?

 

La stanza si riempì di fumo. Il rumore scomparve e ne seguì un lungo silenzio. Non si vedeva più nulla. I tre a poco a poco ripresero animo, e cercarono di aguzzar gli occhi.

“Non vi sembra di vedere un lume sul tavolo?”, disse incredulo Hon-gu.

“Sì Onorevole padre sul tavolo c’è un lume!” rispose Sat-tva.

“Per la verità sul tavolo ci sono tre candelieri!” aggiunse Gim-pa-ma-san.

“La tavola è imbandita d’ogni ben di Dio!” borbottò di nuovo Hon-gu.

“Guardate Onorevole padre e Onorevole madre sul tavolo c’è di tutto! Riso, frutta, verdura, carne!!!”

“E i candelieri sono d’oro!!!” miagolò Gim-pa-ma-san.

Il fumo si era diradato e ai loro occhi si presentava la scena superba e sontuosa di una tavola enorme completamente arredata di ogni tipo di bontà.

I tre spinti da una fame da lupi si mossero all’unisono verso il tavolo e stavano per slanciarsi sui cibi, quando Hon-gu urlò: “Fermi !!! Questo è un miracolo! Questo è senz’altro un miracolo che il buon Dio ha per noi preparato. Dobbiamo ringraziarlo. E preghiamo pure per mio padre, il venerando Hon-gu-pa, e per Chan-pa, che hanno voluto con le loro apparizioni annunciarci la buona mente di Dio verso di noi!”

E così nonostante i morsi della fame, violenti e insopportabili, i tre passarono più di un’ora in raccoglimento, pregando.
Poi ci si buttò sui cibi e si mangiò come non mai.

Alla fine i tre erano esausti e spossati dall’infinito mangiare. E gran senso di pace e, finalmente, di sicurezza su di loro discese come uno spirito. Tutto nella casa era finalmente calmo, tranquillo. Non più trapelava l’angoscia del domani che sarà? Dell’infinita insicurezza del giorno a venire che la povertà si trascina dietro come le ombre della notte le angosce nere degli incubi onirici.

I tre si guardarono. Le loro facce erano rosse e accaldate dall’afrore del cibo e del vino di riso, che anche il piccolo Sat-tva aveva bevuto con il permesso e la benedizione dell’Onorevole padre e dell’Onorevole madre.

I tre si guardarono. E per poco quasi non si riconoscevano. Pieni. Sazi. Soddisfatti. Sereni per la prima volta da anni. Si guardarono come per dire: “E ora?”.

Era lì. Lì sul letto di Chan-pa che li aspettava. Che con pazienza aveva atteso che loro mangiassero e fossero saturi e fossero finalmente felici non solo di spirito ma anche di corpo.

I tre la guardarono a lungo. Non avevano il coraggio di dire quello che pensavano, per paura che un sogno finisse.

Aspettava: pareva emettere una luce. Quasi avesse intorno a sé un’aura dorata.

Hon-gu riafferrò il coltellaccio. Avanzò. Gli altri due dietro. Uno dietro l’altro. Quasi appiccicati. Come a passo di tarantella affrontarono a viso aperto l’arcano.

Un passo. Un altro. Un altro ancora. Stop. Gli furono davanti.

La zucca brillava davvero, come se fosse piena di oro zecchino.

Hon-gu alzò il braccio… e vibrò il colpo più forte che poté… e chiuse gli occhi: e chiusero tutt’e tre

gli occhi…

 

Tooookkk!!!

………

………

Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!

 

Di nuovo fu quel sibilo di un geyser. Di nuovo il fumo invase la stanza.

Sat-tva fu il primo ad aprire gli occhi.

Guardò l’Onorevole padre e l’Onorevole madre che ancora tenevano strettissimi gli occhi, per paura di aprirli.

Sat-tva non si capacitava non capiva più dove fosse. La capanna era scomparsa. Vedeva in alto il cielo stellato. Ma tutt’intorno era un luccicare di fondamenta d’oro di un palazzo sterminato in via di costruzione.

“Onorevole Hon-gu! Onorevole Gim-pa-ma-san ! Guardate!!!!”

Gli Onorevoli guardarono. Sì, dalla zucca erano scaturite le fondamenta di un palazzo gigantesco, tutte in oro zecchino.

Hon-gu per poco non svenne come una donnetta. La madre si appoggiò al (in quella situazione) poco Onorevole marito.

Sat-tva schizzava da tutte le parti.
Poi si proiettò fuori dal palazzo percorrendo un interminabile corridoio e ritrovandosi in mezzo alle zucche ne afferrò una, e preso un pietrone, cominciò a colpirla a più non posso. All’improvviso fu sbattuto a terra dal potentissimo getto di fumo che schizzò fuori dalla zucca.

Picchiò la testa e svenne.

Quando si riprese sentì suo padre che lo schiaffeggiava e gli urlava: “Guarda Sat-tva! Guarda!”

E intorno a sé vide delle enormi pareti d’oro puro, altissime che salivano verso il cielo.

Dalla zucca erano spuntate fuori sulle fondamenta le pareti di un palazzo miracoloso.

Questa volta, ratta ratta, fu la madre, la mitissima Gim-pa-ma-san, che alzò con una forza e una agilità, a lei stessa sconosciute, una terza pesantissima zucca.

Di nuovo il sibilo assordò la notte. Di nuovo il fumo li avvolse e li nascose per qualche minuto al mondo umano.

Quando il fumo si diradò lo spettacolo fu magnifico. Mozzafiato.

Davanti a loro stava un palazzo imperiale, d’oro finissimo, che brillava e luccicava, che forse già lo si vedeva dal centro di Seoul.

Tutte le finestre erano illuminate, e si scorgevano da fuori saloni principescamente arredati.

Hon-gu si sentì mancare alla vista di quel miracolo.

Sat-tva, era invece così pieno di adrenalina che già era corso via e già stava aprendo altre zucche: da questa uscivano forzieri di denaro, da quest’altra gioielli, da un’altra ancora pietre preziose, da quella più a destra abiti sfarzosissimi, da quella più a sinistra una carrozza trainata da puledri bianchi e neri….

 

 

 

 

Nor-bu viene a sapere del miracolo

 

In un breve torno di tempo in tutta Seoul si parlò del miracolo occorso a Hon-gu e la sua famiglia.

Di bocca in bocca corse la notizia. E migliaia di persone si recarono a vedere la reggia d’oro zecchino, nata così dal nulla nel giro di una notte, in pochissime ore.

File di mendicanti, amici e questuanti si recarono a chieder denari.

La famiglia di Hon-gu fu davvero spaventata da questa orda di umani che giornalmente avanzava verso la reggia.

Hon-gu questa volta si comportò davvero da Onorevole. Fu disponibile verso tutti. A tutti spiegò che cos’era successo quella notte. Narrò delle apparizioni avute (tacque solo delle rondini, per paura che la gente avrebbe reso la vita impossibile a quegli esserini).

Assoldò anche delle persone che se ne stessero, giorno e notte, davanti alla porta del palazzo a dirigere la folla, e a elargire con oculatezza un obolo a tutti.

Applicò il detto di Buddha: “Lasciamo passare sette giorni e poi si vedrà”.

Così passarono sette giorni, forse anche un mese. Ma piano piano, come la saggezza del Beato prevedeva, l’ondata decrebbe. E Hon-gu acquistò quello che gli spettava, un profilo, una posizione nella scala gerarchica come la filosofia confuciana comandava, e grande rispetto per il suo comportamento umanitario e saggio.

Piano piano la vita riprese con un tono normale.

 

Quando Nor-bu seppe la notizia, cominciò a girare per la casa come un pazzo. Con un umore nero che più nero non si poteva. Non faceva che lamentarsi con la vecchia megera che a sua volta non faceva che lamentarsi con l’acido Nor-bu.

“Ma ti rendi conto! Qel buonannulla! Quello sfaccendato! Quello smidollato! Tutte le fortune ha! Quella famiglia di vermiciattoli odiosi, senza arte né parte…”.

“Hai ragione Nor-bu” rispondeva la megera “non c’è giustizia in questo mondo.”

“Il mondo va davvero all’incontro” rincarava Nor-bu “anche le querci fanno i limoni.”

E così passarono gran parte dell’inverno: rodendosi il fegato.

Ogni tanto giungeva notizia a Nor-bu delle meraviglie del fratello.

“Sai Nor-bu oggi ho visto passare tuo fratello in carrozza. Che spettacolo! Tutta la gente lo guardava e si faceva da parte”, diceva uno. “Ehi Nor-bu ho saputo che tuo fratello ha dato una festa nel suo palazzo. C’erano proprio tutti. Si dice che ci fosse anche l’ambasciatore della Persia!”, diceva un altro.

Nor-bu diventava pazzo. L’invidia e la rabbia gli corrodevano l’anima. Non dormivano più, lui e la sua degna compare.

“Ma come avrà fatto?”, si domandavano. E andavano in giro ascoltando le dicerie. Origliavano. Allungavano il collo. Facevano finta di non sentire, ma sentivano.

Quando Nor-bu incontrava qualcuno che voleva narrargli di come suo fratello avesse fatto fortuna lui disprezzando, comprava. Faceva orecchio da mercante. Respingeva, ma non troppo, le offerte dell’avventore ma si prolungava nel discorso. Indugiava, dicendo che quel buonannulla sicuramente aveva rubato, e allora l’altro incalzava e insisteva per dirgli che non era vero e che solo lui sapeva come Hon-gu si fosse arricchito.

Così lentamente ebbe un quadro mostruoso in cui Nor-bu non ci capiva più nulla: si andava da un grosso furto perpetrato addirittura alla Banca di Corea, fino all’intervento di un mago biondo e alto con gli occhi azzurri che aveva vissuto in Corea più di mille anni fa, e che era ritornato in Corea perché aveva degli affari urgenti da sistemare con i giapponesi: vox populi, vox diaboli verrebbe voglia di dire!

 

Così passò un altro inverno. L’orgoglio di Nor-bu vacillava sempre più. L’invidia, la rabbia, il livore e l’astio si commutavano in voglia di sapere come quel disgraziato avesse fatto.

A primavera inoltrata Nor-bu uscì fuor di casa con passo severo e deciso e si diresse con un ghigno feroce al palazzo del fratello.

Lungo la strada avrebbe potuto assaporare il profumo dei fiori, il tepore primaverile, il sole caldo che baciava e sfiorava la pelle, il volo radente delle r o n d i n i... Tutto questo avrebbe potuto, se solo non fosse stato chiuso come una monade in quel suo universo tutto nero e denso e tristissimo.

 

Quando arrivò al palazzo per poco non svenne, alla vista di una delle settime meraviglie del mondo.

Non l’aveva mai visto, ne aveva sentito tanto parlare ma a trovarsi lì davanti le gambe gli tremarono e il cuore gli sussultò.

Il palazzo, tutto d’oro finissimo, era circondato da mura a perdita d’occhio che dovevano racchiudere un terreno di forma quasi quadrata. Ai quattro punti cardinali corrispondevano quattro porte. La porta principale era a sud ed aveva tre archi: quella centrale era per il Signore (Hon-gu!) e la sua famiglia; quelle laterali erano una per i visitatori e l’altra, ancor più piccola, per i questuanti.

Norbu si sentì piccolo piccolo di fronte a tanta possanza e magnificenza. Quasi un verme nudo.

Con l’animo di un verme bussò al portone dei questuanti.

Un servitore alto e con portamento nobile venne ad aprire.

“Ehmm…Vossignoria mi permetta…io…ehmm…sarei Nor-bu il fratello di Hon-gu…Vorrei vedere mio fratello…”, disse a testa bassa.

Il servitore lo squadrò dall’alto in basso.

“Mi segua, La prego. Suo fratello L’aspettava da tanto tempo.”

 

Mi aspettava da tanto tempo, ma come? Com’è possibile? Un uomo così ricco, così…nobile? Mi aspettava?

 

Così rimuginando, la vecchia arpia cominciò a salire i gradini d’ingresso al palazzo. Subito il suo cuore subì un altro tuffo. Sulle scale d’ingresso stavano, enormi, le statue degli Haet'ae, i mitici animali "mangiafuoco” a protezione contro le fiamme provenienti da sud, dal monte Kwanaksan.

Sempre seguendo il nobilissimo servitore diede inizio alla scalata verso il secondo piano attraverso corridoi lunghissimi, che sempre salivano in ordine di importanza. Il secondo piano dell'edificio era appunto disposto, secondo la filosofia confuciana, in tre livelli ascendenti, in modo che gli ospiti potessero accomodarsi secondo il loro grado: gli ospiti più importanti più in alto e i meno importanti in basso

I suoi occhi si stranulavano. Si contorcevano, da tanto che c’era da vedere, da essere meravigliati…da diventar matti.

Hon-gu lo ricevette nella sala delle udienze che stava all’apice del secondo piano dell’edificio.

Appena Nor-bu varcò la soglia, Hon-gu gli si fece incontro per abbracciarlo: “Fratello, finalmente sei venuto. Aspettavo la tua visita da molti mesi!”

Nor-bu confuso, stordito da tutto quel lusso, irritato dalla benevolenza del fratello si ritrasse un po’ all’abbraccio ma non vi si sottrasse del tutto per rispetto all’alta posizione gerarchica a cui Hon-gu ormai pareva appartenere.

Accanto a Hon-gu se ne stava il piccolo Sat-tva che, a giudicare dalla sua faccia, non sembrò apprezzare molto tutta quella disponibilità del padre verso il fratello.

“Ehm Onorevole…ehm fratello…vedo che Lei…ehm volevo dire tu, hai fatto fortuna…e che fortuna da quello che ho potuto vedere! Così tutto all’improvviso. Sai…ehm ho sentito molte chiacchiere…ehm…su come hai fatto…come si può dire…fortuna? E allora in nome del vincolo di sangue che ci unisce…ehm…avrei apprezzato da Lei…ehm…volevo dire da te… sapere la verità…anche per controbattere….mi capisci a tutte quelle dicerie…che sento in giro…”

“Hai fatto benissimo”, rispose Hon-gu. “Ma vieni. Rimani a pranzo da noi. E ti dirò ogni cosa. La cosa che più mi preme è superare ogni rancore e incomprensione fra noi, in nome di nostro padre Hon-gu-pa.”

 

 

 

 

 

Nor-bu torna a casa e si lambicca il cervello

 

Nor-bu se ne tornò a casa verso la metà del pomeriggio. Dire che fosse ben disposto sarebbe non dico un eufemismo ma di certo una non del tutto veritiera inesattezza. Il capo gli bolliva. Gli orecchi gli fumavano. Gli occhi roteavano come palle fiammeggianti. Dentro era tutto un ribollire, una pentola a pressione che stava per esplodere.

Le rondini! Ti rendi conto, le rondini!!! Ma chi vuol prendere in giro quello? Ora le rondini vanno in giro a regalar soldi a chicchessia! Quel lardoso e borione pretende che io ci creda. Ma figuriamoci! Se io, uomo di mondo che sono, vado a creder a tali frottole…Eppure che altro?...Rubare?…non mi par davvero il tipo. Ci vuole ben altra tempra, che quella di un coglionazzo come lui…. E se fossero state veramente loro? In fondo che mi costa? Sotto al mio tetto ce ne sono tante di rondini! Basterà che aspetti che ne cada una… che c’è di più facile? E allora la prendo le curo una gamba e la rilascio e poi anch’io l’anno prossimo avrò tante zucche bianche piene di ogni ben di Dio!

 

Così discorrendo Nor-bu se ne andò a casa come avesse gli stivali delle sette leghe.

 

Arrivato a casa chiappò la moglie e gli raccontò ogni cosa. Non vi dico il dialogo! Certo fu un dialogo fra avidi. Allucinanti e distorcenti discorsi. Arzigogoli, in cui il senso dell’avarizia e della cupidigia la facevano da padroni. Dove Buddha avrebbe avuto un bel da fare, se avesse voluto parlargli del suo samma sankappa (retto pensare) o del suo samma vaca (retto parlare). Perché di retto lì non ci fu proprio nulla, se non l’andar a diritto per ore e ore in insulti e improperi, tutti diretti appunto verso un’unica persona, invocandone la sfortuna e la malasorte per l’avvenire.

Tuttavia la conclusione fu che si sarebbe dovuto provare. Tanto non costava niente. E quindi male non avrebbe fatto.

E detto fatto, provarono.

Fin dalla mattina dopo si piazzarono, di buon’ora, sotto il tetto a naso all’in su a studiar l’architettura dei nidi, e a uccellar perché qualche rondinotto ne cascasse giù rompendosi una gamba. Tutto era già pronto: steccolini, filo di refe e una ciotolina di latte. Rancido naturalmente, perché il rondinotto è pur sempre un animale e del latte fresco sarebbe stato sprecato, e se anche fosse stata una persona, nulla sarebbe cambiato; il latte vecchio, che volete?, non è che si può buttar via a cuor leggero. Costa.

 

Passarono due settimane a naso per aria. Ma niente. Solo molte deiezioni, che spesse volte centravano in pieno i due fanatici, inducendoli a bestemmie e altri epiteti, qui irripetibili.

“Possibile che non ne caschi giù neanche uno di quei dannati!” sbottava di continuo Nor-bu.

 

Si dice che la donna ne sappia una più del diavolo, e, laddove non arrivò la crudeltà di Nor-bu, vi giunse quella della sua degna compare.

Un giorno che la bile della megera ebbe un trabocco, urlò: “Ora basta! Non ne posso più di stare a testa in su. Il collo mi fa un male bestia. Se la montagna non viene a Maometto, allora Maometto andrà alla montagna. Prendi una scala Nor-bu. La più lunga che abbiamo. Muoviti! Ti faccio vedere io come si fa.”

Appoggiata la scala al muro, la diavola vi s’arrampicò su con la destrezza di una scimmia. Arrivata in cima infilò una mano in un nido, rompendolo. Molti rondinotti ne precipitarono giù. Immediatamente ridiscese.

“Hai visto bellimbusto come si fa. Sicuramente con un volo così qualcuno di questi demoni si sarà rotto una zampa.”

I due presero uno ad uno i rondinotti per controllare. Ma con grande loro disappunto, o qualcuno era morto o erano tutt’interi e vivi e vegeti.

“ E che diamine!” esclamò la megera “neanche uno che si sia rotto una zampaccia!”

“Ti faccio vedere io come si fa” sbottò pieno di rabbia Nor-bu che non voleva apparir da meno della sua demoniaca compagna. E così detto prese un rondinotto e gli spezzò una gamba.

Pure l’avvoltoio della moglie chiuse gli occhi per la ripulsa di una tale azione.

“Vieni!” disse con fare imperioso Nor-bu “andiamo in casa e curiamogli la gamba!”

 

I due aspettano l’arrivo delle rondini

 

Sarà stato a causa delle tempeste di sabbia provenienti dalla Cina, che si abbattono in Corea nei primi giorni di primavera, sarà stato per la tensione di un lungo e interminabile inverno trascorso in attesa frenetica dell’arrivo delle rondini. Sarà stato per il fatto che si rodevano continuamente il fegato perché l’inverno non finiva mai e le rondini non arrivavano. Sarà stato perché nella loro dieta applicavano rigorosamente il principio di Guglielmo di Ockham entia non sunt multiplicanda prater necessitatem (gli enti non devono essere moltiplicati oltre il necessario) secondo il quale bisogna "tagliare" tutto ciò che è superfluo, e così a furia di “tagliare” avevano finito per ridursi a mangiare nient’altro che cipollotti rossi, perché costavano poco… Fatto sta che i due si erano ricoperti di fastidiose bolle in tutto il corpo, e di herpes sulle labbra, e il loro volto si era completamente arrossito, da sembrare due autentici sgorbi deformi.

I due, che belli non erano mai stati, ora parevano davvero dei mostri. E se il volto di una persona è un po’ come il suo biglietto da visita, beh!, quello di Nor-bu e di sua moglie era divenuto assai conforme al mondo interiore che li dominava. Nelle loro facce si rispecchiava l’umore e i sentimenti che dominavano il loro cuore.

Si diceva in giro che quella fosse la punizione di Dio che i due meritavano per aver cacciato, a suo tempo, il fratello di casa.

“Eh! vedi che c’è una giustizia divina.”, diceva uno “Prima suo fratello ha riavuto dalla fortuna ciò che Nor-bu gli aveva rubato. E poi ora guarda come si son ridotti! Due bubboni!”

“Guarda se non esiste il karma!”, diceva un altro “Nor-bu e sua moglie sono l’esempio che se fai cattive azioni otterrai cattivi frutti. Se compi buone azioni otterrai buoni frutti. Guarda che differenza fra Hon-gu e Nor-bu!”

“Tutto si paga!” sentenziava un grasso funzionario di corte, assai noto a Seoul per la sua rettitudine e forza morale “I beni sottratti con la spoliazione indebita, non sono durevoli e vi è come una sorta di nèmesi divina che riequilibra tutto!”

 

Insomma su questi presupposti si arrivò alla primavera.

E finalmente arrivarono le rondini.

 

 

Le rondini portano i semi

 

Nel cielo apparvero le prime rondini che libravano leggerissime. E che spettacolo quel contrasto di blu indaco e i loro voli persi nella profondità e immensità di quel cielo!

Ma a Nor-bu tutto ciò non diceva nulla, nel modo più assoluto.

I due bernoccolosi già dalle prime luci dell’alba se ne stavano ad uccellar davanti al portone di casa, sempre più rossi e sempre più pustolosi.

Certo verrebbe da pensare che le rondini avessero ben altro da fare che andar a portar buone nuove ai due. Ma non interferiamo con il voler del cielo! E riprendiamo il posto che ci spetta. La storia è storia di altri.

Dopo lungo attendere finalmente un mattino presto avvistarono da lontano una rondine che aveva tutta l’aria di puntar verso di loro.

Il cuore gli sussultò. I loro occhi, come radar che inquadri un aereo nemico, seguirono attimo per attimo l’oggetto ben identificato e il cui attacco era da lungo previsto.

Velocemente l’oggetto si avvicinava. I due avevano gli occhi fuori dalle orbite, e una forte tachicardia li colse. Finalmente il sogno di un lunghissimo e putrescente inverno pareva realizzarsi!

L’attesa pareva essere appagata!

L’oggetto si avvicinò con una velocità impressionante. Quasi sembrò colpire in faccia Nor-bu. Ma quando gli fu a poco meno di mezzo metro con un perfetto colpo di virata, voltò ad u e riprese improvviso quota, mentre che lasciò cadere a terra un piccolo seme nero!

I due pustolosi si precipitarono all’unisono sul seme picchiando una bella capocciata, che invece del seme videro solo tante stelle.

“E’ mio!” urlava Norb-bu. “E’ mio!” urlava la megera.

Con una mossa felina la megera si impossessò per prima del seme. Hon-gu non più rosso ma paonazzo, livido, con il volto gonfio come un pallone e, probabilmente, vicino a un ictus per la pressione ai massimi livelli, le sferrò un pugno violentissimo stendendola per terra e poi non contento le affibbiò pure un calcione nello stomaco.
La megera per tutta risposta gli si avventò alle gambe e gli azzannò un polpaccio. Nor-bu stridette come un maiale nel cui cuore avessero affondato profondo un succhiello.

Ma mentre si picchiavano ecco che un’altra rondine punta dritta verso di loro e con la stessa identica manovra lascia precipitar giù un altro seme nero.

Le due belve si sgrovigliano e di nuovo si slanciano sul secondo seme, fra pugni, calci, morsi e graffi.

Nemmeno il tempo di arrivarci che subito ne arriva un’altra, e giù un altro nero seme. E poi un’altra, e un’altra ancora, un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora e un’altra….

I due pazzi corrono senza meta di qua e di là curvi, piegati come scrofe alla ricerca del cibo, il cui ventre è mai sazio, mai pieno.

 

 

 

 

 

Nor-bu e sua moglie piantano i semi

 

Dobbiamo dire la verità, per la semina furono davvero perfetti!

Ararono in profondità perché i semi potessero avere ossigeno. Lasciarono grossa la terra perché nel suolo circolasse aria in abbondanza. Misero i semi in ammollo in acqua tiepida per quattro, cinque ore.

Li posero poi in del terriccio per produrre i germogli, e non appena che questi ebbero tre, quattro foglioline li presero e li trapiantarono nel terreno precedentemente arato con ogni cura, a circa 60 centimetri l’uno dall’altro perché godessero di luce a sufficienza e fosse ridotto al minimo l’avvizzimento.

Quando infine le piantine cominciarono a crescere, e a mettere un bel po’ di foglie le tirarono su ponendogli dei sostegni. Ogni mattina vi zappettavano intorno per dare sempre aria al terreno.

Di buon mattino si recavano all’orto e le pulivano di ogni sorta di erbacce e di ogni parassita che si fosse depositato sulle foglie.

Se non fossero stati Nor-bu e sua moglie si sarebbe potuto dire che le amavano.

Ma trattandosi di loro è meglio non usare una simile parola: amore era davvero una parola fuori dalla portata del loro vocabolario.

Ma questo non gli bastava. Così ricorsero anche ad altre pratiche, perché alle loro piantine fosse assicurato il migliore dei futuri.

All’ingresso dell’orto posero i changsûng o pali degli spiriti. Erano una sorta di “totem”, sculture lignee che rappresentavano delle divinità tutelari, e che erano poste per lo più all’ingresso di un villaggio per proteggere il villaggio, appunto, e i suoi abitanti dagli spiriti malvagi e dalle malattie.

Tutt’altro che belle queste sculture! Brutte e irregolari, occhi enormi e sporgenti, sguardi torvi, grande naso a forma di patata, e tuttavia con delle enormi bocche che si allargano da un orecchio all'altro in un grande sorriso di benvenuto.

Sotto questi pali all’ingresso dell’orto i due tenevano quotidianamente dei riti con offerta di cibo (cipollotti rossi!) e preghiere per invocare il benessere dell’orto e un raccolto abbondante. Dopo aver celebrato il rito, i due consumavano con avidità, ma in comune, l’offerta di cibo (i cipollotti rossi, sempre e solo quelli!!).

Insomma non si risparmiarono davvero in nulla. Quando ci vuole ci vuole! (si potrebbe dire, volendo parafrasare il comportamento dei due sodali)

Per proteggere le piantine al meglio dalle intemperie si misero addirittura a costruire tutt’intorno un muretto di pietre. E qui andarono a tirar fuori nientepopodimeno che una vecchia usanza.

Costruirono questo muro tutt’intorno, andando in giro a cerca di pietre maschio e femmina, cosa tutt’altro che facile! Eppure passarono giorni e notti per i campi e per il greto del fiume Ch'ônggyech'ôn a cercar simili pietre

Se, secondo l’antica usanza, nella costruzione del muricciolo si fossero messe le pietre a coppie, maschio e femmina, l'una sull'altra, il muro avrebbe resistito a qualunque tempesta e alle intemperie.

Ma siccome l’equilibrio e la temperanza è privilegio solo dei saggi (e non era il caso dei nostri), si volle esagerare. Pensando che la pietra-femmina è simbolo di fertilità si volle esagerare nel metter dentro più pietre-femmine che pietre-maschio.

E già questo non fu un buon auspicio.

Ma comunque i due si sentivano soddisfatti e si gongolavano come due grassi maiali a guardar le loro pianticelle crescere.

E almeno qualche pustola gli scomparve e un po’ di rossore venne meno.

 

 

Le zucche crescono e portano la tanto agognata sorpresa

 

Le zucche crebbero. Belle. Rigogliose. Sontuose direi. Ma nere.

I due, i cui occhi piangevano di gioia al solo guardarle, non ci fecero caso. Né Nor-bu tantomeno si ricordava che Hon-gu gli aveva parlato sì di zucche, ma bianche.

Nor-bu era felice. E difatti sul suo volto pustoloso e arrostito dalla dieta dei cipollotti rossi comparve un ghigno che si sarebbe dovuto interpretare come un segno della sua ottima disposizione interiore. Anche la megera abbozzava sul viso rosso, roso e corroso dalle vesciche, una specie di sardonico sorriso.

Insomma, unicuique suum, erano a loro modo felici.

 

 

 

 

“Sono pronte” disse la megera “possiamo aprirle anche stasera”

“No!” rispose imperioso Nor-bu “Non ancora. Lasciamole maturare ancora un po’. Se le apriamo adesso che sono sempre acerbe, sicuramente avremo meno. Aspettiamo che siano più mature e di sicuro avremo di più”.

E così aspettarono un altro mesetto.

La megera non stava più nella pelle.

“Nor-bu dobbiamo aprire le zucche, o marciranno”, sbottò di nuovo una mattina.

“No!” disse insistente Nor-bu “Ho detto di no!” e le misurò in faccia la zappa che usava per zappettare quotidianamente la terra intorno alle zucche.

Ma le zucche stavano già appassendo. La megera non intese ragioni e con un volo da gazza ladra gli strappò leggera la zappa di mano e come indiavolata si gettò a ripetizione sulle zucche spaccandone in contemporanea almeno una decina.

“Che fai pazza!” urlò infuriato Nor-bu raccogliendo un grosso pietrone e schizzando verso la moglie per spaccarglielo nel capo.

Ma mentre che la pazza aveva finito di spaccare la decima zucca e Nor-bu ne stava per spaccare una assai più dura, dalle zucche cominciò a colar giù un liquido nero e repellente.

Fu un attimo e l’aria si riempì d’un tratto di un alito di peste.

I due si bloccarono, pieni di paura e stupore.

Un vento feroce si mise a soffiare dal profondo delle zucche e nubi plumbee ne fuoriuscirono abbattendosi con tuoni e fulmini sulla casa di Nor-bu che pareva che volessero schiaffeggiarla.

La casa fu sollevata in aria, e mentre che si sollevava in aria da sotto il pavimento si aprì una cripta e, fra tanfo e fumo, tutta coperta di vermi una ridda di stinchi bianchi ne veniva a galla insieme a un mare di teschi.

La casa presa in custodia dal vento feroce fuggì verso la montagna Kwanaksan, e tra un bagliore di fiamme lontane scomparve.

Dalle zucche emersero dieci enormi draghi neri che cominciarono a vomitar fuoco da tutte le parti e dove il fuoco cadeva tutto scompariva. In breve fu tutto bruciato. E solo odor di fiamme e di morte rimase là dove prima sorgeva la dimora di Nor-bu e della sua compagna.

Il fiume Ch'ônggyech'ôn muggì gonfio d’acqua, e fuoriuscendo dagli argini esondò ribollendo e si portò via tutto, lasciando dietro di sé una lunga striscia della bava fiammeggiante dei draghi.

Intanto i due, non più rossi ora ma neri come due tizzoni d’inferno per le fiamme e il fuoco, erano corsi come due lepri sul ponte, e da lì disperati avevano visto ogni loro bene venir giù divorato e ingoiato da quel cataclisma.

Accanto a loro si era radunata una fitta folla di passanti e curiosi che gridavano all’indirizzo della bava fiammeggiante che portava seco il Ch'ônggyech'ôn: “E’ la coda del diavolo!” E’ la coda del diavolo!”

Qualcuno narra di aver visto Nor-bu piangere.

 

 

 

 

 

Qui finisce la nostra storia

 

Qui finisce la nostra storia.

Ma prima di lasciarvi permettetemi ancora di aggiunger qualche parola.

Nor-bu e la sua moglie divennero poveri in canna, e finirono a chiedere l’elemosina.

Ma vi domando: credete che i due siano cambiati? Credete che il loro cuore si sia intenerito? Che quel vaso di creta che è il bene che ci portiamo dentro fra mille vasi di ferro si sia finalmente aperto e abbia sparso le sue semenze nell’anima dei due tapini?

Vi domando di nuovo allora: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua natura in quanto acqua e diventar latte?”

E Hon-gu infine, il buono e mite Hon-gu, in cui, all’opposto, il vaso di ferro era il bene e tutto il male era contenuto in deboli vasi di coccio che andavano spaccandosi al minimo urtar che avessero con quello di ferro, credete dunque che Hon-gu se ne sia davvero rimasto indifferente alla tragedia del fratello per gustarsi il piacere del freddo piatto della vendetta?

Di nuovo, e in fine, vi chiedo: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua natura in quanto acqua e diventar latte?”