Michele Lupo

è l'autore del romanzo "L'onda sulla pellicola", ambientato nel mondo fin troppo realistico delle scuole private e in quello immaginario di fantomatici set cinematografici (besa editrice,2003)

Ego te absolvo

Soltanto l'ufficio delle mie mansioni mi ha consentito il privilegio di conoscere questa storia. Trascriverla, questo non dovrei farlo. So bene che niente autorizza un sacerdote a censire gli errori degli uomini in un catalogo privato a uso personale.

Iddio mi è testimone: non so bene perché lo faccio. Lui sí,suppongo. A me resta solo la certezza della colpa. Della mia inadeguatezza all'abito che indosso. E' forse superbia? E' questo che mi fa assolvere frettolosamente il peccatore per poi indagarne enigmi supplementari fissandone l'esemplarità in una sorta di Registro dell'Arbitrio?

Ho immaginato l'uomo con relativa facilità. L'avevo intravisto prima, ovvio. Ma l'avrei individuato ugualmente dal modo in cui mi ha guardato imboccando l'ostia: indugiava con la lingua sotto il corpo di Cristo come per assicurarsi che i miei polpastrelli schiudessero la possibilità di una salvezza. Diciamo meglio: sperava che lo riconoscessi per impedirmi di sottrarmi alla mia umile ma decisiva funzione, ovvero di esercitarla consapevolmente anche davanti a uno come lui. Esigeva l'evidenza di una forza compiuta, insomma, non recalcitrante.

Altre volte, in occasioni analoghe, mi è sembrato che si volesse ostentare un di piú di morbosità, una provocazione, uno sberleffo quasi: non vi ho badato. Ma sempre,quando termino il rito, subisco lo spiacevole inconveniente di un fremito isterico (chiamo isterico un accesso di irrazionalità che fa perdere alle persone il controllo necessario a renderle davvero umane: immagino che il concetto di isteria si configuri tutt'affatto diverso per gli scienziati della psiche, ma comunque: non sono un intellettuale e non lo ritengo un male).

E' l'umidore gocciolato sulle dita dai fedeli a provocarmi quella reazione. Non ho mai tollerato l'impudicizia del corpo. Alludo a una condizione che riconosco rischiosa. Sono preda di conati di vomito: se mi è accaduto di soffermarmi sulla qualità abbietta dei pensieri degli uomini o di inorridire alla sfacciata indecenza dei loro abiti, è una sfida ulteriore quella che non riesco a tollerare: l'impudicizia del contatto fisico. Tuttavia sono un sacerdote. Per questo, l'inettitudine ad assolvere serenamente le mie funzioni mi si schianta addosso come una croce che pavento di non saper sopportare: ecco una sorpresa che ormai non è piú tale e non per questo finisce di stupirmi. E di tormentarmi.

Vi furono molte buone ragioni per cui a suo tempo decisi di prendere i voti. Vocazione? Non scherziamo. E' una faccenda troppo seria per liquidarla con una parola cosí facile e ambigua. Ho risparmiato l'osservazione ai miei superiori per evitare il pericolo di essere frainteso. La dottrina l'ho accettata senza difficoltà: questo voglio chiarirlo subito. Credo nei sacramenti, per esempio. Compreso quello della penitenza. Del resto, l'ho già detto, non sono un intellettuale, ne sarò mai un teologo nel senso vero della parola. Vorrei essere un parroco modesto, servizievole, non di quelli che approfittano della messa per improvvisarsi profeti o filosofi della cristianità. Non c'è nulla che io possa dire che non sia stato già detto e scritto molto meglio. Opinare, un sacerdote non dovrebbe sentirne il bisogno.

Eppure. Quelle molecole di saliva sulle dita mi fanno puntualmente correre verso il bagno, trascinato in canonica da un' inquietudine rovinosa, Dio mi perdoni, da una smania improvvida di cui mi vergogno, senza avere il coraggio di confessarmi a mia volta.

Questo dovrei dire: che vorrei solo lingue essiccate. Scabre come pietre polverose. Ma c'è dell'altro. Di peggio. Al di là della grata capita di udire voci che da subito provocano in me una curiosità eccessiva, malsana, contro cui ho tentato vanamente di oppormi, di combattere.

E' un tono, una modulazione, come se si annunciasse la possibilità di una rivelazione straordinaria, il dono di un segreto sinistro che suscita in me quella sorta di impudenza che nel mondo viene erroneamente definita coraggio. Non mi interessa sapere se si tratta di una falsificazione cosciente e in buona fede. Parlo degli altri, si capisce. Per quanto mi riguarda so che è in quel momento che faccio partire il registratore. E' un oggetto minuscolo ma tecnicamente affidabile.

Convivo quotidianamente con la paura di essere scoperto. Mi pare che il cortile dell'oratorio nasconda decine di orecchi aguzzi tesi dentro la mia anima. Cosí la sera, strapazzato come un cencio, impiego del tempo prima di addormentarmi. Se quella è la solitudine dell'assenza di Dio, nessun paragone può compararne lo sgomento. Naturalmente, non sto dicendo che faccio mia l'oltranza materialistica del nostro tempo, ci mancherebbe anche questo: è solo che mi sembra un lusso, un privilegio immeritato domandare al Cielo la Grazia dell'impunità.

Tuttavia, una volta chiuso nel confessionale i bravi propositi di rientrare nel seminato crollano inesorabilmente. Come una volontà che mi superi, mi sovrasti. Non dovrei pronunciare parole come queste.

La domanda è: Fin dove può spingersi il libero arbitrio?

La sentivo crescere in me man mano che l'uomo parlava, assieme a quel propagarsi di una disarmonia sgraziata, una specie di musica funerea che si insinuava nel confessionale senza che io potessi opporvi resistenza. Diceva di essere afflitto dal peso di uno sforzo assiduo, incessante, durato -diceva - una vita intera. Sgravarsi la memoria dall'angoscia di una violenza reiterata. Si trattava di questo. Nonostante fosse ormai adulto e già padre a sua volta, ispettore di polizia, stimato il dovuto, rispettato, era assediato dal ricordo degli abusi inflittigli dal padre da quando era bambino. Violenze proseguite fino alla soglia della maggiore età, quando abbandonò il paese di origine, perduto fra le valli del Cadore, approfittando dell'obbligo di leva e della possibilità, sfruttata senza indugi, di rimanere nel corpo di polizia.

Quattro giorni fa ha chiesto un permesso speciale ai suoi superiori. E' tornato al suo paese ed è andato al cimitero. Quando il guardiano ha sprangato il cancello, alla sera, nessuno dei due si è accorto dell'altro.

Ho immaginato un sibilo, nella notte dell'uomo, nella pausa della sua confessione, ho udito una risonanza terrea che passava fra il suo odio e la lapide che aveva di fronte, rischiarata da un solo lumicino, stante il racconto. Che si è prolungato precipitato con un'urgenza improvvisa e liberatoria sull'ombra del padre, sull'alone del volto che gli si è disegnato opaco ma nitido sulla pietra. Sto ricostruendo io in una lingua comprensibile la turpitudine di fonemi sbiascicati con cui l'uomo consegnava all'inetto servitore di Dio l'orrore del suo errore.

L'eco di quel sibilo ha invaso il confessionale prima delle ultime parole,come un accordo tetro, il dilagare di un'insidia. Giuro, un moto di ragionevolezza l'ho avvertito, un sussulto di cautela, ho inarcato la schiena spinto dal bisogno di frapporre un argine al tracimare di quella bestemmia. Ma ho taciuto. E infine l'ha detto. L'ha detto una due tre volte, e se non fosse che ho temuto stesse per impazzire, che stesse per sollevarsi dall'inginocchiatoio e urlare la sua oscenità dentro la requie della chiesa, se non fosse stato questo, mi sarei alzato e l'avrei lasciato là, solo, nel suo inferno. Ma la sua follia ha stemperato per un momento la mia. Ubi maior. Ho solo fermato il registratore. Come dovessi coprire il corpo di un defunto.

Solo i miei orecchi hanno udito il resto. L'uomo, prima che il volto del padre lo inghiottisse di nuovo dentro l'abisso, aveva tirato giú la chiusura lampo dei pantaloni, aveva estratto il sesso e orinato sull'ombra.

Subito dopo ha scavalcato il cancello, è rientrato nella sua auto ed è ripartito, aspettando che passasse la notte. Poi è venuto da me.

A consegnarmi il testimone.


Colma d'echi stanotte, la terra, e di grida

Tu fai conto. Non è mica una bella storia quella in cui sei sempre lí sul punto di farcela e non ce la fai mai. Non ti va di raccontarla. Alle amiche, per dire. Perché mettiamo un giorno Ebe se ne esce con Giulia e le dice lei ormai è senza speranza.

Tu pensi un' amica non parla cosí. Un'amica che è un'amica, voglio dire. Non dovrebbe. E metti conto invece che l'ha fatto, ecco. Che l'ha fatto mica cosí, per scherzo. No, l'ha detto in un modo che poi quando il giorno dopo ti telefona, la carogna - perché è di una carogna che stiamo parlando - ti telefona e ti chiede se ci vai o no a fare una passeggiata con loro, finalmente, tu fai su e giú per casa di corsa con quel fottuto cordless in mano solo per scaricare l'ira e non sfondarle il timpano con un urlo...

Perché diciamo le cose come stanno. Io ci ho sempre provato, sul serio, e poi, Stong, prima o poi arrivava quel tinnío, Stong, assurdo sgradevole indecente che suonava la fine del tempo a disposizione. Del tuo tempo a disposizione. Dopo, dopo ci sarebbe stato soltanto il tempo dell'attesa. Un altro tempo. L'attesa di un altro tempo in cui provare di nuovo. Provare a farcela, intendo. Ad aprire quella porta e uscire. Mica per andare chissà dove. Dove non riesco neanche a immaginarlo, io. Io sto chiusa qui dentro da troppo tempo per immaginare un luogo preciso, un viale, una strada, un'autostrada. C'è stato un tempo in cui mi piacevano le autostrade. Se solo lo volessi potrei parlare di questo ma comunque. Mi piacevano le autostrade perché era come non stare da nessuna parte in particolare, tutto qui. Come restare sospesi. Sospesi ma in moto.

Voglio dire una cosa. Io non ho paura di aprire quella porta. Se è questo che pensano, Ebe e Giulia, si sbagliano. Il fatto è che lo so, che pensano questo. Loro pensano: ormai lei è paralizzata dalla paura. Vorrei che capissero che non è paura. Non piú. Io non ce la faccio ad arrivare fin lí, è diverso. Ho cercato di farlo. Di mettermi in moto, di arrivare vicino a quella porta, spingere la maniglia verso il basso. E aprirla. Niente.

E' che fino a qualche tempo fa - il tempo dell'autostrada meno altro tempo uguale adesso - io mi vedevo che mi alzavo e andavo. Ora no.

Prima che tu faccia una cosa, dico prima che tu faccia una qualsiasi cosa, spostare una sedia, chiudere il gas, sentirti l'acqua della doccia sulla pelle, un attimo prima, almeno un attimo prima tu non solo l'hai pensata quella cosa lí, tu ti sei vista che andavi verso la doccia e aprivi il rubinetto dell'acqua, eri ancora in mezzo al corridoio ma già la mano era protesa sul rubinetto della doccia... Come dire, tu la vedi quell'immagine, è lei che ti fa scattare come una molla, ti porta via e ti fa diventare ciò che sei.

Me no. Me, rimango ferma. Quel che si muove lo fa da sé. Ma sento tutto, intorno.

Mi è presa questa cosa di grattarmi per esempio, di grattarmi sotto le ascelle. Ci sarebbe anche da arrabbiarsi, volendo. Perché qua non funziona cosí. Ossia grattarmi, io non mi vedo grattarmi. Mi gratto e basta. Le mani corrono sulla pelle senza che faccia in tempo a vederle. Quando ci penso loro sono già lí. Volendo, ti ci potresti arrabbiare ma è il volere che non funziona. Grattarmi non è un volere. E' somatico, dicono.

Non lo so.

Dico soltanto questo: quand'è che le cose si sono girate in questo modo? Nel senso: c'è poi davvero qualcosa che nella tua vita a un certo momento si gira nel verso sbagliato?

Me l'hanno chiesto mica una volta sola. Infanzia genitori scuola lavoro marito. Cerchiamo un punto una curva un vuoto, hanno detto.

Andiamo!

Al marito poi, lí proprio non ci sono arrivata. Non ho mai visto qualcosa che potessi essere io a caccia di un marito. Andava benissimo cosí. Senza, please. Ho girato mezza Europa in autostop. Una volta portai Ebe con me. Era stupefatta. E si divertiva da matti. Dovrebbe saperlo. Ricordarselo. Alla fine ero io che indicavo agli automobilisti la strada. Io a loro. Lisbona Nantes Blumau. Loro si limitavano a tenere il volante. Commessi viaggiatori per un giorno diventavano nomadi anime erranti. Gli potevi vedere il cambiamento, negli occhi. Un bagliore sorpreso. Una gioia. Non l'avevano prima. E lí capivi quanto desiderio premeva, lí sotto, capivi che avrebbero volentieri lasciato le loro mogli, se solo glielo avessi chiesto. Che si vedevano farlo. Soltanto alla fine del viaggio, alla sera, ti salutavano sollevati, per non averli costretti a oltrepassare la soglia.

Un rimpianto ridicolo, in quegli occhi intimiditi.

Solo, a un certo punto, una mattina, non mi sono piú alzata dal letto. Non mi vedevo piú che mi alzavo, se posso esprimermi cosí. Non vedevo perché. Come non ci fosse piú motivo di farlo, neanche igienico se vogliamo metterla in questi termini. La chiamano la prova del nove. Eccola: il mio corpo per quel che resta di mio non ha odore. Il mio giaciglio non puzza.

E' questo che non va, dicono. Credimi, ha detto Ebe, non va bene cosí. Tu devi alzarti. Le ho sorriso. Non era amore perché l'amore trattiene e io invece non trattengo piú nulla. Le ho sorriso perché sapevo che lei non lo sentiva il ronzio. Lei ne era fuori. Era salva.

Me l'ha regalato lei, il cordless. Ora, non è il mio ideale quell'affare ma un dono è una cosa bellissima anche per me. Solo, non c'era bisogno di aggiungere che cosí era piú tranquilla. Perché dobbiamo sempre impilare una parola di troppo, noi altri. Questa volta non ho sorriso, per evitare di farle male. Non mi piace far pesare la vergogna che gli altri soffrono per le loro azioni. Però poi la notte dileguandomi nel sogno mi sono scoperta bagnata sudata infuriata. Il dono era integro ma come un errore, un'indolenza di atomi vani urticanti molesti.

Nonostante la fatica, ho portato pazienza. Non è questione di essere ben disposti o murarsi vivi. Non lo capisco, questo linguaggio. Nonostante quel corteo di inviti fosse per me solo un assedio, ho fatto sí che trovassero un varco fra i pori della mia pelle. Nonostante il fastidio per quelle parole affettuose irresponsabili dette per sollevarti, per metterti proprio in piedi. Nonostante tutto ho detto va bene e ci ho provato. Non so bene in che modo. Forse cosí come ne viene da un martelletto sul ginocchio. Come un balzo inerziale. Involontario, appunto.

Che razza di animale sei? Gliel'ho vista negli occhi, questa domanda. E sono scoppiata a ridere dandole involontariamente ragione. Avevo spiegato che il televisore lo avevo spaccato non perché adesso soffrissi anche di attacchi inconsulti o violenti o che so io. Semplicemente, dato che non sapevo cosa farci ho preso il mattarello dalla cucina e con esso lo sfizio di colpire un giornalista della rai in diretta, tg2 credo, molto andato di testa e in vena di farneticazioni e sbrodolii pericolosi per la collettività.

Ebe ha continuato a fissarmi sinceramente preoccupata. Spaventata, direi: è piú corretto. Davvero, ascoltami, le ho detto. E' tutto sotto controllo. E' stato lui, quel tizio, che a un certo punto ha annunciato una cosa molto speciale, ha detto cosí, ha parlato di un condannato a morte che in quel preciso istante era a colloquio con il cappellano del carcere. Parlava del Texas, immagino. Fra un'ora lo aspetta la sedia elettrica, ha detto. Rimanete con noi dopo la pubblicità.

La rai non trasmette pubblicità durante i telegiornali, ha detto Ebe. Capisco. Però ascolta. Sono apparse in fila mutandine detersivi pop corn e dopo piú nulla, voglio dire né sedia elettrica né niente.

Vedi?, fa Ebe.

Sí, ancora un momento. Dopo un po' ho visto una grande folla che esultava e fanfare di vittoria. Un tale con una giacca strappata che all'improvviso ha tirato fuori dalle tasche una bomba e una macchina che è esplosa subito dopo. Un terrorista, ha detto quello del telegiornale. Non ho capito. E non ho capito neanche il servizio successivo. Si vedeva un uomo dall' incedere un po' strambo. Era evidente che ci stava pensando, al fatto che camminava. Lui era lí che pensava: cammina e fai andare i piedi. S'ingarbuglia tutto, si sbilancia, va pure all'indietro. Il presentatore ha detto non si sa bene dove si dirige questo qua.

Ma era un presentatore o un giornalista?, ha domandato Ebe.

Era un uomo abbronzato. Aveva i baffi, mi pare. Infine - ed è quello che mi ha dato sui nervi - infine hanno fatto vedere un tipo, uno molto distinto, che si è avvicinato a un monumento e ha scosso la testa. Era quasi impercettibile, ma se osservavi con attenzione vedevi che faceva sí no sí no. E' un dialogo con un milite ignoto, ha detto il giornalista. Sono cazzi di lasciarti secca, certe volte, capisci. E cosí ho preso il mattarello e gli ho tappato la bocca. Solo questo.

Mi guardi? Ti spaventa tutto questo poco niente? Per me o per te? Se ora, qui, avessi davanti tutti gli uomini e le donne della terra che cosa ti sembrerebbe ingiusto? O opportuno? Quale discrimine? Sapresti vivere stringendo la morte di un altro? Oh, ho mica paura io di una sterzata amara che spalanchi il vuoto, che in fondo è già un po' noto, un feticcio che muta gli indumenti, tanto per inscenare un'altra parte, smagliante impulsiva compulsiva. Come dici? Ciò che vedo è falso? Allora come pensi che possa credere che qualcuno veda? Che io possa vedere? Che qualcosa sia qui per me, disposta a vedere?

 

Ho capito subito che non era come all'inizio. All'inizio qualcosa come una paura c'era stata, sí. Ogni luogo mi sembrava sbagliato. Ero dappertutto fuori posto. Come se ovunque si celasse una minaccia, o qualcosa del genere. Allora li prendevo sul serio, quelli. Infanzia genitori scuola lavoro marito. Che cosa posso dire? Io ero una persona normale, mediamente normale. Un' infanzia mediamente schifa, genitori scuola lavoro mediamente schifi.

Normale.

Be', mi piaceva vivere. In quanto agli uomini, fatto salvo che un maschio fisso dentro casa non lo auguro a nessuno, l'ultimo lo ricordo solo perché ciò che provò a fare, in Alsazia, non gli sarebbe riuscito neanche se ne fosse stato piú convinto, se vi avesse creduto sino in fondo. E l'una e l'altra cosa, il ricordo e la goffaggine di quell'uomo, del guardiano dello stadio hanno una sola origine: un silenzio irreale. Perché la nudità degli spalti li faceva gridare come se fossero pieni, mentre lui tentava di spingermi contro il tartan la luce impietosa del pomeriggio lo bastonava come un clamore di occhi piantati contro di lui, di raggi trafitti contro il suo sesso. Contro la sua volontà. Un boato, ecco cos'era.

Poi, è cambiato tutto. Sono diventata io stessa uno sbaglio. Perché uno sbaglio dev'esserci da qualche parte, in una che non ha piú paura. Che semplicemente ha smesso di vedersi lontana da un qualunque posto che non sia il suo letto. Tesa soltanto a resistere all' assedio di richiami di preghiere di suppliche.

Oh, anche questa notte è colma d'echi, la terra, e di grida.