Michele
Arpino
"Ho cominciato a fare arte da
quando ho capito di non poterne fare a meno. Ed ho capito di non poterne
fare a meno da quando ho cominciato a farla. Tutto il resto è
ignoto".
Nato a Bari il 06 Novembre 1976.
Scrittore, poeta, fumettista, disegnatore. Pensatore a tempo pieno.
Diversi esperimenti di romanzo, racconti.
Pubblicazioni e premi:
(1994-97) Pubblicazione di disegni umoristici nel catalogo del concorso
nazionale "SORRIDIAMO CON L'ASINO" di Pavia. Capo della giuria,
Ferruccio Alessandri, della redazione di COMIX. (1998) Tre poesie
pubblicate nell'antologia "NEI LABIRINTI DEL SOGNO" edita dalla
casa editrice BESA di Lecce. (1998-99) Pubblicazione di poesie in quattro
differenti antologie nazionali de "IL CLUB DEGLI AUTORI"
edizione Montedit, Melegnano (MI). (1999) Pubblicazione di poesie nella
rubrica Una foto, un poeta della rivista "IL CLUB DEGLI AUTORI",
Melegnano (MI). (1999) Vincitore del Premio Nazionale "AKERY" di
Acerra (Caserta), nella sezione E. A. Poe, con il racconto inedito Per te.
(1999) Vincitore del "PREMIO INTERNAZIONALE PER LA PACE"
organizzato dal Centro Studi Cultura e Società, con un disegno a tema.
(1999) Pubblicazione di poesie nella rivista nazionale "SBEUJ"
di Alba (Cuneo), Arvangia Edizioni. (1999) Pubblicazione di quattro pagine
di poesia nell'antologia nazionale "PAGINE DI POESIA" edita a
Roma dalla casa editrice Pagine. (2000) Pubblicazione del racconto Quando
sono diventato Jake Barnes? nel libro "QUEL LIBRO NEL CAMMINO DELLA
MIA VITA (Antologia di testimonianze)" da un'idea e con prefazione di
Giuseppe Pontiggia, edito dal Comune di Milano. (2001) Pubblicazione del
disegno poetico Ciclo nella rivista "MATERIALEIMMATERIALE"
allegata alla rivista per scrittori esordienti "INCHIOSTRO",
Riccio Edizioni, Verona.
Sito internet: www.michelearpino.populus.ch |
INCHIOSTRO ROSSO
"Morire non è nuovo sotto il
sole,
Ma nuovo non è più nemmeno vivere".
(Versi scritti da Esenin con il
sangue, la notte precedente quella del suo suicidio,
in una camera dell'albergo Angleterre a Leningrado)
I redattori si guardarono. Questa volta aveva
superato il limite. Anzi, quando lo videro irrompere nella stanza con una
pistola in mano, capirono che quel limite superato aveva, addirittura, teso
loro un agguato.
La donna che stringeva nella mano l'ultima lettera pervenuta alla redazione,
la lasciò cadere, stupefatta. Sul pavimento si schiuse:
Questa è l'ultima volta che leggete qualcosa di mio.
Dopo che ci saremo incontrati, non avrete più nessuna possibilità di
farlo!
(alcune macchie di inchiostro rosso)
FIRMATO: IL VENDICATORE
E di sicuro nessuno si aspettava che tale vendicatore
fosse poco più che un ventenne, di bell'aspetto e ben vestito: un angelo
che impugnava una pistola.
"Signori, benvenuti nel vostro peggiore incubo" sorrise, mostrando
i suoi denti bianchi ed il luccichio dell'arma a tutti i presenti. "Vi
prego, adesso accomodatevi. I convenevoli rimandiamoli a dopo". In
silenzio, stravolti, i redattori si sedettero. Il vendicatore chiuse la
porta alle proprie spalle. Poi si mosse, con pochi passi decisi, in
direzione del tavolo che si trovava al centro della stanza. Scorse sul
pavimento il foglietto. Lo prese. Dopo avergli dato un'occhiata fugace,
sorrise ancora e lo ripose nella tasca dei pantaloni. "Bèh, non c'è
che dire, credo proprio di essere arrivato al momento giusto. La puntualità
è il mio forte".
**
Uno dei redattori, fissando con occhi isterici un
punto nel vuoto, cominciò a blaterare sommessamente: "Io lo sapevo che
sarebbe andata a finire così…io lo sapevo…io lo sapevo…". Il
vendicatore percepì subito il ritmo ossessivo di quella frase. Si avvicinò
allora belluinamente allo spaventato uomo che continuava a ripeterla e,
puntandogli la pistola alla tempia, disse: "Lei lo sapeva, signore? Lei
lo sapeva?". Anche il suo ritmo era ossessivo, e le sue parole
echeggiavano nel silenzio della stanza. "Ed allora, se lei lo sapeva, e
se tutti quanti qui lo sapevate, perché non avete fatto niente per evitare
che succedesse?". Tutti si aspettavano che quell'angelo premesse il
grilletto. Chiusero gli occhi, sospirarono, si lasciarono investire dalla
violenza delle sue parole e dei suoi gesti esaltati. Ma non lo fece. Non
sparò. Allontanò la canna della pistola dalla tempia del redattore.
Sorrise nuovamente. Poi estrasse, dalla tasca interna della sua giacca, una
serie di fogli dattiloscritti che buttò, con sprezzo, al centro del tavolo.
Un tonfo secco che risvegliò tutti dal torpore della propria paura.
"Ecco, è questo ciò che sapevate ma avete sempre ignorato di
sapere!" pronunciò con infinita rabbia. "Voi, maledettissimi
socratici dei miei stivali!". L'angelo era indiavolato. Impossessato da
un'ambizione più grande di lui, da una vita troppo piccola per contenercela
tutta.
**
I redattori della casa editrice SOGNO, tornarono a
guardarsi, increduli. Quelli sul tavolo erano i racconti del vendicatore.
Racconti che loro avevano sempre scartato. Racconti liquidati tutte le volte
con la stessa misera lettera di rifiuto. Racconti che però, in questo
momento, potevano rivelarsi come l'unica possibilità di salvare le proprie
pelli. Una delle redattrici, difatti, credendo di aver capito tutto, prese
il primo foglio e lo esaminò attentamente. Poi, sorridendo soddisfatta in
direzione dell'angelo con la pistola, disse: "Ah, ma lei è…è il
signor Arpino Michele. Ma certo, come non ricordarsi di lei. I suoi racconti
ci sono sempre piaciuti". E cercò allora, con lo sguardo impaurito, il
consenso da parte degli altri. "Pensi…pensi che in una delle nostre
prossime collane editoriali abbiamo intenzione di pubblicarglieli
tutti".
Cazzate.
Il vendicatore non esitò un attimo. La freddò all'istante, con un colpo
alla nuca. Vide la sua testa abbattersi sui fogli e imbrattare di sangue
alcune frasi di un suo racconto nel quale dichiarava che non avrebbe mai
ammazzato uno sguardo.
Uno degli altri redattori si alzò di scatto, minaccioso, nel tentativo di
reagire. Ma l'angelo colpì ancora.. Deus ex machina. Due cadaveri nel giro
di pochi secondi. Due falsi giudici in meno per la gioia del giudicato!
"Signori, è proprio vero ciò che diceva Al Capone. Puoi fare molta
più strada con una parola gentile e una pistola, che con una parola gentile
e basta" pronunciò il folle Michele Arpino, con quella fredda calma
che solo gli assassini di certi racconti saprebbero mantenere in una
situazione del genere. Poi si sedette ed in tutta tranquillità accese una
delle sue marlboro. Fumò lentamente, soprappensiero. Nessuno degli altri
osava muoversi o anche solo respirare.
Pensava, il vendicatore, l'angelo ventenne, Arpino Michele, pensava,
pensava, pensava. Interminabili secondi colmati solo dalla pesantezza dei
secondi. Dal silenzio. Non quello della sua mente, no davvero. Quella era un
continuo turbinio di invenzioni, di sogni, di progetti infiniti. Ma tutti
senza sbocchi, purtroppo. Senza alternative. Senza niente, insomma. Ecco,
niente: questo era tutto ciò che aveva ottenuto. Né un sì, né un no:
proprio niente! Perché se uno a vent'anni smette di lottare con la penna e
sceglie di impugnare una pistola, qualcosa di sbagliato al mondo c'è. E
forse era proprio questo il pensiero che occupava adesso la mente affannata
dell'omicida. Il quale continuava a dondolarsi ossessivamente sulla sedia,
giochicchiando con la propria arma, ed aspirando sbadatamente fumo.
E niente…
**
"Al Capone era un genio!" sbottò alfine
seccato, alzandosi con foga dalla propria sedia e spegnendo la marlboro
consumata sul pavimento, assieme agli stupidi pensieri che l'avevano
accompagnata. Già, perché ormai non serviva più a nulla pensare. Aveva
già pensato troppo, infruttuosamente. Ormai contava solo l'azione. Ormai
era nella merda fino al collo, cosa poteva trarre di buono da un
ragionamento?
Girò per alcuni minuti nella stessa porzione della stanza. Di tanto in
tanto lanciava enigmatiche occhiate alle figure intorno al tavolo. Era
ansioso, e tutto il suo corpo serbava una carica di adrenalina
incontrollabile. Una giovane macchina possente, robusta, alimentata ad odio.
Saettava, incalzando i suoi stessi passi. I redattori parevano ammirati per
tutta quella vitalità fisica . Spaventati, forse, dalla giovane forza
dell'assassino di due di loro. Sapevano comunque che qualcosa stava per
succedere. Così si rassegnarono ad aspettarla.
Ed arrivò. Non si fece attendere poi molto, era prevedibile. Le prime voci
confuse - dalla finestra aperta -, le prime domande sulla provenienza degli
spari, ed alla fine le prime sirene della polizia.
Capolinea.
"Bene, signori, come era facilmente prevedibile abbiamo compagnia.
Tutto questo non cambia comunque il nostro programma" pronunciò
solennemente l'assassino. "Voi siete miei ostaggi, chiaro?".
"Mi scusi signor vendicatore, signor…signor Arpino…". Uno dei
redattori (lo stesso che poco prima aveva rischiato d'essere ammazzato),
consolato dal rumore delle sirene, ebbe la forza di biascicare qualcosa.
"…Perché non si arrende? Lei…lei ha già ammazzato due persone,
non complichi ulteriormente la sua situazione…". Sudava freddo. Quasi
balbettava. "Mi creda, lo dico per il suo bene. Lei…lei è un bel
giovane…". Fu prontamente interrotto. L'angelo con la pistola lo
aveva già raggiunto. Lo agguantò con forza dal collo della camicia e lo
sollevò dalla sedia. Allora lo trascinò con passi rapidi verso la finestra
aperta. Lo strattonò con violenza, indicandogli il fuori, e facendolo
pericolosamente sporgere. L'uomo tremava. Piangeva. Dietro il velo delle
proprie lacrime, riusciva a malapena a scorgere un gruppo di gente dabbasso
e due volanti della polizia. Guardavano verso l'alto, in direzione della
finestra aperta, indicando le loro due figure. Additando l'assassino e la
sua prossima vittima. Lui. Sì, proprio lui. Questa volta non aveva dubbi:
la sensazione della sua imminente morte gli apparve nitidamente. E tutto
perché non riusciva mai a starsene zitto!
"Ha parlato per il mio bene, signore? Il mio bene?". Il
vendicatore continuava a strattonarlo con veemenza crescente ad ogni parola.
"Il mio bene? Lo guardi, lo guardi il mio bene, è la fuori! Adesso
c'è gente, là, proprio là, che vuole sapere di che pasta sono fatto.
Vuole vedere, vuole capire se sto solo giocando o se faccio sul serio,
capisce?". Urlava, premendo la canna della pistola sulla schiena del
redattore. "Il mio bene, eh, eh…ma di quale bene parla? Non c'è più
bene per me, e non ce n'è più per tutti loro, e per lei, no!, non ce n'è
più per nessuno, è finito!".
Sparò.
Un fiotto di sangue gli investì il viso. Il redattore precipitò dalla
finestra. Assieme al suo cadavere, caddero nel vuoto anche alcuni fogli di
un racconto che egli aveva tenuto stretti nella sua mano fino ad allora. Era
un altro dei racconti del vendicatore. Un racconto nel quale si parlava di
un viaggio senza ritorno: la vittima lo avrebbe consegnato al suolo.
**
Si arriva ad un punto in cui ogni dolore diventa solo
qualcosa di metafisico. La morte ha il contorno delle parole, non ha più
senso. Si confonde con le riga di un racconto. Uno dei tanti. Di quelli che,
ormai da tempo, il vendicatore cercava in tutti i modi di farsi pubblicare.
Spedendoli alla casa editrice SOGNO, desiderando, sperando, credendoci.
Vedendo tanta altra gente passargli avanti, ed avendo pur sempre la volontà
di sperare, di ricercare, di ottenere. Senza riuscirci però, perché c'era
qualcuno prima di lui, meglio di lui! Ed arrivando allora a non reggere più
la meschinità di quel gioco. E morire così. Sì, morire, senza senso.
Ancora in un racconto, in parole inutili…
"Adesso, là fuori, sapranno che qui non si scherza. E mi auguro che
l'abbiate capito anche voi". Michele Arpino si ripulì il viso,
schifato. Ma non dal sangue, no. Quello, pure lui, non aveva senso. C'era
qualcosa di più grande. Lui schifava tutto ormai, indiscriminatamente.
Schifava addirittura il suo stesso schifare. Tutto, davvero. Senza
esclusioni. "Bene, signori, mettiamoci all'opera. Il tempo a nostra
disposizione non è poi tanto". Guardò per un attimo, preoccupato, il
proprio orologio. "Dunque, voi avete sotto i vostri occhi, sul tavolo,
una serie di miei racconti. Quello che io vi chiedo ora, o vi ordino se
volete, è che li leggiate con molta cura. Non voglio un vostro giudizio.
Così sarebbe troppo semplice. Non mi soddisferebbe". Si prese una
piccola pausa, ingurgitando un po' d'aria. "Io voglio, anzi pretendo,
la verità…tutta la verità…nient'altro che la verità!".
I redattori rimasti in vita si guardarono per l'ennesima volta, scoraggiati.
Sapevano che il gioco era scorretto. Percepivano l'assurdità di quanto
veniva loro richiesto, e del circolo vizioso entro il quale eseguire tutto
ciò. Loro avevano un ruolo che, l'angelo con la pistola, avrebbe potuto
modellare a proprio piacimento. Era tutta una farsa. Un altro racconto.
L'ultimo capolavoro di quel folle, di quel Michele Arpino che non accettava
le sconfitte della vita. Di quel giovane che componeva, attraverso la morte,
il proprio sogno.
Ed era questo il racconto che sottoponeva alla loro attenzione, adesso. E
sapevano che non contava accettarlo o scartarlo, come sempre avevano fatto.
No, non era questo ciò che voleva. Lui pretendeva la verità. Ma una
verità che non c'era. Era già stata scritta, e ignorata. Non sarebbe
servito a nulla cercarla. Potevano solo sperare che qualcuno venisse a
salvarli. Ma il vendicatore avrebbe potuto benissimo ipotizzare un racconto
nel quale nessuno l'avrebbe fatto. Erano in suo esclusivo possesso. Serrati
nella prepotenza della sua penna: la sua pistola. Pertanto, non fecero altro
che eseguire i suoi ordini. Si suddivisero i racconti e cominciarono a
leggerli. Li divorarono, pagina dopo pagina. Forse finsero solo di farlo. Ma
anche questo rientrava nel gioco. Nella verità che avrebbero dovuto
scovare, sotto il velo di quelle parole.
**
Il vendicatore tacque per tutto il tempo. Osservò
quel rispettoso silenzio che richiedeva la sua farsa. Fumò altre tre
marlboro. Vagando a vuoto per la stanza, cercava forse la conclusione più
idonea. La fine più giusta per il suo ultimo componimento. Quello
definitivo. Quello che gli avrebbe assegnato la gloria. Voleva la verità. A
poco più di vent'anni, Michele Arpino, pretendeva la verità. Ma anche lui
era cosciente del fatto che non l'avrebbe mai trovata nelle parole dei
redattori. Anzi, non la voleva. Non gli serviva affatto. Era una semplice
scusa per non dover ammettere di aver fatto tutto questo solo per il gusto
di ammazzare. Solo per stabilire che effetto fa la parola bang!, e poi
ancora bang!, e ancora bang!, e bang!, bang!, sparando su tutto!, eliminando
un fottutissimo mondo sbagliato!
Ammazzò tutti i redattori, tranne uno. Dette appena loro il tempo di
pronunciare qualche parola sui suoi racconti, poi li eliminò. Cancellò
delle verità inesistenti. Dei commenti che sarebbero comunque stati errati.
Delle frasi sospese in un vuoto di ideali. Nel nulla al quale era affidato,
ormai, il trascorrere della sua vita.
Solo uno non fu ammazzato. La conclusione del racconto non era ancora pronta…
**
Fuori, il rumoreggiare si fece più acuto. Sempre
più voci, più passi, più sirene, più panico e confusione, tanta
confusione. Tanto congetturare, tanto affannarsi per limitare i danni di una
tragedia che ormai volgeva al suo epilogo. La fine di quel racconto, vedeva
due soli uomini vivi. In silenzio, l'uno di fronte all'altro. Naufraghi, in
un mare di cadaveri. Nell'attesa di approdare su di un'isola che non c'è.
Non c'era, mai ci sarà.
"Perché…perché non mi ammazzi, così la facciamo finita? Eh?".
L'ultimo redattore, esasperato dalla paura, ruppe il silenzio. Fissò, con
tutto l'odio che gli era possibile, il carnefice di fronte a lui. Quel
bastardo che aveva fatto piazza pulita dei suoi colleghi! "Avanti!
Avanti, fammi fuori! E' solo un altro bang!, un altro maledettissimo
bang!". La sua voce era concitata. I suoi occhi, due specchi di follia,
nei quali il vendicatore poteva ora scorgere un barlume di verità. Un
riflesso di se stesso. Dunque, niente. "Ce l'hai un altro proiettile?
Ed allora usalo! Porca miseria, usalo! Cancellami! Fammi uscire da questo
incubo!". Il vendicatore sorrise. Non disse una parola. Lasciò che
fosse solo lui a parlare. Anzi, con un cenno della pistola, lo invitò a
proseguire. "Cosa volevi? Eh? Volevi che tutti noi ti dicessimo quanto
sei bravo? Eh? Volevi questo? Una bugia? Una verità? Cosa, cosa? Eh?".
Ogni parola era un fulmine. Ed Arpino Michele pareva compiacersi di questa
tempesta. Era ciò che cercava, pretendeva. "Ma no, cazzo! Tu sei uno
come tanti altri! E non puoi nemmeno immaginare quanti sono gli altri!…Io,
noi, noi qui lo sappiamo quanti sono!…Ma tu, tu chi ti credi di essere?
Quale giustizia hai preteso? Eh? Quale merdosa giustizia hai
ottenuto?". Ancora silenzio dall'altra parte. La sola beatitudine
dell'angelo con la pistola. Il silenzio. L'immobilità. Affidando all'altro
l'epilogo. Che concluda lui il racconto!
"Ecco, ecco prendiamo, per esempio, questo tuo racconto". Il
redattore, ormai privo di filtri, agguantò in malo modo alcuni dei fogli
sparsi sul tavolo. "Questo tuo…INCHIOSTRO ROSSO, ecco! Ebbene? No,
davvero, dimmi che cazzo mi rappresenta un racconto del genere?". Non
avrebbe ricevuto risposta dal vendicatore. Egli continuava a starsene zitto,
lasciando fare tutto all'altro. Soddisfatto della propria impotenza, almeno
per una volta. "Dimmi, dimmi che cosa ci può trovare uno di buono in
racconti come questi? Eh? Che maledettissima stronzata è mai?". Il
redattore, ricolmo di una rabbia infinita, strinse i fogli fino ad
accartocciarli. "Come pretendi che ti venga pubblicato uno schifo
così? Eh? Pieno di tutta questa violenza, queste insoddisfazioni, questi
cadaveri…Eh?…Hai fatto tutto questo casino per racconti come INCHIOSTRO
ROSSO?".
Il redattore, ormai al culmine del suo vituperare, rivolse un'occhiata
stupita al viso sorridente e stranamente tranquillo di Michele Arpino. Poi
riprese fiato per un attimo. Sospirò. Infine chiuse gli occhi, e
scaraventò uno dei fogli sgualciti verso la sua figura immobile.
Rimase in silenzio.
Allora, l'angelo con la pistola, si chinò, raccolse soddisfatto il foglio,
e lesse: "E dimmi, dimmi, cristo santo!…come ti è poi venuto in
mente di concluderlo così questo racconto?". |