Simone
Dore
sono nato a genova il 30/12/1976 mi
considero allo stesso tempo un grande lettore e un piccolo scrittore;
perchè lo faccio? semplicemente perchè ho qualcosa da dire, in fondo se
v'interessa ascoltarlo o meno sono problemi vostri!!! :-) |
Un sogno reale
La luce della lampada appoggiata sulla scrivania era
appena sufficiente ad illuminare la tastiera del mio pc; le dita si
muovevano disinvolte sopra i tasti, proiettando delle ombre simili alle
zampe di un aracnide.
Quella sera mi sentivo particolarmente appagato, nessun bisogno sembrava
poter bussare alla soglia del mio microcosmo, avevo solo voglia di chattare
sorseggiando la bottiglia di succo fresco appoggiata sopra l'ultimo numero
del "rolling stones".
Non stavo cercando nessuno in particolare e nemmeno potevo immaginare quello
che avrei vissuto da li a poco; un universo di sensazioni stava per
travolgermi con l'impeto di un'onda cavalcata senza tavola, un ciclone
emozionale racchiuso in un semplice nickname:
rosebaud.
"hai scelto un nome decisamente impegnativo, devo dedurre che sei una
fan di Orson Welles?" -
fu la prima frase che gli rivolsi
"dipende" - fu l'ambigua risposta che ricevetti
"da cosa? "
"da te….
….Io posso essere quello che vuoi raggiungere, sono il tuo traguardo sulla
montagna, la tua spada nella roccia…"
Guardavo quelle poche parole sullo schermo che alimentavano la curiosità e
lo stupore in ugual misura. Presi la bottiglia e ingoiai velocemente un
sorso, come se fosse un azione clandestina da compiere nel minor tempo
possibile, per non interrompere più del dovuto il dialogo tra le nostre
tastiere.
"continua, è un discorso interessante..."
la frase appena scritta in realtà mi sembrava stupida e totalmente priva di
contenuti, ma su due piedi mi venne in mente solo quello
"…sono la sensazione alterata del dormiveglia, un mesmerismo
cosciente……
sono quello che dice il mio nickname…. La tua slitta dell'infanzia…."
Questo fu l'incipit delle nostre conversazioni.
Più passavano i giorni e più mi sentivo avvinghiato a questa mia
enigmatica lei. Ogni sera aspettavo con ansia l'apparire del suo nick nella
stanza della chat. Passavamo ore a parlare di qualsiasi cosa; avvenimenti
osservati di giorno, pensieri avuti di notte; ogni pretesto dava il via a
frenetici scambi di pareri, nella speranza di scoprire a poco a poco
qualcosa di più della persona fisica dietro alla rete.
Nessuno faceva però domande esplicite; era una specie di regola non scritta
creatasi fin dal primo momento e che entrambi seguivamo scrupolosamente.
Tutto questo andò avanti per circa un mese.
Poi, in maniera inaspettatamente diretta, mi chiese se mi sentivo pronto ad
associare un volto alle nostre lunghe chiacchierate.
Fui decisamente spiazzato; non avevo mai permesso alla mia mente di far
affiorare questo desiderio ed ora mi veniva buttato sullo schermo con
disarmante evidenza.
Guardai la pepsi vicino allo schermo. Il ghiaccio semisciolto aveva creato
sul vetro del bicchiere una moltitudine di minuscole gocce che formavano un
intricato labirinto. Improvvisamente un goccia iniziò a cadere verso il
basso, trascinando con se tutto ciò che incontrava durante il tragitto;
ecco quello che mi era successo. Nel bel mezzo del labirinto creato dai
nostri discorsi, improvvisamente la goccia formata da quella domanda aveva
spazzato via tutto il resto; non sapevo realmente cosa rispondere, anzi non
sapevo nemmeno se rispondere e, senza rendermene realmente conto, nell'arco
di pochi secondi avevo già interrotto il collegamento.
Il rimorso per quell'infantile reazione ci mise un po' ad arrivare; mi si
presentò davanti nella sua maestosità solamente il pomeriggio dopo.
Improvvisamente fui assalito dal panico, mi chiesi il perché della mia
stupidità e non trovando risposta rimasi aggrappato alla speranza di porvi
rimedio la sera stessa.
Quella sera rosebaud non si collegò.
Neanche la sera dopo.
Dopo tre settimane le mie speranze vacillavano pesantemente. Le stesse
giornate erano ormai un susseguirsi di avvenimenti noiosi, l'apatia ero lo
stato che meglio inquadrava il mio io; non riuscivo a capire come fosse
possibile che una persona con cui avevo solo parlato (anzi ad essere precisi
"parlato" non era decisamente il termine esatto) e che non avevo
mai visto potesse essere così importante per me; cosa sapevo di lei?
Praticamente niente; provai a riordinare tutti i nostri vecchi dialoghi
informatici per estrapolare le informazioni utili ad un inquadramento nella
realtà.
Tutto quello di cui ero a conoscenza poteva riassumersi in pochi punti.
Era una ragazza.
Abitava nella mia stessa città.
Adorava il cinema.
Portava i capelli lunghi.
Odiava i tovaglioli di carta.
Queste le informazioni certe di cui ero in possesso.
E se niente di quello che mi aveva detto fosse stato vero? Dopotutto le chat
erano dei famosi strumenti di menzogna, come potevo fidarmi? Non potevo,
ovviamente, ma togliere anche queste poche certezze sarebbe stato troppo;
dovevo pur conservare una zattera di emergenza su cui appoggiare i piedi.
Purtroppo ritenere vere queste informazioni non mi aiutava poi molto.
Mi ritrovai intento a riflettere che, dopo un mese passato a parlare con
Rosebaud, non sapevo assolutamente niente di lei e del suo mondo; questo
pensiero fu come un treno che arrivò senza fermate alla stazione della mia
desolazione. Avevo diviso ogni mia più piccola emozione con qualcuno
d'intangibile e presente allo stesso tempo, come una nube di fumo
improvvisamente spazzata via da un soffio di vento.
La sera dopo restai in casa; uscire con qualche amico non mi sembrava una
scelta molto felice.
Una cena insipida anticipò la lettura di "underworld"; dopo un
po' mi accorsi che le parole impresse sulla carta faticavano a trovare un
appiglio dentro la mia testa. Diedi partita vinta alla mia anima, appoggiai
il libro sul comodino e collegai il computer ad internet.
Rosebaud era collegata.
Quando l'adrenalina tornò a livelli accettabili mi accorsi di averle già
scritto un messaggio; con stupore lessi quello che le mie mani avevano
scritto:
"ci sto, voglio vedere la mia slitta……"
pochi secondi dopo eravamo già d'accordo sul quando e sul dove, più
difficile sarebbe stato spiegare a qualcuno il perché.
La domenica seguente il caldo primaverile era improvvisamente esploso; le
persone si godevano l'aria leggera finalmente liberi da giacche e maglioni
pesanti.
Guardai l'orologio.
Erano da poco passate le due del pomeriggio. L'appuntamento era alle tre,
dalla panchina blu di fronte all'entrata nord del parco di Greenwich;
ero entrato da circa mezz'ora dal lato sud e mi ero seduto sul prato a
sorseggiare una pepsi, fumando allo stesso tempo una sigaretta con ampie
boccate.
Con un passo tranquillo potevo raggiungere la panchina in un quarto d'ora,
non avevo quindi nessuna fretta.
Non sapevo definire esattamente il mio stato d'animo; sicuramente il lato
preponderante era la confusione. Nel complesso mi piaceva quella sensazione,
mi sentivo più vivo del solito, come se quei giorni fossi passato ad una
vita in dolby surround; qualcuno una volta aveva detto che il bello di un
evento sta tutto nell'attesa, non nell'evento in se.
Non aveva torto. Il desiderio impaziente di arrivare a quell'incontro mi
faceva sentire frizzante, brillavo come la miccia accesa che si avvicina al
candelotto di dinamite.
Finalmente potevo dare un volto alle mie passioni; l'avrei vista, l'avrei
trascinata dolcemente fuori dallo schermo dov'era stata sempre confinata;
avrei studiato il suo volto, dando una forma reale alla pulsione onirica.
Il sole continuava a riscaldare l'atmosfera e le persone continuavano a
brulicare velocemente, isolate com'erano in microgruppi che ben
difficilmente entravano in contatto; era curioso notare come la maggior
parte delle persone non si curasse delle altre; sembrava che l'unica cosa in
comune tra loro fosse stata la scelta di quel luogo.
Oggi era un bel giorno per differenziarsi; li guardavo e mi sentivo su
un'altra scala di parametri; era come se la loro tridimensionalità non
fosse sufficiente per me; si, mi sentivo quadrimensionale, un buco nero che
implode su se stesso, creando un nuovo universo d'infinite possibilità.
Guardai nuovamente l'orologio: le due e mezza. Finii la pepsi, mi alzai
scrollandomi di dosso la polvere dai jeans e m'incamminai lentamente verso
l'appuntamento.
Erano quasi le cinque ed il caldo iniziava ad indebolire la sua intensità;
l'aria stava diventando decisamente frizzante; presi la felpa avvolta
intorno alla vita e la indossai; ero seduto di fronte alla stazione della
metropolitana, fumavo una sigaretta ed osservavo le famiglie che rientravano
verso casa.
Il rumore del quartiere appariva come un suono unico ed indistinto che
sembrava ovattarlo dal resto del mondo. Mi sentivo decisamente bene. la mia
anima era allegra, la mia mente sembrava esplodere in un insieme variegato
di progetti ed idee rimaste ferme e nascoste dentro di me per troppo tempo.
Probabilmente tutto ciò era un effetto non previsto della giornata, il lato
b dell'lp della mia anima.
Non ero andato all'appuntamento.
Avevo finito col camminare nel parco per due ore, guardando tutto senza
osservare niente.
Perché mi ero comportato così?
Non è facile da spiegare.
Avevo vissuto un sogno bellissimo e l'idea di conoscere chi aveva reso
possibile tutto ciò mi eccitava terribilmente. O almeno era quello che
pensavo.
In realtà le cose non stavano esattamene così. Quello che mi rendeva
elettrico era il sogno in se, non conoscerla.
Ci ho pensato per tutte le due ore in cui ho passeggiato nel parco e credo
che i sogni siano belli finché restano tali.
quando si avverano si trasformano in realtà e la realtà è di chi ha
smesso di sognare.
Io non voglio smettere. |