Amilcare
Ciccotti
ingegnere, appassionato lettore di buona
narrativa, sempre in contrasto con gli abusi ed il malcostume, ha
scritto diversi articoli ed un racconto lungo sul tema del Mobbing
(non pubblicato).
Impiegato presso un ente di ricerca, ex docente di scuola statale |
Il lavoro e l'anima
Io ricordo ancora quando, negli ambienti di lavoro,
c'era la conflittualità; una netta contrapposizione tra chi, essendo
padrone o capo, esercitava il suo potere con sgarbo, malagrazia, ignoranza
e, talvolta, con non poco sadismo, e chi, essendo un sottoposto doveva
prestare la sua opera pressato con modi spesso esageratamente vessatori.
Potrà sembrare incredibile ma, io che ho vissuto quel periodo lavorando
come operaio, lo posso testimoniare; quel modo di esagerare, enfatizzando
oltre misura gli ordini, dicendo le cose in modo brusco e gridare, a volte
senza alcun motivo, era un comportamento che consentiva, al malcapitato
lavoratore, una chiara visione delle cose. Il caposquadra è un cafone e
bisogna trattarlo come si conviene;
il padrone chiede l'impossibile, sapendo che è impossibile, e l'operaio fa
solo quello che riesce a fare, a volte un tantino in più se gli riesce.
Tutto era più facile, il lavoratore aveva la possibilità di scegliere se
rispondere agli eccessi dei superiori, oppure subirne le rabbiose
invocazioni e minacce, tutto regolare purché il lavoro, in un modo o
nell'altro andasse avanti il che, tutto sommato, è pur sempre una cosa
giusta.
Una volta che l'operaio aveva fatto fino in fondo il suo dovere,
generalmente, non aveva nulla da temere tranne in alcuni casi particolari.
Quindi, con convinzione, rafforzo il concetto: una sana, anche se pesante,
conflittualità, ben evidente e palpabile rafforzava, a mio parere,
l'eterno, immutabile giuoco dei ruoli: il padrone, il capetto, il ruffiano,
il lavoratore e lo scansafatiche in malafede. Concetti semplici e
comprensibili a tutti, alla luce del sole e senza incertezze.
Oggi, come tutto, anche questo antico problema si è evoluto, sicuramente
troppo, la conflittualità esplicita è quasi sparita del tutto. Si ricorre
a metodi più "soft", si evita lo scontro con il subalterno per
due motivi: il primo, per parlare della gente per bene, dipende dal fatto
che si tende ad un maggior rispetto dei diritti dei lavoratori; il secondo,
per parlare della gente meno per bene, dipende dal fatto che i capi hanno
imparato che è più facile colpire un lavoratore ignorandolo ed isolandolo
che trattarlo con urla e maltrattamenti, e questo anche grazie all'aiuto di
certi psicologi che, da una parte curano la formazione dei quadri
dirigenziali, e dall'altra curano i lavoratori che soffrono di malattie
psicosomatiche dovute al comportamento vessatorio dei loro superiori.
Naturalmente sto introducendo il concetto di "mobbing", questa
nuova patologia molto diffusa ma, inspiegabilmente molto poco trattata dai
media.
"Secondo Leymann, psicologo svedese, il mobbing
è un evento articolato che si evolve in fasi successive. In una prima fase
si evidenziano dei conflitti in ambito lavorativo, che possono risolversi in
breve tempo o diventare lo spunto per l'insorgere di una situazione di
mobbing. In una seconda fase il conflitto quotidiano, nato per caso, diventa
continuativo e si trasforma in mobbing vero e proprio; si definiscono i
ruoli del "mobber" (colui che perseguita) e del
"mobbizzato" (vittima). Nella terza fase il conflitto arriva a
trascendere i limiti dell'ufficio: iniziano gli abusi di potere e le
violazioni del diritto; vengono effettuate azioni anche non legali da parte
dell'Amministrazione del Personale (per es. reiterate visite fiscali al
lavoratore in malattia), e il più delle volte si arriva alla conclusione
che la "vittima" è un elemento dannoso e dispendioso per
l'azienda. Questo porta a trasferimenti, declassamenti di mansione,
punizioni di vario tipo, in modo da mettere il lavoratore in condizioni di
rassegnare le dimissioni, chiedere il prepensionamento o, nei casi più
drammatici, essere licenziato. E' questa la quarta fase, cioè l'esclusione
dal mondo del lavoro. Il passaggio dalla terza alla quarta fase avviene in
modo graduale: la vittima va incontro ad un lungo periodo di malessere
generale, in cui ai disturbi depressivi si aggiunge tutto un corredo di
disturbi psicosomatici, tali da indurla a ricorrere alle cure di uno
specialista."
Io ho cercato di capire il problema e, se avrete pazienza, proverò ad
esporlo in modo semplice. Ci possono essere tre classi di attività
lavorativa: nelle piccole e medie imprese, nelle società di grandi
dimensioni e nella Pubblica Amministrazione.
Per le piccole imprese, generalmente, non si arriva a fenomeni di mobbing
perché, l'imprenditore tende ad avere un organico sottodimensionato e,
quindi, ha bisogno del lavoro di tutti, nessuno escluso; questo è evidente
anche perché gli stipendi al personale li paga personalmente il padrone.
Per le imprese di grandi dimensioni può accadere, con una buona frequenza,
che lo staff dirigenziale, o anche un singolo dirigente, si comporti da
"mobber" per le più svariate ragioni ma, il più delle volte,
questo tipo di trattamento può durare al massimo un paio di anni e si
risolve con la cassa integrazione, prima, e con il licenziamento poi. Questo
perché l'impresa, per quanto grande possa essere, deve fare i conti con il
bilancio, con gli azionisti, con il costo del lavoro, insomma ha troppi
vincoli per potersi permettere di lasciare per troppo tempo il personale
senza assegnargli alcun lavoro. E, secondo la mia opinione, ed esperienza
personale, per sviluppare una patologia grave da mobbing ci vuole più
tempo; la profonda insoddisfazione, l'amarezza, il senso di inutilità, la
perdita del ruolo e quant'altro caratterizza la base di questo processo
patologico di difficile ritorno deve sedimentare, deve essere ben
metabolizzata dal "mobbizzato". Quindi, e forse sembra assurdo,
quando si arriva presto al licenziamento il lavoratore prova sollievo pur
con tutte le difficoltà che un licenziamento comporta.
A mio parere dove il "mobbing" miete più vittime, spesso
inconsapevoli delle cause del loro malessere, è proprio nella pubblica
amministrazione (volutamente in minuscolo). Infatti c'è da considerare per
prima cosa che lo stipendio al lavoratore lo paga Pantalone, quindi
qualunque dirigente, con un certo potere, può, se vuole, emarginare
chiunque nel modo più semplice possibile, ossia ignorandolo. E questo non
gli costa nulla.
Ma perché, mi sono chiesto più volte, c'è tanta gente nella PA che passa
le sue giornate ad aspettare che gli venga assegnato un lavoro (occorre
sottolineare il fatto che nella PA si lavora spesso per incarichi, nessun
lavoratore può prendersi la libertà di fare qualcosa senza essere stato
autorizzato, spesso per iscritto), le risposte sono molteplici, provo ad
esporre le più evidenti:
- il lavoratore è un essere pensante e si permette delle osservazioni
quando vede che l'interesse dello Stato non viene debitamente tutelato dai
dirigenti o, anche, dai suoi stessi colleghi;
- il lavoratore, così come il funzionario, hanno vinto un concorso che,
probabilmente era destinato ad altri, (è noto che nella PA sia le
assunzioni che i passaggi di livello avvengono tramite concorsi a titoli ed
esami);
- il lavoratore, ma forse più il funzionario, dichiara esplicitamente, o
anche velatamente, che non intende avallare alcunché di poco chiaro né di
illegale, con particolare riferimento agli appalti per acquisti o per
servizi;
- non mi è mai capitato di vedere un militante del sindacato, sempre nella
PA, con problemi di questo tipo, almeno fino ad ora; forse hanno una
complessione fisica più forte!
Una volta individuato l'elemento da isolare il gioco è piuttosto semplice:
tutti, dal suo superiore diretto fino al Capo Dipartimento, tendono, in un
primo momento ad affidargli mansioni spesso banali, frammentarie, non
coerenti con le capacità e le aspettative del lavoratore, per poi passare,
nel giro di pochi mesi, alla completa indifferenza. Per i funzionari questo
isolamento è ancora più grave perché l'unico modo che un funzionario ha
di guadagnare di più e di fare carriera è quello di partecipare a
commissioni, progetti finalizzati, gruppi di lavoro, commissioni di esami
per concorsi e quant'altro rivesta carattere di ufficialità. In poche
parole al funzionario, oltre che il lavoro, gli viene sottratta anche
l'opportunità di acquisire titoli che possano "fare punteggio"
per possibili, futuri, concorsi.
Ma questi poveri disgraziati non protestano? Certamente. Protestano sia
verbalmente che per iscritto, chiedono trasferimenti, scrivono lettere di
protesta al Presidente, fanno quello che possono ma, è stupefacente,
trovano solo muri di gomma. Tutti che si complimentano con lui, tutti che lo
rassicurano dicendogli che c'è solo da aspettare la prossima
ristrutturazione del personale ed allora avrà sicuramente le sue giuste
soddisfazioni; oppure: "la prego, ancora un poco di pazienza, ho
proprio le mani legate e se non cambia una certa situazione…."
Nel giro di tre anni il "mobbizzato" si ritrova del tutto incapace
di gestire la situazione, si ritrova anche solo perché la stragrande
maggioranza dei colleghi, funzionari o impiegati, vedendo in lui il
"cavallo perdente", lo allontanano, oppure approfittano di lui
scaricandogli addosso colpe, maldicenze; dicendo di lui "che fa la
spia", o che insidia le mogli degli altri e chissà cos'altro.
Veramente una trappola infernale per il poveretto che si riduce a
vivacchiare aspettando il sabato, le ferie e la tanto agognata pensione, e
ad imbottirsi di ansiolitici e antidepressivi.
Che aspettano gli enti preposti (ISPESL) (INAIL) (Ministero Della Sanità) e
chissà quanti altri a lasciare le loro tavole rotonde, le seriose ricerche
scientifiche, la compilazione delle loro dotte relazioni, per calarsi nel
problema laddove è più evidente, ossia in mezzo ai lavoratori?
Ma mi corre l'obbligo di citare un centro di eccellenza che riscatta la
mediocrità di certi enti.
A Roma c'è un centro molto attivo e di alta professionalità, presso la
Azienda Sanitaria Locale RM E, denominato:
"Area Interdisciplinare di Psicosomatica e Psicologia Ospedaliera,
Centro Clinico per il Mobbing ed il Disagio Lavorativo"
La sede è in Viale Tor di Quinto 33/a 00191 Roma, tel. 06 6835 3576
Questo centro offre un aiuto psicologico a chi presenta disturbi
psicosomatici di origine reattiva a stress occupazionale e, su richiesta,
svolge visite e test psicologici per la diagnosi e la certificazione
ufficiale di questa patologia causata dal comportamento vigliacco di chi
gestisce il potere con arroganza e nel più completo disprezzo della
sensibilità del prossimo.
Non ci rendiamo complici di questi comportamenti; se vediamo un collega
emarginato pensiamo che, molto probabilmente, è meglio di noi, stiamogli
vicino senza timore di subire lo stesso trattamento; se siamo in molti a
manifestare simpatia per il "mobbizzato" possiamo mettere in
minoranza il vigliacco "mobber". State tranquilli che nessun
dirigente ama mostrarsi disumano. Ritroviamo il senso dell'amicizia, il
rispetto dei colleghi e, perché no, l'antica conflittualità. |