Stefano Scanu

sono nato a Roma e ho ventinove anni. Laureato in lettere con una tesi sul quotidiano romano Paese Sera, attualmente lavoro come libraio.

Aliga è letteralmente nella lingua sarda la spazzatura e allo stesso tempo l'alga, ovvero l'elemento perimetrale dell'isola, ciò che la delimita e contiene.
Ma aliga è anche la sostanza scatenante ed evocatrice che al solo contatto (o al ricordo del suono che quel nome produce) apre la faglia sulla superficie della quotidianità, inaugura la malia. Una malia che dopo aver esaurito il suo effetto, come un mantice si richiude su se stessa.

Aliga

Giacomo era solo mentre guidava l'enorme camion puzzolente. Gli avevano detto che Lucio e Micco erano in malattia, influenza pare, dicevano che gli si scoperchiava il naso tanto starnutivano, e quindi il turno di notte se lo doveva fare in solitudine.
"Così gli si scoperchia… -bofonchiava Giacomo, detto Sinnu1 , tra una marcia e l'altra- e gli pare questo il modo di organizzare le cose!"
Si ripeteva ciò ad alta voce mentre il motore frignava come un bambino tanto Sinnu lo stirava.
"E se a loro gli si scoperchia il naso a me mi si scoperchia pure… poi lo vediamo chi lavora… Pure a me! Pure a me!" stringendo le labbra ad un lato della bocca che sembrava dovesse sputare veleno da un momento all'altro e poi preso da un mazziamento2 famelico.
Intanto il motore si rabboniva. Giacomo parcheggiò proprio davanti al piazzale dei mercati generali. Lo spazio era tutta un'aliga3 .. Aliga, così chiamavano l'immondezza al suo paese, in Sardegna: un agglomeratuccio di dieci case digerito dalle montagne, tra sterpi più secchi della merda secca e pallette di sterco di pecora perfettamente tonde, e così chiamavano pure la bambagia viscosa che fa l'orlo alle battigie pietrose all'altra ombra degli stessi monti. "Perfettu" diceva Sinnu facendo rotolare quelle sfere di lordura giù per gli scaloni della chiesa di Sant'Antioco, sotto un sole che sembravano due.
Giacomo era detto Sinnu da tutto il paese tanto era piccolo e compatto, pure il padre quando lo mandava a prendere il latte da tia Albina gli diceva: "Oh Sinnu, bai a pigai su latti".
Era una specie di figura accartocciata da uomo, retratto in ogni sua parte; sembrava che le braccia gli s'infilassero in dentro come teste di tartaruga e che le gambe le avesse scambiate con un bambino di sei anni; quello che rimaneva, il torso, era grezzo e tozzo, un vero tronco di quercia.
Le mani, arrogu4 e a macchie rosse, controllavano la perfezione di quei prodotti che il retto della pecora con tanta cura produceva. Sono aliga, gli diceva la madre, gli proibiva di toccarle.
Sinnu le ammirava, poi le valutava, ne ripercorreva la forma con i mozziconi di dita che si ritrovava e diceva: "Aliga -poi con un sorriso beato e compiaciuto di chi gode senza saperlo, ripeteva- aliga, ma perfetta."
Ora, di fronte ai mercati generali ce n'era molta di aliga ma non così perfetta come il broncio di Giacomo faceva intuire.
Con la scopa in mano cominciò a ramazzare l'intero spazio. Raschiava le setole di plastica sull'asfalto sudicio e neanche se lo ricordava perché dieci anni prima era venuto in città, nel continente, e con siffatta premura manco fosse, quello, affare di contumacia o latitanza. A ogni modo raccoglieva tutti i rifiuti che trovava, tutti a rapporto nello stesso mucchio di scatole, insalata, cicche.
Si ricordò che ogni tanto aveva pure trovato qualcosa di valore; "su tesoru" esclamava quando dal gruzzolo di immondezza estraeva un portachiavi o, se la fortuna girava dalla sua, una catenuzza d'argento.
Bisogna dire che tutto filava liscio se non fosse che le luci emesse dai lampioni si dileguavano tra la nebbiolina umida e, perché no, stupida. Questa creava un fascio di luce che faceva rodere dentro Sinnu. La scopa gli si piegava sotto i colpi violenti e regolari, regolari e musicali; cadenzati, sincopati come battiti tribali. Un sistema di cose che avvertiva fastidiosamente; poi si chinò, prese un gruzzolo di lordura e cominciò ad arrotolarlo, ma non era perfettu .
La luce e la nebbiolina si facevano sempre più stupide e d'altronde come si potevano definire due cose che combinate a quel modo dovevano cominciare a scombussolare l'animo di qualcuno e in particolare del povero Sinnu?
L'enorme piazzale dei mercati generali diveniva così palcoscenico animato da quelle meschine luci della ribalta; egli ne era il protagonista o meglio l'ombra che vi si muoveva in maniera sempre più armoniosa e musicale. La sua scopa cominciava a seguirlo in un ballo che partiva dal profondo, per poi farsi strumento.
Raspava i rifiuti dal terreno con armonia inaudita, le lattine rotolavano a tempo sotto i suoi colpi e il cartone umido faceva da controcoro al rumore metallico che lo anticipava; il ritmo incalzava dai passi di Sinnu che scivolava sotto le umide luci dei lampioni che ora lo infastidivano un po' meno ma che trovava ugualmente stupide: come potevano, di punto in bianco, far luce a quel modo?
L'aliga era la sua orchestra composta di infiniti elementi, ma cosa fosse esattamente per lui, lì, preso nell'incantesimo, nessuno lo può affermare. Che apparisse cosa di lerciume, cumulo di rifiuti, sarebbe, per dire, troppo vago, così come riuscirebbe impossibile spiegarla in maniera precisa ed assoluta. Effimera forse? In continuo cambiamento e mai uguale a prima… é vero! Ma cosa risolve, che conforto arreca capire che una cosa non si può capire? Conforto balordo!
Intanto le schegge di vetro, che sul piazzale tintinnavano, suonavano come triangoli che andavano ad addolcire una sinfonia complessa e trascinante. Questa miscellanea di rumori e ritmi era nell'aria, e quando Sinnu proiettava la scopa verso l'alto, magari per colpire un avanzo di pomodoro che avrebbe prodotto un tonfo simile ad un timpano moscio, andava inconsapevolmente a catturare altri suoni come prendesse farfalle con un retino.
Gli elementi si ripetevano meccanicamente, preparavano all'ennesima e rara cacofonica sequenza.
Di nuovo i colpi sulle lattine smorzati dal suono del cartone fradicio, e i mille acuti dei cristalli rotti. Lattine… Vetri… Cartone. Turbinio e suoni. Lattine… Vetri… Cartone…
La sinfonia aveva raggiunto l'apice e si preparava ad una caduta libera in cui i suoni si andavano a comprimere in frazioni di tempo minime; i piedi di Sinnu, attaccati alle sue gambucce di bambino, si scatenavano in rapsodia di tip tap e la scopa colpiva e suonava come indemoniata e posseduta. Suonava un pannolone pesante che pareva una grancassa, un melone guasto, fatto cassa acustica, emetteva battiti sordi, lo inseguiva lo sciu sciu di setole e plastica sul terreno ruvido e prima che questo finisse, le lattine battevano colpi cadenzati e violenti all'unisono, come un'orchestra di mille e più archi lì lì a zoccare5.
Poi Sinnu si interruppe, scosse la zazzera e puntò il naso in alto a mò di cane, le narici gli si dilatarono come branchie e il petto, dopo essersi gonfiato per incamerare aria, si sgonfiò; seguì un'espressione di schifo sulla sua faccia: gli occhi a mezzaluna e il naso accartocciato. Ricominciava a sentire la puzza insostenibile che tutta quella aliga emanava.


1 Segno.
2 Masticamento.
3 Spazzatura, alga.
4 Tozze.
5 Esplodere.