Michele Rossini

ho 29 anni, una laurea in chimica e cerco (con scarso esito) un lavoro decente e duraturo.

Quante stelle in cielo

Venne giù in un mattino di primavera. Senza nessun preavviso, senza niente che potesse farlo supporre, cadde d'improvviso. A dire la verità non cadde o se lo fece nessuno sa dove, ma sicuramente sulla terra non è caduto. Avevo undici anni allora e mi ero già accorto di come tutto quello che aveva una qualche forma di importanza capitasse sempre mentre ero a scuola. E di fatto anche quella volta mi trovavo lì e purtroppo neppure vicino alla finestra, per cui ora non posso neppure dire - L' ho sbirciato -.
Il cielo cadde tra la prima e la seconda ora di martedì mentre il professore stava spiegando geografia. In un certo qual modo il mondo, almeno quel giorno, cadde con lui o meglio si prese una pausa. E se il cielo cadde in silenzio, il mondo quella pausa la prese in maniera davvero rumorosa. Fabbriche e scuole chiuse, uffici deserti. Tutti si riversarono in strada e lì si formarono due fazioni: la prima si diresse prima nei supermercati, riempiendo come non mai i carrelli della spesa, e successivamente nelle chiese; la seconda fece il contrario. Si vennero a formare alle casse code chilometriche, rese ancora più lente dal fatto che le cassiere stavano facendo la coda assieme ai clienti, mentre nelle chiese a furia di benedizioni e assoluzioni si terminò l'acqua santa e il prete fu costretto ad usare quella clorurata che il sindaco mise a disposizione dei cittadini. Molti preti optarono allora per l'ottimizzazione del servizio e si trasferirono ad officiare nei supermarket. Si ebbero così messe celebrate sui banconi della carne e confessioni effettuate da un carrello all'altro, così che i sacerdoti poterono contemporaneamente comperarsi l'occorrente, rasserenare gli animi, pagare il dovuto con le elemosine e depositare il surplus nella cassa continua del supermercato.
Intanto le televisioni e le radio trasmettevano qualunque cosa avesse una qualche forma di attinenza con le profezie, il cielo, la fine di questo mondo o l'inizio di un altro. Verso sera iniziò una massiccia campagna pubblicitaria di articoli che ancora non esistevano, carta da parati raffigurante nuvole, profumi dai nomi evocatori del tipo "sotto un cielo di stelle", preservativi azzurri su cui era disegnato un fulmine e il cui logo era "come un dono del cielo", creme abbronzanti lunari e, per i più piccini, il nuovo album di figurine dal titolo "il cielo come era una volta".
Ovviamente, io mi persi tutto. La scuola venne presa d'assalto dai genitori che in meno di mezzora si riappropriarono dei figli e li trascinarono con loro nei supermercati e poi in chiesa o prima in chiesa e poi nei supermercati. Io fui l'ultimo a lasciare la scuola, i professori erano stati tra i primi ad uscirne. Mia madre arrivò a piedi, mi regalò un ovetto di cioccolata e passeggiando stancamente mi riportò a casa. Vista la sua assoluta tranquillità, mi sentii in dovere di renderle noto l'accaduto. Mia madre sollevò il mento al cielo e disse semplicemente -Si l' ho notato, pensa che bello potremo guardare le stelle anche di giorno-.
Si sbagliava però.
Il giorno seguente tutto si svolgeva di nuovo normalmente. Chiaramente in cielo non c'erano più le nuvole né il sole e tanto meno il blu, ma ben presto da quel nuovo cielo ci pervenne tanta luce da non riuscire più a vedere le stelle neppure di notte, grazie a un infinità di cartelli pubblicitari sponsorizzati. E questa volta mia madre ci rimase davvero male.

L' uomo nell' armadio

Dormendo nell' armadio non sentiva quasi mai la sveglia. Ciò era per lui ben poco importante ma, visto che a causa dei suoi continui ritardi aveva perso, in tre anni, ventiquattro posti di lavoro -cosa che lo costrinse a lavorare da imbianchino malgrado una laurea in medicina e una specializzazione in psichiatria infantile- la famiglia si vide costretta per la prima volta a invadere la fortezza della sua solitudine profanando lo spazio dell' armadio.
Riccardo venne quindi tirato fuori da quella che considerava casa sua e portato con loro a consumare la cena nel salone di casa. Nessuno cercò di interpellarlo e, malgrado toccassero appositamente gli argomenti che più gli interessavano, non proferì parola. Appena finito di mangiare, tornò nell'armadio, dove si trovò a condividere lo spazio vitale con due sveglie, che qualcuno aveva inchiodato alle parete di legno del grande armadio a tre ante che costituiva la sola cosa che veramente amava al mondo.
Aveva preso l'abitudine di dormir lì dentro ancor prima di iniziare a camminare. Per un istinto atavico o per ispirazione del cielo, all' età di sei mesi evase dal suo box e trovò rifugio nell' armadio dei suoi genitori. Da quel giorno fu impossibile riuscire a farlo dormire fuori di lì e, dopo quattro anni di eroici tentavi, capirono che, se quella era la sua volontà, loro non potevano far altro che rispettarla. Per il resto era cresciuto normalmente, era stato scavezzacollo, disubbidiente, avvezzo a piccole bugie come tutti i bambini del mondo, era andato a scuola, scappato di casa, aveva iniziato a fumare e a bere al pari di tutti i suoi coetanei e apparentemente la sua sola anomalia era rimasta quella di dormire nell' armadio.
La cosa aveva smesso da tempo di preoccupare i suoi genitori, né d'altro canto Riccardo dava loro motivo di preoccupazione. Si rivelò sempre un ottimo studente, facendosi perdonare in questo modo i numerosi errori di percorso tra casa sua e il liceo, si laureò in corso e la sua tesi di specializzazione in psichiatria sui sogni ricorrenti infantili minacciava ora di divenire un classico della letteratura medica.
Iniziando a lavorare iniziò a non svegliarsi al mattino.
Da principio la cosa destò poca importanza, almeno sino a quando non iniziò a essere cacciato da tutti gli ospedali della città che, pur convenendo sulla sua assoluta capacità professionale, per motivi d'immagine non potevano permettersi di avere nel loro corpo medico un così inattendibile dipendente. Varie associazioni di genitori insorsero contro le decisioni dei primari, dimostrando, cartelle cliniche alla mano, che il dottor Riccardo Di Corso, pur lavorando quando ne aveva voglia e nei giorni da lui preferiti, aveva ottenuto più risultati di quelli ottenuti da tutti i suoi colleghi messi assieme e non di rado aveva restituito a una vita normale bambini ritenuti per sempre condannati all' esilio della follia. Malgrado questo, i primari prima, e il ministero della sanità dopo, furono inflessibili e, in un clima di forte contestazione politica nei confronti della mala-sanità e dell'assenteismo, decisero di punirlo in maniera esemplare, revocandogli la possibilità di esercitare la professione.
Il giovane medico non parve turbato dall' accaduto e, malgrado le numerose possibilità offertegli dalla stampa e dalla televisione, non si mostrò mai interessato a far scoppiare uno scandalo né a divenire un caso. Decise semplicemente di cambiar mestiere. Acquistò pennelli, rulli e svariati barattoli di vernice e semplicemente ponendo sulle pagine gialle il proprio nome seguito dalla parola imbianchino, lo diventò. Anche in questo caso non poté non arrivare in ritardo ma, visto che le sue tariffe erano le più basse della città, nessuno se ne lamentò mai. Anche la famiglia non ebbe nulla da dire sulla sua scelta, viste anche le entrate della nuova professione, e fu solo per una rivendicazione d'autorità che gli imposero le sveglie.
Nelle settimane successive la vita di Riccardo apparentemente trascorse normalmente, con la sola eccezione di quelle sveglie che suonavano puntualmente alle sette e trenta del mattino. Solamente l'occhio della madre notò che i passi del figlio si facevano di giorno in giorno più pesanti, come se fosse costretto a trascinarsi quei grossi pezzi di carne che erano le sue gambe. Notò inoltre che la sua espressione si faceva più triste e da diversi giorni i suoi piatti uscivano dal armadio ancora semipieni.
Riccardo scomparve un venerdì mattina. Sua madre aspettò, come di consueto, il concerto di sveglie preparando la colazione e, non appena questo iniziò, bussò alla porta della camera. Entrandovi senza aspettare una risposta, l'attraversò dirigendosi verso l' armadio del figlio, dove bussò invano immersa per quaranta minuti in un concerto di sveglie, sino a quando ne spalancò le ante trovandolo vuoto.
Non solamente non vi trovò suo figlio, ma lo trovò assolutamente, desolantemente vuoto, senza nessuna delle cose che sapeva Riccardo aveva portato lì dentro in trentadue anni di vita. Immediatamente diede l'allarme e tutta la famiglia prese a cercarlo. Non si trovò altra traccia di lui che una lettera, lasciata in bella mostra sul letto, che nessuno trovò prima di due settimane, non immaginando assolutamente che, Riccardo, avesse lasciato il suo ultimo messaggio su una cosa che aveva sempre considerato inutilmente ingombrante.
Ecco cosa diceva:

Cari mamma e papà, ho finalmente deciso cosa fare della mia vita, o meglio come viverla. Partirò oggi stesso, ma tornerò a trovarvi. A questo scopo vi prego di non muovere per nessuna ragione l'armadio.
Vi voglio bene.

A quel punto, armati di pile elettriche, i due genitori entrarono nell' armadio e, non avendovi trovato nulla, stavano per richiuderlo tornando a sprofondare nei loro più cupi pensieri, quando udirono un bisbiglio. Tesero allora l'orecchio nello sforzo di percepire chiaramente quello che era ancora un indistinto brusio, ma fu solo quando entrarono nell' armadio -in quello stesso armadio che avevano acquistato trentacinque anni prima per la loro camera matrimoniale e che per anni, prima della nascita di Riccardo, avevano usato tutti i giorni, senza mai accorgersi di nulla- che udirono suono di risa, odore di erba bagnata e di fiori freschi. A lungo rimasero in ascolto e, pur udendo il verso di vari animali, il brusio di decine di voci e la melodia di svariati strumenti, non riuscirono a riconoscere nessun suono che fosse loro famigliare. In ogni caso si rincuorarono nella convinzione che loro figlio stava bene e chiudendo l'armadio tornarono alle loro vite, aspettando le visite promesse dal figlio.
Da quel giorno in avanti tennero sempre tutte le porte di casa aperte e gli orologi fermi. A chiunque domandasse loro di Riccardo presero a rispondere che era partito per esercitare il mestiere di medico all' estero. Negli anni seguenti ricevettero molte visite dal figlio, per il quale il tempo sembrava essersi fermato ai suoi trent' anni, al giorno in cui era sparito da questo mondo.

L' uomo della bottega

In quella vecchia bottega in fondo alla strada che porta al mulino visse per sedici anni, gli ultimi della sua vita, Arturo Salvemini. Non che fosse mai stato qualcuno d'importante, né qualcuno che si poteva andar fieri di frequentare: era semplicemente un piccolo uomo un po' strano, che mi capitò un giorno di conoscere e da quel giorno non mi riuscì più di dimenticare.
Avevo 14 anni quando, girando con amici a far monellerie, decisi che quel giorno dovevo assolutamente farne una così colossale da poter poi raccontare per anni. Non ero un ragazzo più cattivo né più sadico di altri, ma quel giorno volevo in ogni modo far qualcosa che io stesso giudicassi profondamente crudele. Arturo di mestiere faceva il falegname e, se i tempi fossero stati maturi, forse lo si sarebbe anche chiamato restauratore. In paese lo conoscevano tutti, non perché lo frequentassero o avessero condiviso con lui più di qualche secondo parlando del più o del meno, ma per il fatto che in paese vi si era trasferito invece di fuggirne, e per altro ancora, di cui tutti però preferivano non parlare.
Quel giorno, non so bene perché, già uscendo di casa sapevo che sarebbe stato lui la mia vittima e andai fino in fondo. Non mi resi bene conto di quanti danni stessi realmente facendo, sino a quando il fuoco, dopo aver arso ben bene l'ampio locale dove stavano raccolti tutti i suoi lavori, si espanse con una volontà incredibile in ogni direzione. In quel momento capii che stavo facendo ben più di una monelleria per la quale avrei avuto rimproveri e al più qualche scappellotto. Così fuggii. Non mi guardai neppure attorno nel farlo, lo feci e basta, sicuro che nessuno mi aveva visto in quella stretta via di cui solo quell'unica casa era abitata. Per un giorno intero ebbi paura, poi piano piano passò.
In paese tutti parlavano dell' incendio e giravano almeno sei o sette differenti versioni, ma in nessuna di esse venivo neppur lontanamente menzionato, cosicché, dopo circa un mese, ebbi il coraggio di passare di là. La notizia era oramai vecchia e già la folla di curiosi aveva terminato la processione sul luogo del disastro. Si sarebbe detto che la strada avesse l' aspetto consueto, se non fosse stato per quell' unica casa che sembrava esser stata dipinta di nero e che, al pian terreno, al posto di una bottega traboccante di mobili aveva una voragine brulla e così desolante come mi parve potesse essere solo l'inferno. In mezzo a quel buco scorsi, ma solo qualche attimo più tardi, la sagoma di un uomo piccolo e interamente coperto di fuliggine intento a ripulire quel poco che ancora si poteva ripulire. Ad un tratto si volse verso di me e, guardandomi, mi invitò ad aiutarlo. Contrariamente a quanto avevo pensato, non ebbi paura, non mi vergognai neppure e a testa ben alta e tranquillamente stavo già girandomi per andarmene quando, mestamente, quasi a chiederlo per favore, mi arrivarono dal vento due sole parole - Dovresti, sai -.
Senza sapere il perché, come spesso con gli anni ho appreso succedono le cose, tornai indietro e da quel giorno e per molto tempo quella bottega e quella casa divennero un po' come casa mia. Impiegammo mesi a sistemare tutto, a ricostruire quel che non si poteva riparare e poi, senza fretta, come quell' uomo faceva ogni cosa, iniziammo a costruir mobili e restaurare quelli che lentamente tornarono ad affluire in bottega.
Che avesse sempre saputo che ero stato io mi era stato chiaro fin dalla prima volta che mi guardò, il perché non ne fece mai parola con nessuno, e tanto meno con me, è invece qualcosa che non sono riuscito a capire e che forse una spiegazione vera non ce l' ha. Forse solamente perché lui era lui ed io ero io e l'incendio lo appiccai in quel giorno e non il successivo. A volte cose come queste capitano.
Quando i miei genitori scoprirono dove passassi il tempo e facendo cosa, ebbero una reazione spropositata e mi proibirono nel modo più assoluto e categorico di continuare a frequentare quell' uomo. Non capii il perché, pensai solo che si vergognassero, immaginando che in paese ci fossero chiacchiere sul figlio del farmacista che andava garzone. Questo pensai allora, e solo molto più tardi, quando scoprirono che, di nascosto, ogni giorno continuavo a lavorare con lui nella bottega, mi raccontarono la storia di quell' uomo. Me la raccontarono sotto voce come si raccontano le cose di cui in fondo ci si vergogna e mi dissero anche di come la cosa non fosse certa, ma che erano in molti a pensarla a quel modo. Non dubitai mai sulla veridicità di quel che appresi, così come non smisi di vederlo sino a quando, un pomeriggio, non lo trovai riverso sul pavimento di fronte a una cassettiera quasi terminata. Fu il cuore, disse il medico. Dopo la sua morte le notizie si fecero più certe e tutti presero a guardarmi con più interesse, persino con un fondo di tristezza e paura. Ma all' epoca stavo gia partendo e il destino volle che non tornassi che poche volte in quel paese.

Il re Capriccio

Nella grande sala, sul suo trono di petali di girasole, il re Capriccio stava tutto corrucciato, sfogliando e risfogliando il grande libro su cui erano diligentemente annotati i capricci fatti da tutti i bimbi del mondo. Era lì da svariate ore e nessuno aveva mai visto il sire così triste, pensieroso e affaccendato. Aveva già diverse volte consultato attentamente il suo librone dalla prima all' ultima pagina finché, leggermente indignato disse: -Per il becco del picchio, chiamatemi Pesto i piedi e piango!-. Detto questo si distese e sorrise cercando di dissimulare un velo d'ansia.
Poco dopo nella sala giunse Pesto i piedi e piango. Arrivò alla sua solita maniera, preceduto da un enorme baccano e ruotando sulla gamba destra come se fosse un enorme trottola, percorse la stanza e si fermò davanti al trono di girasole. Appena ebbe smesso di girare, ancora un poco confuso, non vide, come si aspettava, il sorriso del re dei capricci. Vide per la prima volta in vita sua (cioè dalla prima volta che un bimbo pestò i piedi e pianse) il viso del re Capriccio corrucciato. Si avvicinò al trono e un poco impensierito disse: -Vostra Capricciosità , cosa turba il vostro buonumore? Forse che al giorno d'oggi i bimbi sono tanto viziati da non aver più bisogno di far di tanto in tanto qualche capriccio?- Il re lo guardò e un poco il sorriso gli tornò sul volto, poi si sforzò di assumere un'aria severa e disse: - C'è un problema assai insolito per me, senza precedenti. Ho consultato e riconsultato il Grande Libro dei Capricci degli Uomini e a quanto pare sta ora vivendo sulla terra un bambino che in vita sua non ha mai fatto il più piccolo capriccio-. Pesto i piedi e piango aggrottò le ciglia e subito disse: -Impossibile!-, ma allo stesso tempo era sollevato perché il problema era facilmente risolvibile. Aggiunse: -Se è solo questo il problema andrò immediatamente sulla terra e consiglierò al bambino una quantità di capricci grandiosi, con cui scrivere un intero libro!!!-. - Bene, sapevo di poter contare su di te! Va' e tienimi informato- aggiunse il sire.
Pesto i piedi e piango, per nulla preoccupato di quel compito in apparenza difficile, tornò a girare come una trottola e si diresse verso la casa del bimbo. Non aveva mai creduto molto al Gran Libro dei Capricci, dubitava molto della sua completezza, pensava infatti che solo con i capricci da lui ispirati si sarebbero potuti scrivere cento libri e tutti più grandi di quello! Era inoltre molto sicuro di sé essendo il dispetto più stimato di tutto il regno e molto apprezzato nel suo lavoro sia dai colleghi che dai bambini i quali facevano molto spesso ricorso a lui per avere le giuste cose che desideravano e che i genitori o educatori erano sulle prime poco disposti a dar loro. Pesto i piedi e piango giunse sulla terra e, un poco stanco per il suo tanto girare, decise di fermarsi un attimo a studiare quello strano bambino.
Era un bel bimbo di cinque anni dai capelli scuri e dai tanti boccoli. Era ancora un po' piccolo per la sua età e aveva un vocina leggera, ma già chiara e forte. Non era nato da una famiglia ricca, tuttavia in casa sua non mancava il necessario e qualcosa di più. Il bambino stava ancora dormendo quando Pesto i piedi e piango arrivò per cui poté osservarlo fin dal suo risveglio. Il bimbo aprì gli occhi e, senza lamentarsi del freddo, si vestì, corse in cucina dalla mamma, aspettò sorridendo la colazione e la mangiò tutta senza rifiutare nulla. Aiutò poi la mamma in casa e l'accompagnò al mercato. Pesto i piedi e piango si fece piccolo piccolo e si sedette sull' orecchio del bimbo. Da lì avrebbe potuto seguirlo da molto vicino e, al momento opportuno, lo avrebbe consigliato. Era già sicuro che oggi stesso il re avrebbe avuto il suo bel capriccio. Il mercato in inverno era pieno di ghiottonerie e giocattoli e, come ogni bimbo, anche quel bimbo ubbidiente e dall'aspetto sereno non avrebbe potuto resistere dal chiedere mille cose e, non ottenendole, lui avrebbe sussurrato al suo orecchio e la sua missione sarebbe terminata.
Il bimbo e la madre visitarono tutto il mercato. La mamma scelse con discrezione le provviste migliori al prezzo più conveniente e un bel pezzo di stoffa per il vestito nuovo di sua sorella. Per tutta la mattina il bimbo non chiese nulla, né le calde castagne né il bel cioccolato che ovunque facevano bella mostra di sé sulle bancarelle e già Pesto i piedi e piango andava annoiandosi, finché vide come il piccolo fosse tanto attratto da una girandola variopinta da non riuscire a staccargli gli occhi di dosso. Aspettò sino a quando anche la madre si accorse del fatto e interpellò il bambino che chiese se fosse possibile comperarla. La mamma rispose che per il momento non era possibile visto che aveva dovuto spendere molti soldi per comperare un pezzo di stoffa con cui fare un vestito nuovo alla sorella. Pesto i piedi e piango ascoltò con attenzione la risposta e, giudicando il momento assai propizio si avvicinò all'orecchio del bimbo e vi sussurrò il proprio nome. Per un attimo i piedini del bimbo sembrarono percorsi da un brivido, ma non successe nulla. Ciò stupì molto Pesto i piedi e piango, il quale, comunque rinvigorito da quel piccolo fremito, continuò per tutto il giorno a sussurrargli il suo nome all'orecchio non appena vedeva che gli occhi del bimbo esitavano su qualche cosa. Alla fine della giornata Pesto i piedi e piango aveva la gola secca dal tanto urlare il proprio nome, ma il bimbo non aveva ancora fatto nessun capriccio. Anzi, malgrado tornasse a casa senza aver avuto nulla di quello che aveva visto e blandamente chiesto, sembrava di ottimo umore e per nulla indispettito.
Pesto i piedi e piango era stanco, ma già confidava nella cena, sicuro, grazie alla sua lunga esperienza, che, se debitamente istruito, il bimbo quella sera avrebbe fatto capricci per non mangiare l'amara zuppa che aveva visto preparare in mattinata. Una volta che il bimbo si fu seduto a tavola, Pesto i piedi e piango iniziò a cantare il proprio nome al suo orecchio e lo pronunciò tanto forte che il papà del bimbo iniziò a battere i piedi in terra e frignare che la minestra non la voleva ma dal bimbo non ebbe nessuna reazione. Esterrefatto prese la questione come un punto d'orgoglio e per un mese intero seguì il bimbo di giorno e di notte usando ogni astuzia e risorsa che conoscesse.
Fu tanto diligente che in casa del bimbo fu un continuo fiorire di capricci e dal tanto pestar i piedi si consumarono a tutti le suole delle scarpe. Solo il bimbo rimase del tutto immune ai suoi sforzi, tanto che al termine del mese non solo non ebbe raggiunto il suo scopo, ma notò, scoraggiandosi, che i suoi piedini non davano più nemmeno quel piccolo fremito che avevano dato i primi giorni e che lo avevano fatto ben sperare. A quel punto si ricordò che tantissimi anni prima aveva conosciuto un bimbo simile e, triste triste, prese a girare su se stesso e tornò al trono di girasole.
Seduto sul suo trono trovò il re Capriccio che, avendo consultato per tutto il tempo il suo Gran Libro, già sapeva che la missione di Pesto i piedi e piango non aveva dato buon esito. Pesto i piedi e piango camminò lentamente verso di lui e, senza neppure il coraggio di guardarlo, disse: -Mio sire, il bimbo è irremovibile, è il bimbo più buono e ubbidiente che io abbia mai visto, malgrado lo abbia ispirato e spinto continuamente è rimasto il solo in casa sua a non avermi ascoltato. Pur avendo meno dei suoi fratelli e sorelle appare completamente immune al capriccio, è soddisfatto di quel che ha e non si fa problemi nel contentarsi di esso. E' un caso senza speranza!- e nel dire queste parole si sentiva così triste che le lacrime iniziarono a sgorgare dagli occhi e mentre lentamente come ruscelli d'argento percorrevano le sue guance alzò gli occhi verso il re -Mio buon re…-. Il re sorrise, lodò Pesto i piedi e piango per l'eccellente tentativo e ridendo forte, come era suo solito, lo congedò. Pesto i piedi e piango scomparve in una girandola colorata anche lui felice per avere in qualche modo restituito al re il suo sorriso, ma le sue lacrime, lanciate in alto dal suo gran muoversi, presero a cadere nella stanza come pioggia purissima. Rimasto solo, il re Capriccio sospirò debolmente e con gli occhi scintillanti di gioia pregò forte affinché il bimbo non cambiasse mai, perché era oramai stanco e il suo unico desiderio era tornare sulla terra.

Lo Strazzera

Strazzera viveva qua. Secondo piano. Corridoio di sinistra. Porta in fondo, quella sempre al buio. Una vita quasi riuscita pensai. Forse ragioniere. Buona pensione, figli sposati fuori città, il Corriere era il suo cane. Andava persino al cinema e, quando lo incontravi, scambiava volentieri qualche parola più del buon giorno, ma senza farti perder tempo, così che era piacevole incontralo.
Un colpo. Quello che udimmo noi fu quello che fece cadendo. Morì in piedi e il solo rumore che fece da che viviamo qui, lo fece da morto.