Dario
Becci
è nato il 14.04.1974 a Napoli. Laureato
in “Tecnica Pubblicitaria” presso l’università per stranieri di
Perugia, vive attualmente a Mannheim, in Germania, dove insegna italiano,
lessico operistico e fonetica contrastiva presso l’accademia musicale
della stessa città. È autore di due sillogi poetiche, Il Periodo
Bianco e mitigata mole, di un romanzo, libro per poveri
idioti, e di alcuni racconti. Si occupa da anni di commercio equo. |
E la
barca tornò sola.
Con la bocca piena e le mascelle trituranti, l'uomo che mi sedeva
di fianco prese improvvisamente a rovesciarmi addosso i suoi pensieri,
ma io non avevo minimamente voglia di ascoltare le solite baggianate
buttate lí tra un boccale e un altro, cosí, tanto per
cercare di alleviare la frustrazione.
Era la solita cena di lavoro, il mio compito solo quello di tenere
compagnia agli ospiti appena arrivati: offrire loro la gaia scintilla
ed evitare che il fuoco del tripudio si spegnesse. Null'altro. La
predisposizione alla crapula l'avrebbero portata loro, e alla fine
a me sarebbe toccato solo far finta di prestare un orecchio ai discorsi
viziati dall'euforia e ancor piú dall'alcol.
Difficilmente potrebbe immaginare, chi non l'abbia mai provato, quanto
faccia soffrire l'essere coscienti di tutto quello che verrà
detto in una tale situazione, potendone stabilire in anticipo i tempi
e la progressione della pesantezza delle battute, e tuttavia non poter
evitare quanto accadrà. È come essere costretti a rivedere
piú volte un brutto film. Alla fine si corre il rischio di
diventare violenti e di non riuscire piú a trattenersi. Anche
l'indole piú paziente e remissiva si sente trascinare da un
vasto senso di ribellione.
A me era toccata la particolare sventura di avere come vicino un signore
piuttosto loquace, grezzo nei modi e nei lineamenti: il naso solcato
da fitte venuzze violacee tradiva la propensione al bere, le guance
paffute e ingrassate di sudore quella al mangiare smodato, mentre
le mani, dal palmo largo e l'unghia lunga al mignolo, sudicia come
le altre, esageravano nel mostrare un potere fisico, non potendo competere
con l'eleganza e non volendo misurarsi con la modestia. Ancora piú
sfortunato mi sentii quando mi accorsi che gli altri commensali seduti
accanto a noi non avrebbero opposto nessuna resistenza all'impeto
del loro compagno; anzi, pareva che questi gli avessero dato tacitamente
il mandato di sproloquiare, e il furbacchione, avendolo intuito ancor
prima di sedersi, s'era probabilmente cercato il pulpito migliore
dal quale tenere le sue orazioni. E ciò che piú mi sconvolgeva
era la sensazione ormai certa che costui volesse fare presa proprio
su di me.
- Bella cittadina, questa, di Manneim. -
Inutile ribattergli che il dittongo "ei" in tedesco si pronuncia
"ai", e che il nome corretto era "Mannheim" con
l'acca aspirata.
- Sí, - gli risposi in tono rassegnato, - non proprio turistica
come Heidelberg
- e pronunciai questo nome accanendomi sfacciatamente
sull'acca.
Facendo finta di non accorgersene continuò:
- Eh, certo che anche da noi, insomma, mica si scherza. Con tutti
i bei posti che abbiamo, in Italia! -
Stavo per chiedergli perché allora non se ne fosse rimasto
a casa sua, ma non me ne dette il tempo. Con voce di sopraffazione,
tendente al monologo:
- Da noi c'è tutto: il mare, la montagna, le colline
-
Nemmeno in Germania mancano questi elementi naturali, pensai.
-
e le belle donne! - concluse, come ad indicare che in fondo
non desiderava altro che arrivare a quest'argomento, e che tutta l'introduzione
gli era servita solo da pretesto. - Qui non ne abbiamo viste ancora
di carine. Ma ce ne sono? -
Tentai allora d'incastrarlo:
- E come no? E poi agli italiani piacciono le bionde, no? Qui ne trovate
quante ne volete. - Avrei voluto aggiungere: - Dipende se loro vi
vogliono, però. - Mi limitai a sorridere.
Intanto cominciai a capire dove voleva andare a parare, con tutti
questi bei preamboli, l'omaccione. Potevo prevedere ormai l'inevitabile
richiesta, ma venni salvato dall'insalata, che i camerieri con grande
concitazione ci stavano servendo per evitare che l'appetito degli
avventori si ribellasse contro di loro. Avreste dovuto vedere lo sguardo
dei commensali che seguivano quei modesti piatti in cerca di una plausibile
spiegazione: le gote cadenti non ritenevano possibile l'ipotesi dello
scherzo né le bocche ristrette potevano accettare una simile
umiliazione.
- Che fanno, ci portano l'insalata per primo? - fu l'unico commento
verbale del mio vicino, che ormai non vedeva piú né
i bei paesaggi né le forme generose delle sue connazionali.
Capii in un momento che evitare lo sviluppo tragico della situazione
sarebbe dipeso da quello che avrei detto per giustificare un fenomeno
tanto strano, quanto evidentemente inspiegabile: che a pance mortificate
dalla fame ci si presentasse con scialbe foglie di lattuga.
- E solo per prepararvi lo stomaco a quello che vi verrà portato
tra poco. - rassicurai tutti ufficialmente, e in quel momento mi sentii
piú potente di un ambasciatore che si fa intermediario tra
due Paesi circa usi e costumi assai diversi.
E per rendere piú credibile la giustificazione che avevo apportato,
introdussi le pietanze che sarebbero giunte di lí a poco. Studiarsi
il menu fisso di un ristorante è il primo dovere di chi ha
a che fare con cittadini del Paese dove in assoluto si mangia meglio
al mondo.
- Stinco di maiale tenerissimo con crosta croccante, crauti e patate
al forno, innaffiati da vera birra bavarese. -
Non so dire se queste due frasi recitate come un orazione avessero
procurato l'effetto di stemperare gli animi. Fatto sta che - forse
perché che fosse vero o meno quello che avevo annunciato non
era in loro potere cambiare il tipo delle pietanze - già qualcuno
aveva tolto lo sguardo e mutato argomento, tanto che minacciava di
ritornare al solito tema principe tra gli uomini, quelli veri: le
femmine!
- E dimmi
- piegò il collo taurino verso di me il vicino.
Notavo che si stava scaldando. - Ma come mai c'è cosí
poca gente in giro? E cosí poche belle ragazze? - Lanciò
un'occhiata complice agli amici seduti di fronte, che pure si stavano
infocando. Questi risero come a comando. Poi ritornò sulla
sua preda. - Un mio amico che è già stato da queste
parti mi ha detto che c'è una certa strada
un po' particolare
magari dopo cena ci accompagni
magari conosci altri locali
-
Feci lo gnorri.
- Sí, di locali ce ne sono tanti. Basta andare in centro e
trovate tutto quello che volete, anche i bar che rimangono aperti
fino a notte fonda. -
Ero certo che ormai questo termine aveva espanso la rosa delle sue
accezioni anche per cotal signorotti, a cui brillavano gli occhi ogniqualvolta
lo pronunciavano. Il codice comune ci permetteva ora di intenderci
perfettamente, e nessuno di loro si aspettava di trovarci cornetti
e cappuccini in questi bar. D'altronde bastava aver dato una volta
una scorsa alle vetrine per rendersi conto di quali articoli venissero
smerciati all'interno.
Non mi aspettavo però una domanda cosí diretta. L'ardimentoso
non aveva piú voglia di andare tanto per il sottile e scostò
l'ultimo velo di pudore dalla bocca:
- Senti un po', tu la conosci la Lupinenstraße? -
Pronunciò il nome della via in modo perfetto. Si capiva che
si era esercitato a lungo per farsi afferrare al volo dal tassista,
ed evitare quindi che il tassametro infierisse troppo sulle risorse
economiche destinate a far gioire piuttosto il basso ventre che il
sedere sul sedile a spasso per la città. Me lo immaginavo davanti
allo specchio mentre domava la zazzera a ripetere "Lupiniens-trass,
Lupinenschtrass, Lupinenstraße
"
- Tira piú un pelo de mona che un caro de bòi. - sentenziò
l'omino magro di fronte a me con voce baritonale e marcato accento
veneto, esplicitando il motivo che avrebbe dovuto rendere tale via
piuttosto conosciuta, e per evitare di farmi "ciapare cassi par
fis-ci" .
- Sí, ne ho sentito parlare, ma non mi pare che ci sia molto
d'interessante, a quanto mi hanno detto. -
- Insoma zóvane, è là indove ghe son le zanbràche
. - sbottò lo smilzo fuor di metafora.
- Sto omo xe un porselo! Prima se ciapa le pastilie e po' il vegne
il morbin de montare. - commentò il grosso accompagnando le
parole con il lancio del tovagliolo, ma si capiva bene che scherzava.
Ormai gigioneggiavano.
- Sai, - si rivolse quindi a me con fare chiarificatore - questo signore
si è fatto prescrivere dal medico il Viagra, e stasera lo ha
preso perché ha cattive intenzioni. Non gli starei vicino nemmeno
da uomo, figuriamoci da donna, poareta ela, che va con lui. Vero Michele,
che nemmeno tua moglie te porta passiensa? -
- Mia son fora de testa, mi, che provo il Viagra con mia mojére?
Po' mi domanda: cossa xe tuto sto cambiamento? Prima no l'era bon
da gnente gnanca se il mettei vanti la piú bela mona de Venessia,
e 'desso el pare de marmo! Xe mèjo una baldraca, che almeno
no se abitua male, parché se un zórno te finise l'ecitassion,
cossa il conti a la tua fémena ch'el ghe ga ciapà el
lecheto? -
Scoppiò una risata grassa, e perfino io che masticavo poco
il dialetto mi misi a ridere di gusto. Un tramestio dietro di noi
ci avvertiva che adesso veniva servito il tanto sospirato stinco,
e sperai che a bocca piena faticassero di piú a cavar fuori
discorsi.
Fui io però che, stupendomene, non riuscii a trattenermi, e
mi rivolsi a Michele:
- Ma lei ha mai provato con altri mezzi? Si racconta sempre che il
peperoncino sia un rimedio efficacissimo contro l'impotenza, c'è
chi dice anche la cioccolata
-
-
e le òstreghe, el sènsero, el sèano,
i spàrasi, el tartufo bianco, la mandragola, la polenta, la
vanilia, el vin, perdio, tuto mi ga provà, ma con quele pilole
là no gh'è confronto! Drito e longo come un spàraso
cressú a l'onbra. -
Il vino! Chissà quanto ne ingollava costui. Sfido io che non
gli faceva l'effetto desiderato. Già Shakespeare raccomandava
di assumerlo in piccole dosi, altrimenti, diceva, "provoca il
desiderio, ma rende l'atto impossibile". Certo è che se
davvero il Viagra dà i risultati promessi, oggidí qualunque
uomo può levarsi l'uzzolo di andar per femmine, correndo il
rischio di restare al verde, visto i prezzi che tirano, ma di certo
non in bianco.
- Però, - concluse - se no gh'è la voja, gnanca le pilolete
blu fano miracoli. Xe come quel disgrassià che vuole vínsare
al loto ma no conpra mai el bilieto. Jútate che Dio te juta!
-
Il tavolo era tutto un traballio e le pance si dimenavano in su e
in giú dall'allegria.
Questo Michele, che tanto s'affaticava a decantare il medicinale portentoso,
mi ricordava Dulcamara, il furbo imbonitore de "L'elisir d'amore".
Avrebbe fatto affari d'oro con un prodotto del genere, e non sarebbe
stato costretto ad andar di paese in paese a spacciare boccette dal
contenuto molto dubbio che chiaramente non apportavano i benefici
promessi, anzi lo costringevano a lasciare le piazze entro breve,
onde evitare che i clienti scontenti pretendessero di essere risarciti
con le buone e ancor piú di sovente con le cattive. Se il dottor
Dulcamara, "che ogni virtú preclara", avesse disposto
di un tale antidoto contro l'impotenza, non gli sarebbe stato necessario
millantare la guarigione di scrofole e rachitidi né la certezza
d'un amore corrisposto, perché se l'uomo può ammirare
se stesso tutto intero, accade spesso che sia meno propenso all'affetto
che al sollazzo.
- Allora è deciso. Piú tardi ci accompagni alla Lupinenstraße.
-
Il mio vicino non era affatto intenzionato ad abbandonare il suo tema
preferito. Io non sapevo se prendere tale invito come un onore, segno
di accettazione nel gruppo, o piuttosto come dileggio: magari volevano
divertirsi a mie spese. In nessuno dei due casi avrei comunque potuto
accettare, per due buone ragioni: la mia veste ufficiale di rappresentante
della ditta grazie alla quale i signori ospiti mangiavano stasera
a sbafo, e le poche ore di riposo che mi spettavano fino all'indomani,
quando li avrei portati a spasso per lo stabilimento che gli era concesso
visitare. V'era anche un terzo motivo, l'unico in fondo importante:
mi era già di peso la loro compagnia per il tempo che spendevo
con loro, ma che mi veniva almeno retribuito, e non ero disposto a
fare del volontariato per mettere in pratica la loro filosofia spicciola
e a condurli in un posto come tanti se ne trovano anche nelle zone
da cui poche ore prima erano partiti.
Feci valere le mie ragioni, tranne l'ultima, ovviamente.
- Levatemi una curiosità, - aggiunsi - ma i bordelli non esistono
dalle vostre parti? -
- Certo che ghe son, ma là te riconóssano anca i muri!
- esclamò Michele, come enunciando una verità assoluta.
E in effetti lo era. - Nevero - rivolgendosi al mio vicino - che la
zente ormai te ciama Don Giovanni, e no parché xe davero el
to nome, né parché xe un omo de cesa o un sior? Sto
qua no se ne lassa scanpare una, e il belo xe che xe ancora sposà.
Per tute le volte che ga fà beco la mojére, o ela xe
una santa, o ga un bon intaresse. -
- Io ho una tattica particolare. - spiegò il grosso allargando
le braccia e mostrando i denti con falsa modestia. Il mio metodo è
semplicissimo, tanto semplice che mia moglie ci casca sempre: ogni
volta che mi scopre fare un sorriso o l'occhiolino a qualche ragazza
per strada e mi fa scenate di gelosia io le dico: " Ci sono andato
a letto ieri sera. " oppure: " Abbiamo una relazione da
un mese. " La verità è tanto lampante che lei si
arrabbia perché pensa che la prenda in giro e non mi crede.
Funziona sempre. Le metto ogni volta la verità sotto gli occhi
e faccio come mi pare. Le tengo anche il conto delle mie conquiste.
Piú tutto è vero e piú sembra incredibile. -
D'un tratto mi sentii Leporello subissato dalle pretese del seduttore,
ostinato a tenere aggiornato il registro della sua concupiscenza:
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma a Venessia son già mille e tre.
- Secondo me tua moglie mangia la foglia. - intervenne improvvisamente
il signore con la barbetta seduto accanto a Michele, che fino ad ora
se n'era stato buono buono nel suo cantuccio come se l'argomento non
lo riguardasse affatto. - Tua moglie fa finta di crederti, cosí
ha il tempo anche lei d'incontrare i suoi amanti. -
- Sta' zitto, Paolino, - protestò il grosso benevolmente, come
chi è in potere di annientare una persona ma ha già
deciso per questa volta di risparmiarla - che solo perché non
riesci a contentare tua moglie, pensi che tutte si cercano il moroso?
-
- Mia moglie è la donna piú fedele del mondo! - protestò
senza troppa convinzione Paolino.
- Vorrei anche vedere, l'hai legata in casa! Poareta ela, neanche
la domenica in chiesa la lasci un minuto chiacchierare da sola con
un'amica, per la fifa che hai che parlino di uomini. -
Detto ciò, il grosso riprese subito a mangiare e a sciacquarsi
la gola. L'argomento era chiuso. Il cibo non gli interessava piú,
e il semifreddo che gli avevano servito se lo stava divorando Michele,
che aveva assoluta necessità di non deflagrare in anticipo.
Il grosso uscí con una sigaretta spenta a penzoloni tra le
labbra.
L'ultimo sportello si chiuse e il taxi filò via lungo lo stradone,
trascinato dal bianco fascio dei fari. In quel momento cominciarono
a crepitare grosse gocce d'acqua seguite da un'immancabile pioggia
di bestemmie. Tre sagome proiettate su un'alta parete di mattoni rossi
messi su alla men peggio, formante nel mezzo un interstizio, sembravano
tre statuine di Giacometti che si ingrassavano sempre piú,
fino quasi a coincidere, sotto la luce giallastra di uno squallido
lampioncino, con la carne viva, i peli e i vestiti dei loro padroni.
Le tre ombre rimasero immobili davanti all'ingresso semibuio della
nuova via, poi ne vennero risucchiate.
Tre paia di occhi sbucarono all'estremità della strada, scandagli
stereoscopici delle voluttuose profondità simmetriche.
Il Paese dei Balocchi.
Paolino furono costretti ad acchiapparlo per il collo: si stava già
scagliando in uno qualsiasi di quegli antri - E speta un àtimo!
Se ti prude, gratate. Non lo vedi quanto bendidio? -
Toc toc, batté leggermente con le nocche una finta bionda di
dubbia avvenenza contro la vetrina dietro la quale si affannava a
mettere in mostra gli intimi di biancheria gridellini. Si contorceva
e spalancava la bocca, la poverina, sembrava che soffrisse. In disparte,
accostato alla porta adiacente alla gabbia, un bell'esemplare giovane
di gorilla vigilava i frequentatori.
- Chi le salva la vita? - chiese il playboy sbottando in una risata
che sembrava non avere piú fine.
Dall'altro lato le fece eco una mulatta tutta svestita di bianco che,
non potendo far udire la sua voce, slinguava passionalmente il vetro.
- Mi me vo far latare da la mora. Mama, vegno! - furono le ultime
parole di Michele gridate in corsa. Sparí su per le scalette
che portavano ad una stanzetta seminascosta al primo piano.
Una frotta di sirene si uní subito al canto, travestite nei
modi piú disparati:
V'han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V'han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v'han donne d'ogni grado,
D'ogni forma, d'ogni età.
[
] È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Per adescare i due naviganti, che - per loro conto non avevano né
le orecchie turate di cera né si erano fatti legare ad un palo
- non ci volle molto. Bastò che la Fata Turchina si passasse
la lingua sulle labbra e scoprisse una mammella, perché l'ultimo
cattivo pensiero di Paolino per quella serata svanisse, e cioè
quello che sua moglie stesse approfittando della sua assenza per concedersi
anche lei disinibiti passatempi.
Ci pensò l'amico a ricordarglielo, quando vedendolo avvicinarsi
alle lucette al neon lo congedò sghignazzando:
- Pensaci bene Paolino prima di buttar via le palanche, ché
con queste qui non è come con to mugere! A queste non bastano
i tre schei che sei alto . -
- Ma va' in malora, va'! - furono le tenere parole di commiato di
Paolino accompagnate dal fin troppo esplicito gesto.
L'uomo, rimasto solo, si dette un ultimo sguardo intorno: la donna
piú vicina era piuttosto in su con gli anni e sedeva a gambe
divaricate su di una grossa poltrona stile Luigi XVI. La guardò
disgustato: - la ga le scarpíe! - proferí a mezza voce.
Si voltò cercando il meglio, quella piú generosa, la
piú vogliosa, la tetona, e incrociò lo sguardo di un
pappone. Doveva risolversi, altrimenti sarebbe stato preso presto
a calci nel preterito. Ah, che crudeltà! Tutte avrebbe volute
possederle! Si sentiva soffocare.
Passò davanti all'ultima vetrina e gli venne lo sconforto.
Cambiò marciapiede e ritornò indietro, ma gli si spezzava
il cuore ogni volta che si lasciava alle spalle un'offerta. Cosí
sembrava un matto: andava e veniva, dopo pochi metri si girava di
scatto e faceva due passi indietro, poi cambiava lato, con gli occhi
che guardavano in tutte le direzioni, soffermandosi ora sulla coscia
ora sulle poppe, sulla bocca e sul grembo. Quando intercettava il
ruffiano, gli implorava per carità, di avere pazienza, che
era la prima volta che veniva lí e che un'occasione del genere
gli capitava solo una volta all'anno, non gli venisse la voglia di
venire ai ferri corti, che se fosse dipeso da lui sarebbe rimasto
lí per sempre, ah, amore malvagio, ardore spietato!
Il magnaccia lo squadrò un'ultima volta, si accese comodamente
una sigaretta e tirò un paio di lente boccate, quindi infilò
una mano nella tasca della giacca e ne trasse un coltello, mentre
con l'altra raccolse un pezzetto di legno da terra e cominciò
ad intagliarlo svogliatamente, senza distogliere lo sguardo dal cliente
e buttando raramente fuori il fumo che gli entrava negli occhi, e
forse per questo lo rendeva ancora piú indifferente.
Luglio - settembre 2006
Compromesso
Guglielmo Soriani giurò a se stesso di diventare scrittore. Si provò
a immaginare temi per possibili argomentazioni, ma si accorse che non gli
venivano idee, e allora, credendo che fosse un problema di concentrazione,
promise di dedicare tutto il suo tempo a questa recente infatuazione.
Buttando giù qualche riga però, gli venne in mente che non avrebbe
potuto andare avanti per molto, perché se è vero che di tempo ne aveva,
gli mancava il pane, e senza pane, si sa, non si vive di sola acqua. E poi
anche l’acqua costa. Quindi ebbe un’idea: avrebbe cercato un lavoro,
in modo tale da permettersi il minimo necessario per vivere. Primum
vivere, deinde philosophari.
Superò fortunatamente un colloquio, e d’ora in avanti avrebbe
aiutato ospiti illustri a sentirsi a loro agio durante la visita in uno
stabilimento in cui si producevano macchine straordinarie, dotate della
tecnologia piú avanzata, l’inimmaginabile a veduta ravvicinata. Mirate
gente, mirate. Della sua passione letteraria si sarebbe occupato nei
giorni festivi e prefestivi.
- Beh, - rifletté, - problema risolto. Bisogna pur dunque accettare
compromessi nella vita. Vorrà dire che nelle giornate libere scriverò di
piú, per recuperare il tempo perduto. -
Cosí purtroppo non avvenne, perché quel solo lavoro non gli bastava a
far fronte alle minime spese.
Dovette cercarsi allora un secondo impiego.
- Tanto peggio. Se anche sarò libero soltanto la domenica, vorrà dire
che sacrificherò il solo dí di festa per la mia attività prediletta. -
Tanta era la forza d’animo di costui. In realtà, la seconda
occupazione lo impegnava quasi piú della prima, perché, se è vero che
per questa ulteriore mansione gli spettava la retribuzione di un solo
giorno a settimana, occorreva moltissimo tempo per i preparativi. Era
richiesta una concentrazione enorme. Una responsabilità massima.
Sissignore.
Si verificò di conseguenza che anche quelle misere ore festive erano
riempite dagli obblighi. Cosa fare? - Bene - rifletté il nostro amico,
con un po’ meno enfasi del solito. - Vorrà dire che mi limiterò a
pensare a scrivere. Quando un giorno sarà, che si presenterà un’occasione
migliore, potrò tentare con piú successo. -
Le ferie arrivano per chiunque, anche per i poveri disgraziati, che in
quanto tali, non le hanno nemmeno retribuite. Fu cosí che anche il futuro
Tabucchi trovò inaspettatamente di fronte a sé qualche meriggio da
dedicare alla prosa, da spartire s’intende con i doveri casalinghi,
omessi a causa della già citata penuria di quello spazio indefinito nel
quale scorrono gli eventi in successione. Tentò disperatamente di
macchiare il foglio con qualche iscrizione, ma lí per lí nella cocuzza
non affiorò nulla. Per mesi e mesi aveva cercato di tessere le fila di
una trama, che in alcuni punti sarebbe dovuta essere rivista, senza fallo,
e ora che gli veniva concessa una breve tregua, era afflitto da sterilità
creativa. Dette la colpa al troppo stress.
Lo fulminò l’idea di scrivere poesie, perché giudicò si
confacessero maggiormente alla sua condizione. Scriveva quando poteva: la
sera, tornato tardi dal lavoro, prima di andare a dormire; la mattina
presto, svegliatosi in anticipo, prima di recarsi al lavoro; qui, in un
attimo di pausa, prima di far ritorno a casa. I versi scorrevano veloci,
con sua fiera soddisfazione, e nell’arco di un paio di mesi aveva
addirittura portato a termine la sua prima silloge.
Poi accadde il peggio.
Qualcuno gli disse che la poesia era morta.
Nessuno più leggeva questo genere. Roba superata, dei tempi di
Ungaretti, anzi, ancora precedente, molto precedente. Oggi la gente vuole
assassinii, storie di sangue e d’amore, pettegolezzi, scandali,
barzellette, ma per favore, basta poesie. Gli dissero per la verità anche
qualcosa di peggio, che c’era troppa gente che scriveva, che ognuno,
anche l’analfabeta, provava lo stimolo irrefrenabile di combinare due o
piú parole insieme, per poi apporre in calce la propria firma e vantarsi
con tutti: - L’ho scritto io! L’ho scritto io! -
I poeti poi…
A sentire questi discorsi, il futuro Neruda ci rimase un po’ male, in
effetti. Vabbè che scriveva soprattutto per sé, però, che diavolo, un
giudizio meno severo se lo sarebbe pure meritato in fondo, tanto piú che
si trattava di una condanna a priori, del genere poesia tutto. Ovviamente
Guglielmo, se avesse prestato un po’ più d’attenzione, avrebbe saputo
che già da millenni questa verità risulta nota: carmina non dant panem,
le poesie non procurano il pane.
È risaputo che il declinarsi dei nostri sentimenti segue in gran parte
la regola dell’ideale: se si pensa di poter star bene un giorno, si sta
bene anche adesso, cosí come sembrerebbe vero anche il contrario. E il
nostro idealista non se la passava tanto bene, né tantomeno gli riusciva
facile immaginarsi un futuro meno crudele.
Smise di conseguenza anche di sciorinare distici, tentando di allentare
la frustrazione tramite la lettura, da lui da sempre reputata medicina
dell’anima. Il suo motto era: “Un buon libro aiuta piú di uno
psicologo, e non ti indebita.”
Si verificò però un fatto insolito.
Inghiottendo pagine su pagine, il fu Montale venne preso da un
irresistibile desiderio di ritornare a scrivere, come se la lettura gli
avesse solleticato l’appetito, e si contorceva, faceva smorfie, provava
insomma a castrare quella voglia pericolosa. Si rese conto infine che l’unico
modo perché quella smania lo lasciasse finalmente in pace, era
interrompere anche l’ultimo rimasto dei piaceri letterari. Una
maledizione. La cura che ti si rivolta contro.
Era tardi quella notte, quando fu colto da malori a circa metà del
libro che si era tuttavia prefissato di portare a termine, per poi levarsi
definitivamente il vizio. Come il fumatore ravveduto, il quale poco prima
della mezzanotte gusta l’ultima sigaretta per cominciare l’anno nuovo
in completa astinenza, non fuma soltanto, bensí rivive nel sapore del
tabacco i piaceri di una vita intera, Guglielmo, voltando pagina, tirò un
lunghissimo sospiro, interrotto bruscamente dal segnale cupo di un
orologio che non indicava il naturale passaggio da un giorno a un altro,
ma la prova che già due ore erano trascorse del rinnovato ciclo
quotidiano. Tre ore dopo avrebbe dovuto svegliarsi per andare a lavorare.
Raggiunse il letto, e avvertí lo stomaco che si agitava e pareva
volersi svuotare da un momento all’altro. Perfino la testa minacciava di
esplodere, come se il contenitore fosse diventato ormai troppo piccolo per
poter arginare l’inquietudine.
In bilico tra costrizione e desiderio di autonomia, a Guglielmo parve
anche l’ultimo respiro un sacrificio eccessivo.
Plauso
Gli ultimi giri di pista. Zarrini è in testa, ed ha un certo margine
di vantaggio sulle vetture che seguono. Gli spettatori trattengono il
fiato. Nessuno commenta con il vicino. Si attende con ansia il momento in
cui sarà costretto a passare dai box, per il rifornimento. Il carburante
non basta. Chissà se gli altri lo raggiungeranno. L’ultima curva, poi l’uscita.
I meccanici sono pronti. Vogliono che perda meno millesimi di secondo
possibili. Solo una spruzzata nel serbatoio. Via. Forse è ancora primo.
Sí, ma solo a patto che riesca a infilarsi sul percorso un instante prima
del pilota avversario che nel frattempo ha recuperato. Un flash. Un
cattivo ricordo. Rientra in sé. Concentratissimo. Non c’è tempo per
scegliere. Si lancia sul circuito come un razzo, mentre il concorrente
sopraggiunge e frena per non finirgli contro. Nessun impatto. Non come tre
anni fa. Il nostro uomo si accorge di essere al comando. Gli viene da
piangere, ma ha imparato a rimanere freddo, in momenti molto peggiori.
Taglia la linea del traguardo. Trionfo. Altri due giri per celebrare e
salutare i fan, poi l’auto rientra. Si arresta. Il pilota non scende.
Pare impietrito. Gli spettatori rispettano la sacralità del momento e
restano muti. Il primo a volare è il casco; poi, lento, il corpo sottile
si estrae dall’abitacolo e poggia rigidamente a terra. Zarrini solleva
lo sguardo in aria. L’incantesimo è spezzato. Come le gambe nella gara
di allora. Il pubblico esulta.
Valentia
di un insetto
Ciò che ho avuto modo di osservare qualche giorno
addietro è pressoché stupefacente, e mi accingo quindi a descriverlo,
benché sappia fin dapprincipio che rendere in misura esatta quel che ho
visto rappresenti un'impresa affatto impossibile.
Ebbene, mi trovavo di passaggio nella piccola stazione ferroviaria di
Niederscheld con la mia dolce consorte, e proseguivamo verso nord, con
l'intenzione di andare a recare visita ad alcuni parenti che non vedevamo
da lungo tempo. Il treno su cui viaggiavamo era uno dei più lenti al
mondo, non a causa della tecnologia, la cui grandezza è sempre
riscontrabile nei prodotti tedeschi, piuttosto dovuto, questo lento
andare, alla categoria del mezzo: era cioè semplicemente previsto che
sostasse in tutti i villaggi, anche nei più miserabili. Con questo non
voglio certo rendere un'impressione sbagliata, perché se il convoglio
impiegava più tempo del dovuto per portarci a destinazione, è pur vero
che esso non risparmiava velocità durante il tragitto tra paese e paese.
Ecco dunque che nel cielo terso di quella splendida giornata, con i
finestrini semichiusi, perché il vento ci rinfrescasse senza travolgerci,
ci sedemmo l'uno accanto all'altra in direzione di viaggio, per meglio
godere delle favorevoli circostanze. Eravamo ancora fermi, ma saremmo
ripartiti di lì a poco.
Fu all'improvviso che qualcosa si attaccò al vetro, e ci demmo premura di
chiarire meglio cosa mai questo "qualcosa" fosse. Era
semplicemente un insetto: non una mosca, e neppure una vespa; aveva il
corpo lungo e affusolato come quest'ultima e perfino l'addome e una
parvenza di pungiglione vi erano riconducibili, ma ne differiva in quanto
al colore, di un verdolino pallido, e le ali poi erano più simili a
quelle di una comune mosca. Non era neanche una cimice, né evidentemente
una grossa zanzara. Non è per negligenza, perché davvero ho avuto poi
cura di ricercarne il nome nell'enciclopedia degli animali, ma ahimè, con
il solo risultato di farlo rientrare nell'ordine degli imenotteri.
La bestiola cominciò a muovere gli arti sottili e a sfregarsi le ali,
come se si preparasse a qualcosa che avrebbe richiesto uno sforzo
notevole. Il corpo era di sbieco, incollato al finestrino dalla superficie
perfettamente regolare, e gli occhi puntati in avanti, in direzione della
locomotiva. Vorrei far notare che se approfondisco qui i dettagli di
queste scene, è solo perché con uno sforzo enorme cerco di riportarli
alla luce, poiché in quel momento non ci tenni proprio a concentrarmi su
di un animaletto sconosciuto intento in atti che riguardavano lui solo, ma
se lo faccio ora è unicamente per il motivo che ciò che avvenne subito
dopo non rientra più nell'ordinario, e dovrebbe a mio parere essere
precisamente annotato in uno di quegli albi dei primati che tanto si
vantano alle volte di concedere agli onori della storia eventi di
secondaria importanza.
Quindi, dicevamo, in questa sorta d'aviatore pronto per il decollo, si
celava probabilmente una missione segreta, o forse il bisogno di una sfida
estrema, e questi oramai era pronto a tutto. Lo capii nell'istante in cui
il treno partì.
Non posso indubbiamente ammettere che gli notai qualcosa nello sguardo,
tanto minuscoli erano i suoi occhi, seppure li aveva, eppure l'ostinazione
l'avevo intuita. Dapprima si tenne appoggiato alla superficie liscia, un
po' polverosa, con fare naturale, con tutte e quattro le lunghe zampe, e
le ali assecondavano il delizioso zefiro che gli veniva incontro; qualche
attimo dopo il macchinista decise di aumentare progressivamente
l'andatura, al che io pensai che l'insetto sarebbe volato via, quando era
ancora in tempo, perché la corrente d'aria impetuosa non gli avrebbe
lasciato scampo, vincendo il contrasto e stramazzandolo al suolo. Niente
affatto. Avvenne così che, ancora più caparbiamente, abbassò le ali di
modo che l'aria scivolasse via dal corpo, creando di fatto anche un vuoto
sotto le zampe, una cavità alla quale egli si reggeva senza
manifestazione alcuna di volersi dare per vinto. Non sono in grado di
affermare se abbia perso l'unico istante in cui poteva ancora desistere,
oppure se l'obiettivo fosse effettivamente sfidare in un duello impari,
simile a quello tra Davide e Golia, il maestoso impeto del vento. Un
particolare della sua strategia, che mi colpì enormemente a causa
dell'inconcepibile astuzia, consisteva nel sollevare progressivamente tre
dei suoi lunghi arti per poi premerli con tutta la forza di cui disponeva
contro l'unico ancora rimasto a contatto col vetro, e ciò contro ogni
previsione, perché chi penserebbe mai ad aggrapparsi disperatamente a
qualcosa con una sola mano, e di poggiare quindi l'altra su di questa a
mo' di sostegno? Ne avessimo pure cento di mani, le terremmo correttamente
separate e saldamente impigliate a qualunque oggetto utile per non
rovinare. E invece no, pareva davvero che volesse farsi beffe del
conduttore, come per dirgli: - Bravo tu, sai premere bottoni, e credi di
viaggiare veloce, ma se dovessi affidarti alle tue gambette, allora non
saresti più rapido di un grizzly, e in men che non si dica crolleresti
sfinito ansimando e bestemmiando per il dolore e per il sudore. Osserva
invece me, dall'alto della tua statura, che grazie a della semplice colla
da me medesimo fabbricata, me ne resto qui appiccicato, e sfido la
velocità e il turbinio che vossia si degna di regolare a piacimento. -
Un dubbio mi folgorò: si sarebbe reputato contento, il provetto acrobata,
una volta che il treno si fosse nuovamente fermato, o avrebbe
incoscientemente deciso di proseguire? In quest'ultimo caso non mi sarei
trattenuto dal dichiararlo folle. Tutta la straordinarietà dell'impresa
sarebbe allora venuta meno, se per l'appunto non si fosse trattato che di
un episodio unico e memorabile. Qui stava il mio conflitto.
Continuai ad osservarlo con il tacito patto che una volta in stazione
sarebbe volato via, nell'acclamazione generale; ma il timore che non ce
l'avrebbe fatta era estremamente forte: i vagoni slittavano sulle rotaie
con sempre maggiore velocità, e anche una persona, trovandosi aggrappata
all'esterno, avrebbe avuto notevoli difficoltà a resistere contro la
corrente vorticosa.
Restai per tutto il tempo nella mia solita posizione, il mio sguardo non
si mosse neanche di un millimetro. Conservavo la più ferma intenzione di
non voler perdere l'istante di un'eventuale sconfitta, l'attimo cioè in
cui l'aspirante campione avrebbe potuto schizzare via per sempre, forse
per volare di nuovo, o più probabilmente per rimanere travolto e
abbattuto come un falco da un tenebroso cacciatore. Non importava. Lo
avrei ammirato anche in quel caso, purché non gli fosse venuta la triste
idea di continuare il viaggio. Questo non lo avrei mai ammesso.
Rimanemmo entrambi immobili per un tempo indefinito, lui come racchiuso in
un guscio e diventato come di pietra, tanto che niente più in lui
vibrava, ed io pallido a causa dell'atroce sospetto, quando d'un tratto il
macchinista intravide la stazione successiva e stabilì che era giunto il
momento di frenare il locomotore. Sebbene mi fosse chiaro ciò che stava
accadendo non mi mossi, e tantomeno azzardò colui che seguitava a
sembrare un'impercettibile neo sulla lastra. Quando ormai si poteva già
scorgere la banchina e la folla di persone in impaziente attesa, credo che
provai addirittura a stabilire un contatto telepatico, tanto mi divoravano
la curiosità e l'angoscia. Il vagone sul quale ci trovavamo era
posizionato all'estremità anteriore, preceduto solo dalla motrice,
arrestatasi definitivamente dopo un ultimo flebile strappo, e all'esterno
non si trovava nessun viaggiatore; di conseguenza potevo osservare
indisturbato quella macchiolina verde che interrompeva la trasparenza del
vetro. Sembrava davvero finito, e il respiro consumato dal vento. Ma no!
La testolina sussultò, le ali si dispiegarono timidamente, e poi fu tutto
un alacre lustrarsi il corpo con quegli arti tanto flessibili e lunghi.
Fui tuttavia indotto a credere che lo sfregamento rappresentasse più il
compiacersi del proprio atto che non un'opera di maggiore utilità.
Ciò nonostante non avevo ancora risposto al dubbio che mi attanagliava.
Il treno era già fermo da qualche minuto. Dopo poco sarebbe di sicuro
ripartito, e il prode si sarebbe trovato allora nell'identica situazione
di prima. Più che ad un insetto, mi venne da pensare ad un suicida, che
si ostinava nel suo assurdo proposito in seguito ad un primo tentativo non
riuscito.
Come per dispetto, mentre mi trovavo assorto in simili elucubrazioni,
terminate le pulizie, senza nessun accenno, si strofinò per l'ultima
volta le ali, come per essere sicuro che fossero lucide e funzionanti, e
spiccò il volo, descrivendo un leggero semicerchio e prendendo poi una
traiettoria ancora incerta.
Un macigno mi si levò dal cuore e ritornai a deglutire. Questo
sconosciuto, che meritava di essere collocato sul gradino più alto delle
imprese mai compiute, aveva affrontato un avversario temibile, e con stile
del tutto naturale si era tolto alla vista inaspettatamente, come solo sa
fare con grande talento chi esce di scena dopo un ultimo inchino e
abbandona gli astanti ad un vuoto ingombrante.
Come
un cerchio intorno al collo
L'orologio della grande chiesa nell'enorme piazza
dell'immenso centro cittadino non ha ancora battuto le nove. Tutta questa
vastità è inutile. Non è solo un parere personale, è un fatto
oggettivo. Sì, d'accordo, i locali sono pieni, la gente si è riversata
in strada, i tram scorrono ancora veloci, ma quali omuncoli trascinano il
peso del loro corpo grasso e bofonchiante a spasso per il labirinto dei
Minotauri! Un'intera giornata è trascorsa, e le persone dabbene si sono
bell'e ormai che ritirate. Uno sputo fa i suoi gorgheggi ed emette
bizzarri suoni gutturali: impreca la madonna, perché non trova nessuno
che gli dia un'altra dose di eroina; la bambina si tocca le ascelle pelose
ed emette un rutto con voce da baritono. Santé. Le suggerirei una lavanda
gastrica, gentil donzella. Non fa una piega. Perché prendersela. Il mondo
è dunque variopinto. Mimì mette un piede davanti all'altro facendo finta
di camminare in fila indiana; in realtà cade e va a sbattere sul fetore
di una bestia liberatasi da uno sconveniente fardello appena il tempo di
un caffè prima. Portafortuna. Ma vaffanculo! Poi arriva Cocò, uomo di
gran genio, con una misera disgrazia: gli è cresciuta la gobba davanti
anziché dietro. In compenso sa far miracoli con le proprie gambe che si
presentano a struttura circolare, così che l'intera figura si propone
come un ciucciotto un po' cresciuto. E che testa a pinolo… Maria Claudia
mette in mostra le zizze grazie a trentadue pagine di un quotidiano
impiegato a mo' di push up che tra l'altro perde inchiostro. Nel frattempo
ritorna lo sputo, con lo sguardo completamente perso, ma con un sorriso di
paglia e argento, perché ha trovato la dose. Viene da sorridere anche a
me, che ci posso fare? Nell'euforia mi viene di baciarlo; lo faccio, e
allora lui mi vuole fare il regalino. Ma che credi don Giuseppe, son
cretino? Tra la gente, tutto a un tratto sfreccia una volante: dove corri,
procedi troppo in fretta, e non fai in tempo ad osservare ed a scoprire
che… verschwunden. Il suo nome è una condanna. Va bene, lo ammetto,
c'è anche chi seduto ai tavolini alfin sorseggia e discute di lavoro con
la dama dell'ufficio, ma io lo so che è solo una parvenza, dato che lei
non porta gli intimi. L'ozio è contagioso, e dopotutto ho deciso di voler
sentirmi inutile, perdonate il gesto o condannatelo per sempre: si
apprestava un'anziana donna col bastone e con la sporta, al che ratto mi
volto e la stringo tra le braccia; poi la azzanno sul collo e quella,
poverina, si mette a tremare come una foglia, lasciando che la busta si
apra e si rovesci sull'asfalto ancora bollente dopo l'intera giornata
assolata. Due uova cadono pure e si rompono, cominciando a sfrigolare e a
cuocere. Mmmh… la vittima se ne resta immobile per tutto il tempo. Una
gigantesca scia purpurea le è rimasta impressa sull'aorta, e sgrana gli
occhi nel notare come mangio. A stomaco pieno questa maledetta piazza
apparirà certamente più normale.
Esteban non voleva rubare
Esteban non voleva rubare. Proprio non lo
desiderava, ma era costretto a farlo. Era da tre mesi senza lavoro, e
tutto ciò che gli avevano offerto era solo un invito allo sfruttamento,
perché non c'è peggior inganno per un lavoratore di non figurare
ufficialmente come tale. Aveva persino speso del tempo cercando di
destreggiarsi nel labirinto degli impieghi, e quando si era convinto ad
accettarne uno in un'azienda di pulizie, gli avevano premesso che avrebbe
lavorato un giorno sì e un altro Dio sa quando, perché il lavoro è
fatto così, va preso in affitto ed elargito con cautela: non troppo a
pochi, piuttosto poco a molti, dividendo, spaccando, interinando. E va
bene, si convinse il giovane; però con quattro ore a settimana non poteva
certo campare: chi glielo diceva al cane che doveva mettersi a dieta? Il
fatto è che aveva paura. Sì, una fifa tremenda che lo sorprendessero
quelle telecamere piazzate ovunque, e quei cartelli posti all'entrata:
sorridi furfante, lo facevano desistere da qualsiasi proposito. Ormai era
dentro, nella mecca, dove anche la spazzola per il cesso era degna di
essere presa in gloria, e doveva risolversi rapidamente. A casa lo
aspettava la moglie: una bella cenetta in due con un bicchiere di vino a
testa, come ai vecchi tempi, quando ancora lavorava in una fonderia, prima
che questa venisse chiusa definitamente. Più che la dolce scena, era
l'appetito, già sveglio dai tempi di Ivan il Terribile, a spingere
affinché si procedesse in modo rapido e rigoroso, ma subito egli si
accorse che la vera lotta non era tra lui e i sorveglianti, e i circuiti
televisivi interni, e i cartellini antifurto attaccati con meticolosità
sulle confezioni di pasta. Le gambe quasi non reggevano il peso del busto,
le mani non volevano proprio afferrare nessun oggetto, tanto che si erano
serrate in pugni, e un rossore improvviso era divampato in volto. Tutto
ciò ancor prima che i propositi si trasformassero in azione, tanto che
Esteban fu costretto a procedere rassegnato verso l'uscita. Coloro che si
trovavano nei pressi avevano certamente notato qualcosa che non andava, e
al di là delle telecamere avevano probabilmente già intuito ogni
intenzione; quindi non gli restava altro da fare che abbandonare il posto
con mestizia e malcelato scontento per la prematura dipartita. Lo
attendevano anche per quella sera la solita erbetta che cresceva spontanea
nel cortile di casa con le cipolle piantate dalla moglie, sempre sperando
che il domestico animale le avesse risparmiate da inadeguati bisogni.
Dura lex
Il signor Attilio Ringhieri si accinse il giorno di
Pasqua a prendere l'intercity Napoli-Torino per far visita ad amici cari
che non vedeva da tempo. Salito sul treno, si sistemò comodamente in un
angolo del finestrino, con la vivida luce che metteva in risalto i tratti
del volto. Trasse un libro piuttosto spesso dalla sua borsa da viaggio e
si preparò alla piacevole lettura. Erano così pochi i momenti in cui
poteva permettersi di leggere, che quel giorno gli si era presentata
un'occasione imprevista e fortunata: nove ore di piacere e di rilassamento
ininterrotti, per dimenticare gli attimi dovuti altrimenti strappare alle
giornate colme di lavoro o, ancor peggio, i rubicondi minuti sottratti al
sonno. Si era quindi accucciato buono buono sul sedile comodo, dimentico
delle altre persone che conversavano accanto a lui, che riempivano lo
scompartimento di stridii e gridolini, e facevano un tale chiasso che
nemmeno i bambini della peggiore scuola elementare si sarebbero immaginati
di imitare. Ebbene, nulla sconvolgeva il placido viaggiatore, ormai
atterrato già su di un altro pianeta, dal quale gli giungevano gli echi
delle onde che si frantumavano sulla spiaggia e dei cormorani, che di
tanto in tanto gli posavano accanto qualche pesce in dono, appena pescato,
come fosse il pegno da offrire ad una divinità.
Certo è che il nostro Attilio non godeva della solidarietà dei suoi
compagni di viaggio, i quali gli schioccavano occhiate sprezzanti, e poi,
dopo essersi scambiati dei cenni, scoppiavano in una risata fragorosa.
L'oggetto di tale gaudio era naturalmente quel signore buffo che non
prendeva parte al loro spasso.
Con il trascorrere delle mezz'ore, il viaggiatore solitario venne quasi
dimenticato nella confusione generale, quando ecco che il capotreno fece
irruzione nello scompartimento, nella consueta ricerca affannosa di
clandestini intrufolatisi a bordo. Scorgendo Attilio assorto nella
lettura, fece un gesto agli altri come per chiedere una spiegazione. Poi
si rivolse ad Attilio: <<Signore, mi perdoni, non sa forse che in
questa categoria di treno è fatto obbligo di stabilire regolare
conversazione, di scambiare dialoghi civili con i viaggiatori, insomma, di
socializzare?>>
Attilio rimase interdetto per alcuni istanti. Per prima cosa, perché non
aveva neanche capito che quel signore in divisa ce l'avesse con lui,
secondo, perché non aveva minimamente compreso ciò che questi gli aveva
detto. Allora il controllore dovette ripeterglielo: <<Egregio
signore, Lei ha violato una norma del codice di viaggio sui treni della
categoria intercity, quella che vieta ai viaggiatori di non parlare, non
conversare, non bisbigliare, non urlare, non arrabbiarsi o non
intrattenersi con le persone che condividono il viaggio insieme a lei; per
farla breve, lei se ne è rimasto in silenzio tutto il tempo.>>
Queste ultime parole furono pronunciate con tale severità, che calarono
in quel vano angusto come un giudizio inequivocabile. Sentendo la
terribile sentenza di colpa, il signore col cappello seduto di fronte, la
signora con l'abito sontuoso e le calze a righe, la vecchietta con il
girasole nella borsa e il giovane avvocato, che prendevano posto nello
stesso scomparto, proruppero in un'esclamazione di pietà:
<<Ooohhhh!>>
Seguì un momento in cui si temette il peggio per il povero sventurato;
poi, il capotreno si ostinò a fargli pagare una multa. Attilio riuscì
solo a far affiorare sulle labbra un <<Assurdo!>>; quindi si
risolse rapidamente a pagare, per non perdere altro tempo in un inutile
contenzioso. Gli spettatori contenti fecero un'ultima smorfia di
soddisfazione e ripresero le loro becere attività, ma stavolta Attilio
non riusciva più a concentrarsi. Anche se gli altri avevano smesso di
osservarlo, sentiva i loro occhi che gli sgranavano i pensieri.
Gli venne a questo punto un'idea fantastica: si sarebbe rinchiuso in
bagno, e qui avrebbe continuato a leggere il libro a più voci,
contraffacendo la sua così abilmente, da far sembrare a chi si trovasse a
passare davanti alla porta, che dentro vi fossero più persone intente in
faccende private, per cui anche chi avesse voluto visitare la toilette
avrebbe volentieri ripiegato sulla successiva, felice di non
intromettersi. Attilio fu talmente convincente nell'imitazione in falsetto
della voce dell'anziana protagonista del romanzo, che quando bussarono la
prima volta si sentì perfino una voce chiedere subito scusa del gesto
tanto ardito. Nel dialogo seguente poi, Attilio alternò la voce della
donna a quella del nipote infuriato, appena spodestato, diseredato e
lasciato andare in rovina, perché aveva tentato inutilmente di metterle
tutti i parenti contro, sperando di essere infine il solo a ereditare i
beni della zia. Un signore sulla settantina bussò timidamente, ma
immediatamente rifletté che sarebbe stato più conveniente abbandonare il
proposito, per non rischiare di essere coinvolto nella mischia: pareva
proprio che lì dentro tirasse una brutta aria.
La lettura poté quindi proseguire quasi indisturbata per un'oretta e
mezza circa, quando qualcuno batté nuovamente sulla superficie liscia,
dando l'impressione stavolta di voler fare sul serio. Si udì una voce
maschile imponente: <<Aprite, per favore.>> Attilio rimase un
po' sorpreso dal tono deciso della richiesta, e aspettò un minuto prima
di rispondere. Forse l'uomo se ne sarebbe andato e avrebbe lasciato che i
personaggi del romanzo riprendessero a vivere dietro le quinte del piccolo
teatro itinerante. Invece costui riprese: <<Favorite il biglietto,
prego.>> Vabbè, se si trattava solo si questo, si sarebbe
provveduto facilmente, pensò Attilio. Nascose il libro tra le pieghe del
cappotto e dischiuse la porta. Davanti a lui comparve lo stesso
personaggio stizzoso che poco prima aveva preteso il pagamento di una
cifra simbolica per punire il comportamento giudicato inadeguato, quel non
essersi attenuto alle regole e il non essersi nemmeno sforzato un tantino
per leggere le poche righe affisse ovunque che informavano i viaggiatori
sulle norme da rispettare sul mezzo. <<Ah, ci risiamo!>>
esclamò il signore in divisa blu con i risvolti verdi. <<Allora lei
è proprio un tipo recidivo, come credevo. Bene bene, allora sono
costretto a farle pagare quest'altra scorrettezza.>>
<<Ma quale scorrettezza, mi perdoni?>> reagì disperato
Attilio.
<<Anche questo le devo spiegare?>> domandò con voce
rassegnata il capotreno. <<Poco fa ho sentito delle voci qui dentro,
e con tutta probabilità appartenevano a lei. Ebbene, una ulteriore norma,
per chi viaggi su questi mezzi, prevede che quando ci si trova alla
toilette non è consentito emettere il benché minimo sospiro. Lei
capisce, >> continuò, abbassando bruscamente il tono della voce,
quasi emettendo un sibilo che pizzicava le orecchie del malcapitato,
<< si è alle prese con bisogni impellenti, e non si devono sprecare
forze laddove occorre invece ottenere il massimo della
concentrazione.>>
<<Perdoni la mia curiosità,>> proruppe lo stanco passeggero
con mal celata sopportazione, <<ma chi è colui che si adopera a
trovare prescrizioni tanto assurde?>>
<<Chi è, chi non è… non importa.>> sbottò l'altro.
<<Ciò che conta è che le norme siano pensate, stampate e rese
note, in quanto non è il loro contenuto rilevante, bensì il loro aspetto
formale, il potere che suscitano nell'autorità che le applica e le fa
rispettare. E qui l'autorità in questione sono io.>> Infine, in un
sussurro compiaciuto: <<Lei non si immagina quanti siano i furbi che
provano a nascondersi ovunque, perfino al gabinetto, come lei. Avanti,
adesso paghi!>> sbraitò.
Attilio, sconfortato, fu costretto a pagare di nuovo. Non solo, dovette
subire l'ulteriore minaccia di quella che si autodefiniva un'Autorità, la
quale assicurava in tono paternale la subitanea espulsione dal mezzo in
corsa al verificarsi della prossima eventuale contravvenzione.
<<Per il momento, caro signore, la fa ancora franca: le viene
confiscato solo il libro perché… come recita l'articolo diciassette,
comma due del codice di bordo: "[… è oggetto di sequestro
qualsiasi materiale il cui uso non sia consentito dal regolamento
disciplinante il luogo nel quale si riscontra la violazione, nonché
l'intero individuo, in quanto persona giuridica, nel solo caso in cui non
vi sia da parte di questi un atteggiamento conciliante e di palese
subordinazione." E evidente, no? Allora, mi consegni il corpo del
reato, se non vuole che la metta sotto chiave.>>
Abbandonato a se stesso, incredulo per quanto appena udito, il nostro
misero uomo si rinchiuse ancora nell'intimo spazio, e se ne stette ad
attendere l'arrivo in stazione in silenzio contemplativo.
Arrivò infine alla tanto agognata meta, quando già da un'ora era stato
coattivamente costretto a terminare la lettura a più voci e la messa in
scena della pièce. A prenderlo erano venuti gli amici. Scese dal treno,
salutò tutti affettuosamente, ma tenne per sé l'intero accaduto,
cercando di dimostrarsi contento e rilassato, e fu accolto con
dimostrazioni di gioia sincera. Si permise perfino di scherzare. Uno dei
presenti si accese velocemente una sigaretta e tirò un paio di volte a
pieni polmoni, gustando il sapore del tabacco ancora fresco; a questo
punto, Attilio si arrestò. Il viso mutò d'un colpo espressione, e
affiorò sulle labbra un ghigno terrificante. Un energico ceffone investì
in pieno il delicato profilo del fumatore, e la sigaretta volò lontano,
finendo sui binari freddi. Ne seguì un silenzio agghiacciante; poi, con
voce piatta di chi è costretto a recitare un passo a tutti noto, una
verità sopita, il nuovo arrivato pronunciò: <<Non sai leggere? In
questo settore è vietato fumare, amico mio.>> Detto questo, si
precipitò a scendere i gradini del sottopassaggio, trotterellando e
fischiettando, mentre gli altri, allibiti, se ne restarono allineati sullo
sfondo grigio della banchina, come reclute punite ingiustamente costrette
a riconoscersi una colpa qualsiasi. |