Rino Vernice

mi chiamo Rino Vernice, sono un artista eclettico. Mi occupo di pittura, fotografia, grafica editoriale, letteratura, artigianato. So fare gli gnocchi fatti in casa e recito da cani. Ho trent’anni, sono un misantropo addetto alle operazioni di vendita, nel centro commerciale “La Mongolfiera” sito in Barletta (Ba).

Mi occupo di scrittura dal 2000 e tra il dire e il fare, cerco un maestro di didjeridoo e djambe. Un bacio ai miei primi lettori che, come funghi, sbocciano per essere ricoperti e accerchiati da salsa e spaghetti. Buon appetito a me, e felice 2005 a tutti voi.

P.s. Tra le altre cose più stupide, non ho idea di cosa significhi autopresentarsi; scusino l’ignoranza. Vi presento la versione “small” del mio ultimo racconto: TROGLOS APULIA©.

 

NATIVA MURGIANA

Sbuffa il fresco, sotto il brillar della luna alle tre del mattino. Soffia tra i rami degli ulivi secolari, guizza sulle bianche masse calcaree che sul terreno giacciono, spira tra le crette masserie dimenticate dall’uomo e solletica la “cuccuvace”, che sorvola le vastità verdognole di un orizzonte senza meta, a caccia di cibo sognante.

Riposa la carne, che ancora pulsa, su ossa non ancora sgranocchiate. Ristagnano obesi i diurni a pancia all’aria, così come giungono, appassionatamente, nell’inframondo.

Un puntino nero, in questa notte d’estate come tante, spezza l’incanto di una natura in vestaglia e papalina. Rotola sui tornanti saltando sulle buche, sfracassando i timpani delle belle di notte. Le sbronze cicale cessano di intonar canti di sole e calura, al passaggio di una scura silhouette diesel. I grilli accompagnano le consorti sui rami più intricati, mentre i ramarri bestemmiano. Essi zampettano a largo, verso il lontano dimenticatoio. Ed è proprio lì che si dirige l’autocarro a fari spenti. Affari sporchi, nelle ore piccole di una notte che via via va spegnendosi; son già le tre e venti e le cavallette saltellano, pregustando il grano che brillerà come l’oro.

Fuma la marmitta, fuma parecchio smog. Nerume nell’aire che va illuminandosi e per un attimo, il cielo diviene plumbeo. Vola l’autocarro…cos’è tutta questa fretta? Hai paura di perder i primi raggi d’energia solare? Hai paura di non goderti l’ennesimo miracolo su di una Murgia estasiata dalle carezze del sole? Cos’è che ti tormenta piccola stella! Cos’è quell’ansietudine nelle tue mutande?

 

La luna abbaglia l’asfalto che serpeggia verso l’avvenire; essa lo ghiaccia col riflesso della luce del sole.

Il finestrino è mezzo abbassato e l’individuo….gatti, volpi e cani interferiscono tra una sponda e l’altra mentre i cartelli stradali si fan sempre meno presenti.

 

*

 

E’ lui ? Il cadavere che trasporti sul cassone? E’ lui che ti elettrizza? E’ lui che ti fa cuocere nella paura di essere beccato? E’ lui?…ma io lo conosco!

Volteggia sullo stradario questa peluria accarezzata dal pulviscolo atmosferico e devia, sale e discende le distese sempre più selvagge. Dove credi di andare piccolo e umano rettile! Io, non sono mica morto! Ingiallisco, questo si, si putrefanno le mie mollicce carni, i miei occhi passeggiano al di fuori delle proprie orbite ma non è che sia poi così tanto doloroso. Sono nella schiuma del mio corpo che sbianca ma non son io di certo, quello che saluta la terra!

Flora pelosa attorcigliatasi in un universo di spazio celeste. Le ventiquattr’ore non reggono al misfatto che si fa secolare. Gli uomini perseverano nell’eliminare la vita dalle loro ascelle e sopravvivono, dopotutto.

Angelo D’Arcangelo è un ultra sessantenne che pensa di risolver le cose a modo suo. Senza regole civilmente acquisite, senza condizioni di causa. Un vecchio rincitrullito che me l’ha fatta pagare e adesso crede che l’oggi, sia la pennellata che da fine a tutta la vicenda.

Rigiuro, non lo merito ma si sa com’è nella vita, ci son sempre quelli che credono di sapere e poi, arrivati al nocciolo, in mancanza di tesi, esplodono in una rabbia inaudita. Io, la figlia l’amavo sul serio…e che son stato un po’ lungimirante! Sapevo che non sarebbe durata e ho agito così, non mi son presentato al mio matrimonio. Come può, un accusato di egoismo amante della vita, scegliere il sacrificio per una eterna voglia di vita? Dovevo pensarci prima? Non lo giustifica! Io, prima ci ho pensato, ma le mie son sempre state considerate frivolezze, momenti di sbandamento. I miei, erano momenti di lucidità e quando arrivano, mi fido ciecamente! E’ andata così. Mi ha scovato, ma non mi son nascosto e un sol colpo mi ha sparato.

 

*

 

Sballonzolo, avvolto in un sacco per le olive ma ho i piedi ai quattro venti. La juta non lo aiuta, rendendoli visibili sia al buio che alla luna. Lassù c’è un corpo, un corpo morto che guida un autocarro, sconfinato nei meandri di un orifizio mentale fatto di sostanze molli e maleodoranza in pensione. Così, nessun sospetto, al focolare. Va a raccogliere le frasche prima del sole, la bestia. Ci siamo incrociati per caso, ieri pomeriggio, ma io ero soprappensiero e vagante, mentre lui, al “Bar Oasi”, sulla strada che porta a Castel del Monte, per una scorta di gelato al limone, mi ha proprio puntato, seguito, sparato. Se ne andava in giro armato, quel fetente! Pazienza. Mi ha nascosto in una specchia abbandonata e adesso mi porta verso Spinazzola, sull’Alta Murgia, dove crede che troverò l’eterno riposo. Ma grazie! Come sei premuroso! Se magari rallentassi ad ogni curva, non comincerei a disperdere i denti, come traccia d’avorio che brilla, su un andante che via via acquista il sorriso delle sue stesse ossa!

D’un tratto rallenta, svolta e indugia guardandosi attorno. C’è un bosco, un bosco di conifere con dei cartelli che indicano il pericolo: “Attenzione! Comune di Spinazzola: Divieto di accesso al bosco, pericolo caduta rami e alberi”. Bosco oscuro, la scelta è fatta. Ecco il capolinea.

Si inoltra per un centinaio di metri, io mi cago sotto e lui spegne il motore. Uccellacci invisibili svolazzano tra i rami chiomati di tenebra e i fruscii si moltiplicano. Non c’è vento, almeno non mi sembrerà di essere accerchiato da spire. Libero? Non credo proprio; spirato.

Stappa la portella e afferra la vanga. Bisogna far presto, c’ha da lavorare, lui! Comincia a scavarmi la fossa. Che devo fa? Mi guardo la luna posata tra i rami, beatamente spaparanzato e tranquillo, non ho alternative. Cosa me ne può fregare della giustizia! Nulla può rimettere il mio corpo in piedi. Possibile che nessuno si è accorto di niente? Io, ormai sono all’altro mondo o meglio, dall’altra sponda, e ti dirò che ho già incrociato Dio, in limousine, che mi ha gesticolato:- «Vengo appena posso, mi faccio vivo io, ci vediamo dopo».

Suda l’Angelo, sono alto un metro e novanta, hai fatto di me uno strazio, dovrai pur pagare pegno!

Umida la terra e scura, densa e malleabile come argilla, quella più a fondo. Le ore passano…

Oh, luna! Ma che c’avrai sempre da guardà? Tra un po’ sarai un vago ricordo, perché non scendi e mi baci allora? Ti fan schifo i vermi che scodinzolano e vengono alla tua luce, dal mio intestino tenue? Ti impressiona la civetta, che di tanto in tanto zampetta sul mio teschio, bucherellando il mio bulbo oculare sinistro? Il topolino che sgranocchia i miei testicoli? Il ragnetto che fila nelle mie narici? La vipera che mi è entrata nei calzoni? Oh luna! Magari sei frigida come quella lì?…Chi? Lo so io, stupida. Che fai ti offendi, no, non ti abbattere, non andar via…ti prego!…

 

*

 

La notte mi abbraccia, mi saluta e si allontana. Il cielo, da nero, comincia a farsi sempre meno blu e la vita torna a sbadigliare. Il contadino è mezzo stramazzato ma deve fare l’ultimo sforzo, la luce avanza infiltrandosi, quatta quatta tra gli intrecci vegetali e i primi riflessi, trasportano l’immagine che ho di me, già a qualche migliaio di chilometri di distanza.

Ecco il momento, di soprassalto, mi son distratto. Saluto il cassone e tonfo subito di spalle a tre metri sotto terra. Neanche il tempo di voltarmi per salutare il mondo che si rifà buio, un buio tutto per me, mentre il sole sorge e l’inizio di un nuovo giorno si fa, drasticamente, sempre più luminoso.