Pietro Sorrentino

Questo racconto che state per leggere l'ho scritto un po' di tempo fa, dopo aver letto la poesia di Dylan Thomas citata nel testo. E' una storia a cui tengo molto, per diverse ragioni che non elencherò per evitare di annoiarvi a morte. E' una storia triste, credo. Ma si parla anche di amore (in quale storia mai non si è parlato di amore, d'altronde?). Leggetela e, se vi fa piangere, ridere, se vi dice qualcosa o non vi dice proprio un bel nulla, be', scrivetemi e ditemi: Pietro, quello che hai scritto mi è piaciuto molto... mi è piaciuto abbastanza... non mi è piaciuto per nulla. Mi raccomando, però, non siate troppo cattivi con i giudizi, eh?!"

Le isole di fuoco

Questo mio collega mi tocca il braccio e dice guardallà, e indica col dito. Ci impiego qualche secondo a capire che si riferisce al rettangolo bianco che spunta da sotto a un mucchio fetido di carte e avanzi di cibo e giornali e barattoli vuoti e bottiglie e stracci sbrindellati e buste di plastica. Embè?, dico io.

E se è qualcosa di interessante?, dice lui.

Lo guardo per un po', poi gli dico passami la pala, e mi avvicino al mucchio di roba. Comincio a spalare via le cose senza dire niente, e alla fine mi inginocchio e raccolgo quella lettera. E' sporca, schifosa, puzzolente, tutta sgommata di ketchup.

Il mittente non c'è, dico al collega che intanto s'è acceso una sigaretta. Però l'indirizzo sí, dico alzandomi. E' per una donna: Marta Piccoli, Via Gaetano Filangieri 75, 80100 Napoli.

Il mio nome non ha importanza. Chiamatemi pure Lo Spazzino, come di solito fanno tutti. La mia qualifica ufficiale è Operatore Ecologico, ma figuratevi un po'. Alcune cose, in via ufficiale, possono chiamarsi come cavolo gli pare, ma il panettiere non diventerà mai Panificatore Specializzato, il cieco Non Vedente, quello sulla carrozzina Disabile. E forse è meglio cosí: pensandoci bene, alla fin fine io spazzo, mica opero ecologicamente; il panettiere fa il pane, non panifica; il cieco è cieco e basta; e poi quello sulla carrozzina, in cosa non è abile?, a camminare? e allora anch'io sono un Disabile: un Disabile tennistico, per esempio. O matematico. O libresco. O motociclistico.

E poi il mio è il piú bel mestiere del mondo. Sul serio. Immaginatevi per un attimo cos'è che io faccio per davvero. Io analizzo, osservo, controllo, giudico la vita delle persone; faccio sondaggi, io. Un po' presuntuoso? Forse. Ma è cosí. Voi non sapete cosa non si può conoscere tramite i rifiuti. Parlano. Parlano di voi, dei vostri vicini, del vostro condominio, del vostro quartiere. E' la spazzatura il vero indicatore della qualità della vita, non tutti quegli studi dell' ISTAT, l'inflazione, il consumo di carne in un anno o la dichiarazione dei redditi. Io sono il vero ispettore del Fisco. Potrei dirvi vita, morte e miracoli di ogni singola famiglia della mia zona. Un esempio? In una certa palazzina di una certa via, c'è una certa signora che non passa giorno in terra che non riceve un amante in casa. Il marito, brav'uomo, carabiniere in pensione, trascorre le sue giornate in un circolo di appassionati di caccia, giocando a carte e bevendo qualche bicchierino. La donna, piú giovane di tanti anni e, come di solito si dice, ancora assai piacente, non può usare la pillola, che le crea scompensi cardiaci. Per non incorrere in spiacevoli e poco opportune gravidanze, ecco che i baldi giovani che frequentano la signora portano sempre con sé scatole di preservativi e tubetti di spermicidi, da utilizzare al momento dell'incontro amoroso. E il pover'uomo del marito, beato e ignaro, se la gioca a tressette e scopa con i suoi amici, mentre la moglie si limita alla Scopa.

Come so queste cose?

In quella certa palazzina di quella certa via abitano tre famiglie: la signora in questione col marito, una coppia di anziani ultraottantenni, e una famiglia di cinque persone il cui capofamiglia è in cassintegrazione da vari anni, e che da vari anni non esce di casa se non per pochissimo tempo. Ora, se si escludono la moglie del cassintegrato-che dovrebbe essere Wonder Woman per riuscire a ricevere amanti quotidianamente e farla in barba al marito-e la signora ultraottantenne, vedete un po' voi chi è che resta.

La palazzina ha un cassonetto personale proprio vicino al marciapiede dell'ingresso, e quel cassonetto è il primo che svuotiamo ogni volta che comincia il giro.
A questo si unisce la cattiva abitudine che hanno moltissime persone di usare sporte e sportine della spesa al posto dei sacchi neri per la spazzatura, quelli che si chiudono in cima col filo trasparente. Diventa inevitabile allora-anche perché siamo uomini, non macchine, e la curiosità è una delle caratteristiche principali degli uomini-guardare i rifiuti, voler capire come quelle persone vivono, cosa mangiano, bevono, leggono, usano, comprano. E allora capita di trovare certificati medici che attestano scompensi cardiaci, preservativi usati-molto usati-, tubetti vuoti di creme spermicide, lenzuola e federe nuovissime ma chissà perché buttate via in tutta fretta a causa di qualche macchia-qualcuna di sangue, altre bianche e appicicaticce-. Ma capita anche di rinvenire pagelle scolastiche, cartoline, fotografie con dedica, regali ancora impacchettati, diari, quaderni, agende, collane e braccialetti, soldi (una volta un collega ha trovato cinque milioni avvolti in una busta che si era impigliata nel ferretto di un reggiseno, e si è comprato una macchina usata).

Il regolamento parla chiaro in proposito: noi non dovremmo guardare nemmeno che forma hanno i sacchi che raccogliamo. Dovremmo semplicemente gettarli dentro al maceratore del camion, spalando, nel caso, i mucchi di schifezze fuoriusciti dai sacchi danneggiati.

Ma col regolamento noi ci puliamo il sedere, se permettete. Il nostro mestiere è bello, sí, ma se fatto come lo facciamo noi.

Però una lettera come quella che ho trovato, giuro, non mi era mai capitata prima d'ora.

7 aprile 1999, camera mia

 Dolce Marta,

amore mio. E' notte, sono le 3:22 e fuori tutto è buio e silenzio.

Tu starai dormendo con indosso il pigiama azzurro a righe blu e Uappo accoccolato ai tuoi piedi, in fondo al letto.

Ma te la ricordi la prima volta che l'abbiamo visto? Era in quella gabbiona enorme nella vetrina di quel negozio di animali del Corso Umberto. C'erano tutti quei cuccioli stupendi che facevano a botte per mettersi in mostra davanti alla vetrina, e tu invece dicesti "Giovanni, guarda quello! E' bellissimo!" riferendoti al cane piú brutto e derelitto che abbia mai messo zampa sulla Terra.

Basso, nero, spelacchiato, buttato in un angolo a morsicare le sbarre della gabbia, a me mi faceva ribrezzo solo il pensiero di accarezzargli la testa. Non riuscivo a spiegarmi per quale ragione trovassi tanto bello un cane al cui confronto Cujo di Stephen King ispirava tenerezza. Timidamente accennai a quel cucciolo in prima fila che era bianco come la neve, e che portava quei fiocchetti rosa attorno alle zampe. "Non sarebbe meglio quello?" chiesi, e tu mi rispondesti che quello se lo potevano tenere la Scottex o l'allegra famigliola del Mulino Bianco.

Quando entrammo nel negozio e chiedemmo di Uappo, la commessa se lo fece ripetere due volte, e resasi conto che volevamo proprio quel cane, corse a chiamare il proprietario del negozio annunciando "Se ne va! Se ne va! Lo comprano!!". Una volta pagato, ci hanno spinto letteralmente fuori per paura che potessimo ripensarci!

Alla fine, però, avevi visto giusto. Uappo si è rivelato dolcissimo, giocherellone e soprattutto assai intelligente. Certo, a una mostra di bellezza canina lo prenderebbero a fucilate, ma tant'è.

Piccola Marta, che cosa non darei, ora, per stare abbracciato con te nel tuo letto, le nostre teste su un solo cuscino, vicini, vicinissimi, cosí vicini che il tuo fiato diventerebbe il mio, il mio tuo, cosí stretti che se tu sbattessi le palpebre sentirei solletico sulla pelle, cosí attaccati con le nostre gambe avvinghiate in un nodo inestricabile, le mani intrecciate cosí forte da farci venire le nocche bianche, la tua bocca, il tuo viso, il tuo corpo cosí perfettamente incollati su di me che, se avvenisse un'eruzione del Vesuvio, dopo migliaia di anni ci ritroverebbero e penserebbero che siamo un unico corpo mutante, metà uomo metà donna, frutto di qualche esperimento genetico. Resteremmo a parlare di noi per tutta la notte, e tu mi racconteresti di quando eri bambina e abitavi con tua nonna che ti preparava sempre le stelline in brodo che ti piacevano tanto, o di quando a cinque anni buttasti giú dalla finestra la tartaruga di tuo zio che ti stava antipatica, o ancora di quando quella volta, avevi quattordici anni, ti chiudesti in camera per quattro giorni e leggesti Moby Dick tutto di un fiato.

Io ti parlerei di com'era schifosa la mia vita prima di incontrarti, di come mi sentivo una merda quando mi svegliavo la mattina e mi chiedevo dove avrei trovato i soldi per la roba o chi avrei scippato o che truffa avrei inventato. Ti spiegherei di come tutto mi scorreva addosso come acqua su una lastra di marmo, di come la mia vita si andava disintegrando giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, dose dopo dose, di come la droga mi allontanava via da tutti, e io ero convinto che invece erano gli altri ad allontanarsi da me; ti racconterei dei litigi con i miei, dell'Università che andava a rotoli; di quel giorno in cui avevo preparato per la pera una dose cosí potente che poteva soddisfare per una settimana le richieste dei tossici di tutta Napoli, e di come, per fortuna, la mia vigliaccheria mi impedí all'ultimo momento di iniettarmela, e anche se tutte queste cose le sai già, continuerei a parlarti di quella volta che ti ho visto seduta sul muretto che mangiavi quel gelato, di come ti ho avvicinata con la scusa di parlare del libro che stavi leggendo ("Viaggio al termine della notte", la cosa piú bella che sia mai stata scritta), ti spiegherei la gioia infinita che provai quando mi accorsi che qualcuno, finalmente, mi trattava come una persona, mi chiamava per nome.

Ma soprattutto ti sussurrerei per la centesima volta che sei il mio cielo stellato, sei la mia luce, la mia acqua, l'aria che respiro, il sangue che mi scorre dentro, la mia canzone romantica, la mia stella piú brillante, il mio fiore piú colorato, il mio mare infinito.

Marta, piccola mia, oggi fanno tre anni da quella sera, pioveva a dirotto, che ti ho lasciato. Qui vicino a me ho tutte le lettere che mi hai mandato in questi anni: le ho contate, sono piú di trecento, e in tutte, in tutte e trecento, c'è sempre quella frase scritta alla fine: Perché lo hai fatto?

Sto morendo. Ho l'Aids.

 La mattina del 7 aprile del '96 ero andato in ospedale per ritirare le analisi. Avevo deciso di fare il test da quando avevamo cominciato a parlare di fare l'amore, e si sa che un ex tossicodipendente è in cima alla lista dei probabili contagiati.

Nonostante io fossi stato sempre molto scrupoloso quando mi facevo (la droga non mi aveva ancora annebbiato del tutto la mente) e avessi utilizzato quasi sempre siringhe sterili, aghi imbustati e compagnia bella, quella mattina all'ospedale capii che non ero stato abbastanza attento. Soltanto un po' attento.

Il dottore che mi consegnò i risultati mise su una bella faccia di circostanza e mi diede un paio di amichevoli pacche sulle spalle, dicendo che il 90% dei sieropositivi resta tale per periodi lunghissimi, dieci, vent'anni, senza che il virus evolva in Aids, e che io, essendo giovane, mi sarei difeso bene, che non c'era da preoccuparsi, bisognava solo stare attenti ad alcuni comportamenti, che ora naturalmentenon avrei piú potuto tenere, e a un certo punto, a sentire quello che diceva, credevo di essermi sbagliato, di aver capito male, che non ero sieropositivo, semplicemente raffreddato o con una leggera bronchite.

Cominciò a piovere nel primo pomeriggio, quel giorno. Passai a prenderti alle sei e un quarto e tu volesti fare una passeggiata su verso via Orazio, volevi vedere il mare che si bagnava, dicesti.

Camminammo stretti sotto l'ombrello per un po', poi mi chiedesti perché non volevo baciarti, e io ti risposi che avevo il raffreddore, il mal di gola e anche un leggero Herpes sul labbro inferiore, che tu tentavi naturalmente invano di scorgere.

Restammo a guardare il mare che si bagnava per venti minuti, poi, mentre tenevo gli occhi fissi su un peschereccio che tentava di attraccare nel porto, ti dissi che mi sentivo male a dirti quello che stavo per dirti, ma che era piú giusto cosí.

Tu ti voltasti verso di me. Sorridevi.

"Non scherzo," dissi, serio. " Mi vedo con un'altra. Da molti mesi. Credo di amarla. Ci sposeremo. Lei è incinta di due mesi. Mi dispiace."

Quel sorriso è rimasto ancora per qualche secondo, ma è scomparso in un attimo quando mi hai guardato sul serio negli occhi. Sei corsa via, all'improvviso, sotto la pioggia, ti ho visto inciampare in una panchina, ti ho visto cadere. Neanche il tempo di correrti vicino che ti sei rialzata e sei volata via dalla mia vita per sempre.

 Marta, piccola mia, ho cosí poco tempo da vivere che quando in televisione vedo le anteprime dei film della prossima settimana scommetto con la mia infermiera su quale secondo me arriverò a vedere e quale no. Lei mi dice di non fare lo stupido, e io mi chiedo quante volte a quante persone lo avrà già detto.

Non sono in ospedale. Sto a casa. Ogni settimana Lucia, Alfonso, Patrizio e Fabio vengono a trovarmi e mi portano libri, giornali, qualche volta pure riviste porno. Gli ho fatto promettere solennemente su quello che hanno di piú caro che mai avrebbero parlato, con qualcuno che potevi conoscere anche tu, di me. E' per questo che Carmine, Iolanda, Roberta, Riccardo e Stefania non vengono a trovarmi: loro, come te, credono che io sia partito per la Germania, che sto lavorando nel ristorante di mio zio e che ho tre figli, due maschi e una femmina.

Ma quali figli. Quale ristorante. Quale Germania.

Marta, piccola mia, sto morendo. Sto andandomene. E ti giuro, ho una paura fottuta. Davanti a tutti io ci scherzo sopra, rido, faccio battute e racconto storielle sui malati di Aids. Ma la sera, quando sto per addormentarmi, comincio a pensare a quando sarò morto, a cosa ci sarà dopo, se ci sarà dopo, ai miei genitori, ai quali in venticinque anni non ho dato che dolori, ai miei amici, che chissà se tra venti o trenta anni continueranno a ricordarsi di me.

Ma sopra ogni cosa penso a te. Ogni sera, prima di dormire, ti rivedo correre via sotto la pioggia, ogni sera ti rivedo inciampare in quella panchina e cadere. Ogni sera. E mi chiedo se anche quando sarò morto quest'immagine continuerà a tormentarmi. Forse è questo l'inferno: un filmato in bianco e nero ripetuto all'infinito. Nessun diavolo, niente fiamme né forconi: solo tu che inciampi in una panchina in un pomeriggio di pioggia, per sempre.

 Marta, piccolo amore mio, ancora non so se mandarti questa lettera. E' piú giusto che io muoia col rimorso di non averti mai detto come stavano le cose, o dirti tutto?

Che cosa è piú giusto? Che cosa è piú giusto per te?

Forse per te è piú giusto non sapere mai nulla di tutto questo. Forse è meglio che di me ti resti solo il ricordo di uno dei tanti uomini che da sempre si divertono a giocare con i sentimenti delle persone, che quando pensi a me associ sempre l'aggettivo stronzo o bastardo o simili.

Ma io? Come farò io a morire sapendo che me ne vado via per sempre, senza avere piú possibilità di spiegarti i veri motivi del mio gesto? Quando arriverà il momento, e ti assicuro che sta per arrivare, e il dottore mi inietterà l'ennesima dose di morfina e mi dirà di lasciarmi andare, di smetterla di lottare, come farò? Dove troverò il coraggio di morire senza te?

Vorrei vederti solo per un'ultima volta. Un'ultima volta stringerti la mano, e se da qualche parte dentro di me troverò il coraggio per mandarti la lettera, ti prego, corri da me in fretta, piccola mia.

Non lasciarmi solo. Restami vicino. Ho paura.

 Ricordi di quando leggevamo Dylan Thomas ?

 

"Che piú mi approssimo alla morte,

Uomo solo attraverso le sue carcasse disgiunte,

Piú sonoro il sole risplende

E il mare zannuto e sconquassante esulta;

E ogni onda della via e ogni colpo

Di vento che affronto, l'intero mondo dunque,

Con fede piú trionfante

Di quanto sia mai stata da che il mondo fu detto,

Racconta il suo mattino di lode, 

E sento le colline rimbalzanti

Diventare piú verdi e fitte d'allodole nell'autunno

Bruno di bacche e le allodole della rugiada

Cantare piú alte questa tonante primavera, e quanto

Piú apparigliate con gli angeli cavalcano

Le isole di fuoco dell'anima umana! Oh, sono dunque

Piú santi i loro occhi,

E i miei splendenti uomini non sono piú soli

Mentre io salpo verso la morte."

 

G.

 

La lettera porta la data del sette aprile. Ora sono le ventitré e trenta del dodici aprile. E' probabile che il ragazzo l'abbia scritta e tenuta con sè per qualche giorno, e poi ha deciso di buttarla. Il coraggio non

l'ha trovato, dunque.

Dio, che situazione di merda.

Sto qui seduto per mezz'ora a pensare.

Quando mia moglie mi vede vestito che mi lavo la faccia in bagno mi chiede dove penso di andare a quest'ora. Le dico che non c'è tempo per spiegare, e lei dice oh sí che c'è tempo, signorino, e si piazza a braccia incrociate davanti alla porta, e io le dico per favore spostati, e lei oh no che non mi sposto se prima non parli, signorino, e io dico guarda che è una cosa importante, per favore, e lei dice è piú importante che dare spiegazioni alla propria consorte, signorino?, e al terzo signorino mi rompo i coglioni e la butto per aria e corro per le scale e vado alla macchina e metto in moto.

 Mi apre un tizio con la faccia gonfia per il sonno.

"Chi è lei ? Che vuole? Si rende conto di che ore sono?" mormora stropicciandosi gli occhi.

Io gli chiedo scusa, ma devo assolutamente parlare con la signorina Marta, è questione della massima importanza, e se lui mi facesse la cortesia di chiamarla gliene sarei molto grato.

Forse anche a causa della mia espressione, il tizio si convince a chiamarla, ma prima mi avverte che se non vado via entro quattro minuti lui fa correre i carabinieri.

Dice aspetti qui, e mi sbatte la porta in faccia. Passa qualche minuto, poi la porta si riapre. Marta ha i capelli biondi raccolti in alto e gli occhi grandi e chiari. E' proprio una bella ragazza, penso.

"La signorina Marta?"

"Sí..."

Le porgo la lettera. "Questa è per lei. Da parte di Giovanni." Quando pronuncio il nome di Giovanni si porta una mano alla bocca e sta per dire qualcosa.

"La prego, signorina," dico mettendole con cura la lettera tra le mani "la legga con attenzione. E soprattutto in fretta. Molto in fretta."

Marta mi ringrazia, e pochi secondi prima che si chiuda la porta, in uno spiraglio in basso vedo un cagnetto piccolo, nero e spelacchiato che gioca accanto ai piedi scalzi di Marta. 

La mattina del quattordici aprile i muri della mia zona di lavoro sono tappezzati del nome di Giovanni scritto nero su bianco.  

Giuro Su Dio E Su Tutti I Santi Beati Che Dimorano Nel Paradiso Pieni Della Grazia Divina Che Non Guarderò Piú Nemmeno Nella Spazzatura Di Casa Mia Quando Qualche Mattina Dovrò Buttare Via Il Cartone Vuoto Del Latte E Che Il Signore Iddio Mi Fulmini Istantaneamente E Mi Riduca In Cenere Se Non E' E Sarà Sempre Cosí Fino A Quando Vivo.