Domenico Piccichè

Sono un impiegato del comune di Alcamo. Scrivo per sbollire la nevrosi di un lavoro alienante. Mando in allegato un racconto espressivo di un certo modo di far politica dalle nostre parti.
P.S. l'agricanti che da il titolo al racconto è il nome dialettale del pietrisco che serve a rendere più salde le trazzere ossia i viottoli non asfaltati.

L'agricanti

Capitolo I

Il telefono che squillava mi distolse da una sonnolenta lettura. Stavo ancora pensando al sadico professore Parrino che, al mattino a scuola, mi si era attaccato addosso come una sanguisuga, salassandomi con dosi massicce di Hegel e idealismo tedesco.
Sentii dalla mia camera mio padre prodigarsi in un ripetuto "Sì, sì". Posato il telefono bestemmiò sottovoce.
Provenzano Luigi, fratello di mia madre, ci invitava gentilmente a partecipare ad una riunione politica, che lui chiamava "la parrata", con l'esimio onorevole Peralta che veniva a promuovere la candidatura di un certo Tavano come Presidente della Provincia.
Tarchiato, nero, con sopracciglia spaventosamente folte, pancia prominente, sguardo che nella normale ottusità di bove ogni tanto saettava di famelica furbizia, mio zio era consigliere comunale della amata ed illustre (così recitano le pompose storie locali) cittadina di Castro, amena località della Sicilia Occidentale.
La telefonata si era chiusa con un poco rassicurante "mi raccomando!" e mio padre diventò più nervoso del solito, cosa che del resto gli capitava ogni volta che mio zio ci convocava per motivi politici.
Il partito in questione era uno dei tanti nipotini della Democrazia Cristiana. Luigi Provenzano cambiava formazione politica continuamente mantenendosi sempre nelle zone scudo - crociate, in modo, pensava lui, di far felice lo zio prete, che tutti in famiglia chiamavamo "'u ziu parrinu", un po' bisbetico e proprietario di appetitosi terreni in attesa di un erede. In ogni partito in cui comparivano la C di Cristiano e lo scudo crociato, insieme o separatamente, cristianamente ed umilmente appariva mio zio a rendere i servigi devoti nonché di voto.
Da anni la mia famiglia votava per mio zio e per tutti i candidati che lui, animato da sacro e democristiano ardore biblico e terriero, ci indicava.
Divenuto maggiorenne, mio zio cominciò a degnarmi di una considerazione mai usata prima. Per lui ero ormai un animale della specie "bipede implume votante", in grado di mettere una X sullo scudo crociato o sulla C se proprio le due cose non potevano stare insieme.
La riunione era fissata per il giorno dopo alle sette della sera, in una delle tante sezioni che nascono come funghi durante il periodo elettorale. Squallide stanze, a volte piccoli negozi che misteriosamente scompaiono per lasciar posto alla sezione elettorale, dove alcuni vecchi giocano a carte sotto la gigantografia del candidato.
Ogni tanto il locale si illumina di un folto gruppo di persone ammesse alla "parrata" con il candidato.
Mio zio ci diceva che erano ammessi solo pochi eletti elettori e non faceva altro che rinfacciare velatamente a mio padre che era grazie a lui che noi potevamo usufruire di questo privilegio. In realtà, pur dicendo questo, ci lasciava intuire a frasi smozzicate che era opportuno portare un po' di gente per lasciare intendere al politico ospite che la sezione era vivace ed attiva. Ciò creava problemi a mio padre e di conseguenza a me.
La sera in cui arrivò la telefonata divenne estremamente nervoso, la cena si prospettava alquanto agitata.
Mio padre scambiava la mia indole flemmatica ed introversa per disinteresse verso gli affari di famiglia e verso il mondo in genere o peggio per idee malamente celate. La possibilità di avere un figlio idealista e dunque pericoloso e immaturo lo faceva imbestialire e bestemmiare. Antiche bestemmie contadine che sapevano di folclore ed antropologia e che rischiavano di far cadere in deliquio mia madre che segnandosi pronunciava enunciati del tipo "si lu ziu parrinu ti senti! Li terri sulu a me frati Luigi li lassa. Tu sei senza Dio e stai rovinando i tuoi figli, questo - e guardava me - ormai è irrecuperabile, ma Giovanni no! Quello per fortuna è di un'altra pasta, ma tu stai attento, stagli alla larga".
Questo tipo di proposizioni rendevano ancora più estrose le bestemmie di mio padre anche se, ormai, non si capiva più con chi ce l'avesse, con se stesso, con mia madre oppure con il cognato politico e lo zio prete che lo tenevano sotto il capestro uno dei servigi politici, l'altro dell'eredità. Forse da buon siciliano la sua era una bestemmia metafisica e non religiosa, il dibattersi vano contro il fato, contro il nulla del tempo, insomma una bestemmia pagana che sicuramente Dio gli perdonava. Naturalmente sul mio conto si sbagliava, io non possedevo nemmeno lo straccio di un'idea. L'unica cosa che mi premeva era galleggiare sul mondo senza fastidi.
A tavola tutti eravamo silenziosi. Mio padre ogni tanto bofonchiava qualcosa di incomprensibile e mia madre, pur non capendo, assentiva. Da pia donna di casa sarebbe stato indecente contraddire il marito. Io e mio fratello Giovanni di qualche anno più piccolo di me, ancora non votante e dunque esentato dalle gravi responsabilità familiari, mangiavamo con il capo chino sui piatti. Quei mugugni, proprio come i tuoni annunciavano tempesta che puntualmente arrivò. "Vicè - attaccò mio padre - 'u capisti chi dumani a li setti semu a la riunioni di lu ziu Luigi. Un cuminari minchiati, m'arraccumannu! Ora ha diciott'anni e certi cosi l'ha capiri. La prossima simana scari la dumanna pi lu contributu all'ispettorato agrario, perciò dumani amu a fari fiura. Un po'viriri di purtari a qualcunu, chi sacciu……..cacchi compagnu di scola tantu pi fari capiri che 'nni ramu da fari e chi un semu morti 'nta l'ovu".
Il fortunale mi aveva travolto. Non avevo il coraggio di coinvolgere nessuno dei miei amici, qualcuno dei quali già mi sfotteva per questa storia dello zio politico e del contributo, ma non avevo nemmeno la forza d'animo di dire di no a mio padre per cui fui molto evasivo e borbottai qualcosa di incomprensibile.
Poi pressato dissi "non lo so papà……. vediamo, ma è difficile, ai miei amici c'annoia io li conosco, anzi veramente dumani avissi a sturiari, st'annu ci su l' esami".
Alzai lentamente il capo in rassegnata attesa che la bufera mi investisse e così fu infatti. Mio padre tirò fuori dal cilindro una bestemmia mai sentita prima, frutto di nuovi incontri al circolo "Caccia e pesca" del paese o di sua inesauribile vena creativa. Mia madre si alzò facendosi il segno della croce. Io arrossii e promisi la mia presenza.
Tra nuovi brontolii di mio padre calò il silenzio, mia madre tornò e cominciò, in maniera molto nervosa, a portare i piatti in cucina. Io mi preparai alla consueta passeggiata in piazza con gli amici.
Squillò il campanello. Ignazio mi aspettava sotto casa per il consueto rito del ritrovo in piazza. Mio padre mi salutò con un grugnito, mia madre con uno sdegnoso silenzio, ché non impegnarmi per la riunione politica era un affronto allo zio Luigi e dunque, per rigorosa gerarchia aristotelica, a Dio. La mia noncuranza, la mia apatia erano un oltraggio al motore immobile, fonte inesauribile che tutto muove ma che stranamente si arenava di fronte alla mia stasi. Io potevo, agli occhi di mia madre, inceppare il creato e ciò confermava una mia tendenza all'ateismo se non addirittura al comunismo. Quella sera avrebbe sgranato il rosario per la mia resipiscenza.
Qualche volta avevo sentito dalla mia camera i discorsi dei miei sul mio conto "Vicenzu è stranu, - diceva mia madre - sempre zittu, un si sapi mai chiddu chi ci passa pi la testa - e segnandosi - c'è scantu chi è comunista? Cu st'amici chi avi! Ci manca sulu chistu! A lu ziu parrinu cu lu senti? Mio fratello Luigi mi ha detto che l'altro giorno l'ha visto in piazza con quello…. come si chiama…. Mariano e dice che è comunista.". Mio padre in questi casi mi difendeva, ché forse vedeva in me un possibile riscatto, un'arma brandita contro lo zio ed il cognato e diventava estremamente accondiscendente, qualche volta me lo vedevo arrivare persino in camera mia "Vicè come va? A scuola tutto a posto? Sturia mi raccomando……." e lasciava la frase in sospeso inseguendo chissà quali sogni.
Uscii dal portone fischiettando nel vano tentativo di dissimulare il mio stato d'animo. Ignazio mi guardò e vincendo la sua ritrosia "problemi?" disse. "Niente di particolare. Mio zio ci ha invitati ad una riunione politica e mio padre mi rompe la minchia che vuole che ci porto qualche amico, tanto per fare un poco di pruvulazzu". "Che problema c'è - mi sentii rispondere - ci vegnu iu, tanto non ho niente da fare e poi tuo zio lo conosco". Con Ignazio frequentavamo l'ultimo anno del liceo classico. Eravamo compagni già dalla quarta ginnasio, ma soltanto quell'anno avevamo cominciato a frequentarci. Da qualche mese giocava con me ed i miei amici nel torneo parrocchiale di calcetto del paese. Era quasi biondo con una faccia da bambino malinconico che dimostrava appena quattordici anni e non i suoi diciannove. Per intercessione di padre Mancuso, parroco della chiesa del prozio per conto della quale io ed i miei amici giocavamo, era entrato nella nostra squadra ed essendo anche compagni di classe avevamo cominciato ad uscire assieme.
Aveva il padre in galera per associazione mafiosa, ma questo lo avrei appreso da lì a poco.
L'indomani sera, dopo una frugale e veloce cena, io e mio padre ci preparammo per la riunione. Mi avviai come un sonnambulo, come un agnello sacrificale, non per reticenza o per slancio etico che in verità non possedevo, ma per il fastidio che qualcosa era intervenuto a rompere la mia monotonia quotidiana di cui sempre esageratamente mi lamentavo, ma in cui mi trastullavo come un maiale nel trogolo. All'ingresso della sezione trovai Ignazio che mi aspettava come promesso. C'era gran fervore, un gran parlare, una serqua di persone in attesa dell'onorevole. Tutti sgomitavano per salutare i politici locali, era un turbinio di strette di mano, uno sciame di "come va?" associati a sguardi torvi, a occhiate bieche di avvoltoi intenti a pranzare su una carogna ancora calda.
Io ed Ignazio ci tenevamo in disparte, nonostante mio padre mi sollecitasse "Vicè fatti avanti, va saluta lu zii Luigi, fatti viriri, dicci cacchi cosa! Tu si allittratu, e chi minchia! Stu Liceo Classico veru a nenti avi a serviri?".
Io continuavo a rimanere in disparte, non perché tutto ciò mi desse fastidio, ma per naturale temperamento titubante e ritroso. La mia riluttanza a mettermi in mostra, cosa che tuttora conservo, nasceva potrei dire da un senso estetico più che morale, che come già detto non possedevo. In ogni esibizione pubblica in cui percepivo un certo imbarazzo, estraniandomi, finivo per osservarmi e mi scoprivo goffo e impacciato. Nell'immaginazione qualsiasi atto mi risultava esteticamente maldestro e finivo così in un altrettanto impedito immobilismo.
Se ne fossi stato capace, avrei fatto ciò che gli altri facevano. Avrei reso felice mio padre, lo avrei inorgoglito di fronte a tanti amici, contadini come lui, che lo guardavano come per dire "chi figghiu scimunitu chi hai!". Ignazio se ne stava lì immobile e la sua presenza non mi era di nessun conforto.
Solo dopo una lunga e penosa trafila, sospinto dal turbinio delle bestemmie smozzicate di mio padre che mi pungolava alle spalle, riuscii a raggiungere lo zio e a balbettare un saluto. Gli presentai Ignazio. Quando lo vide il volto di mio zio fece una strana smorfia e mi guardò quasi con ammirazione. Mi diede una pacca sulla spalla e disse "e bravu Vicenzu che porta gli amici alle riunioni. Bravo, bravo veramente!". Strinse la mano ad Ignazio e si inabissò nuovamente nella calca.
Quello sguardo mi lasciò una sensazione strana. Non c'ero abituato e poi un amico non mi sembrava una numero tale da ricevere elogi. Mio zio soltanto questo guardava quando si trattava di elezioni: la quantità!
In genere, mi guardava con sospetto. Come tutti, in famiglia, confondeva il mio ritegno per principio etico, per sottile condanna ad un modo di trovar consensi non proprio cristallino ed allora cominciava con le prediche. "Vicè - mi diceva - non facciamo che sei come certi amici tuoi teste calde che non sanno come va il mondo e vorrebbero cambiarlo. L'altro giorno ti ho visto in piazza col tuo amico, quello comunista! Stai attento a quello che fai! I comunisti sono pericolosi, senza Dio, - e ammiccando in maniera indecorosa - non è che vuoi dare qualche dispiacere a 'u ziu parrinu?"
Io mi schermivo con il risultato che invece di rimuovere i suoi dubbi, lo rendevo ancora più sospettoso, per cui la mia presenza alle riunioni che egli organizzava diventava indispensabile per eliminare ogni equivoco. La mia condotta, comunque, non dissipava i dubbi né dello zio né dei miei, anzi paradossalmente li rinforzava.
Ormai mi ero abituato a vivere in quella condizione. Come una zecca ha nella scorza la sua forza e tutta si raggomitola io mi stringevo nelle spalle e senza dire nulla timidamente assentivo alle loro continue lagnanze.
Ad un certo punto il trambusto davanti alla sezione crebbe improvvisamente. Capii che era arrivato l'onorevole Peralta, il grande benefattore!
Tutti si accalcarono alla portiera dell'auto. Mio zio era in prima fila con un sorriso che sembrava pittato, a ruota tutti gli altri in ordine rigorosamente gerarchico. Io ed Ignazio in fondo. Sapevo che non avrei avuto mai il coraggio di farmi largo tra quella schiera di trepidazione nauseabonda, di gomitate e di afflati di visione mistica.
Con ampi gesti messianici, Peralta scese dall'auto. Se il sorriso di mio zio sembrato disegnato, il suo era ingessato, un ghigno che difficilmente lo abbandonava, una postura ormai definitiva della mascella.
Dopo il baciamani, tutti si avviarono tumultuosamente verso l'interno della sala. Inutile dire che io ed Ignazio prendemmo posto in ultima fila accanto ad un paio di vecchi che a furia di "curnuti" non riuscirono a trovare miglior posizione travolti da tanta giovanile baldanza.
Mio padre prese posto in terza fila, ché di gomito sapeva lavorare, sedutosi mi cercò e mi avvistò in fondo alla sala. Alzò gli occhi al cielo ed in quel momento sicuramente mia madre, senza conoscerne il motivo, sentì l'impellente bisogno di segnarsi.
Iniziò la riunione. Mio zio fece gli onori di casa elogiando gli alti meriti e le capacità di Tavano, candidato eccellente per la guida della nostra fiorente provincia. Parlò poi, per quanto il ghigno glielo permettesse, anche Peralta. La lontananza fisica e psicologica di essere a Roma lo esentavano dai problemi locali e dunque muro di Berlino, congiunture economiche e riforme fiscali mi investirono di una noia che mi azzannò come un lupo affamato. Ignazio sembrava attento, ma ogni tanto sbadigliava.
La parola passò a Tavano, il brillante candidato che fresco di politica, con prosopopea da vate, si gettò con enfasi retorica ad illustrare il suo programma. Forse nessuno gli aveva spiegato che il comizio vero e proprio sarebbe cominciato più tardi e che questo era un semplice incontro con gli elettori più fedeli.
Occhiali da intellettuale, aria da professorino associata ad un piglio sicuro da manager esordì: "Elettori ed elettrici - tutti si guardarono intorno stupiti. Di donne neanche a parlarne ché la politica è roba per uomini - è con sommo piacere che sono qui a Castro con voi questa sera. Ho accettato la proposta del partito perché credo nel progetto politico che si va delineando. Cuore di questo progetto è la persona, valore fondante di ogni prospettiva politica. La persona è il centro, il cuore da cui si irradiano tutti gli scenari che una buona politica non può non fare suoi. Il nostro è un partito serio, (nella misura in cui, mi venne da pensare) che sempre, nella sua attività, ha avuto questo concetto chiaro e fulgido sulla sua strada: la persona è un valore inalienabile. Sempre da questo dobbiamo partire nella nostra azione politica. Noi ci ispiriamo ai valori della Chiesa e dunque la persona è stata, è e sempre sarà il nostro punto di partenza, ma anche il nostro orizzonte, il nostro obiettivo, inizio e fine della nostra azione politica. Ho detto fine, per intendere la fine, il punto di approdo della nostra azione, ma anche per intendere il fine, ossia ciò a cui essa tende".
Il discorso andò avanti su questi toni per una buona mezz'ora. La platea cominciava a rumoreggiare. Nella sala eravamo pochi ma buoni, tutta gente che aveva clan familiari, e dunque voti su voti, alle spalle.
Il ghigno di Peralta iniziò a tremare, gli astanti si guardavano intorno un po' inebetiti, sguardi vuoti e vacui cercavano gli occhi di mio zio che nervosamente cominciava ad agitarsi sulla sedia. "La nostra azione politica, - continuava imperterrito Tavano - mira allo sviluppo del territorio. Il turismo è la prospettiva a cui dobbiamo tendere, le bellezze del nostro paesaggio saranno per noi sviluppo e ricchezza. Per far ciò sono necessarie le infrastrutture: le strade, gli aeroporti, gli alberghi. Diventeremo la Rimini del sud."
Sentii il vecchio lanciarsi in una artistica geremiade e dire al suo vicino: "Che minchia mi rappresenta questo Tavano. Che ce ne fotte a noi dello sviluppo del territorio, del turismo e delle linee programmatiche del partito. Qua sono due le cose o Provenzano si è rincoglionito o ce la vuole mettere nel culo". Con Ignazio ci guardammo e trattenemmo a stento una risata.
L'uditorio cominciava intanto a esprimere disaccordo, mio zio scatarrava nervosamente. Peralta sudava copiosamente, ché voti nella nostra zona ne prendeva un fottio. Tavano candidamente continuava, ormai preda di furore retorico, vittima del suo stesso eloquio "Castro, amena cittadina della nostra provincia, è il cuore pulsante del nostro progetto politico. Non ci sarà vero sviluppo economico del nostro territorio se Castro non farà la sua parte. Il vostro impegno, la vostra rinomata laboriosità, la vostra abnegazione sono la nostra forza."
Timida una mano dalla terza fila si alzò ad interromperlo, la folla ebbe un sussulto. "Mi scusassi" risuonò nella sala. Tavano ancora in estasi si fermò invitando, con un sorriso di approvazione, l'interlocutore a non essere schivo.
Piombò il silenzio, tutti trattennero il respiro - "mi presento, Salvatore Mirrione mi chiamo, proprietario di terre."
Mirrione lo conoscevano tutti, era il più accanito dei leccaculi, ma al contempo conservava una antica schiettezza di contadino tutto di un pezzo, che senza tanti fronzoli peli sulla lingua non aveva. "Ora io ci vulissi dire a lei, con rispetto parlando, che noi qua gente senza istruzione siamo. Linee programmatiche e altre cose del genere non sappiamo manco che cosa sono. Qua c'è Provenzano, lui è la nostra linea programmatica e di lui noi ci fidiamo, perché sappiamo - e squadrò torvo mio zio - che lui - il tono della voce si alzò - sempre dalla nostra parte è stato, e anche Peralta qua lo sa come vanno le cose. Lei è giovane e forse ancora non ha capito bene il meccanismo di qua. Forse Provenzano non ce l'ha spiegato bene. - Altro sguardo a mio zio che sudava profusamente, la gente intanto si animava - Io sempre fedele al partito sono stato ed il partito sempre bene con me si è comportato. Ci abbiamo i nostri problemi noi, il laghetto, la trazzera, il contributo…., il turismo è una bella cosa, vengono stranieri, fimmini - una risata risuonò nella sala, la camicia di mio zio era fradicia - ma a noi con rispetto parlando queste cose non ci interessano. Noialtri genti semplici semu".
Tavano, che con lo sguardo lo aveva fino ad allora incoraggiato, con questo botto finale rimase impietrito, il sorriso gli si congelò sul viso, mio zio tirò fuori il fazzoletto. Caldo ne faceva, ma lui sudava un po' troppo. Peralta tamburellava le dita su tavolo e guardava mio zio furiosamente, vedeva migliaia di voti prendere il largo verso altri migliori offerenti.
"Ma…, io… il progetto del partito.. lo sviluppo del territorio è crescita economica, tutti noi, i nostri figli ne trarranno vantaggio…. il futuro…" l'eloquio di Tavano si fece molto più incerto, la marea del brusio si alzava. Incoraggiato Mirrione, ormai eroe della sala, continuò "lei non si deve offendere se parlo accussì, che scuola non ne ho. Tutte le cose che lei ha detto io lo so che sono importanti, ma qua tutti abbiamo altre urgenze, altri bisogni. Quello che c'era prima di lei, la bon'arma di Maltese, ogni volta che c'erano elezioni, in campagna, mi mandava un camion di agricanti, come dire….di pitrisco, ché la trazzera, quando piove non mi tiene. E io sempre per Maltese votavo e facevo votare. - La sua voce ebbe un'altra impennata, ché tutti sapevano che Mirrione aveva una folta schiera di parenti e la sua forza gli veniva dal fatto che gestiva un centinaio di voti - Ora lei è istruito, non si deve offendere, ma a me l'agricanti mi serve come il pane. Si lei vuole salire e vincere le elezioni, come Maltese deve fare, che faceva la parrata come si deve. Dopo un piccolo discorso, ci chiamava a unu a unu e noi ci dicìamu di cosa avevamo bisogno. Noi così semu abituati e non vogliamo canciari, e, non voglio essere presuntuoso, parru a nomi di tutti,".
"Minchia! Chistu sì chi è parrari beddu!! - diceva il vecchio - Ci la sta cantannu bona a Provenzano, accussì si 'nzigna a purtari minchiuna comu a chistu, Tavanu di nomi e di fattu". Io ed Ignazio sghignazzavamo portandoci la mano sulla bocca. La riunione si faceva veramente interessante.
"La forza del nostro partito - intervenne Peralta, ché mio zio era in una sorta di trance - sta nella tradizione, la storia è maestra di vita. Tavano, forse lo ha detto con parole troppo difficili, e di questo lo perdoniamo, ma questo ha detto! La persona…, cosa vuol dire che la persona è un valore? Nient'altro che questo: che i bisogni della persona sono al centro della nostra politica, da sempre e sempre così sarà. La nostra politica è al servizio del cittadino. Noi siamo qui per ascoltare ed esaudire i vostri desideri. Le vostre esigenze sono il nostro impegno. Siamo qui per questo."
La platea si lanciò in applauso lunghissimo. Mirrione gongolava, mio zio lentamente usciva dal coma. Tavano guardava Peralta che lo incitava a riprendere la parola. "L'onorevole Peralta - esordì Tavano - da quel grande e raffinato politico che è, ha in pieno centrato la sostanza del mio discorso. Mi scuso con voi se sono stato un po'…. come dire… tortuoso, vuol dire che dovrò imparare il linguaggio della gente".
"Se, sta minchia! Ce la volevi mettere in quel posto e te l'hanno cantata!" commentò imperterrito il vecchio.
Mirrione, che si alzò nuovamente, soddisfatto di sé e di Peralta a cui lanciava occhiate di gratitudine, disse "Se è stato tortuoso, come ha detto lei, forse io sono stato un poco sgarbato, ma io così sono fatto e tutti lo sanno, pure Peralta e Provenzano mi conoscono. - Intendeva dire che perfettamente conoscevano il numero di voti che era in grado di portare al partito - La fedeltà al partito prima di ogni cosa viene per me. Avi chi votu Democrazia Cristiana e per questo nuovo partito che diciamo ne ha raccolto l'eredità da quando lei ancora manco era nato. Li comunisti con me sempre sangu hannu ittatu. Lei mi deve scusare se non avevo capito bene quello che lei voleva dire, comunque l'importante è che ci siamo spiegati, in fondo, come ha detto benissimo l'eccellenza onorevole Peralta, la stessa cosa dicevamo, ma con parole diverse."
Con sguardi ampi su tutta la sala, si risistemò al suo posto, anche per quella tornata elettorale avrebbe avuto il suo "agricante".