Domenico
Piccichè
Sono un impiegato del comune di Alcamo.
Scrivo per sbollire la nevrosi di un lavoro alienante. Mando in allegato
un racconto espressivo di un certo modo di far politica dalle nostre
parti.
P.S. l'agricanti che da il titolo al racconto è il nome dialettale del
pietrisco che serve a rendere più salde le trazzere ossia i viottoli non
asfaltati. |
L'agricanti
Capitolo I
Il telefono che squillava mi distolse da una
sonnolenta lettura. Stavo ancora pensando al sadico professore Parrino
che, al mattino a scuola, mi si era attaccato addosso come una sanguisuga,
salassandomi con dosi massicce di Hegel e idealismo tedesco.
Sentii dalla mia camera mio padre prodigarsi in un ripetuto "Sì,
sì". Posato il telefono bestemmiò sottovoce.
Provenzano Luigi, fratello di mia madre, ci invitava gentilmente a
partecipare ad una riunione politica, che lui chiamava "la parrata",
con l'esimio onorevole Peralta che veniva a promuovere la candidatura di
un certo Tavano come Presidente della Provincia.
Tarchiato, nero, con sopracciglia spaventosamente folte, pancia
prominente, sguardo che nella normale ottusità di bove ogni tanto
saettava di famelica furbizia, mio zio era consigliere comunale della
amata ed illustre (così recitano le pompose storie locali) cittadina di
Castro, amena località della Sicilia Occidentale.
La telefonata si era chiusa con un poco rassicurante "mi
raccomando!" e mio padre diventò più nervoso del solito, cosa che
del resto gli capitava ogni volta che mio zio ci convocava per motivi
politici.
Il partito in questione era uno dei tanti nipotini della Democrazia
Cristiana. Luigi Provenzano cambiava formazione politica continuamente
mantenendosi sempre nelle zone scudo - crociate, in modo, pensava lui, di
far felice lo zio prete, che tutti in famiglia chiamavamo "'u ziu
parrinu", un po' bisbetico e proprietario di appetitosi terreni in
attesa di un erede. In ogni partito in cui comparivano la C di Cristiano e
lo scudo crociato, insieme o separatamente, cristianamente ed umilmente
appariva mio zio a rendere i servigi devoti nonché di voto.
Da anni la mia famiglia votava per mio zio e per tutti i candidati che
lui, animato da sacro e democristiano ardore biblico e terriero, ci
indicava.
Divenuto maggiorenne, mio zio cominciò a degnarmi di una considerazione
mai usata prima. Per lui ero ormai un animale della specie "bipede
implume votante", in grado di mettere una X sullo scudo crociato o
sulla C se proprio le due cose non potevano stare insieme.
La riunione era fissata per il giorno dopo alle sette della sera, in una
delle tante sezioni che nascono come funghi durante il periodo elettorale.
Squallide stanze, a volte piccoli negozi che misteriosamente scompaiono
per lasciar posto alla sezione elettorale, dove alcuni vecchi giocano a
carte sotto la gigantografia del candidato.
Ogni tanto il locale si illumina di un folto gruppo di persone ammesse
alla "parrata" con il candidato.
Mio zio ci diceva che erano ammessi solo pochi eletti elettori e non
faceva altro che rinfacciare velatamente a mio padre che era grazie a lui
che noi potevamo usufruire di questo privilegio. In realtà, pur dicendo
questo, ci lasciava intuire a frasi smozzicate che era opportuno portare
un po' di gente per lasciare intendere al politico ospite che la sezione
era vivace ed attiva. Ciò creava problemi a mio padre e di conseguenza a
me.
La sera in cui arrivò la telefonata divenne estremamente nervoso, la cena
si prospettava alquanto agitata.
Mio padre scambiava la mia indole flemmatica ed introversa per
disinteresse verso gli affari di famiglia e verso il mondo in genere o
peggio per idee malamente celate. La possibilità di avere un figlio
idealista e dunque pericoloso e immaturo lo faceva imbestialire e
bestemmiare. Antiche bestemmie contadine che sapevano di folclore ed
antropologia e che rischiavano di far cadere in deliquio mia madre che
segnandosi pronunciava enunciati del tipo "si lu ziu parrinu ti
senti! Li terri sulu a me frati Luigi li lassa. Tu sei senza Dio e stai
rovinando i tuoi figli, questo - e guardava me - ormai è irrecuperabile,
ma Giovanni no! Quello per fortuna è di un'altra pasta, ma tu stai
attento, stagli alla larga".
Questo tipo di proposizioni rendevano ancora più estrose le bestemmie di
mio padre anche se, ormai, non si capiva più con chi ce l'avesse, con se
stesso, con mia madre oppure con il cognato politico e lo zio prete che lo
tenevano sotto il capestro uno dei servigi politici, l'altro
dell'eredità. Forse da buon siciliano la sua era una bestemmia metafisica
e non religiosa, il dibattersi vano contro il fato, contro il nulla del
tempo, insomma una bestemmia pagana che sicuramente Dio gli perdonava.
Naturalmente sul mio conto si sbagliava, io non possedevo nemmeno lo
straccio di un'idea. L'unica cosa che mi premeva era galleggiare sul mondo
senza fastidi.
A tavola tutti eravamo silenziosi. Mio padre ogni tanto bofonchiava
qualcosa di incomprensibile e mia madre, pur non capendo, assentiva. Da
pia donna di casa sarebbe stato indecente contraddire il marito. Io e mio
fratello Giovanni di qualche anno più piccolo di me, ancora non votante e
dunque esentato dalle gravi responsabilità familiari, mangiavamo con il
capo chino sui piatti. Quei mugugni, proprio come i tuoni annunciavano
tempesta che puntualmente arrivò. "Vicè - attaccò mio padre - 'u
capisti chi dumani a li setti semu a la riunioni di lu ziu Luigi. Un
cuminari minchiati, m'arraccumannu! Ora ha diciott'anni e certi cosi l'ha
capiri. La prossima simana scari la dumanna pi lu contributu
all'ispettorato agrario, perciò dumani amu a fari fiura. Un po'viriri di
purtari a qualcunu, chi sacciu……..cacchi compagnu di scola tantu pi
fari capiri che 'nni ramu da fari e chi un semu morti 'nta l'ovu".
Il fortunale mi aveva travolto. Non avevo il coraggio di coinvolgere
nessuno dei miei amici, qualcuno dei quali già mi sfotteva per questa
storia dello zio politico e del contributo, ma non avevo nemmeno la forza
d'animo di dire di no a mio padre per cui fui molto evasivo e borbottai
qualcosa di incomprensibile.
Poi pressato dissi "non lo so papà……. vediamo, ma è difficile,
ai miei amici c'annoia io li conosco, anzi veramente dumani avissi a
sturiari, st'annu ci su l' esami".
Alzai lentamente il capo in rassegnata attesa che la bufera mi investisse
e così fu infatti. Mio padre tirò fuori dal cilindro una bestemmia mai
sentita prima, frutto di nuovi incontri al circolo "Caccia e
pesca" del paese o di sua inesauribile vena creativa. Mia madre si
alzò facendosi il segno della croce. Io arrossii e promisi la mia
presenza.
Tra nuovi brontolii di mio padre calò il silenzio, mia madre tornò e
cominciò, in maniera molto nervosa, a portare i piatti in cucina. Io mi
preparai alla consueta passeggiata in piazza con gli amici.
Squillò il campanello. Ignazio mi aspettava sotto casa per il consueto
rito del ritrovo in piazza. Mio padre mi salutò con un grugnito, mia
madre con uno sdegnoso silenzio, ché non impegnarmi per la riunione
politica era un affronto allo zio Luigi e dunque, per rigorosa gerarchia
aristotelica, a Dio. La mia noncuranza, la mia apatia erano un oltraggio
al motore immobile, fonte inesauribile che tutto muove ma che stranamente
si arenava di fronte alla mia stasi. Io potevo, agli occhi di mia madre,
inceppare il creato e ciò confermava una mia tendenza all'ateismo se non
addirittura al comunismo. Quella sera avrebbe sgranato il rosario per la
mia resipiscenza.
Qualche volta avevo sentito dalla mia camera i discorsi dei miei sul mio
conto "Vicenzu è stranu, - diceva mia madre - sempre zittu, un si
sapi mai chiddu chi ci passa pi la testa - e segnandosi - c'è scantu chi
è comunista? Cu st'amici chi avi! Ci manca sulu chistu! A lu ziu parrinu
cu lu senti? Mio fratello Luigi mi ha detto che l'altro giorno l'ha visto
in piazza con quello…. come si chiama…. Mariano e dice che è
comunista.". Mio padre in questi casi mi difendeva, ché forse vedeva
in me un possibile riscatto, un'arma brandita contro lo zio ed il cognato
e diventava estremamente accondiscendente, qualche volta me lo vedevo
arrivare persino in camera mia "Vicè come va? A scuola tutto a
posto? Sturia mi raccomando……." e lasciava la frase in sospeso
inseguendo chissà quali sogni.
Uscii dal portone fischiettando nel vano tentativo di dissimulare il mio
stato d'animo. Ignazio mi guardò e vincendo la sua ritrosia
"problemi?" disse. "Niente di particolare. Mio zio ci ha
invitati ad una riunione politica e mio padre mi rompe la minchia che
vuole che ci porto qualche amico, tanto per fare un poco di pruvulazzu".
"Che problema c'è - mi sentii rispondere - ci vegnu iu, tanto non ho
niente da fare e poi tuo zio lo conosco". Con Ignazio frequentavamo
l'ultimo anno del liceo classico. Eravamo compagni già dalla quarta
ginnasio, ma soltanto quell'anno avevamo cominciato a frequentarci. Da
qualche mese giocava con me ed i miei amici nel torneo parrocchiale di
calcetto del paese. Era quasi biondo con una faccia da bambino malinconico
che dimostrava appena quattordici anni e non i suoi diciannove. Per
intercessione di padre Mancuso, parroco della chiesa del prozio per conto
della quale io ed i miei amici giocavamo, era entrato nella nostra squadra
ed essendo anche compagni di classe avevamo cominciato ad uscire assieme.
Aveva il padre in galera per associazione mafiosa, ma questo lo avrei
appreso da lì a poco.
L'indomani sera, dopo una frugale e veloce cena, io e mio padre ci
preparammo per la riunione. Mi avviai come un sonnambulo, come un agnello
sacrificale, non per reticenza o per slancio etico che in verità non
possedevo, ma per il fastidio che qualcosa era intervenuto a rompere la
mia monotonia quotidiana di cui sempre esageratamente mi lamentavo, ma in
cui mi trastullavo come un maiale nel trogolo. All'ingresso della sezione
trovai Ignazio che mi aspettava come promesso. C'era gran fervore, un gran
parlare, una serqua di persone in attesa dell'onorevole. Tutti sgomitavano
per salutare i politici locali, era un turbinio di strette di mano, uno
sciame di "come va?" associati a sguardi torvi, a occhiate
bieche di avvoltoi intenti a pranzare su una carogna ancora calda.
Io ed Ignazio ci tenevamo in disparte, nonostante mio padre mi
sollecitasse "Vicè fatti avanti, va saluta lu zii Luigi, fatti
viriri, dicci cacchi cosa! Tu si allittratu, e chi minchia! Stu Liceo
Classico veru a nenti avi a serviri?".
Io continuavo a rimanere in disparte, non perché tutto ciò mi desse
fastidio, ma per naturale temperamento titubante e ritroso. La mia
riluttanza a mettermi in mostra, cosa che tuttora conservo, nasceva potrei
dire da un senso estetico più che morale, che come già detto non
possedevo. In ogni esibizione pubblica in cui percepivo un certo
imbarazzo, estraniandomi, finivo per osservarmi e mi scoprivo goffo e
impacciato. Nell'immaginazione qualsiasi atto mi risultava esteticamente
maldestro e finivo così in un altrettanto impedito immobilismo.
Se ne fossi stato capace, avrei fatto ciò che gli altri facevano. Avrei
reso felice mio padre, lo avrei inorgoglito di fronte a tanti amici,
contadini come lui, che lo guardavano come per dire "chi figghiu
scimunitu chi hai!". Ignazio se ne stava lì immobile e la sua
presenza non mi era di nessun conforto.
Solo dopo una lunga e penosa trafila, sospinto dal turbinio delle
bestemmie smozzicate di mio padre che mi pungolava alle spalle, riuscii a
raggiungere lo zio e a balbettare un saluto. Gli presentai Ignazio. Quando
lo vide il volto di mio zio fece una strana smorfia e mi guardò quasi con
ammirazione. Mi diede una pacca sulla spalla e disse "e bravu Vicenzu
che porta gli amici alle riunioni. Bravo, bravo veramente!". Strinse
la mano ad Ignazio e si inabissò nuovamente nella calca.
Quello sguardo mi lasciò una sensazione strana. Non c'ero abituato e poi
un amico non mi sembrava una numero tale da ricevere elogi. Mio zio
soltanto questo guardava quando si trattava di elezioni: la quantità!
In genere, mi guardava con sospetto. Come tutti, in famiglia, confondeva
il mio ritegno per principio etico, per sottile condanna ad un modo di
trovar consensi non proprio cristallino ed allora cominciava con le
prediche. "Vicè - mi diceva - non facciamo che sei come certi amici
tuoi teste calde che non sanno come va il mondo e vorrebbero cambiarlo.
L'altro giorno ti ho visto in piazza col tuo amico, quello comunista! Stai
attento a quello che fai! I comunisti sono pericolosi, senza Dio, - e
ammiccando in maniera indecorosa - non è che vuoi dare qualche dispiacere
a 'u ziu parrinu?"
Io mi schermivo con il risultato che invece di rimuovere i suoi dubbi, lo
rendevo ancora più sospettoso, per cui la mia presenza alle riunioni che
egli organizzava diventava indispensabile per eliminare ogni equivoco. La
mia condotta, comunque, non dissipava i dubbi né dello zio né dei miei,
anzi paradossalmente li rinforzava.
Ormai mi ero abituato a vivere in quella condizione. Come una zecca ha
nella scorza la sua forza e tutta si raggomitola io mi stringevo nelle
spalle e senza dire nulla timidamente assentivo alle loro continue
lagnanze.
Ad un certo punto il trambusto davanti alla sezione crebbe
improvvisamente. Capii che era arrivato l'onorevole Peralta, il grande
benefattore!
Tutti si accalcarono alla portiera dell'auto. Mio zio era in prima fila
con un sorriso che sembrava pittato, a ruota tutti gli altri in ordine
rigorosamente gerarchico. Io ed Ignazio in fondo. Sapevo che non avrei
avuto mai il coraggio di farmi largo tra quella schiera di trepidazione
nauseabonda, di gomitate e di afflati di visione mistica.
Con ampi gesti messianici, Peralta scese dall'auto. Se il sorriso di mio
zio sembrato disegnato, il suo era ingessato, un ghigno che difficilmente
lo abbandonava, una postura ormai definitiva della mascella.
Dopo il baciamani, tutti si avviarono tumultuosamente verso l'interno
della sala. Inutile dire che io ed Ignazio prendemmo posto in ultima fila
accanto ad un paio di vecchi che a furia di "curnuti" non
riuscirono a trovare miglior posizione travolti da tanta giovanile
baldanza.
Mio padre prese posto in terza fila, ché di gomito sapeva lavorare,
sedutosi mi cercò e mi avvistò in fondo alla sala. Alzò gli occhi al
cielo ed in quel momento sicuramente mia madre, senza conoscerne il
motivo, sentì l'impellente bisogno di segnarsi.
Iniziò la riunione. Mio zio fece gli onori di casa elogiando gli alti
meriti e le capacità di Tavano, candidato eccellente per la guida della
nostra fiorente provincia. Parlò poi, per quanto il ghigno glielo
permettesse, anche Peralta. La lontananza fisica e psicologica di essere a
Roma lo esentavano dai problemi locali e dunque muro di Berlino,
congiunture economiche e riforme fiscali mi investirono di una noia che mi
azzannò come un lupo affamato. Ignazio sembrava attento, ma ogni tanto
sbadigliava.
La parola passò a Tavano, il brillante candidato che fresco di politica,
con prosopopea da vate, si gettò con enfasi retorica ad illustrare il suo
programma. Forse nessuno gli aveva spiegato che il comizio vero e proprio
sarebbe cominciato più tardi e che questo era un semplice incontro con
gli elettori più fedeli.
Occhiali da intellettuale, aria da professorino associata ad un piglio
sicuro da manager esordì: "Elettori ed elettrici - tutti si
guardarono intorno stupiti. Di donne neanche a parlarne ché la politica
è roba per uomini - è con sommo piacere che sono qui a Castro con voi
questa sera. Ho accettato la proposta del partito perché credo nel
progetto politico che si va delineando. Cuore di questo progetto è la
persona, valore fondante di ogni prospettiva politica. La persona è il
centro, il cuore da cui si irradiano tutti gli scenari che una buona
politica non può non fare suoi. Il nostro è un partito serio, (nella
misura in cui, mi venne da pensare) che sempre, nella sua attività, ha
avuto questo concetto chiaro e fulgido sulla sua strada: la persona è un
valore inalienabile. Sempre da questo dobbiamo partire nella nostra azione
politica. Noi ci ispiriamo ai valori della Chiesa e dunque la persona è
stata, è e sempre sarà il nostro punto di partenza, ma anche il nostro
orizzonte, il nostro obiettivo, inizio e fine della nostra azione
politica. Ho detto fine, per intendere la fine, il punto di approdo della
nostra azione, ma anche per intendere il fine, ossia ciò a cui essa
tende".
Il discorso andò avanti su questi toni per una buona mezz'ora. La platea
cominciava a rumoreggiare. Nella sala eravamo pochi ma buoni, tutta gente
che aveva clan familiari, e dunque voti su voti, alle spalle.
Il ghigno di Peralta iniziò a tremare, gli astanti si guardavano intorno
un po' inebetiti, sguardi vuoti e vacui cercavano gli occhi di mio zio che
nervosamente cominciava ad agitarsi sulla sedia. "La nostra azione
politica, - continuava imperterrito Tavano - mira allo sviluppo del
territorio. Il turismo è la prospettiva a cui dobbiamo tendere, le
bellezze del nostro paesaggio saranno per noi sviluppo e ricchezza. Per
far ciò sono necessarie le infrastrutture: le strade, gli aeroporti, gli
alberghi. Diventeremo la Rimini del sud."
Sentii il vecchio lanciarsi in una artistica geremiade e dire al suo
vicino: "Che minchia mi rappresenta questo Tavano. Che ce ne fotte a
noi dello sviluppo del territorio, del turismo e delle linee
programmatiche del partito. Qua sono due le cose o Provenzano si è
rincoglionito o ce la vuole mettere nel culo". Con Ignazio ci
guardammo e trattenemmo a stento una risata.
L'uditorio cominciava intanto a esprimere disaccordo, mio zio scatarrava
nervosamente. Peralta sudava copiosamente, ché voti nella nostra zona ne
prendeva un fottio. Tavano candidamente continuava, ormai preda di furore
retorico, vittima del suo stesso eloquio "Castro, amena cittadina
della nostra provincia, è il cuore pulsante del nostro progetto politico.
Non ci sarà vero sviluppo economico del nostro territorio se Castro non
farà la sua parte. Il vostro impegno, la vostra rinomata laboriosità, la
vostra abnegazione sono la nostra forza."
Timida una mano dalla terza fila si alzò ad interromperlo, la folla ebbe
un sussulto. "Mi scusassi" risuonò nella sala. Tavano ancora in
estasi si fermò invitando, con un sorriso di approvazione,
l'interlocutore a non essere schivo.
Piombò il silenzio, tutti trattennero il respiro - "mi presento,
Salvatore Mirrione mi chiamo, proprietario di terre."
Mirrione lo conoscevano tutti, era il più accanito dei leccaculi, ma al
contempo conservava una antica schiettezza di contadino tutto di un pezzo,
che senza tanti fronzoli peli sulla lingua non aveva. "Ora io ci
vulissi dire a lei, con rispetto parlando, che noi qua gente senza
istruzione siamo. Linee programmatiche e altre cose del genere non
sappiamo manco che cosa sono. Qua c'è Provenzano, lui è la nostra linea
programmatica e di lui noi ci fidiamo, perché sappiamo - e squadrò torvo
mio zio - che lui - il tono della voce si alzò - sempre dalla nostra
parte è stato, e anche Peralta qua lo sa come vanno le cose. Lei è
giovane e forse ancora non ha capito bene il meccanismo di qua. Forse
Provenzano non ce l'ha spiegato bene. - Altro sguardo a mio zio che sudava
profusamente, la gente intanto si animava - Io sempre fedele al partito
sono stato ed il partito sempre bene con me si è comportato. Ci abbiamo i
nostri problemi noi, il laghetto, la trazzera, il contributo…., il
turismo è una bella cosa, vengono stranieri, fimmini - una risata
risuonò nella sala, la camicia di mio zio era fradicia - ma a noi con
rispetto parlando queste cose non ci interessano. Noialtri genti semplici
semu".
Tavano, che con lo sguardo lo aveva fino ad allora incoraggiato, con
questo botto finale rimase impietrito, il sorriso gli si congelò sul
viso, mio zio tirò fuori il fazzoletto. Caldo ne faceva, ma lui sudava un
po' troppo. Peralta tamburellava le dita su tavolo e guardava mio zio
furiosamente, vedeva migliaia di voti prendere il largo verso altri
migliori offerenti.
"Ma…, io… il progetto del partito.. lo sviluppo del territorio è
crescita economica, tutti noi, i nostri figli ne trarranno vantaggio….
il futuro…" l'eloquio di Tavano si fece molto più incerto, la
marea del brusio si alzava. Incoraggiato Mirrione, ormai eroe della sala,
continuò "lei non si deve offendere se parlo accussì, che scuola
non ne ho. Tutte le cose che lei ha detto io lo so che sono importanti, ma
qua tutti abbiamo altre urgenze, altri bisogni. Quello che c'era prima di
lei, la bon'arma di Maltese, ogni volta che c'erano elezioni, in campagna,
mi mandava un camion di agricanti, come dire….di pitrisco, ché la
trazzera, quando piove non mi tiene. E io sempre per Maltese votavo e
facevo votare. - La sua voce ebbe un'altra impennata, ché tutti sapevano
che Mirrione aveva una folta schiera di parenti e la sua forza gli veniva
dal fatto che gestiva un centinaio di voti - Ora lei è istruito, non si
deve offendere, ma a me l'agricanti mi serve come il pane. Si lei vuole
salire e vincere le elezioni, come Maltese deve fare, che faceva la
parrata come si deve. Dopo un piccolo discorso, ci chiamava a unu a unu e
noi ci dicìamu di cosa avevamo bisogno. Noi così semu abituati e non
vogliamo canciari, e, non voglio essere presuntuoso, parru a nomi di
tutti,".
"Minchia! Chistu sì chi è parrari beddu!! - diceva il vecchio - Ci
la sta cantannu bona a Provenzano, accussì si 'nzigna a purtari minchiuna
comu a chistu, Tavanu di nomi e di fattu". Io ed Ignazio
sghignazzavamo portandoci la mano sulla bocca. La riunione si faceva
veramente interessante.
"La forza del nostro partito - intervenne Peralta, ché mio zio era
in una sorta di trance - sta nella tradizione, la storia è maestra di
vita. Tavano, forse lo ha detto con parole troppo difficili, e di questo
lo perdoniamo, ma questo ha detto! La persona…, cosa vuol dire che la
persona è un valore? Nient'altro che questo: che i bisogni della persona
sono al centro della nostra politica, da sempre e sempre così sarà. La
nostra politica è al servizio del cittadino. Noi siamo qui per ascoltare
ed esaudire i vostri desideri. Le vostre esigenze sono il nostro impegno.
Siamo qui per questo."
La platea si lanciò in applauso lunghissimo. Mirrione gongolava, mio zio
lentamente usciva dal coma. Tavano guardava Peralta che lo incitava a
riprendere la parola. "L'onorevole Peralta - esordì Tavano - da quel
grande e raffinato politico che è, ha in pieno centrato la sostanza del
mio discorso. Mi scuso con voi se sono stato un po'…. come dire…
tortuoso, vuol dire che dovrò imparare il linguaggio della gente".
"Se, sta minchia! Ce la volevi mettere in quel posto e te l'hanno
cantata!" commentò imperterrito il vecchio.
Mirrione, che si alzò nuovamente, soddisfatto di sé e di Peralta a cui
lanciava occhiate di gratitudine, disse "Se è stato tortuoso, come
ha detto lei, forse io sono stato un poco sgarbato, ma io così sono fatto
e tutti lo sanno, pure Peralta e Provenzano mi conoscono. - Intendeva dire
che perfettamente conoscevano il numero di voti che era in grado di
portare al partito - La fedeltà al partito prima di ogni cosa viene per
me. Avi chi votu Democrazia Cristiana e per questo nuovo partito che
diciamo ne ha raccolto l'eredità da quando lei ancora manco era nato. Li
comunisti con me sempre sangu hannu ittatu. Lei mi deve scusare se non
avevo capito bene quello che lei voleva dire, comunque l'importante è che
ci siamo spiegati, in fondo, come ha detto benissimo l'eccellenza
onorevole Peralta, la stessa cosa dicevamo, ma con parole diverse."
Con sguardi ampi su tutta la sala, si risistemò al suo posto, anche per
quella tornata elettorale avrebbe avuto il suo "agricante". |